Abolire i vitalizi dei parlamentari?

Per fortuna faccio parte della piccola minoranza che, sulla scorta degli esempi belga e spagnolo, sospetta che l’assenza di un governo faccia bene all’economia. Sì, perché se non avessi questo sospetto, o questo motivo di consolazione, sarei molto arrabbiato con i partiti.

Ma come?

Avete avuto più di un mese per riflettere, incontrarvi, aprire tavoli, negoziare, annusarvi, e quando finalmente il Presidente della Repubblica inizia le consultazioni, e chi ha votato si aspetta che nasca finalmente un governo, voi non trovate di meglio che “ribadire” le vostre posizioni, i vostri programmi, i vostri veti, e alla fine chiedete una cosa sola: più tempo. Un’aggiunta di tempo che non serve, come nel caso tedesco, a mettersi a tavolino per definire nei minimi dettagli un programma di legislatura, concordato fra partner che hanno deciso di collaborare, ma serve a continuare un gioco, fatto di incontri, vertici, abboccamenti più o meno segreti, che dura da un mese, e che evidentemente piace molto ai nostri politici. I quali, per ora, su tutto si dichiarano in disaccordo, tranne su una piccola cosa, una piccola idea, che sta affiorando negli ultimi giorni: l’abolizione (o la limatura) dei vitalizi dei parlamentari, un provvedimento che prima di Natale era stato approvato alla Camera, ma si era alla fine arenato al Senato, proprio negli ultimi giorni della legislatura. Su questo soprattutto Cinque Stelle e lega paiono pronti ad agire.

Naturalmente non ho nulla contro un ridimensionamento degli emolumenti di una categoria di privilegiati, spesso non all’altezza del ruolo che sono chiamati a ricoprire,  quali sono i parlamentari italiani. E tuttavia non riesco a non provare perplessità, per non dire un senso di fastidio, per la retorica con cui se ne parla.

La perplessità nasce, ovviamente, innanzitutto dal carattere platealmente demagogico dell’attacco ai “costi della politica”, che molto ricorda l’altrettanto demagogica campagna del primo Renzi contro le “auto blu”. Ma non è solo questo.

Colpisce, ad esempio, l’accanimento con cui si perseguono i vitalizi dei parlamentari e il silenzio tombale su altri, ben più incomprensibili, privilegi della politica e degli apparati che le gravitano intorno. Ok, i vitalizi costano quasi 200 milioni l’anno, in media 5-6 mila euro lordi al mese per ogni beneficiario. Ma, se vogliamo parlare di costi della politica, le retribuzioni scandalose sono ben altre: un consigliere regionale, nonostante le riduzioni attuate in alcune regioni negli anni scorsi, costa alle casse pubbliche fra i 150 e i 200 mila euro l’anno; barbieri, segretari, elettricisti, nonostante qualche timido tentativo passato di ridimensionarne gli emolumenti, dall’inizio di quest’anno viaggiano di nuovo sui 100-150 mila euro l’anno; per non parlare delle mansioni parlamentari più qualificate, che non di rado sfiorano o superano i 200 mila euro, in barba a tutte le promesse passate di riportare un po’ di oculatezza nelle spese del Parlamento.

Complessivamente, i vitalizi su cui negli ultimi giorni si è concentrata l’attenzione del Palazzo, ammontano a circa il 5% degli emolumenti della casta. Pensare che la loro riduzione (si parla di una limatura di 70-80 milioni di euro) possa avere effetti significativi sui conti pubblici è quantomeno ingenuo.

In realtà, quel che sembra sfuggire alla discussione sui costi della politica è il punto centrale del problema: il vero costo della politica non sono gli stipendi, ma sono gli sprechi che la cattiva politica autorizza e spesso promuove. In passato mi è capitato di stimare l’entità totale degli sprechi della Pubblica Amministrazione, settore per settore (dalla sanità, alla scuola, alla giustizia). Ebbene, a spanne il conto è questo.

