La società senza padre

Non so se è un caso, o solo una sensazione personale, ma io mi sento inondato. Anno dopo anno, mese dopo mese, e ultimamente giorno dopo giorno, sulla mia scrivania si accumulano i libri sul padre, la sua scomparsa, il suo tramonto, la sua evaporazione. Una febbre pare essersi impadronita di tutti i professionisti della scrittura: narratori, giornalisti, sociologi, psicologi, psicoanalisti, filosofi, giuristi. Da qualche anno, scrivere un libro sul declino dell’autorità e l’estinzione del ruolo paterno pare essere divenuto un bisogno incontenibile, quasi un’urgenza esistenziale. In Italia ne hanno scritto Massimo Recalcati e Gustavo Zagrebelsky, Michele Serra e Antonio Scurati, Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet. E, giusto per stare alle ultime settimane, hanno pubblicato un libro su paternità e dintorni Matteo Bussola (Sono puri i loro sogni, Einaudi), Aldo Cazzullo e figli (Metti via quel cellulare, Mondadori), Antonio Polito (Riprendiamoci i nostri figli, Marsilio). Per Polito (l’autore da cui ho imparato di più), è addirittura la seconda prova: cinque anni fa, nel 2012, aveva pubblicato Contro i papà, un libro denuncia sull’abdicazione dei padri al proprio ruolo di educatori.

Di questa letteratura, mi colpiscono due cose soprattutto. La prima è la convergenza delle descrizioni che vengono offerte. C’è chi insiste di più sulla crisi dell’insegnamento, chi sulla trasformazione dei genitori in amici o sindacalisti dei figli, chi sul ruolo diseducativo della televisione, chi sui danni psicologici e cognitivi dell’iper-connessione, chi sulla latitanza delle istituzioni (dalla Chiesa alla politica), chi sull’interruzione della trasmissione culturale, chi sulla scomparsa dei maestri, però si tratta di sfumature, di piccole differenze di sensibilità individuale: il quadro tracciato è sostanzialmente il medesimo, la preoccupazione per il futuro dei nostri figli (e di noi stessi) è palpabile e condivisa.

La seconda cosa che mi colpisce è il sentimento di stupore che sembra accompagnare quasi tutte queste descrizioni, come se ci trovassimo di fronte a un fenomeno emergente, a una novità con cui è venuto il momento di fare i conti. Con questo non voglio certo dire che non ci siano elementi specifici e relativamente recenti, è anzi un merito di alcuni di questi libri averli messi in evidenza. Ha perfettamente ragione, ad esempio, Matteo Bussola quando individua nella seconda metà degli anni ’90 il punto di frattura, in cui le famiglie rompono il patto educativo con gli insegnanti (ricordate il “diritto al successo formativo”? erano quegli anni lì…). E fa benissimo Antonio Polito a far notare che l’avvento di internet sta minando, per la prima volta nella storia dell’umanità, l’idea che la cultura sia un patrimonio da trasmettere, da radicare nelle menti delle persone, piuttosto che qualcosa che si limita a stare lì, accessibile a tutti perché risiede in rete.

E tuttavia, di fronte allo sconcerto per la scomparsa del padre, non posso non ricordare quanto tardivo sia questo prenderne atto. Che i nostri sistemi sociali fossero avviati “verso una società senza padre” le scienze sociali lo avevano perfettamente compreso già all’inizio degli anni ’60 (dunque ben prima del ’68). Nel 1963 Alexander Mitscherlich, sociologo e psicologo tedesco, pubblica “Verso una società senza padre”, un libro profetico, che nel 1970 uscirà anche in italiano. Lì i lineamenti generali, e i problemi psicologici, di una società senza padri erano già perfettamente delineati. E anche se, ovviamente, i nodi  di oggi sono molto più intricati di quelli di ieri, non posso non ricordare che già alla fine degli anni ’70, dunque 40 anni fa, le indagini sociologiche sulla cultura giovanile avevano registrato la fine del conflitto con i padri, e la sua sostituzione con un sentimento di separatezza, diversità, disincanto, distacco rispetto ai genitori e alla cultura stessa, uno stato d’animo che già allora ce li faceva descrivere come “senza padri né maestri” (fu questo, per inciso, il titolo che Loredana Sciolla ed io scegliemmo per il nostro primo libro, un’inchiesta sugli studenti medi di Torino condotta nel 1978).

