Di quanto è diminuita la nostra ricchezza dopo il voto di marzo? Aggiornamento all’ultima settimana

Di quanto è diminuita la nostra ricchezza dopo il voto di marzo?

NOTA DI AGGIORNAMENTO: settimana 22 febbraio – 1° marzo 2019

 

  1. Le perdite dell’Italia

Torna positivo il bilancio degli operatori finanziari italiani. La settimana che va dal 22 febbraio al 1° marzo 2018 si chiude positivamente per tutti e tre i principali mercati italiani. Il valore dei Titoli di Stato è salito di 8.1 miliardi di euro, quello delle obbligazioni di 3.9 miliardi, mentre il mercato azionario ha recuperato 9 miliardi.

Nel complesso degli operatori finanziari italiani hanno recuperano circa 21 miliardi rispetto alla settimana precedente.

Tabella 1. Perdite e guadagni virtuali complessivi sui tre mercati principali (miliardi di euro)

Ricordiamo che dal calcolo sono escluse sia le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri, sia i maggiori oneri per il servizio del debito pubblico. Va poi ricordato che il dato della Borsa si riferisce alle sole società quotate.

Dalle elezioni ad oggi (1 marzo 2019) le perdite virtuali di Borsa, obbligazioni e titoli di Stato (esclusi quelli detenuti da Banca d’Italia e investitori esteri) sono pari a 67.6 miliardi di euro.

Banca d’Italia e investitori esteri detentori di titoli di Stato italiani hanno perso invece (sempre dalle elezioni ad oggi) 43.6 miliardi euro.

Grafico 1. Perdite e guadagni virtuali sui tre mercati principali nella settimana dal 22 febbraio al 1 marzo 2019

 

Grafico 2. Perdite e guadagni virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio 2018 al 1 marzo 2019
Grafico 3. Perdite virtuali sui tre mercati principali dal 28 febbraio 2018 al 1° marzo 2019*
* Eventuali piccoli scostamenti tra i valori cumulati del Grafico 3 e quelli presenti in Tabella 1 sono imputabili ad arrotondamenti e al metodo utilizzato per la stima del valore delle obbligazioni.

 

  1. Le perdite di famiglie e imprese

Secondo le nostre stime, famiglie e imprese hanno recuperato nell’ultima settimana 16.7 miliardi di euro. Dalle elezioni ad oggi (1° marzo 2019) le perdite virtuali ammontano quindi a 50.1 miliardi euro.

Tabella 2. Perdite e guadagni virtuali delle famiglie e delle imprese (miliardi di euro)

Ricordiamo che il calcolo è effettuato considerando esclusivamente quella parte della ricchezza finanziaria di famiglie e imprese che è più sensibile alle fluttuazioni di mercato, in particolare titoli del debito pubblico, obbligazioni, quote di fondi comuni, azioni e altre partecipazioni (incluse le società non quotate). Sono invece esclusi i depositi (bancari e postali), i titoli emessi da soggetti esteri, e varie altre forme di ricchezza più resistenti alle fluttuazioni di mercato[1].

[1] Come nell’ultima pubblicazione (15 – 22 febbraio 2019), i tassi di deprezzamento della ricchezza finanziaria in mano a famiglie e imprese sono stati stimati ponendoli uguali al tasso di deprezzamento medio sui tre principali mercati italiani (escluse le banche).
[testo a cura di Luca Ricolfi, Rossana Cima, Caterina Guidoni]