La spesa pubblica non pensionistica ammonta a circa 500 miliardi l’anno. Di questi 500 miliardi, almeno 80 sono imputabili a sprechi. Il costo diretto della politica è dell’ordine di 5 miliardi di euro. I vitalizi degli ex-parlamentari pesano per 0.2 miliardi. Questo vuol dire che, fatta 100 la spesa pubblica non pensionistica gli sprechi ne rappresentano il 16%, il costo totale delle retribuzioni dei politici l’1%, e i vitalizi dei parlamentari lo 0.04%. È come se andassi a comprare un’automobile che costa 20 mila euro, e il concessionario mi dicesse che abbatte la tua spesa con uno sconto di ben 8 (otto) euro. Questa è l’incidenza di una eventuale soppressione (totale) dei vitalizi. Una cifra così esigua che, con ogni probabilità, sarà interamente vanificata dal costo del contenzioso giuridico che potrà scatenare, come già avvenuto in passato.

Insomma: tagliate pure, riducete, moralizzate, fate quel che vi pare, ma non veniteci a raccontare che così si liberano risorse per la crescita, o per qualsiasi altra cosa importante. Perché le cose importanti costano di più, molto di più. E certe misure possono anche essere dei segnali positivi, ma devono valere erga omnes, e soprattutto non devono creare pericolose illusioni.




Lega e Cinque Stelle, programmi incompatibili?

Buio totale. È passato quasi un mese dal voto e nessuno è in grado di dire se avremo un nuovo governo, o invece si tornerà alle urne. Quel che si comincia a intravedere, tuttavia, è che potrebbe, e il condizionale è d’obbligo, nascere un governo Cinque Stelle-Lega. Questa alternativa pare meno inverosimile delle altre.

Le ragioni per cui questa appare l’eventualità meno improbabile sono diverse. La prima è che, a quanto pare, il Centro-destra non ha alcuna volontà di restare unito, e di cercare in Parlamento i voti di cui ha bisogno, che sono molti di meno di quelli che occorrono ai Cinque Stelle. Se davvero avesse intenzione di restare unito, farebbe valere il fatto di essere risultato la coalizione con il maggior numero di voti (37.5% contro il 32.2% dei Cinque Stelle), e si presenterebbe con una delegazione unica al colloquio con il Presidente della Repubblica. Invece pare di no, andranno separati. Misteri della politica (almeno per me).

C’è anche un’altra ragione per cui un governo Di Maio-Salvini è meno improbabile di altre soluzioni. Ed è che l’unica alternativa numericamente possibile, ossia un governo Cinque Stelle-Partito democratico, pur essendo vagheggiata da molti (compresi Franceschini e Orlando, secondo i rumors dei giorni scorsi), sarebbe profondamente divisivo per il Pd. Se anche i nemici di Renzi dovessero avere la meglio, eventualità che nel clima restaurativo attuale non è da escludere, resterebbe, come freno, la necessità di evitare una sanguinosa spaccatura del Pd, un partito che tutto può permettersi tranne che di dividersi in un troncone governativo e uno di opposizione.

Supponiamo dunque che il governo Di Maio – Salvini, magari presieduto da un premier meno divisivo, veda la luce. Starebbe insieme un simile governo?

A giudicare dai programmi, si direbbe proprio di no. Flat tax e reddito di cittadinanza sono due ricette di politica economica opposte. La prima punta a rilanciare la crescita, puntando su ingenti sgravi fiscali sui produttori, prevalentemente insediati nel Centro-Nord. Il secondo punta ad attutire le conseguenze della mancata crescita, puntando su sussidi ai poveri, prevalentemente insediati nel Sud. A queste difficoltà si aggiunge la circostanza che quel che unisce Salvini e Di Maio, ovvero la ferma volontà di sfondare la barriera del 3%, non potrà che attirarci l’ostilità delle autorità europee e, presumibilmente, la diffidenza dei mercati. Per non parlare dell’ostacolo più prosaico: il nuovo governo dovrà trovare subito 12 di miliardi di euro per disinnescare l’aumento automatico dell’Iva, e forse altri 2-3 miliardi per non incorrere in una procedura di infrazione per deficit eccessivo.