Ecco perché, di fronte all’improvviso risorgere, mezzo secolo dopo, del tema della “società senza padri”, l’interrogativo che più mi sollecita è: perché? anzi perché ora, perché solo ora?

Per me la vera notizia non è che la nostra è diventata una società senza padri. Questo lo diceva già Mitscherlich nel 1963, lo ribadiva Christopher Lasch alla fine degli anni ’70 (La cultura del narcisismo è del 1979), e dopotutto altro non è che il compimento del progetto della modernità o, come pare suggerire Polito in una suggestiva ricostruzione storica che parte dall’Émile di Rousseau, è il modo in cui l’Occidente ha declinato le idee dell’illuminismo. La vera notizia è che, più o meno mezzo secolo dopo la diagnosi di Mitscherlich, si sta profilando un ripensamento, se non una vera a propria reazione, spesso guidata da padri in servizio permanente effettivo. Non tutti accettano la deriva cui le nostre società paiono soggette. Non tutti trovano liberatoria la caduta di ogni autorità. Non tutti disdegano le culture e i valori tradizionali. Non tutti, insomma, sono a loro agio in una “società senza padre”. La pioggia di libri sul padre sembra testimoniare proprio questo: il progressivo instaurarsi di una società iper-individualista, in cui la competizione fra pari sostituisce il rispetto per il padre e l’imperativo dell’emancipazione erode ogni valore tradizionale, incontra anche qualche resistenza.

Perché ora, dunque?

Forse per una ragione tanto semplice quanto decisiva: se c’è una reazione è perché abbiamo passato il limite. E lo abbiamo passato così radicalmente che è divenuto piuttosto difficile non accorgersi degli effetti collaterali. Contrariamente a quel che pensano i cultori più acritici del progresso, il cammino dei modelli culturali non ha solo una componente di trend ma ha anche una componente ciclica, oscillatoria, come il movimento di un pendolo. E questo vale un po’ in tutti gli ambiti, compreso quello delle teorie, quello delle idee, quello dei costumi. Nel ‘700 il cammino delle idee illuministe sembrava inarrestabile, ma nella prima metà dell’800 quelle idee hanno incontrato l’onda contraria del romanticismo, e non solo nelle arti e in letteratura (la sociologia, ad esempio, nasce come reazione romantica alla filosofia dei lumi). In diversi paesi occidentali alla rivoluzione sessuale degli anni ’60 e ’70 sono seguite ondate neo-tradizionaliste. Quanto all’impegno pubblico, le analisi di Albert Hirshman, forse il più acuto scienziato sociale del ‘900, hanno chiarito definitivamente il suo carattere ciclico, con fasi di riflusso preparate dagli eccessi delle fasi di attivismo.

Ecco, forse la parola chiave è eccesso. La componente ciclica della vita sociale è fondamentalmente legata all’alternarsi di eccessi di segno opposto, come del resto succede nella vita economica, in cui al boom segue il crack, all’espansione delle bolle lo scoppio delle crisi. L’autoritarismo dei padri, nella famiglia come in politica, fu un eccesso della prima metà del ‘900, e il ’68 fu anche una reazione a quell’eccesso. Ma l’individualismo, il narcisismo, la cultura dell’io del cinquantennio post ’68 sono stati a loro volta un eccesso. Un eccesso che, 20 anni fa, con la metamorfosi dei genitori in amici e sindacalisti dei figli, e 10 anni fa, con l’avvento di internet e la progressiva marginalizzazione della cultura e della sua trasmissione, ha fatto un salto di qualità. Ora i danni collaterali della società senza padri sono sempre più pervasivi, nella psicologia individuale come nel funzionamento delle istituzioni, nell’educazione dei figli come nel mondo dei media. Insomma abbiamo esagerato. E abbiamo esagerato così tanto che qualcuno trova persino il coraggio di dirlo, nonostante sappia che da quel momento l’etichetta di nostalgico, fuori tempo, reazionario lo accompagnerà per sempre.

Articolo Pubblicato da Il Messaggero il 4 novembre 2017



Ma la crescita non è nemica del risanamento

Se c’è un punto su cui tutte le forze politiche concordano, è quello dei nostri conti pubblici. Non già nel senso che esista un piano comune e condiviso per affrontare il problema del debito pubblico, ma per la ragione opposta: a nessun partito piace toccare il tema, meno che mai impegnarsi con cifre precise. E comunque, a giudicare dai discorsi con cui i leader cercano di attirare consensi, per nessuno, proprio per nessuno, la riduzione del debito è una priorità.

