Nazionalizzare tutto?

La parola d’ordine è quella: nazionalizzare tutto. La agitano i Cinque Stelle, e pare aver fatto breccia anche in alcuni esponenti della Lega, se è vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ritiene che si debbano rivedere tutte le concessioni. Quanto all’opposizione, la sinistra e Forza Italia paiono contrarie, ma Fratelli d’Italia, per bocca di Giorgia Meloni, pare sottoscriverla senza riserve, almeno per quanto riguarda le infrastrutture strategiche (trasporti, acqua, energia, telecomunicazioni, poste).

E’ una buona idea?

Credo che dare una risposta generale, univoca, pro o contro le nazionalizzazioni, sia impossibile, anche da un punto di vista politico o ideologico. Contrariamente a quanto molti credono, le nazionalizzazioni e il loro opposto (le privatizzazioni) non dividono la destra e la sinistra, ma spaccano al loro interno i due schieramenti che – fino a ieri – si sono contesi il governo, in Italia come altrove. Le nazionalizzazioni sono piaciute ai fascisti (negli anni ’30) ma anche ai socialisti (negli anni ’60), le privatizzazioni sono piaciute alla sinistra riformista, ma anche alla destra berlusconiana, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. La posizione verso le nazionalizzazioni, insomma, ha ben poco a che fare con la divisione fra destra e sinistra.

Se prendere posizione sulle nazionalizzazioni in base all’ideologia è impossibile, ancor meno facile è farlo sulla base dell’esperienza, almeno in Italia. Il guaio del nostro paese è che, se guardiamo agli ultimi decenni, sono innumerevoli sia i casi di fallimento dei privati, sia quelli di fallimento dello Stato. Alitalia è stata un disastro sia come impresa pubblica sia come impresa privata. Lo stesso caso del ponte Morandi è emblematico: Atlantia e la società Autostrade per l’Italia hanno fallito, su questo non vi sono dubbi, ma lo Stato ha fallito per certi versi ancora di più: doveva solo controllare il rispetto della convenzione, e non è stato capace di fare neppure quello. Come si possa, a questo punto, immaginare che la nostra elefantiaca ed inefficiente Amministrazione Pubblica, di cui si conoscono gli innumerevoli sprechi e malversazioni, possa sobbarcarsi il compito di gestire tutta la rete autostradale, resta per me un mistero.

Posto che sia i monopoli di Stato sia le società private spesso non sono state all’altezza dei loro compiti, resta comunque il problema di scegliere una via: puntare sulle nazionalizzazioni, proseguire nelle privatizzazioni iniziate negli anni ’90, decidere caso per caso, concessione per concessione, come saggiamente pare suggerire Giorgetti. L’impressione è che si punterà sulle nazionalizzazioni, capovolgendo la politica messa in atto negli anni ’90, che puntava a ridurre il perimetro dell’intervento pubblico. E’ vero che la Lega sembra opporre qualche resistenza, ma ritengo più probabile che alla fine a riportare qualche vittoria siano i nazionalizzatori: il controllo pubblico dell’economia, con la possibilità di governare la spesa pubblica, gli investimenti, le commesse pubbliche, le nomine, le elargizioni e i favori, è qualcosa che interessa ai politici di governo in quanto tali, indipendentemente dalla loro ideologia.

Resta il dubbio che una politica che punta sull’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico sia, fondamentalmente, più nell’interesse dei governanti che in quello dei cittadini. E questo per almeno tre buoni motivi.

Il primo è che non è affatto detto che un controllo e una gestione diretta (statale) delle infrastrutture sia, per i cittadini, più sicuro di una seria sorveglianza sui concessionari.

Da questo punto di vista è davvero curiosa l’idea del ministro Toninelli che il ministero delle Infrastrutture possa costituirsi parte civile conto la società Autostrade: tutto lascia pensare che, nel processo per il ponte Morandi, sul banco degli accusati saranno chiamati sia Atlantia sia il Ministero di Toninelli, magari nella persona di qualche ex ministro delle infrastrutture.

Il secondo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è che, anche in regime di monopolio statale, è prevedibile che i lavori di ricostruzione dei ponti, manutenzione delle autostrade, costruzione di nuove arterie sarebbero in gran parte affidati a società private, ossia a chi ha le competenze e l’esperienza per realizzare le opere. La nazionalizzazione, in altre parole, potrebbe risultare più nominale che sostanziale.

Il terzo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è il loro costo. Mentre privatizzare porta risorse nel bilancio dello Stato, nazionalizzare brucia risorse pubbliche: la sola revoca della concessione ad Atlantia potrebbe costare allo Stato 20 miliardi, e non è affatto detto che i ricavi netti di una gestione statale delle autostrade sarebbero superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una concessione. Se moltiplichiamo queste cifre per tutte le attività e funzioni che potrebbero essere nazionalizzate, è abbastanza evidente che i costi per lo Stato, cioè per i contribuenti, sarebbero esorbitanti. La nazionalizzazioni, in altre parole, aggraverebbero il nostro problema centrale, quello di un debito pubblico enorme, che non si riesce né a stabilizzare né a far scendere.