E tuttavia…

Tuttavia ci sono discrete possibilità che questi ostacoli siano superati. Intanto perché se in qualcosa i politici non hanno rivali, è nel manipolare il racconto che fanno ai comuni cittadini (che poi i manipolati ci caschino, è un altro paio di maniche, e si scoprirà vivendo). Ne abbiamo già avuto parecchie avvisaglie in questi giorni. Dopo i proclami di assoluta incompatibilità, e dopo le promesse più avventate, verrà il tempo degli aggiustamenti. Salvini ha già cominciato ad aprire sul reddito di cittadinanza, purché sia “uno strumento per reintrodurre nel mondo del lavoro chi oggi ne è uscito”. Toninelli, capogruppo Cinque Stelle al Senato, ha già aperto sulla flat tax, purché sia “costituzionale” e “includa i poveri”. Per non parlare della legge Fornero, sulla cui abolizione o superamento i due partiti sono d’accordo fin da prima del voto.

Non è tutto però. A favore di un governo Cinque Stelle-Lega militano anche fattori, per così dire, paradossali. Uno è l’irrealizzabilità del programma. Sia per la Lega sia per i Cinque Stelle, un governo di coalizione, che limiti il potere del partner, è la migliore assicurazione contro il risentimento degli elettori traditi. Quando, fra qualche tempo, si scoprirà che la flat tax al 15% era una bufala, Salvini dirà che la colpa è di Di Maio, che ha frenato. E quando i cittadini del Sud si renderanno conto che il reddito di cittadinanza effettivamente attuato dal nuovo governo non vale molto di più del reddito minimo introdotto a suo tempo da Renzi e Gentiloni, Di Maio avrà buon gioco a dire che la colpa è di Salvini, che ha sempre remato contro.

Infine, un altro fattore paradossale che può, almeno all’inizio, favorire la nascita di un governo Cinque Stelle – Lega è il patriottismo anti-europeo. Proprio l’ostilità delle autorità europee a un esecutivo “populista” potrebbe essere un forte elemento di coesione di un governo esplicitamente schierato contro la “burocrazia di Bruxelles”. Un esito, questo, lungamente preparato da una stagione di demagogia anti-austerity che ha coinvolto quasi tutte le forze politiche, compreso il Pd renziano.

Poco male, se dovessimo solo incontrare le resistenze delle sempre più deboli, e meno autorevoli, “autorità europee”. Ma malissimo se, sull’onda dei rimproveri dell’Europa, del declassamento delle agenzie di rating, e di un repentino deterioramento dei conti pubblici, dovessimo incontrare l’ostilità dei mercati, che ogni anno ci prestano svariate centinaia di miliardi per rinnovare i titoli del nostro debito pubblico.

Il 2011 magari non si ripeterà, perché la storia non si ripete mai identica a sé stessa. Ma qualcosa dovrebbe averci insegnato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 marzo 2018



Due Sinistre

Checché ne pensino i presunti vincitori, non esistono vincitori di queste elezioni. Solo mezze vittorie, o se preferite mezze sconfitte, perché sia il centro-destra sia i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere appena un terzo dei voti, e sono dunque lontanissimi sia dal 50% dei consensi, sia dal 50% dei seggi parlamentari. Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta. Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); male la Lista più Europa di Emma Bonino, che non è riuscita a raggiungere la soglia del 3%; penosamente i due cespugli alleati del Pd, che sono rimasti abbondantemente al di sotto della soglia dell’1%.