L’anno che cambiò la politica

E’ passato esattamente un anno dalle ultime elezioni politiche. Anche se, sull’esito, ognuno la pensa a modo suo, credo che almeno su una cosa la pensiamo tutti allo stesso modo: nessuno, prima del voto di marzo, avrebbe immaginato un tale sconquasso nelle modalità della lotta politica.
Certo, si può obiettare che anche la realtà economico-sociale, in pochissimi mesi, è profondamente cambiata. Mai era successo, ad esempio, che il contrasto all’immigrazione irregolare fosse così rude. Mai era successo che la polemica con le autorità europee fosse così aspra. Mai era successo che politica economica fosse tanto assistenziale. E mai (tranne forse nel momento più acuto della crisi 2011-2012), era successo che le perdite patrimoniali, sia pure di tipo virtuale, del sistema-Italia fossero così ingenti e concentrate nel tempo (200 miliardi di euro fra marzo e ottobre).
E tuttavia, nonostante tutto questo, a me pare che il cambiamento fondamentale, forse irreversibile, sia avvenuto nel modo di fare politica e di comunicare con gli elettori. Lo spettacolo che la politica ha offerto dopo il 4 marzo 2018 è una prima assoluta, anche se innumerevoli assaggi forse avrebbero potuto farne presagire i contorni.
In questo spettacolo vi sono vari pilastri. Il primo è la credenza che si possa governare senza immergersi negli innumerevoli dossier che qualsiasi premier, vice-premier o ministro si trova a dover gestire. E che, tutto al contrario, sia normale allocare la stragrande parte del proprio tempo a coltivare il proprio elettorato e accrescere il consenso. Minniti una volta ebbe a dire che, anche avesse voluto, non avrebbe potuto lasciare il suo ufficio al Ministero dell’Interno tale era la mole di cose da fare. Salvini gli ha dimostrato che invece è possibilissimo, con quali conseguenze lo vedremo nel tempo.
Il secondo pilastro della nuova politica è la credenza che, per dirigere un ministero, né la competenza specifica né una robusta esperienza politica siano doti imprescindibili. E’ vero che di ministri incompetenti ve ne sono sempre stati, ma non era mai successo che fossero così numerosi, e non provassero la minima vergogna.
Il terzo pilastro è la credenza che il rapporto del politico con il proprio elettorato debba essere quotidiano, e persino più che quotidiano. E’ da qui che deriva l’assoluta centralità di internet: non potendo accedere tutti quanti per due-tre volte al giorno alla televisione e alla radio, i politici ricorrono a internet per “esserci” sempre, da mane a sera (e talora anche di notte). E lo fanno nei modi divenuti tipici della rete, con dosi crescenti di volgarità, cattivo gusto, disprezzo per chi la pensa diversamente.
Il quarto pilastro è la credenza che nessun rispetto sia dovuto alle altre istituzioni, autorità, corpi intermedi, né tantomeno ai legittimi rappresentanti di altri Stati o di organismi sovranazionali. Il governante di oggi pensa di potersi rivolgere alla Banca d’Italia o al Presidente di uno Stato estero come ci si può rivolgere alla suocera, al vicino di casa o al tifoso di un’altra squadra.
Ma il pilastro più importante, probabilmente, è ancora un altro, e sta nel concetto di “contratto” di governo. Qui l’innovazione è davvero radicale, perché capovolge quello che è stato il cardine della seconda Repubblica, ovvero il principio per cui è un diritto fondamentale dei cittadini conoscere prima del voto non solo i programmi dei partiti ma anche le loro alleanze. Questa, per venticinque anni, è stata l’ideologia centrale della seconda Repubblica, nonché la base delle sue pretese di superiorità rispetto alla prima. Contro le perpetue manovre parlamentari della prima Repubblica, la seconda ha sempre proclamato che le carte vanno scoperte prima, e che è immorale chiedere il voto agli elettori in nome di uno schieramento, per poi cambiare le carte in tavola una volta entrati in Parlamento.
Ora, con il contratto di governo, non solo si abbandona il principio che le alleanze si fanno prima del voto, ma si osa quel che nemmeno nella prima Repubblica si era mai osato: fare un governo con l’avversario politico, in nome di un “contratto” che non impegna i contraenti in un’alleanza politica, ma si limita a regolane gli scambi reciproci di favori nell’orizzonte di una singola legislatura. Nella prima Repubblica potevi non sapere se la Dc si sarebbe alleata con i socialisti o con i liberali, ma potevi star certo che non avresti visto un governo nazionale dei comunisti con i fascisti (quello che i politologi chiamano “milazzismo”, perché un simile esperimento fu attuato da Silvio Milazzo, nella sola Sicilia, alla fine degli anni ’50). Oggi no, la terza Repubblica va più indietro non solo della seconda, ma anche della prima, perché consente il tradimento completo delle identità e dei programmi elettorali delle forze politiche che firmano il “contratto”.
Si potrebbe supporre che queste mutazioni riguardino solo o principalmente la Lega e i Cinque Stelle. Ma a ben guardare le cose non stanno così. I nuovi modi della politica, il suo stile aggressivo e talora un po’ trash, contagia e travolge un po’ tutti. Per un Salvini che si fa fotografare sopra una ruspa o con un panino alla Nutella, non ci vien fatto mancare un Calenda in costume da bagno che affronta il gelo di un laghetto alpino, e ha persino il fegato di corredare la foto con l’hashtag: #orgoglio progressista. L’ossessione di presidiare internet contagia un po’ tutti i politici, sottraendo tempo ed energie ad attività ben più proficue. Persino lo scontro magistratura-politica, endemico da almeno tre decenni, fa un salto di qualità: oggi al ministro dell’Interno vengono contestati comportamenti che a nessun ministro del passato sarebbero stati contestati; oggi ai Cinque Stelle sembra normale che siano i propri iscritti a decidere se la magistratura ha o non ha il diritto di procedere nei confronti di un politico.