E’ questo, a mio parere, il più importante elemento di convergenza e di sostanziale unità del ceto politico italiano, al di là delle quotidiane scaramucce su tutto il resto. Alla maggior parte dei politici, che stiano al governo o stiano all’opposizione, piace raccontare le cose così: la nostra priorità è la crescita, ovvero l’aumento del reddito e dell’occupazione, e non possiamo certo comprometterla sottostando ai diktat dell’Europa (ma qualcuno semplifica: ai diktat della Merkel), che ci impongono l’austerità e così bloccano lo sviluppo.

Questo tipo di argomentazione ha due punti deboli, innanzitutto sul piano logico. Il primo è che non si può contrapporre fra loro un obiettivo (la crescita) e uno strumento di politica economica (l’austerità). Sarebbe come se, in un viaggio verso Parigi, con un’automobile che va ancora avanti ma fa fumo dal cofano, chi vuole portare l’automobile da un meccanico venisse accusato dagli altri passeggeri di non volerli portare a Parigi. Il secondo punto debole è che, a sua volta, l’austerità non è una politica ma è uno spettro di politiche possibili, accomunate soltanto dall’obiettivo di ridurre l’indebitamento pubblico di un paese. A un estremo le politiche che puntano tutte le loro carte sull’aumento delle tasse, all’altro le politiche che si concentrano sulla riduzione e la riqualificazione della spesa.

Il vero problema, quindi, non è di scegliere fra austerità e crescita, ma come conciliare crescita e risanamento dei conti pubblici. O, meglio ancora, come risanare i conti pubblici secondo modalità che favoriscano la crescita, evitando che il risanamento indebolisca il paziente anziché guarirlo. Il dilemma, in altre parole, non è fra crescita e austerità ma, semmai, fra austerità “buona” e austerità “cattiva”, per usare l’efficace terminologia dell’ultimo libro di Veronica De Romanis (L’austerità fa crescere, Marsilio 2017). Dove per austerità buona si intende una correzione dei conti pubblici che privilegia la riduzione della spesa corrente, anziché l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, cavalli di battaglia dell’austerità cattiva.

Ma a che punto si trova l’Italia, su questo percorso?

Piuttosto indietro, purtroppo. Nel periodo più acuto della crisi (2012-2013) la politica economica ha privilegiato l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, ossia precisamente i due caposaldi dell’austerità cattiva. Quanto agli ultimi anni, purtroppo, la tenuta dei conti pubblici è stata assicurata più dalla riduzione degli interessi sul debito (in gran parte imputabile alla politica della Bce) che da un aumento dell’avanzo primario, che è anzi un po’ peggiorato tra il 2013 e il 2016. E, anche se il peso delle tasse e delle spese rispetto al Pil si è ridotto di qualche decimale, il livello dell’interposizione pubblica resta molto alto, e non certo a causa di un rilancio degli investimenti.

Accanto a queste criticità, per fortuna, esiste anche qualche segnale confortante. L’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici (indice VS), elaborato dalla Fondazione David Hume per 40 paesi e 18 anni (dal 1999 a oggi), mostra sì un peggioramento dell’Italia fra il 2011 e il 2013, ma anche una stabilizzazione fra il 2014 e il 2016, e una tendenza al miglioramento nel corso del 2017. Inoltre, un confronto con le valutazioni delle Agenzie di rating (Fitch, Moody’s, Standard & Poor’s), suggerisce che il loro giudizio sia troppo severo nei confronti dei conti pubblici italiani, specie riguardo alla situazione dell’anno in corso.

E tuttavia sarebbe un grave errore prendere spunto da questi, pochi e limitati, elementi rassicuranti, per rimuovere per l’ennesima volta il risanamento dei conti pubblici dall’agenda politica. Questo per almeno due buoni motivi.

Il primo è che il miglioramento dell’indice VS (Vulnerabilità Strutturale) nel corso del 2017 è dovuto soprattutto alle previsioni di crescita del Pil e al ritorno dell’inflazione, non certo a una riduzione del rapporto debito/Pil. Il secondo è che l’indice non rivela soltanto che le Agenzie di rating sono (forse) troppo severe con noi, ma anche che i mercati sono stati (finora) troppo generosi, nel senso che hanno permesso all’Italia di indebitarsi a tassi più favorevoli di quelli che i mercati stessi fisserebbero in assenza di fattori più o meno contingenti (il Quantitative Easing della Bce, ad esempio). Una tendenza, quella a concederci tassi relativamente bassi, che si sta rapidamente esaurendo, e potrebbe persino cambiare di segno quando il Quantitative Easing volgerà alla fine.