Nonostante tutto ciò, penso che alla fine la linea delle nazionalizzazioni finirà per prevalere. Oggi come ieri, infatti, quel che è decisivo non è il bene dei cittadini, ma sono le esigenze dei governanti. E ai governanti di ieri (1996, governo Prodi) conveniva ridurre il debito pubblico per guadagnare il biglietto di ingresso nell’Eurozona, di qui una delle più colossali operazione di dismissione del patrimonio pubblico che si ricordino (oltre 100 miliardi di euro). Ai governanti di oggi (2018, Salvini e Di Maio), conviene assumere il controllo più ampio possibile della macchina dello Stato, costi quel che costi, non certo guadagnare il rispetto delle autorità europee, che detestano e con cui (forse) cercano l’incidente.

Con quale prezzo per tutti noi, contribuenti, risparmiatori, lavoratori, nessuno lo sa. Ma io temo che sarà alto.




Tragedia del Pollino, una lezione dalla Norvegia?

Dopo la morte di 10 persone durante un’escursione nelle gole del torrente Raganello (Parco Nazionale del Pollino, provincia di Cosenza), è immediatamente partita, come sempre accade in Italia di fronte a simili tragedie, la macchina della “individuazione delle responsabilità”. Il ministero dell’Ambiente ha avviato un’inchiesta amministrativa, mentre la Procura di Castrovillari ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando i reati di omicidio colposo, lesioni colpose, inondazione e omissione di atti d’ufficio. La Procura ha anche acquisito diversi documenti da alcuni degli enti coinvolti nella gestione del Parco, nonché disposto il “sequestro probatorio” dell’area del torrente Raganello, con conseguente divieto di accesso alle gole.

Nei resoconti giornalistici sulle due inchieste si legge che si tratta di “accertare responsabilità ed omissioni che hanno provocato la morte di dieci persone”, e che il procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, “è al lavoro per capire se gli amministratori locali (e non solo) avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per evitare la tragedia”.

Suppongo che la Magistratura calabrese stia facendo il proprio lavoro, e che più o meno la stessa sequenza di azioni si sarebbe prodotta in qualsiasi altra parte d’Italia. E tuttavia c’è qualcosa che mi lascia perplesso in questa vicenda, come in tante vicende consimili. Qualcosa che non saprei definire con una parola soltanto, forse perché non è un dubbio unico, ma è una catena di dubbi che ogni volta si affacciano alla mia mente.

Il primo dubbio è di natura logica. Il ragionamento secondo cui una proibizione (in questo caso di accesso all’area) avrebbe il potere di evitare una tragedia ha senso se è formulato prima dei fatti, ma diventa debolissimo a posteriori. È assolutamente ovvio che, quando accade una disgrazia, ci siano decine di comportamenti che avrebbero potuto evitarla (o renderla improbabile), ma è troppo facile indicarli con il senno di poi. Quasi tutte le disgrazie che avvengono in montagna, al mare, in gite ed escursioni, non si sarebbero mai verificate se non si fosse incentivato il turismo di massa, se l’accesso alla bellezze naturali fosse ristretto e iper-regolamentato, e inoltre legioni di poliziotti, forestali, guardie costiere fossero impegnate giorno e notte a garantire l’osservanza dei divieti. La vera domanda non è se una certa regola avrebbe impedito la disgrazia, ma se moltiplicare regole e divieti sia la strada giusta, e se in una determinata situazione è evidente a priori – non a cose fatte, dopo la disgrazia – che un divieto è necessario. E spesso è proprio la frequenza di incidenti o disgrazie, o l’intensificazione della pericolosità, il meccanismo che conduce all’introduzione di divieti, come ad esempio è accaduto a Stromboli, dove un tempo si poteva salire al vulcano senza guide alpine o vulcanologiche, mentre da qualche anno non è più possibile. Nel caso del Raganello, pur spesso teatro di incidenti (per lo più non gravi) in passato, pare che l’ultimo incidente mortale risalga a ben 60 anni fa, quando un turista tedesco, inseguendo il volo degli uccelli, perse la vita a causa del cedimento di una roccia cui si era aggrappato, un chiaro esempio di fatalità, non certo di imprudenza o di evento meteorologico estremo (così riferisce Paolo Brera in un articolo su “Repubblica”).