Ma il risultato più importante di questa tornata elettorale, a mio parere, è il cataclisma che ha investito l’elettorato della sinistra. Fino a ieri, per la maggior parte degli elettori esistevano il centro-destra, i Cinque stelle e la sinistra, con le sue varie anime e fazioni. Dopo il 4 marzo non è più così. Per molti è difficile ammetterlo, ma ormai la realtà è questa: una persona che si sente di sinistra si trova di fronte non una, ma almeno tre opzioni politiche fondamentalmente diverse: la sinistra riformista del Pd e di Più Europa, la sinistra conservatrice e nostalgica di Leu, la pseudo-sinistra o neo-sinistra dei Cinque Stelle. In parte era già così, perché molti elettori di sinistra da tempo avevano cominciato a votare Cinque Stelle, o a vedere con una certa simpatia chi lo faceva. Sono anni che, in una parte dell’elettorato progressista, i Cinque Stelle sono visti come una sorta di sinistra più pura, magari un po’ingenua e rozza, ma comunque meno compromessa con le logiche del Palazzo. E’ come se, agli occhi di una parte non piccola dell’elettorato progressista, ci fossero almeno due sinistre: quella tradizionale (Pd e fuorusciti), sostanzialmente identificata con l’establishment, e quella anti-establishment, più o meno adeguatamente rappresentata dai Cinque Stelle.

Questa doppia rappresentanza, riformista e populista, dell’elettorato progressista può non piacere a molti. Però bisogna rendersi conto che non è un’anomalia italiana. Una sinistra populista, che contende il primato alla sinistra tradizionale, esiste anche in altri paesi mediterranei, in particolare in Grecia (con Syriza) e in Spagna (con Podemos). La particolarità dei Cinque Stelle è di essere riusciti, finora, a nascondere la loro matrice principale che, secondo la stragrande maggioranza dei sondaggi degli ultimi anni, è più di sinistra che di destra. Le elezioni del 4 marzo hanno semplicemente reso evidente, per non dire plateale, l’esistenza in Italia di (almeno) due sinistre, fra le quali, che lo voglia o non lo voglia, l’elettorato progressista è chiamato a scegliere.

Questo disvelamento non disturba i Cinque Stelle, che non perdono certo il loro elettorato di destra per il solo fatto di attirare sempre più voti da sinistra: l’adattività del movimento di Grillo, il suo camaleontismo ideologico, sono oramai leggendari. Disturba invece profondamente il Pd, che credeva di avere solo il manipolo di Liberi e Uguali alla propria sinistra, e si trova improvvisamente con un vicino scomodo, molto scomodo, come i Cinque Stelle, una formazione che non si lascia facilmente descrivere in termini di destra e sinistra, ma indubbiamente compete con il Pd per attirare il voto dell’elettorato che “si sente” di sinistra.

Il Pd sembrava, fino a pochi anni fa, essere rimasto l’unico vero partito, organizzato e radicato in tutto il territorio nazionale. Ora che i Cinque Stelle hanno sfondato in tutta la penisola, e la stessa Lega è sbarcata in forze nelle regioni del centro-sud, si trova completamente spiazzato.

Che cosa lo ha ridotto a quello che oggi è? Come è stato possibile, nel volgere di meno di 4 anni, passare dal 40.8% dei consensi alle Europee (2014) al 18.7% delle Politiche?

La risposta facile è: Renzi, solo Renzi, nient’altro che Renzi. E c’è del vero in questa risposta. E’ stato Renzi, in un solo anno, a portare il Pd dal deludente 25.4% di Bersani al 40.8% del trionfo europeo. Ed è stato il medesimo Renzi, da allora, a commettere una serie impressionante di errori politici e comunicativi, a partire dal bullismo mediatico con cui ha condotto la campagna referendaria.

Però sarebbe riduttivo, e alquanto ingiusto, caricare il solo Renzi del disastro del 4 marzo. Non tanto perché, scissionisti a parte, sono stati ben pochi coloro che alle scelte di Renzi si sono opposti, ma perché la crisi del Pd fa parte di una storia molto più grande, e più incisiva, della mera stagione renziana. La crisi del Pd, a mio parere, ha almeno due grandi e lontane radici.

La prima è la progressiva trasformazione del Pci, “partito della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”, un processo che il grande filosofo cattolico Augusto del Noce intravide già una quarantina di anni fa. In questi decenni il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti sempre più i rappresentanti dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità, immigrazione. Fra le ragioni dell’insuccesso della lista Bonino c’è anche, molto semplicemente, il fatto che un partito radicale ed europeista esisteva già, ed era il Pd renzizzato, imbevuto di retorica dell’accoglienza e di “grandi battaglie di civiltà”.