Ma la vera ragione che suggerisce di non rinunciare a percorrere risolutamente la strada del risanamento è che esso non è essenziale solo per proteggerci da nuove tempeste finanziarie, ma anche per permettere un ritorno alla crescita che sia solido, duraturo e, soprattutto, abbastanza vivace da consentire un aumento significativo dell’occupazione. Il fatto che, sia pure lentamente e faticosamente, si stia tornando ai livelli occupazionali pre-crisi, non deve farci dimenticare che, in questi ultimi anni, l’Italia ha anche conquistato un triste primato, che prima non deteneva: siamo il paese con il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 28 ottobre 2017



La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici

Come misurare la vulnerabilità dei conti pubblici

Questo articolo riporta una breve sintesi dei risultati di una ricerca che la Fondazione David Hume ha condotto negli ultimi anni sulla vulnerabilità dei conti pubblici delle economie avanzate[1].

1. A che serve una misura di vulnerabilità

Quando un paese ha un debito pubblico troppo elevato, gli investitori richiedono tassi di interesse più alti per sottoscrivere i suoi titoli di Stato: il rischio di non essere rimborsati, o di esserlo solo in parte, innalza il prezzo del prestito concesso. Accade così che i rendimenti dei titoli del debito pubblico possano toccare livelli molto alti, anche al di sopra dei tassi che normalmente vengono considerati usurari. Nel caso della Grecia, ad esempio, al culmine della crisi (febbraio 2012), i tassi sono arrivati a sfiorare il 30%. Quanto all’Italia, c’è stato un momento, alla fine del 2011, in cui i tassi si sono avvicinati pericolosamente alla soglia dell’8%, da molti considerata un punto critico, oltre il quale diventa pericolosissimo spingersi.

Ma come fa un paese a proteggersi contro i rischi di una crisi del suo debito sovrano? Come fa a sapere in anticipo che potrebbe sopravvenire una crisi? Come fa ad accorgersi che è seduto sopra una polveriera? Come fa, in altre parole, a misurare la propria vulnerabilità?

Apparentemente, la risposta è semplice: basta non indebitarsi troppo. Ma questa è una risposta insoddisfacente. Non solo perché non tutti i paesi sono come la Germania, che ha un’economia capace di crescere senza aumentare il debito, ma perché il nesso fra debito pubblico e rendimenti non è lineare: esistono paesi, come il Giappone, che riescono ad approvvigionarsi sui mercati a tassi molto bassi nonostante un enorme rapporto debito/Pil (oltre il 200%), ed esistono paesi, come la Romania, che sono costretti a pagare tassi relativamente elevati a dispetto di un rapporto debito/Pil molto contenuto.

Si potrebbe allora pensare di usare direttamente i rendimenti dei titoli di Stato, eventualmente corretti per l’inflazione, come misure di vulnerabilità. Questa strada, tuttavia, è resa impraticabile da almeno due circostanze.

La prima è che i mercati attraversano lunghi periodi di sonno, nei quali letteralmente ignorano le differenze fra paesi. È stato questo il caso dei primi 9-10 dieci anni dell’euro, nei quali i tassi richiesti a paesi come la Germania sono stati analoghi a quelli richiesti a paesi come la Grecia.

 

(Fonte:ECB)

La seconda circostanza è che i tassi sono fortemente condizionati dalla politica monetaria delle banche centrali, che può sostenere artificialmente i corsi dei titoli di Stato di un paese o, nel caso della Banca centrale Europea durante la crisi, di un gruppo di paesi deboli o ritenuti tali.

Se né il rapporto debito/pil né i tassi di mercato sono un buon metro per valutare la vulnerabilità dei conti pubblici, si potrebbe puntare sulle valutazioni dei debiti sovrani forniti dalle maggiori agenzie di rating, le “tre sorelle” Moody’s, Fitch e Standard and Poors’, con le loro scale a una ventina di posti, da AAA a D.  Sarebbe ragionevole, in altre parole, supporre che il rating sia una sorta di termometro della salute dei conti pubblici. Quando il rating è buono (tripla o doppia A) i conti pubblici del paese non corrono rischi, quando è cattivo (B) o pessimo (C) gli interessi sui titoli di Stato tendono ad essere elevati e rischiano di subire drastici incrementi in caso di crisi.