Articolo pubblicato il  2 marzo su Il Messaggero




Una crisi che viene da lontano

Sul fatto che l’Italia sia in recessione, ormai nessuno prova più a sollevare dubbi. E che non si tratti solo di un fatto statistico, di una recessione “tecnica” (calo del Pil per due trimestri consecutivi) è purtroppo provato dai dati negativi sull’export e da quelli disastrosi sul prodotto industriale e sugli ordini. Di questo passo, la domanda non è più se quest’anno il Pil crescerà dell’1.5% (come fino a pochi mesi fa si illudeva il governo), dell’1% (come il governo prevede ora), o dello 0.5% come per lo più pronosticano i centri di ricerca indipendenti, bensì se davanti alla variazione del Pil nel 2019 ci sarà ancora il segno ‘più’o tornerà a comparire il segno ‘meno’, come cinque anni fa.
Se la maggior parte dei cittadini non avverte ancora il problema è perché, proprio come nel 2007-2009, l’occupazione è uno degli ultimi anelli della catena di trasmissione della crisi. Prima che l’occupazione ne risenta in modo apprezzabile devono entrare in crisi la produzione, gli scambi, la borsa, il mercato dei titoli di Stato, e soprattutto il credito alle imprese, la cui stretta è la vera anticamera di fallimenti e licenziamenti.
Il fatto che ancora non ce ne accorgiamo, e che le Agenzie di rating siano ancora relativamente benevole con noi (vedi il mancato declassamento da parte di Fitch), non dovrebbe, tuttavia, renderci ciechi di fronte a quello che si sta preparando e alle sue origini. Perché se l’anno che è appena iniziato non sarà affatto “bellissimo” (come avventatamente pronosticato dal premier Conte), non è solo perché Trump ha dichiarato guerra (commerciale) alla Cina e al resto del mondo, o perché l’Europa sta rallentando la sua crescita. No, se ci aspettano tempi difficili è anche, anzi soprattutto, per causa nostra.
Ma “nostra” di chi?
La risposta facile a questa domanda è che la colpa è del governo giallo-verde, colpevole di aver inutilmente litigato con l’Europa (facendo lievitare lo spread e crollare i mercati borsistici e azionari), nonché varato due provvedimenti assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza), anziché concentrare tutte le risorse disponibili su misure capaci di stimolare l’economia, come investimenti pubblici e sgravi fiscali ai produttori. Ma è una risposta troppo facile, per tanti motivi.
Intanto perché si sopravvaluta il potere dell’esecutivo, che potrà senz’altro infliggere ingenti danni all’economia italiana, ma non ha avuto ancora il tempo necessario per nuocere davvero, visto che i due provvedimenti cardine – quota 100 e reddito di cittadinanza – non sono ancora operanti, mentre la recessione è iniziata ben 9 mesi fa. Ma c’è anche un altro punto che si tende a trascurare. Pochi hanno dubbi sul fatto che all’inizio di una recessione un governo dovrebbe essere in condizione di varare provvedimenti anticiclici, capaci di fornire un po’ di ossigeno a famiglie e imprese. Non occorre essere keynesiani per riconoscere che, in tempi di vacche magre, è bene usare il fieno accumulato in cascina in quelli di vacche grasse (non entro nel merito della natura di questo “fieno”, ossia se si debba trattare di investimenti pubblici, spesa corrente, o minori tasse). Il punto però è che, per poter usare il fieno in tempi di crisi, ci vuole qualcuno che quel fieno abbia accumulato quando le cose andavano meglio, in quanto il Pil cresceva.
Ma che cosa abbiamo fatto noi, nel quadriennio (relativamente) felice 2014-2017? Anziché procedere risolutamente verso il pareggio di bilancio, lo abbiamo rimandato di anno in anno, ogni volta chiedendo flessibilità e promettendo che “poi” avremmo provveduto. Così lo stock del debito è cresciuto, il rapporto debito/pil è rimasto sostanzialmente invariato, e la flessibilità strappata all’Europa (allora assai meno arcigna di oggi) è stata spesa in misura preponderante per acquisire consenso: bonus 80 euro per i lavoratori dipendenti, bonus ai diciottenni, bonus bebé, stanziamenti per l’accoglienza dei migranti. Oggi i mercati presentano il conto: se lo spread non accenna a piegare la testa, e il governo non può permettersi di varare una vera politica anticiclica, non è solo per la sciocca ed autolesionista polemica con l’Europa, ma anche perché i governi precedenti – con il colpevole assenso dell’Europa stessa – avevano prosciugato le non molte risorse che quattro anni di crescita avevano generato.
Ma avrebbero potuto agire diversamente? E oggi, un qualsiasi governo armato delle più ragionevoli e disinteressate intenzioni, potrebbe contrastare efficacemente la recessione in atto?
Per certi versi la risposta è sì. Renzi e Padoan avrebbero potuto occuparsi di più dei conti pubblici e della crescita, e meno della ricerca spasmodica del consenso, un punto su cui, negli anni del renzismo trionfante, solo Mario Monti e pochi altri hanno attirato la dovuta attenzione. Quanto a Conte e Tria, si potrebbe fare un discorso del tutto analogo: se i soldi di quota cento e del reddito di cittadinanza li avessero messi in maggiori investimenti e minori tasse, la recessione in atto sarebbe risultata meno severa.
Ma per altri versi la risposta vera, la risposta principale, è no. I nostri governanti avrebbero anche potuto attuare politiche un po’ più pro-crescita e un po’ meno pro-consenso, ma temo che il problema dei problemi dell’Italia non sarebbe ugualmente stato risolto. Il nostro problema dei problemi è che la produttività del sistema-Italia è ferma da quasi un quarto di secolo, un fatto che non ha riscontro in alcun altro paese avanzato, e un enigma di cui nessuno ha ancora fornito la chiave. Finché non avremo il coraggio di affrontarlo a viso aperto, potremo anche crescere di qualche decimale in più o in meno a seconda di quanto lungimirante è chi ci governa, ma non eviteremo di restare quello che siamo diventati dalla metà degli anni ‘90: un paese che precipita quando gli altri cadono, e ristagna quando gli altri crescono.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2019