Ma non è solo l’accanimento con cui si cerca ad ogni costo il colpevole di qualsiasi disgrazia a lasciarmi perplesso, come se non potessimo accettare che, in certi casi, le cause di una morte possano essere semplicemente l’imprudenza e la sfortuna, anziché i mille imputati d’occasione: il sindaco che non ha emesso l’ordinanza, il presidente del Parco del Pollino che non ha ancora fatto entrare in vigore il regolamento “Gole sicure”, la Protezione civile che non ha allertato abbastanza, e poi, naturalmente, il business delle escursioni, l’avidità delle guide, in generale la cattiva organizzazione della macchina delle visite al Parco e alle sue meraviglie. Il dubbio che mi serpeggia nella mente è se non sia invece sbagliato proprio l’approccio al problema della “sicurezza turistica”, se così possiamo chiamarla, ossia l’idea che il turista sia un bambino che lo Stato e le istituzioni hanno il dovere assoluto di proteggere in ogni modo, in ogni circostanza e da ogni pericolo.

Forse, quando avviene una disgrazia, la compassione per le vittime non ci dovrebbe impedire di porre la domanda fondamentale: esistono elementari regole di prudenza che, se rispettate, sarebbero state sufficienti ad evitare la disgrazia?

Nel caso del Pollino, ad esempio, le cronache non riferiscono solo che il tempo prometteva pioggia, che la Protezione civile aveva diramato un’allerta gialla (che segnala, fra l’altro, la possibilità di “repentini innalzamenti dei livelli idrometrici” dei torrenti), ma raccontano i ricordi degli anziani, secondo cui, un tempo, ai bambini si permetteva di entrare nell’area del Raganello solo “dopo tre giorni di bel tempo”, per evitare che un temporale improvviso allagasse le forre travolgendo tutto e tutti. Ma, anche restando all’oggi, le regole di prudenza non mancano, come ha ricordato uno dei primi soccorritori, da anni nella squadra calabrese del soccorso alpino: “Per prassi, quando piove nel torrente non si entra. Ieri il cielo era nero e io non sarei mai entrato in quelle condizioni”. Mentre lui, il soccorritore, in quel canyon pericoloso racconta di aver incontrato “esploratori improvvisati in costume da bagno”.

Di qui il mio dubbio: siamo sicuri che molte disgrazie non avvengano semplicemente perché abbiamo delegato ad altri, anziché a noi stessi, la tutela della nostra incolumità fisica? Non sarà che è il nostro rapporto con la Natura, e la sua immane forza, che è intrinsecamente sbagliato, perché irrealistico?

Sono anni che Reinhold Messner, il nostro più grande scalatore, ce lo ricorda. Una parte del pericolo, in montagna ma anche altrove, ovunque la Natura sia in agguato, è proprio l’iper-protezione e l’illusione di sicurezza che alimenta. Parlando del turismo di massa in montagna, ad esempio, Messner afferma: “per sciatori e snowboarders è importante che la neve ci sia; poi da qualche parte si scende senza preoccuparsi di valanghe o crepacci, mentre gli scalatori si fidano dei chiodi piantati da qualcun altro, gli alpinisti delle previsioni meteo, chi si arrampica su ghiaccio di quattro attrezzi, e  tutti, nell’eventualità, fanno affidamento sul cellulare nello zaino, con il quale è possibile chiamare l’elicottero per farsi soccorrere”.

Ma non è solo Messner ad instillare il dubbio che il rimedio non sia moltiplicare i cartelli, le allerte, le protezioni, i divieti, ma semmai rovesciare l’atteggiamento verso il rischio di turisti, esploratori, escursionisti. Perché dobbiamo renderci conto che l’approccio italiano ai problemi della sicurezza turistica non è l’unico possibile. In Norvegia, ad esempio, le autorità adottano una filosofia opposta alla nostra. Proprio perché la Natura è potente, e pericolosa, si preferisce sviluppare nel pubblico il timore per la Natura stessa, anziché perseguire l’obiettivo impossibile di transennarla tutta quanta con recinzioni, parapetti, ringhiere, staccionate.

Il caso della rocca di Preikestolen illustra bene il principio. Si tratta di una falesia di granito alta 604 metri, che si erge a strapiombo sul Lysefjord, uno spettacolare fiordo nel sud del paese (vedi foto accanto).

Ebbene, in cima alla piattaforma di pietra da cui centinaia di turisti possono ammirare il fiordo, e provare vertigini senza pari, non esiste alcuna protezione: né ringhiere, né parapetti, né transenne. Chiunque può avvicinarsi al bordo, sporgersi, fare foto, senza incontrare alcun ostacolo o barriera. Perché? Perché le autorità norvegesi pensano che mettere barriere sarebbe ancora più pericoloso, in quanto disincentiverebbe le persone a proteggere sé stesse con comportamenti appropriati, basati sulla circospezione e la prudenza. A nessuno, in quel paese, verrebbe in mente di accusare le autorità o il governo perché un turista è precipitato nel fiordo e forse una ringhiera ne avrebbe evitato la morte. La protezione contro la Natura selvaggia è innanzitutto in capo a chi si avventura in essa, non a istituzioni, enti, autorità investite della missione impossibile di tutelare i turisti a dispetto della loro imprudenza.