Sfortunatamente, tuttavia, anche questa strada non funziona bene, per diversi motivi. Il primo è che anche le Agenzie di rating, come i mercati, attraversano periodi di sonno, in cui non si accorgono delle enormi differenze di vulnerabilità che sussistono fra paesi.

Il secondo è che, tendenzialmente, il giudizio delle Agenzie segue e non precede quello dei mercati. Una misura di vulnerabilità dovrebbe essere predittiva e non postdittiva del comportamento dei mercati.

La realtà è che sia le Agenzie di rating sia i mercati sono due black box di cui non conosciamo i circuiti interni ma di cui sappiamo che funzionano in modi diversi, spesso molto diversi. Una comparazione sistematica delle valutazioni delle Agenzie e di quelle dei mercati su 24 paesi (quelli con informazioni complete) dal 1999 al 2016 ha rivelato che i casi di valutazioni coerenti sono più o meno quanti i casi di valutazioni incoerenti o in aperto conflitto (con le Agenzie che indicano un miglioramento quando i mercati segnalano un peggioramento; o viceversa).

Eppure, conoscere il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di un paese sarebbe essenziale, per gli investitori come per i governanti. Se vulnerabilità significa, essenzialmente, esposizione al rischio di aumenti futuri dei tassi, una misura di vulnerabilità può essere una guida preziosa per implementare strategie di selezione del portafoglio che tengano conto di fattori (di debolezza o di forza) che sono già presenti, ma di cui i mercati potrebbero accorgersi solo in futuro, quando una crisi dovesse esplodere o viceversa rientrare.

Quanto ai governi, è chiaro che una misura di vulnerabilità dei conti pubblici capace di anticipare evoluzioni future li proteggerebbe da due rischi, uno ovvio, l’altro più sottile. Quello ovvio è di non risanare i conti pubblici solo perché i mercati non si sono ancora accorti della malattia, un’eventualità che ben si attaglia ai casi di Grecia, Portogallo, Italia, che nel primo decennio dell’euro hanno immeritatamente beneficiato del doppio sonno dei mercati e delle Agenzie. Il secondo rischio da cui una misura di vulnerabilità accurata potrebbe proteggere un paese e il suo governo, è quello di subire, nei periodi di crisi, una valutazione dei mercati e delle Agenzie peggiore di quella che la salute di suoi conti pubblici giustificherebbe.

Ecco perché può essere utile disporre di un indice che misuri il grado di vulnerabilità dei conti pubblici.

2. Indice VS e mente dei mercati

A questo scopo, come FDH, abbiamo messo a punto l’indice VS, o indice di Vulnerabilità Strutturale. L’idea-base su cui poggia l’indice VS è di misurare lo stato di salute dei conti pubblici di un paese in un modo che, al tempo stesso, rifletta la “mente dei mercati”, ossia il modo in cui i mercati giudicano i conti pubblici di un paese, e nello stesso tempo non sia sensibile agli elementi contingenti (fluttuazioni di breve periodo, politica monetaria espansiva o restrittiva) che in un particolare momento concorrono alla formazione dei rendimenti dei titoli di Stato.

L’unità di misura dell’indice sono i punti-base, e la sua interpretazione è la seguente: l’indice VS misura i rendimenti che, in base ai suoi fondamentali, dovrebbero avere i titoli di Stato di un paese se i mercati lo giudicassero con i parametri che mediamente hanno utilizzato negli anni 2009-2016, ossia nel periodo successivo al fallimento di Lehman Brothers.

L’indice è stato calcolato per 40 economie avanzate, o relativamente avanzate[2], per tutti gli anni che vanno dall’introduzione dell’euro (1° gennaio 1999) al 2016. Attualmente stiamo lavorando a una nuova versione dell’indice, con cadenza più frequente (trimestre o mese), e capacità di stimare anticipatamente il consuntivo dell’anno in corso.

Ed ecco, in estrema sintesi, alcuni risultati.

1. L’equazione dell’indice permette di scoprire quali sono, per la “mente dei mercati”, i fondamentali che contano e quelli che non contano, e soprattutto quanto contano, ossia quali effetti hanno sui rendimenti; sorprendentemente fra i parametri che non contano c’è il deficit pubblico, mentre un’importanza cruciale rivestono il debito pubblico detenuto da investitori esteri, l’inflazione e la competitività.