Quando saltano tutte le regole

Il durissimo discorso che il belga Guy Verholstadt, parlando al Parlamento europeo, ha rivolto al nostro primo ministro Conte, dandogli del “burattino mosso da Salvini e Di Maio”, ha innescato una serie di polemiche, ma anche qualche riflessione di tono più generale, su cui forse non è inutile tornare.

Specie a sinistra, le reazioni non sono state unanimi. L’atteggiamento di alcuni è stato analogo a quello dei più cinici maschilisti di fronte allo stupro di una ragazza in minigonna: “non si fa, però un po’ se l’è cercata”. Altri, più pacatamente, hanno fatto notare che, dopotutto, quel che il leader liberale Guy Verholstadt ha detto in pubblico è precisamente ciò che tutta la stampa progressista pensa, dice e ripete da mesi senza alcuna remora o esitazione. Altri ancora hanno riversato ogni colpa sul linguaggio e i comportamenti dei due “burattinai”: Salvini è lo stesso che qualche tempo fa si permetteva di dare dell’ubriacone al Presidente della Commissione Europea Juncker, mentre Di Maio è lo stesso che un paio di settimane fa incontrava i gilet gialli, entrando a piedi giunti nella politica francese. Altri, infine, hanno accusato di ipocrisia quanti si sono dati la pena di difendere il nostro primo ministro a dispetto delle proprie opinioni su di lui, non lontanissime da quelle di Guy Verholstadt.