Non so, naturalmente, come siano andate esattamente le cose nella tragedia del Pollino, o nelle numerose altre del medesimo tipo che si verificano ogni anno in Italia. Ma il dubbio mi rimane: se la smettessimo di pretendere che ad assicurare la nostra sicurezza siano gli altri, chiunque essi siano, e ricominciassimo a pensare che proteggerci dai rischi è innanzitutto compito nostro, forse, alla fine, la conta dei morti sarebbe meno drammatica.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il  26 agosto 2018




Vecchi e nuovi governanti, intervista a Luca Ricolfi

  • Professore, oggi lei quanto scommetterebbe sulla tenuta del governo Lega-Movimento 5 stelle?

Non farei alcuna scommessa. È come se lei lanciasse in aria una moneta e mi chiedesse se prevedo che venga testa o venga croce…

  • Le differenze programmatiche tra i due partiti di governo si stanno già evidenziando con forza sul tema pensioni: ma non crede esploderanno in settembre, con il Documento di economia e finanza?

Temo che a settembre ad esplodere non siano le differenze fra Lega e Cinque Stelle, ma fra il governo italiano e la Commissione europea. E, ancora di più, fra le credenze economiche del governo giallo-verde e le percezioni dei mercati finanziari.

  • Certo, i guai più grossi, al momento, li vive il centrodestra. Lei crede possa sopravvivere l’alleanza Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia?

No, penso che l’eventualità più probabile sia un’annessione di Fratelli d’Italia al campo della destra anti-europea, con conseguente isolamento di Forza Italia.

  • La nomina del presidente della Rai si è trasformata in un contrasto tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Alla ripresa, in settembre, potrebbe essere quello il casus belli finale?

Sarebbe bellissimo se i contrasti riguardassero cosucce come la Rai, o gli interessi economici di Berlusconi. Ma la realtà è che ci sono cose ben più importanti a dividere Lega e Forza Italia, prima fra tutte la politica verso Bruxelles.

  • Alcuni esponenti azzurri iniziano a parlare, testualmente, di «tradimento» da parte della Lega. Prevede un’intensificazione delle ostilità? Dove potrebbero scatenarsi?

Forza Italia è nell’angolo. Non ha il coraggio di allearsi con il Pd, perché sarebbe un suicidio. Non ha la forza di vincolare Salvini al programma del centro-destra, perché Salvini guida il primo partito italiano ed è affetto da una sensazione, non del tutto ingiustificata, di onnipotenza personale. Credo che Forza Italia non farà nulla, perché non ha alcuna freccia al suo arco.

  • Lei ha detto che «la linea di Salvini è vincente nei consensi» e che gli italiani non sono diventati razzisti, ma «vorrebbero più buonsenso sull’immigrazione». È stata l’immigrazione il cavallo vincente della Lega su Forza Italia?

In parte sì, ma in parte no. Il vero cavallo vincente di Salvini è stato l’approccio concreto ai problemi, l’uso di messaggi semplici e comprensibili, oltreché ripetuti senza limiti. Quando parla Salvini, la gente ha la sensazione (spesso fallace, ma tant’è) che “lui” i problemi sappia risolverli e abbia ogni intenzione di prenderli per le corna.  Berlusconi e i suoi, in particolare Tajani, usano un linguaggio esangue ed esausto, assai simile al politichese della sinistra.

  •  Una rottura tra Lega e Forza Italia potrebbe far cadere qualche giunta regionale dove oggi sono alleate?

Non credo che Forza Italia abbia voglia di perdere le ultime roccaforti di potere che le restano.

  •  La Lega, intanto, ha annunciato che in autunno correrà da sola alle elezioni in Abruzzo: crede prevarrà anche lì su Forza Italia, come negli ultimi voti locali?

Sì, penso che a destra come a sinistra la gente si è stufata di votare partiti troppo piccoli, e quindi impotenti.

  •  Quante speranze ha Berlusconi di recuperare consensi alle europee del maggio 2019, nel caso fosse candidato?

Pochissime, a mio parere. Una delle ragioni della estinzione di Forza Italia è proprio la cecità di Berlusconi, che non è stato capace di cogliere il passaggio dalla stagione in cui era un valore aggiunto a quella in cui è un valore sottratto.

  • Quella di Antonio Tajani come successore è stata una buona scelta?

Pessima direi. Tajani, anche fisicamente, è il perfetto emblema della burocrazia europea.

  •  Ma esiste a suo avviso un qualche percorso che possa fare recuperare terreno a Forza Italia? Oppure la sua crisi è irreparabile?