La seconda radice della crisi del Pd ha a che fare, invece, con l’evaporazione della forma partito. I dirigenti di quel partito paiono non essersi resi conto che, oggi, la rappresentanza politica è sempre meno di classe e di ceto, e sempre di più, semplicemente, di interessi e pretese forti, non importa quanto integrate in un disegno organico, non importa quanto espressione di blocchi sociali omogenei: flat tax, abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’articolo 18, stop all’immigrazione irregolare. Questo è il tipo di cose che gli elettori comprendono, questo è il tipo di cose per cui sono pronti a concedere una chance a chi li governerà, senza andare troppo per il sottile riguardo alle alleanze e alle ascendenze ideologiche.

Del Pd si può apprezzare la (relativa) sobrietà dei programmi, anch’essi costosi e irrealistici ma non quanto quelli dei suoi avversari. Ma non si può non notare due tratti inconfondibili, che hanno informato tutta la campagna elettorale: la mancanza di una meta significativa specifica, e un racconto dell’Italia autocelebrativo e iper-ottimistico, del tutto sganciato dalla realtà, specie per i territori e i ceti più periferici.

Questo doppio limite, mancanza di idee e scarso contatto con la realtà, non è certo un’esclusiva della gestione di Renzi: è il marchio di fabbrica della rottamazione, un’operazione che ha portato alla sostituzione di un ceto dirigente mediocre e attempato con un esercito di modesti apprendisti dell’arte politica.

E’ successo, così, che anche il Pd di Renzi finisse per offrire alla sua base la stessa cosa che, da alcuni decenni, il maggior partito della sinistra offre a chi lo vota: identità, autostima, considerazione di sé. Basate sulle certezza di essere la parte migliore del paese, quella che è aperta, razionale, moderna, non teme l’Europa e la globalizzazione, vuole l’accoglienza e si batte per le grandi questioni civili. Una bella offerta, indubbiamente. Che tuttavia, dopo un decennio di crisi, pare interessare ancora intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, dipendenti pubblici, “ceti medi riflessivi” in genere, ma a quanto pare non scalda più il cuore dei ceti popolari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2018



Due stati

Di una frattura fra Nord e Sud si parla da quando esiste lo Stato italiano, dunque dal 1861. Il modo in cui se ne parla, le modalità con cui la si declina, le linee lungo le quali se ne tracciano i confini, sono invece piuttosto mutevoli.

Fino agli anni ’50 del Novecento, fondamentalmente, il problema è stato pensato come “questione meridionale”, una grande sfida politica che ha appassionato legioni di meridionalisti, fin dalla fine dell’800: da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti, da Antonio Gramsci a Pasquale Villari, da Gaetano Salvemini a Pasquale Saraceno. Nel meridionalismo classico il Sud da sostenere e sviluppare coincideva con l’intero Mezzogiorno statistico (inclusi Abruzzo e Sardegna), e arrivava talora ad includere le aree più depresse del Lazio, oggetto anch’esse di attenzione da parte della Cassa del Mezzogiorno. Questo confine fra le due italie sarà poi ribadito e precisato dagli studiosi di scienza politica, che sulla scorta del famoso libro di Robert Putnam sulla “tradizione civica” delle regioni italiane (1993), fisseranno la linea di demarcazione fra l’Italia arretrata, che non ha avuto la civiltà comunale e perciò scarseggia di fiducia interpersonale, e l’Italia civica, in cui la civiltà comunale ha creato le condizioni dello sviluppo, lungo la linea che va dalla foce della Fiora (sud della Toscana) alla foce del Tronto (sud delle Marche). E sarà un politologo italiano, Roberto Cartocci, a mostrare che quel confine coincide con impressionante precisione con quello del voto di scambio, o clientelare, che si concentra a Sud di quella linea ideale.

Questa visione di un’Italia divisa in due, con il Sud (più o meno allargato) da un lato, e il Centro-Nord (più o meno ristretto) dall’altro non è mai venuta meno. Il problema, per gli studiosi, riguardava solo la questione dei confini esatti fra le due italie, perché due regioni, Lazio e Marche, si venivano spesso a trovare “a cavallo” fra il Centro-Nord e il Sud.