Già, l’ipocrisia. Forse è proprio su questo che dovremmo riflettere. Di essa, François de La Rochefoucauld diceva che è “un omaggio che il vizio rende alla virtù”. Perché chi esibisce un comportamento rispettoso verso qualcuno che detesta, o di cui non condivide le scelte, proprio con questa sua rinuncia ad offendere, deridere o aggredire, implicitamente riconosce il valore del rispetto, dell’accettazione dell’altro.
Oggi le cose sono molto cambiate, e la parola ipocrisia ha assunto un significato del tutto negativo. Nell’uso comune essa viene per lo più interpretata come sinonimo di viltà e di rinuncia all’autenticità. Ipocrita viene considerato chi, per timore di dover pagare un prezzo, nasconde le sue idee e i suoi sentimenti, accettando di diventare inautentico.
Ipocrisia e autenticità. Questa è la coppia concettuale che, specie dopo la stagione esistenzialista, ha finito per installarsi nelle nostre menti. Ma è una coppia profondamente fuorviante. Perché è eticamente connotata: a un polo, quello positivo, l’autenticità di chi non nasconde nulla di sé stesso, all’altro polo, quello negativo, l’ipocrisia di chi dissimula i propri pensieri. E invece la vita sociale, sia sulla scena pubblica sia nella sfera privata, è fatta dell’una e dell’altra.
Riflettiamoci: quante delle nostre relazioni e amicizie sopravviverebbero se, con tutti coloro che frequentiamo, noi dicessimo sempre quello che pensiamo? O se agissimo solo guidati dai nostri impulsi più profondi?
Lo stesso vale per le istituzioni: nessuna istituzione può resistere nel tempo se non conserva, a dispetto dei suoi limiti, il rispetto dei singoli e delle altre istituzioni. Vale per la scuola, l’università, la Banca centrale, i sindacati, i ministeri, il Parlamento.
E’ per questo che, nella vita sociale, non esiste un unico linguaggio, né un unico registro, ma ne esistono molti, ognuno con le sue regole e i suoi ambiti di applicazione. Il problema è che, negli ultimi tempi, si è fatta strada l’idea che il linguaggio più brutale e diretto, quello che si può usare fra persone che si dànno del tu, si possa tranquillamente estendere ad ogni contesto, come se il mondo si riducesse a un immenso e indifferenziato ‘social’.
Il punto interessante, però, è che a questa irruzione delle pretese dell’autenticità in tutte le relazioni e in tutti i contesti non contribuisce solo la politica. La politica è solo il luogo nel quale è più evidente che è saltata ogni regola e, proprio perché tutti – destra e sinistra, populisti (come Conte) e liberali (come Verholstadt) – non si sentono tenuti al rispetto dell’avversario, non c’è alcuna speranza di ristabilire le condizioni di un confronto civile. Oggi alcuni si indignano (non senza ragione) per lo scarso rispetto riservato a Conte, ma quanti di essi si indignavano quando la medesima mancanza di rispetto colpiva politici come Berlusconi o come Monti?
La realtà, purtroppo, è che una malintesa volontà di essere sé stessi sempre e ovunque pervade un po’ tutta la società, e ha finito per far cadere la distinzione fra coraggio e oltraggiosità, fra onestà intellettuale e spregio dell’altro. Facendoci dimenticare che mettere un freno a “l’animale che mi porto dentro” è, dopotutto, il compito e la sostanza della civiltà.




Diseguaglianza e povertà

Il reddito di cittadinanza per un singolo inoccupato ammonterà a 780 euro al mese. Ma sono moltissimi i lavoratori che, in Italia, guadagnano meno di 800 euro al mese, spesso facendo lavori molto faticosi e impegnativi. Di qui la domanda che un po’ tutti ci facciamo in questi giorni: un reddito minimo garantito di 780 euro non è un po’ troppo alto per il nostro paese? Che cosa potrà pensare, un occupato che deve sudare sette camicie per portare a casa 800 euro al mese, del suo vicino di casa che riesce a ottenere lo stesso reddito non facendo nulla?

Ma soprattutto: dopo i falsi invalidi e i falsi disoccupati, di cui sono piene le cronache (e gli studi) degli ultimi decenni, dovremo anche assistere impotenti alla crescita di un esercito di falsi poveri?