È  da qualche anno che sostengo che, per salvarsi, Forza Italia dovrebbe, come minimo – ossia come condizione preliminare – cambiare nome e gruppo dirigente. E poi ci vorrebbe qualche idea nuova e comprensibile: non è solo la sinistra che è a corto di idee, e senza idee non si può resuscitare un partito.

  • Anche il Pd è in crisi: dovrebbe sciogliersi per dare vita a un nuovo partito di centrosinistra?

I casi di autoscioglimento di un partito sono molto rari, finché il partito riesce a raccogliere voti e a gestire il potere che – non dobbiamo mai dimenticarlo – non è solo nazionale ma anche locale e territoriale. Tuttavia una “Rifondazione democratica” non si può escludere, come estremo tentativo di salvare la pelle.

  • In quel caso, chi potrebbe esserne il leader?

Apparentemente il federatore naturale di tutto ciò che sa ancora di sinistra è Nicola Zingaretti. Ma un Pd ricostruito a partire da una figura come la sua sarebbe una sorta di “Ulivo senza Prodi” o, se preferite, una ri-bersanizzazione del medesimo partito che Renzi aveva prima rigenerato e poi distrutto. Un po’ troppo per un organismo già provato da anni di cure sbagliate.

  • Vede altre soluzioni?

Non ne vedo molte, più che altro per ragioni culturali. Se si compara il livello dei dirigenti del passato con quello dei quarantenni e cinquantenni attuali non si può che essere colti da sconforto. Per costruire un partito non populista ci vogliono idee, visione, conoscenze approfondite, oltreché un certo carisma. Io non vedo alcun leader dotato di carisma e, quanto alle idee, ne trovo tracce in pochissimi dirigenti del Pd attuale.

  • In chi, ad esempio?

A sinistra in Gianni Cuperlo, forse l’unico vero intellettuale del Pd. A destra (della sinistra) in Minniti e Calenda, due persone che – a differenza della maggior parte dei loro compagni di partito – sanno sempre di che cosa stanno parlando.

  • Alla fine si realizzerà il nuovo «bipartitismo imperfetto» italiano, con la Lega che ingloberà il resto del centrodestra e il M5s che assorbirà quanto resta del Pd e della sinistra?

È  possibile, ma non è l’unico scenario verosimile. Io ne immagino almeno altri due.

  • Quali?

Il primo scenario è quello della discesa in campo di un imprenditore della politica (Urbano Cairo?) che, come Berlusconi nel 1994 e Macron nel 2016, fondasse un nuovo partito, che andrebbe a occupare il centro del sistema politico. Questa eventualità attiverebbe una dinamica fra forze della chiusura, tendenzialmente populiste, nazionaliste, stataliste, e forze dell’apertura, tendenzialmente moderate, europeiste, liberali. In un simile scenario lo scontro politico vedrebbe da una parte Lega e Cinque Stelle, dall’altra il neopartito di centro supportato da quel che resterà di Pd e Forza Italia.

  • E il secondo scenario?

Il secondo scenario, che considero improbabile ma non impossibile, è che l’imprudenza di questo governo in materia di conti pubblici precipiti l’Italia in una crisi tipo quella del 2011, con conseguenze economico-sociali devastanti (una nuova recessione se va bene, uscita dall’euro e iper-inflazione se va male). In questo caso non si può escludere che Lega e Cinque Stelle subiscano un grave ridimensionamento elettorale, e il sistema torni a un’alternanza più o meno tradizionale fra destra e sinistra. Con un’importante differenza rispetto al passato: nella nuova situazione destra e sinistra non si confronterebbero sulle ricette per creare più prosperità, ma su quelle per ritrovarne un po’, sulle macerie di un paese andato in default.

Intervista a cura di Maurizio Tortorella pubblicata su La Verità lunedì 20 agosto 2018

 




Ponte Morandi, le domande che non ci facciamo

Mentre non è ancora finito il tragico conto delle vittime del disastro di Genova, mentre diverse famiglie ancora si chiedono angosciate se i propri cari siano fra i dispersi, seppelliti sotto tonnellate di cemento, i responsabili diretti e indiretti, prossimi e remoti, di questa ennesima catastrofe italiana stanno dando uno dei peggiori spettacoli cui io abbia mai assistito.

Dicendo questo non mi riferisco tanto all’incredibile ritardo con cui la società Atlantia-Autostrade per l’Italia e la famiglia Benetton (che ne ha il controllo indiretto) hanno trovato modo di esprimere cordoglio e vicinanza alle famiglie delle vittime, quanto alla girandola di dichiarazioni strumentali, talora palesemente false o spudoratamente fuorvianti, con cui politici di governo e di opposizione (ma sarebbe più esatto dire: governanti di oggi e di ieri) hanno provato a trarre profitto elettorale, o a limitare possibili perdite di consenso, dal disastro del ponte Morandi.