Accanto a questo filone di pensiero, sostanzialmente dualista, a partire dagli anni ’60 si è sempre più irrobustito un altro modo di descrivere l’Italia, più legato agli esiti elettorali. Secondo questo modo di vedere l’Italia elettorale era suddivisa in più di due aree relativamente omogenee: almeno quattro secondo alcuni, tre secondo altri. L’elemento comune di queste analisi, dovute soprattutto all’Istituto Cattaneo, ad Arnaldo Bagnasco e a Giorgio Fuà, era di vedere il centro-Nord come un luogo relativamente eterogeneo, suddiviso fra regioni di antica industrializzazione (Piemonte, Lombardia, Liguria), dominate dalla grande impresa, e regioni della terza Italia, dominate dalla piccola impresa, e divise quasi esclusivamente dalla cultura politica, con il Triveneto cattolico contrapposto alle Regioni rosse.

Nel 1992-1994, con la fine della prima Repubblica e la netta vittoria del centro-destra nelle regioni settentrionali, lo schema delle molte italie subisce una nuova e ulteriore torsione: ora la frattura fondamentale pare innanzitutto fra il Nord, produttivo e insofferente per l’oppressione fiscale, e il resto del Paese. E infatti da allora, e per molti anni, si parlerà di “questione settentrionale”, e il federalismo fiscale diventerà nel giro di pochi anni una specie di tema fisso della politica italiana.

Ma che cosa accade il 4 marzo 2018? Che tipo di paese è quello che esce dalle urne?

A mio parere è un paese che torna ad essere spaccato essenzialmente in due, fra il Sud e il resto della penisola, come era risultato nitidamente nel 1992, ultime elezioni della prima Repubblica. Allora il Sud si distingueva dal resto d’Italia perché vi resisteva la Democrazia cristiana, esattamente come oggi il Sud si distingue dal resto d’Italia per l’insediamento dei Cinque Stelle. Ed è impressionante la precisione con cui la carta geopolitica di oggi riflette quella di allora, regione per regione, provincia per provincia: i Cinque Stelle hanno sfondato là dove maggiore era la forza della Dc. L’unica differenza significativa è che oggi le Marche sono, per così dire, annesse al Mezzogiorno grillino, mentre il Lazio è annesso al centro-nord presidiato dal centro-destra e dal Pd.

Abbiamo provato a metterle a confronto, queste due italie che il voto del cinque marzo ci ha consegnato, e l’esito non potrebbe essere più nitido: un abisso le divide in termini di reddito, occupazione, povertà, evasione fiscale, peso dei dipendenti pubblici, infrastrutture, funzionamento della giustizia, partecipazione elettorale, istruzione, asili nido, percentuale di Neet (giovani che non studiano, non lavorano, non stanno imparando un lavoro). Solo su una variabile, l’accesso alla banda larga, il Mezzogiorno appare più avanti del resto del Paese.

*Lazio: valore stimato (dati non definitivi)
Fonte: elaborazioni Fondazione Hume su dati Istat, RGS, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Mise – Piano strategico Banda Ultra Larga,
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ferrovie dello Stato e CGIA di Mestre

È come se, in Italia, coesistessero due Stati, che in oltre 150 anni non sono riusciti in alcun modo a raggiungere un accettabile livello di convergenza.

Ma se siamo di fronte a due Stati, con economie e strutture sociali radicalmente diverse, forse sarebbe giunto il momento di prenderne atto nel solo modo conseguente, ovvero pensando a due politiche economiche radicalmente diverse per queste due italie. Proprio perché tutto è profondamente diverso, risulta difficile pensare che un’unica ricetta vada bene per tutto il paese. Prendiamo il tema delle tasse. Qualcuno si può stupire che la flat tax non abbia sedotto gli elettori meridionali? Quel problema il Mezzogiorno l’ha risolto da sempre autoriducendosele, le tasse. Il problema, semmai, sono le “condizioni al contorno” dell’attività economica: infrastrutture precarie o incomplete, mancanza di asili nido, una sanità disastrata, una scuola di bassa qualità, una burocrazia inefficiente nonostante l’eccesso di personale. Forse è di qui che una politica per il Mezzogiorno dovrebbe prendere le mosse. Naturalmente il Mezzogiorno ha anche bisogno, e da subito, di più posti di lavoro, proprio per far sì che il reddito minimo (impropriamente chiamato reddito di cittadinanza) sia l’unica prospettiva. Ma come fare?