2. Applicato al periodo 1999-2016 l’indice VS mette in evidenza il deterioramento dei conti pubblici di Grecia, Portogallo, con molti anni di anticipo (dai primi anni 2000), quando né i mercati né le Agenzie di rating emettevano segnali di rischio.

Come si vede l’indice di vulnerabilità strutturale (linea azzurra) punta decisamente verso l’alto a partire dal 2003-2004 sia in Grecia sia in Portogallo.

Quanto agli altri due paesi che hanno dovuto chiedere aiuto alla Troika (Spagna e Irlanda) l’indice VS mette in evidenza il deterioramento dei rispettivi conti pubblici con qualche anno di anticipo (dal 2006-2007 in Spagna, dal 2006-2008 in Irlanda).

4. Nel caso dell’Italia, la serie storica dell’indice VS mostra che:

a) la tendenza di lungo periodo (dal 2000 al 2009) della vulnerabilità strutturale è all’aumento;

b) tuttavia, nel periodo immediatamente precedente la crisi di fine 2011, la vulnerabilità era in sia pur lieve diminuzione;

c) negli ultimi 4 anni la vulnerabilità strutturale tende a diminuire in termini assoluti, ma ad aumentare in termini relativi, ossia rispetto alle altre economie avanzate.

3. Indice VS, rating delle Agenzie, rendimenti

Forse il modo più efficace di usare l’indice VS è di metterlo a confronto con gli altri due principali strumenti di valutazione della salute dei conti pubblici, ossia i rendimenti dei titoli di Stato decennali sui mercati e il rating dei debiti sovrani forniti dalle Agenzie. Il primo confronto (con i mercati) può essere effettuato direttamente, perché l’indice VS è espresso in punti base, ovvero può essere interpretato come una sorta di rendimento “dovuto”: l’indice VS indica quali rendimenti richiederebbero i mercati se si basassero esclusivamente sui fondamentali e si comportassero con il livello medio di severità espresso nel periodo 2009-2016, allorché – a differenza che nel decennio di esordio dell’euro – erano “all’erta” e non “in sonno”.

Per il secondo confronto, dato che le Agenzie di rating adottano scale ordinali, le abbiamo convertite in punti base, imponendo la medesima media e la medesima deviazione standard osservate per i rendimenti. Inoltre, per il 2017, per il quale si hanno solo dati parziali, abbiamo effettuato una stima del valore dell’indice VS utilizzando tutta l’informazione disponibile fino a ottobre.

Il risultato è piuttosto chiaro, e si può riassumere in quattro punti.

Primo.  Nonostante gli sforzi di risanamento dei governi Monti e Letta, fra il 2011 e il 2013 la vulnerabilità dei nostri conti pubblici (linea azzurra) è aumentata di circa 150 punti base. Questo cambiamento è stato iper-segnalato dalle agenzie di rating, ma non dai mercati, che hanno invece reagito con una riduzione dei rendimenti.

Secondo. Fra il 2013 e il 2016 l’indice VS di vulnerabilità strutturale è rimasto sostanzialmente stabile (lievissimo miglioramento[3]), mentre gli altri due indici, ovvero il rating delle agenzie (linea rossa) e i rendimenti sui mercati (linea grigia tratteggiata) si sono mossi in direzioni opposte: le Agenzie hanno ulteriormente penalizzato l’Italia, i mercati hanno concesso rendimenti sempre più bassi.

Terzo. Come conseguenza di questi andamenti, il 2016 ha registrato il massimo di divaricazione fra il giudizio delle Agenzie e quello dei mercati, con uno scarto che – adottando una scala comune – è arrivato a sfiorare i 500 punti base.

Quarto. Nel 2017, secondo le nostre stime, la vulnerabilità strutturale dell’Italia (indice VS) mostra un significativo miglioramento, proprio mentre il giudizio dei mercati (rendimenti) si fa più severo. Quel che ne risulta è una convergenza fra le due traiettorie, che ora paiono fornire sostanzialmente la medesima valutazione sulla salute dei nostri conti pubblici. Del tutto opposto è l’andamento del rating delle Agenzie, che risente del declassamento del debito italiano BBB+ a BBB operato da Fitch nel mese di aprile.