Eppure, di fronte a quel che è successo, dovrebbe essere abbastanza chiaro che sono molti, e non uno solo, i soggetti che potrebbero farsi qualche domanda.  Certo, se come è molto probabile l’inchiesta dimostrerà che non è stato né un sabotaggio né un evento incontrollabile a provocare il disfacimento del ponte, sul banco degli accusati non potrà non salire la società privata Autostrade per l’Italia, che dal 2007 ha in concessione la gestione di buona parte delle autostrade italiane. La concessione prevede senza ambiguità che la responsabilità della manutenzione e della sicurezza è in capo alla concessionaria, né vi possono essere dubbi sul fatto che il ponte Morandi richiedesse ulteriori interventi (che infatti erano già stati pianificati, salvo poi rimandarli a dopo l’estate).

Fin qui tutto relativamente chiaro. Ma non è tutto. L’attuale ministro alle infrastrutture Danilo Toninelli ha dichiarato che il Ministero da lui presieduto potrebbe costituirsi parte civile nel giudizio contro Autostrade per l’Italia, il che – in concreto – significa pretendere un risarcimento in quanto parte danneggiata. Peccato che la situazione sia leggermente diversa: è vero che la società Autostrade per l’Italia ha la piena responsabilità della sicurezza, ma dal 1° ottobre 2012 è al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) che spetta la vigilanza sulle concessionarie, che prima era in capo all’ANAS. E infatti presso il ministero presieduto da Toninelli esiste una specifica “Direzione generale per la Vigilanza sulle Concessioni autostradali” (DGVCA), fra i cui compiti vi è precisamente la “verifica del rispetto dei parametri tecnici di qualità e sicurezza” da parte delle società private che gestiscono le autostrade.

Non saprei dire (non sono un giurista) se qualche vittima potrebbe costituirsi parte civile contro il Ministero delle infrastrutture, o accusare il Ministro di “omesso controllo”, ma non mi sembra possano esservi dubbi sul fatto che, su un piano politico e morale, oltre alla responsabilità della società concessionaria, vi sia anche una responsabilità da parte del concedente e cioè del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Certo, al neo-arrivato ministro Toninelli non si può imputare di non aver vigilato, ma semmai di non avere ancora capito di quante cose è tenuto ad occuparsi il suo ministero, e forse ancor più di non possedere l’umiltà di chi sta imparando un mestiere difficile. Qualche domanda potrebbero invece farsela i ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti (Del Rio, Lupi, Passera) che sono venuti prima di Toninelli, sotto i governi Gentiloni, Renzi, Letta, Monti, e cioè nel periodo in cui la vigilanza sulle concessionarie autostradali era passata dall’ANAS al MIT. Il ministro Del Rio ha dichiarato che, sulla tragedia del Ponte Morandi, “non ci dorme la notte”, e di “non aver mai ricevuto segnalazioni di alcun tipo”, senza farsi la domanda cruciale: ma il mio ministero ha vigilato abbastanza? Una domanda che, forse, i numerosi crolli, sprofondamenti, cedimenti di ponti e viadotti avvenuti degli ultimi anni avrebbero potuto suggerirgli.

Con questo non voglio certo dire che, sul banco degli accusati, dovremmo chiamare, oltre ad Atlantia (che ha la piena responsabilità della sicurezza, ed è giusto che paghi se ha sbagliato), tutti i ministri e presidenti del consiglio che hanno indirizzato la politica delle infrastrutture negli ultimi decenni. Quel che mi colpisce è quanto poco i politici (ma anche noi stessi, come cittadini) siano disposti a interrogarsi sulle proprie responsabilità, certo non penali, non dirette, non immediate, ma pur non del tutto insussistenti.

Penso a tante omissioni, a tanti sviamenti, a tante domande che potremmo farci e non ci facciamo. I Cinque Stelle, ad esempio, sono penosamente impegnati a nascondere il fatto di essere stati vicini (per usare un eufemismo) al movimento No-Gronda, fieramente avverso a chi il problema del ponte Morandi lo aveva posto, e aveva suggerito un alleggerimento mediante una nuova arteria di scorrimento. Salvini non si vergogna ad imputare all’eccesso di regole, vincoli e parametri imposti dall’Europa lo stato deplorevole delle infrastrutture in Italia, come se non fossero state italianissime (e politiche) le scelte che in questi anni hanno prima portato ad aggredire il debito pubblico vendendo i “gioielli di famiglia” (fra cui le reti stradali e di telecomunicazione) anziché eliminando gli sprechi, e poi – nei lunghi anni della crisi – a ridurre ai minimi termini gli acquisti e gli investimenti della Pubblica Amministrazione, pur di salvare le spese correnti portatrici di consenso, a partire dagli stipendi dei dipendenti pubblici e dalle pensioni più o meno anticipate.