Un’idea potrebbe essere di riprendere, magari solo per il Mezzogiorno, la proposta del maxi-job che la Fondazione David Hume aveva lanciato nel 2014, e che era stata raccolta sia da Susanna Camusso sia da Giorgia Meloni: azzerare tutti i contributi sociali non già per chi, genericamente, assume, ma per quelle imprese che aumentano l’occupazione e lo fanno con lavori veri, a tempo pieno o quasi pieno (di qui il prefisso maxi, che si contrappone ai mini-job della Germania). Un’altra idea, e in un certo senso una misura complementare ai maxi-job, potrebbe essere di favorire l’occupazione femminile nel Mezzogiorno (dove è a livelli bassissimi) con un grande piano di costruzione di asili nido, che oggi sono drammaticamente scarsi (1 bambino su 9).

Un ragionamento analogo e speculare, probabilmente, meriterebbe di essere fatto per il Centro-Nord. Qui una misura chiave sarebbe disboscare la selva degli adempimenti burocratici, e rendere più rapido il rilascio di permessi e autorizzazioni, specie in ambito edilizio e nel commercio. Quanto ai bilanci delle imprese, più che sul contenimento del costo del lavoro, forse sarebbe meglio puntare direttamente sulla riduzione dell’imposta societaria (Ires e Irap). L’evidenza econometrica suggerisce che, se si vuol accelerare la crescita del Pil, è molto più efficiente puntare sulla riduzione delle tasse sui profitti che ridurre la pressione contributiva, o la pressione fiscale in generale.

Con le risorse degli 80 euro e della decontribuzione (circa 20 miliardi l’anno), anziché sostenere gli stipendi di chi un lavoro già ce l’ha, forse sarebbe stato meglio pensare a una più drastica riduzione dell’imposta societaria, e a un sostegno ai veri poveri, ossia a chi guadagna così poco da non poter usufruire di alcuno sgravio fiscale. Certo, lo si sarebbe dovuto fare mirando alla povertà assoluta, anziché alla povertà relativa, e tenendo conto del livello dei prezzi, come proposto a suo tempo dall’Istituto Bruno Leoni: un sussidio di 500 euro a Caltanissetta pesa molto di più, in termini di potere di acquisto, di un sussidio di 500 euro a Milano.

Se il Pd lo avesse fatto, probabilmente l’economia italiana e l’occupazione avrebbero ricevuto una spinta maggiore, e il Sud, in cui si concentrano la maggior parte dei poveri assoluti, si sarebbe sentito meno solo. Il successo dei Cinque Stelle è anche il frutto di anni di superficialità, omissioni, e slogan vuoti nelle politiche per il Mezzogiorno.

Pubblicato su Panorama il 15 marzo 2018 con il titolo “Le due Italie”.



La “cetomedizzazione” della sinistra è iniziata 40 anni fa. Intervista a Luca Ricolfi

Luca Ricolfi, docente di Statistica e sociologo, come commenta questi dati per cui nei Comuni più ricchi del Torinese prevale il Pd, mentre nelle zone più povere a vince la Lega e dove la crisi morde svettano i grillini?

Sono perfettamente coerenti con quelli nazionali. Aggiungo solo una cosa: c’è una variabile che ancor meglio del reddito pro capite spiega le scelte elettorali, ed è il tasso di occupazione. Dove manca il lavoro la gente vota Cinque Stelle, dove il lavoro c’è la gente vota Pd, ma anche, anzi ancor più, Lega. Da questo punto di vista il presunto populismo della Lega è di natura del tutto diversa da quello dei Cinque Stelle, perché si affermano in contesti opposti, di massima e minima occupazione. Il messaggio dell’elettore Cinque Stelle è: visto che il lavoro non c’è, almeno datemi il reddito. Quello dell’elettore leghista è: visto che il lavoro ci sarebbe anche, metteteci in condizione di lavorare (meno tasse e meno burocrazia).