La conclusione è amara: troppo tenere, o troppo distratte, quando avrebbero dovuto avvertitici della debolezza dei nostri fondamentali, le Agenzie di rating appaiono invece troppo severe oggi che i nostri conti stanno migliorando. Non sarebbe un problema se, dal rating delle Agenzie, non dipendessero pesantemente le scelte dei grandi investitori internazionali. E, soprattutto, se da tempo non si parlasse di nuove regole per valutare i titoli di Stato detenuti dalle banche: ove il valore di questi dovesse essere alterato in funzione del rating delle Agenzie, la tendenza delle Agenzie stesse a sopravvalutare il grado di vulnerabilità dell’Italia potrebbe costarci piuttosto cara.

Da questo punto di vista disporre di un indice che dipende solo dai fondamentali, insensibile sia agli umori dei mercati sia alle valutazioni, presumibilmente anche (lato sensu) “politiche”, della Agenzie di rating, potrebbe rivelarsi uno stimolo a fare di più quando siamo sopravvalutati e uno scudo per difendere la nostra reputazione quando siamo gravemente penalizzati.

[1] La ricerca ha usufruito di un contributo della Compagnia di San Paolo.
[2] Per economie avanzate o relativamente avanzate (o paesi ERA) intendiamo tutti i paesi europei, o extraeuropei ma appartenenti all’Ocse (41 paesi in tutto). Nella nostra analisi ne abbiamo considerati 40 perché nel caso dell’Estonia mancano i dati dei rendimenti dei titoli di Stato.
[3] Al lieve miglioramento in termini assoluti si è accompagnato invece un netto peggioramento relativamente agli altri paesi.



Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017



Fallita la Terza via/Dopo 10 anni al Pd serve una nuova identità

Oggi è il 14 ottobre 2017. Esattamente dieci anni fa, il 14 ottobre 2007, veniva fondato il Partito democratico, che sceglieva come suo primo segretario Walter Veltroni (76% dei consensi, 3 milioni e mezzo di voti).

Il partito nasceva, essenzialmente, dal matrimonio tardivo di Ds e Margherita, due formazioni politiche a loro volta in ritardo sulla storia: i Ds sono stati l’ultima mutazione della tradizione comunista, travolta dalla caduta del muro di Berlino (1989); la Margherita è stata l’ultima mutazione della tradizione e democristiana, travolta dalle inchieste di Mani pulite (1992). Da allora si sono succeduti in tutto 5 segretari, due di matrice comunista (Veltroni e Bersani), due di matrice democristiana (Franceschini e Renzi), uno di matrice socialista (Epifani).

E’ un matrimonio riuscito quello che ha generato il Pd? O invece il progetto di un partito liberal-socialista, lucidamente delineato da Michele Salvati nei primi anni 2000, deve essere considerato fallito? E qual è stato il ruolo di Renzi in questa storia durata dieci anni?

Sappiamo che le risposte a queste domande costituiscono uno dei principali elementi di divisione a sinistra. C’è chi, come Piero Fassino (fresco autore di Pd davvero, La Nave di Teseo 2017), pensa che il progetto non sia affatto fallito, ma sia largamente incompiuto. E c’è chi, come i nemici di Renzi e del renzismo, da Bersani a Pisapia, da Fratoianni a D’Alema, pensano che Renzi sia la sciagura che ha distrutto il giocattolo.

Se vogliamo valutare quel che è successo in questi 10 anni, tuttavia, forse è meglio distogliere per un attimo lo sguardo dal piccolo recinto della politica italiana, e provare a collocare la storia del Pd nel più ampio teatro europeo. Ebbene, se facciamo questa operazione di spostamento, è difficile non accorgersi di alcune circostanze.

Primo. La sinistra tradizionale, ovvero i partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in crisi in quasi tutte le democrazie occidentali (eccetto nel Regno Unito), e spesso sono ampiamente superati da forze di sinistra alternative ad essi. In Spagna i socialisti sono al 23%, in Germania i socialdemocratici sono al 20%, in Francia i socialisti sono al 7%: anche trascurando il successo alle Europee del 2014 (40.8%), il consenso al Partito democratico (intorno al 27%) si situa nettamente al di sopra dei valori dei partiti cugini in Europa.