Se fossi un politico che ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni, certe domande me le farei. Mi chiederei se sia normale che, da decenni, i costi delle opere pubbliche in Italia siano molto più alti di quelli europei. Mi chiederei se sia normale che ci siano centinaia di ospedali, strade, pontili, raccordi iniziati e mai terminati. Mi chiederei se è stato giusto elargire miliardi e miliardi di false pensioni di invalidità, anziché mettere in sicurezza gli edifici scolastici. Mi chiederei se, per entrare in Europa, anziché vendere ai privati il patrimonio pubblico, non sarebbe stato meglio provare a spendere e sprecare di meno.

Mi chiederei, infine, se anche noi, come cittadini, come società civile, come corpi intermedi, non abbiamo le nostre responsabilità, se non altro per aver permesso a chi ci ha governati di portarci al disastro di cui poco per volta stiamo prendendo atto. Soprattutto, riguardo allo stato delle nostre infrastrutture, non chiamerei in causa l’Europa. Che ha tanti e gravi difetti, limiti e colpe, ma non quella di aver impedito all’Italia e ai suoi governi di fare quel che doveva e poteva essere fatto.

Articolo pubblicato su il Messaggero il 18 agosto 2018




Il governo della continuità

Non passa giorno senza che gli esponenti dell’esecutivo gialloverde sottolineino la sua radicale discontinuità con il passato. Talora cadono nel ridicolo (“stiamo scrivendo la storia”), talora più sobriamente dichiarano che quel che fanno è completamente diverso dal passato, e che il loro è il “governo del cambiamento”. Ma è così?
Per certi versi sì, suppongo. Intanto perché in Italia il clima è cambiato. Con la consueta cecità, intellettuali, scrittori e artisti credono che il nuovo governo susciti razzismo e xenofobia, mentre quel che succede è molto più banale: la gente pensa più o meno quel pensava già prima, con la cruciale differenza che ora si sente autorizzata a dire quel che pensa. E’ esattamente quel che accadde 25 anni fa con la vittoria di Berlusconi, alle Politiche del 1994. Ricordo come fosse ieri un Consiglio di Facoltà in cui il preside, noto storico antifascista, ci gridava “in Italia sta tornando il fascismo”, mentre quel che era successo, anche allora, era ben più banale: le persone di destra, che erano sempre esistite in Italia, ora ritenevano di poterlo dichiarare, senza tema di scomuniche.
Se poi guardiamo al futuro, nessuno può escludere a priori che il governo Salvini-Di Maio venga ricordato come il governo del cambiamento, o in chiave positiva (se la flat tax dovesse far ripartire l’economia), o in chiave negativa (se il dissesto dei conti pubblici dovesse far precipitare l’Italia in una situazione greca, turca, o argentina).
Ma se restiamo all’oggi? Se ci limitiamo ai provvedimenti concreti, a ciò che il governo ha già fatto o si appresta a fare con la prossima legge di bilancio?
Beh, se stiamo alla bassa cucina della politica e dell’economia io vedo più continuità che rottura con i due ultimi governi.
Come il governo Renzi, anche il governo gialloverde ha iniziato annunciando provvedimenti simbolici contro la cosiddetta casta. Allora si vendevano come “lotta agli sprechi” misure di scarsissimo impatto macroeconomico quali la rottamazione delle auto blu e la riduzione del numero di parlamentari, ora si fa lo stesso identico gioco con il taglio dei vitalizi dei parlamentari e la smobilitazione del cosiddetto “Air Force Renzi”, l’aereo presidenziale voluto dal “ragazzo di Rignano”.
Come tutti i governi precedenti, anche questo preferisce lottizzare la Rai piuttosto che mettere sul mercato una o due reti. Per non parlare delle nomine nei posti chiave dello Stato, dove le appartenenze e le fedeltà politiche continuano a giocare un ruolo chiave.
Quanto ai migranti, la riduzione degli sbarchi è in gran parte merito (o demerito, per alcuni) del ministro Minniti e degli organismi internazionali (Unione Europea e Onu), cui si devono gli accordi con la Libia e l’apertura dei primi corridoi umanitari per entrare in Europa legalmente, senza la pericolosa traversata del Mediterraneo.
Ma è sulla politica economica che, almeno a prestar fede alle importanti dichiarazioni del ministro Tria, la continuità è quasi perfetta.
Gli 80 euro di Renzi vengono confermati. Il decreto dignità sposta pochissimo, e quel poco che sposta in parte è in contrasto con la filosofia del Jobs Act (più rigidità sui rinnovi dei contratti), in parte è in sintonia (reintroduzione dei voucher), come si capisce dalle critiche – di segno opposto – che arrivano dalla Cgil e dalla Confindustria. Del resto è stato lo stesso Tommaso Nannicini (economista Pd) a dichiarare che il decreto dignità lascia il Jobs Act “sostanzialmente intatto”. Forse è troppo ottimista (una modesta frenata occupazionale non è da escludere), ma in ogni caso non siamo di fronte a una restaurazione, a un ritorno a prima del Jobs Act.