Si corona – purtroppo per il Pd –  il grande sogno di Renzi? Quello di andare a prendere voti ai ceti conservatori o per lo meno borghesi?

No, questo succedeva già con il Pd di Bersani e con quello di Veltroni, e persino – in qualche misura – con il Partito comunista dell’era Berlinguer. La “cetomedizzazione” del principale partito della sinistra è iniziata circa 40 anni fa, negli anni ‘70, non certo con la segreteria Renzi. La novità è che Renzi è riuscito a perdere quel po’ di base popolare che ancora votava Pd.

C’è un problema però. La classe operaia o degli inoccupati non vota quelli che sono gli eredi di Gramsci e Bordiga.  Soprattutto nella Torino città operaia per antonomasia.

Rispondo con una domanda: lei vede una ragione per cui gli operai dovrebbero votare Pd?

Dobbiamo rassegnarci a un Pd radical chic? Un Pd partito delle élite, come dice un sondaggio di pochi giorni fa della Luiss?

Mi sembra sconfortante che si debba apprendere da un sondaggio, e si presenti come una novità, quello che sappiamo da almeno vent’anni. Le cose che oggi si cominciano a vedere gli studiosi disincantati le sanno da tempo. Per parte mia le descrissi con una certa spietatezza ne La frattura etica (2001), in Perché siamo antipatici? (2005), ne Le tre società (2007), solo per citare tre libri ormai vecchiotti. E le ho ribadite in Sinistra e popolo (2017) un libro scritto prima della Brexit e della vittoria di Trump.

La domanda è: visto che tutti gli elementi della sindrome elitaria erano presenti 20 anni fa, come ha fatto la sinistra a tenere la testa sotto la sabbia così a lungo?

Perché il Pd non convince quelli che stanno al di sotto di un certo reddito? Cosa è successo?

Il Pd non li convince per tre motivi. Primo: con gli 80 euro il Pd ha aiutato chi già aveva un lavoro, e non l’esercito degli incapienti, che non guadagnano nulla o lavorano in nero (circa 10 milioni di persone, in gran parte concentrate al Sud). Secondo: il Pd non ha capito che l’accoglienza all’italiana è una politica antipopolare, che piace ai ceti benestanti e illuminati, ma danneggia chi sta in periferia e fatica a sbarcare il lunario. Terzo: il Pd non ha capito che il popolo è dotato di senso dell’humor, e quindi detesta l’ipocrisia del politicamente corretto.

È vero quello che dice Calenda, il Pd ha ignorato le paure delle persone?    

E adesso se ne accorge? Non ha mai notato il disprezzo con cui i suoi compagni di partito parlavano, delle “paure irrazionali” della gente? Dov’era quando Renzi e il Papa invitavano al dovere morale dell’accoglienza, senza se e senza ma? Perché hanno messo 4 anni, Renzi e il Papa, ad accorgersi che i sentimenti del popolo meritavano più rispetto?

Nel suo ultimo libro “Sinistra e popolo” lei affronta l’argomento del populismo, il tramonto della sinistra quando è cominciato?

Il tramonto della sinistra come espressione dei ceti popolari è iniziato dopo la morte di Berlinguer, ma l’ingresso massiccio dei ceti medi nella base elettorale della sinistra era iniziato dieci anni prima, nel cuore degli anni ’70. E’ allora che i ceti medi, fatti di studenti, insegnanti, giornalisti, magistrati, artisti di ogni specie, presero d’assalto la diligenza del Pci, visto come un’alternativa pura e incorrotta al malgoverno imperante. Un copione che in Italia si presenta circa ogni quarto di secolo (1974-74, 1992-1994, 2017-18): cambiare tutto, per non cambiare nulla.

Intervista a cura di Andrea Rinaldi pubblicata su Il Corriere della Sera-Torino il 12 marzo 2018