Secondo. Fatto 100 il consenso a tutte le forze di sinistra, il Pd ne cattura tra l’80 e il 90%, una quota che, nel continente europeo, non viene neppure lontanamente avvicinata da alcun partito socialista o socialdemocratico. In Germania i socialdemocratici pesano per il 53%, in Spagna per il 49%, in Francia per il 26% (per non parlare della Grecia, dove sono ridotti al 13% dello schieramento di sinistra). Insomma: noi ci lasciamo impressionare dalle tempeste in un bicchier d’acqua di casa nostra, ma la realtà è che negli altri paesi la sinistra è molto più divisa, e il partito che tradizionalmente l’ha rappresentata è molto più in difficoltà di quanto lo sia il Pd in Italia. A quanto pare la “fusione fredda” fra comunisti e democristiani ha avuto l’effetto di sopprimere ogni reale concorrenza a sinistra.

Terzo. La sinistra tradizionale è in crisi quasi ovunque, in Europa. Su questo gli scissionisti di casa nostra hanno ragione. Ma la domanda cruciale è: perché la sinistra è in crisi? E che cosa può fare per uscire dalla sua crisi?

A me sembra che la risposta alla prima domanda sia abbastanza semplice: la sinistra è in crisi perché il modello della Terza via non ha funzionato, come del resto ha da tempo riconosciuto il suo maggiore teorico, il sociologo britannico Anthony Giddens. La sfortuna del Partito democratico è stata di nascere nel 2007, ossia l’esatto istante in cui la crisi (appena scoppiata negli USA, con la bolla dei mutui subprime) stava per mandare in frantumi i sogni riformisti degli anni ’90, quando i vari Clinton, Blair, Schröder, Prodi, D’Alema, Veltroni scommisero sul cocktail mercato-riforme-meritocrazia.  E’ allora che, sulla scena del mondo, la competizione fra destra e sinistra divenne una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato. Un cambiamento che, già in un libro del 1996, il politologo Marco Revelli aveva bollato polemicamente con la formula delle “due destre”, entrambe persuase delle virtù del mercato (Le due destre, Boringhieri 1996).

Ora, con milioni di disoccupati, e una crescita che è ripartita in alcuni paesi ma non in altri, la storia presenta il conto innanzitutto ai partiti che la globalizzazione avevano pensato di poterla governare, indirizzandola verso esisti egualitari. L’elettorato non perdona ai partiti socialisti e socialdemocratici di aver tradito le loro promesse: più occupazione, più stato sociale, più diritti. Anche per questo si rivolge ai partiti populisti, di destra, di sinistra e di centro, che quelle domande di protezione hanno mostrato di saperle prendere estremamente sul serio.

In questo quadro, l’anomalia dell’Italia è la seguente. Nel Pd ha prevalso l’anima modernizzatrice e mercatista della Margherita, di cui Renzi è stato un efficace interprete. Nonostante innumerevoli errori, di contenuto e di atteggiamento, non si può negare a Renzi il merito di aver perfezionato la modernizzazione del Pd, che ha deposto o attenuato alcuni dei tratti più discutibili della cultura di sinistra: immobilismo, consociativismo, complesso dei migliori, subalternità ai sindacati e alla magistratura. Il punto, però, è che quella modernizzazione non è stata un’improvvisa trovata del “ragazzo di Rignano”, ma era stata avviata, fin dagli anni ’90, dalle correnti riformiste dei post-comunisti, a partire da D’Alema e Bersani. Se il Pd è diventato quel che oggi è, non è certo perché Renzi lo ha snaturato, ma perché Renzi ha impresso un po’ più di velocità a un processo che altri, a sinistra, avevano avviato ben prima di lui, e ben prima della nascita del Pd.

Ecco perché le critiche degli scissionisti suonano oggi leggermente surreali. Il mondo che si muove alla sinistra del Pd ha perfettamente ragione a far notare che certi conti non tornano (a partire da quelli della disoccupazione e della povertà), ma è poco credibile quando sembra suggerire che, quei problemi, potrebbe risolverli un ritorno alle politiche del passato, ai bei vecchi cari tempi in cui l’economia mondiale tirava, e quella italiana cresceva trainata dal debito.

Se una critica si può ragionevolmente fare al Pd non è certo di non saper tornare risolutamente al passato, come vorrebbero i suoi critici nostalgici, ma di non saper guardare al futuro. Dove “guardare al futuro” significa prendere atto senza troppi giri di parole che la Terza via, quella su cui avevano puntato tutte le loro carte i fondatori del Pd, è sostanzialmente fallita, e che si tratta di inventarne un’altra (una Quarta via?), che sappia fare i conti con le sfide della globalizzazione, dell’automazione, delle migrazioni di massa.

Pubblicato su Il Messaggero  il 14 Ottobre 2017