Come negli anni passati, il cardine della manovra è il disinnesco di qualche clausola di salvaguardia ereditata da governi precedenti (in questo caso l’aumento dell’Iva). E poi ci sono tante piccole cose, più o meno le solite. Un po’ di alleggerimento delle tasse sulle imprese (ieri l’Irap, oggi il regime fiscale delle partite Iva); un rafforzamento del reddito di inclusione (misura caldeggiata dal Pd), prontamente ridenominato “reddito di cittadinanza”; qualche limatura delle spese, sotto al pomposa etichetta della lotta agli sprechi.
Persino sulle grandi opere, Tav e Tap, e sulle grandi crisi aziendali, Ilva e Alitalia, potrebbe esserci continuità più che rottura. E’ possibile che, alla fine, per la maggior parte di esse si assista solo a un ennesimo rallentamento dei processi decisionali, più che a uno stop definitivo, di nuovo in sostanziale continuità con la lentezza dei governi precedenti.
E infine il debito. I governi di Renzi e Gentiloni, nonostante la ripresa, si sono ben guardati dal ridurre il rapporto debito-pil o l’indebitamento netto strutturale, preferendo chiedere ogni anno nuovi margini di flessibilità per poter continuare a spendere in deficit. Esattamente quel che intendono continuare a fare i nuovi governanti, decisi ad andare in Europa a negoziare qualche concessione in materia di spesa pubblica e di investimenti.
Se il ministro Tria dice il vero, alla fine ci troveremo con il solito aumento del debito pubblico, un rapporto debito-pil sostanzialmente invariato, un deficit ampiamente al di sotto del 3%, ma altrettanto ampiamente al di sopra degli obiettivi fissati dall’Europa, che come si sa non pretende solo il rispetto del 3%, ma la progressiva discesa verso il pareggio di bilancio. Insomma la solita manovra da 25-30 miliardi, con spostamenti di pochi decimali nell’allocazione delle risorse e dei costi.
Tutto bene, dunque?
Niente affatto. Se il fatto che il governo, grazie al ruolo assunto da Tria, si muova con prudenza e gradualismo non può che rassicurarci, non possiamo d’altra parte ignorare i segnali che arrivano dai mercati finanziari. Che sono tutti negativi: capitali in fuga dall’Italia, borsa fragile, spread dei titoli di Stato in aumento. E si noti che l’aumento dei rendimenti non è solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Spagna, al Portogallo, e persino alla Grecia. Non era mai successo, nemmeno nel 2011, che i titoli di Stato italiani fossero i più cari dell’Eurozona dopo quelli della Grecia. Oggi il rendimento dei titoli italiani sfiora il 3%, quello dei titoli greci oscilla intorno al 4%, mentre Portogallo e Spagna (gli altri due Pigs mediterranei) sono entrambi nettamente sotto il 2%.
Ecco perché la prudenza del ministro Tria potrebbe non bastare. L’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato che il destino di un paese dipende molto di più dalla sua capacità di rassicurare i mercati che dalla sua capacità di ingraziarsi le autorità europee. E’ già successo nel 2011, quando la manovra Tremonti ricevette le lodi dell’Europa e due settimane dopo venne fatta a pezzi dai mercati. Potrebbe risuccedere nei prossimi mesi, se agli investitori l’Italia cominciasse a sembrare un mercato ancora meno appetibile di quanto appare oggi.
Oggi questo è il vero pericolo, per il nostro paese. Un pericolo rispetto al quale le forze politiche avrebbero il dovere di vigilare, senza guardare al proprio piccolo tornaconto elettorale. Vale per chi ci governa, ma vale anche per l’opposizione. Perché anche su questo, sul rischio di un’impennata dello spread, la continuità è impressionante. Contrariamente a quel che molti credono, il deterioramento dei differenziali fra l’Italia e gli altri paesi dell’euro, in particolare Spagna, Portogallo e Grecia, non è iniziato il 4 marzo, ma oltre un anno prima, più o meno in concomitanza con la sconfitta referendaria e il passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni.
Ancora un segno di continuità, o forse il vero tratto distintivo, il marchio di fabbrica, del ceto politico degli ultimi cinquant’anni: diviso su tutto ma, con pochissime eccezioni, assolutamente unito nella scelta di non contrastare la crescita del debito pubblico.

Articolo pubblicato su Il Messaggero l’11 agosto 2018