Vorrei notare subito una cosa: quasi nessuno, a livello politico, ha titolo per ergersi a giudice delle storture del reddito di cittadinanza. Il godimento indebito di un sussidio, di un’agevolazione, di uno sconto è una costante della nostra storia nazionale. Sappiamo benissimo, e da decenni, che appena si fa un controllo si scopre che una percentuale enorme (talora prossima al 50%) di soggetti che autocertifica una condizione economica disagiata non ha affatto diritto ai benefici che riceve. Sappiamo anche benissimo che, nel virtuosissimo Nord, un esercito di lavoratori “estivi” del turismo e dell’agricoltura, non appena arriva la stagione fredda, cumula salario di disoccupazione e lavoro in nero. Ma nessun partito, sindacato o associazione, che ora si indigna per il reddito di cittadinanza, ha mai veramente combattuto questo genere di fenomeni. E si potrebbe pure aggiungere, su questa linea di non demonizzazione del reddito di cittadinanza, che per certi versi lo scandalo non è che si possano guadagnare ben 800 euro non facendo nulla, ma che se ne possano guadagnare appena 800 ammazzandosi di fatica.

Detto tutto questo, però, il problema rimane. Che i censori del reddito di cittadinanza non abbiano le carte in regola per parlare, non implica che il reddito di cittadinanza – così com’è concepito – sia una misura saggia. Perché una misura non va giudicata per le sue intenzioni (in questo caso senz’altro lodevoli) ma per le conseguenze che è verosimile che produca, al di là delle illusioni più o meno sincere dei suoi proponenti.

Ma per capire le conseguenze di una misura, occorre partire dalla “realtà effettuale”, ossia dall’Italia così com’è, non come ce la raccontano i politici per blandirci ed autoassolversi. E la realtà alcune cose molto chiare ce le dice. La prima è che il costume delle autocertificazioni false non riguarda una piccola minoranza di disonesti. La seconda è che i controlli sono e non potranno che restare del tutto insufficienti, se non altro per il loro costo. La terza è che fornire ad alcuni milioni di persone piani individuali di formazione e offerte di lavoro congrue è semplicemente impossibile, anche qui già solo per il fatto che nessuno ha stanziato il volume di risorse necessario, né si è dato il tempo che un piano del genere richiederebbe (almeno un paio di anni).

La cosa più importante, però, è un’altra ancora: l’argomento secondo cui occorrerebbe alzare i salari, non abbassare il reddito di cittadinanza, è eticamente pesuasivo ma non regge a un’analisi disincantata della realtà italiana. Se i salari medi sono scandalosamente bassi, la prima ragione non è certo l’iper-sfruttamento della mano d’opera, che pure esiste (vedi la raccolta del pomodoro, o l’industria delle consegne a domicilio), ma è a causa del ristagno ventennale della produttività del lavoro, un fenomeno che – fra i paesi avanzati – è dato osservare solo in Italia, e che nessuno studioso è ancora riuscito a spiegare in modo convincente. Poiché questa è la pietrosa realtà dell’economia italiana, un salario di cittadinanza a 780 euro, introdotto in un paese in cui non ci sono margini per aumenti salariali significativi, non potrà non avere le conseguenze che la teoria e l’esperienza prevedono: una riduzione del numero di persone effettivamente disposte a lavorare, un aumento del costo unitario del lavoro per le imprese, una contrazione dei posti di lavoro. Tutti processi che l’eventuale introduzione di un salario minimo legale (caldeggiato anche dal Pd, almeno in campagna elettorale) non potrà che aggravare, perché un salario minimo legale di 8-9 euro l’ora (come quello prospettato in questi giorni) non potrà che far esplodere il lavoro nero.

Di qui un paradosso. Nato per “cancellare la povertà”, il reddito di cittadinanza potrebbe anche riuscirci, sempre che i soldi non finiscano prima del tempo (quelli stanziati ammontano a circa 1/3 di quelli necessari), ma a un prezzo paradossale: far esplodere le diseguaglianze, e l’invidia sociale, all’interno delle fasce deboli della popolazione. Diseguaglianze e invidie fra chi guadagna lavorando e chi guadagna senza lavorare, ma anche fra chi usufruisce del sussidio dove i prezzi sono alti e chi ne usufrusice dove i prezzi sono bassi, fra chi riesce a lavorare in nero senza incappare nei controlli, e chi ci prova ma finisce nella rete del fisco.

Insomma, un’Italia incattivita dalla proliferazione degli arbitri e dal dilagare del caso. Il colmo per un provvedimento che – modulato con saggezza e con misura – avrebbe una sua logica e una sua piena giustificazione, e rischia invece di rovesciarsi nel suo contrario per un fatale difetto di fabbricazione.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 febbraio 2019