Troppi paradisi

2008-2018, anniversario della lunga crisi

15 settembre 2008, esattamente 10 anni fa. Fu allora che, dopo un anno difficile, in cui la crisi americana dei mutui subprime aveva interrotto un lungo periodo di crescita, l’economia mondiale ricevette il colpo di grazia. A infliggere quel colpo fu il fallimento di Lehmann Brothers, una banca d’affari americana che, a differenza di altre società, venne lasciata fallire dal governo USA e dalla Federal Reserve.

Anche se, allora, vi fu chi salutò il fallimento di Lehman Brothers come “una buona giornata per il capitalismo”, col senno di poi sono quasi tutti concordi nel considerare quel mancato salvataggio come uno dei fattori cruciali che, nel giro di poche ore, trasformarono una recessione in una crisi epocale.

Ma come si presentano le economie dei paesi avanzati a un decennio di distanza?

La prima cosa che si può notare è che la crisi ha agito in modo fortemente asimmetrico: ci sono paesi che, oggi, hanno un tenore di vita e un tasso di occupazione superiori a quello del 2008 (è il caso della Germania, ma anche di Regno Unito, Polonia, Svezia, Giappone), ci sono paesi che, tutto all’opposto, nemmeno in 10 anni sono riusciti a recuperare i livelli di reddito e di occupazione pre-crisi: è questo il caso della Grecia, di Cipro, della Finlandia, dell’Italia.

Altrettanto diseguale è stata la evoluzione della vulnerabilità dei conti pubblici dei vari paesi. L’indice VS (vulnerabilità strutturale), calcolato dalla Fondazione David Hume per 40 economie relativamente avanzate, è peggiorato in molti paesi dell’eurozona (Grecia, Cipro, Spagna, Finlandia, Slovacchia, Slovenia) ma è sensibilmente migliorato per la maggior parte dei paesi dell’est, in particolare Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Lettonia, Lituania.

La vera domanda, però, forse è un’altra: dopo 10 anni di passione, le nostre economie hanno imparato la lezione? Le nostre economie, oggi, sono meno fragili di 10 anni fa?

La mia impressione è che la risposta sia negativa. Dieci anni, infatti, non sono bastati a rimuovere quelli che, per molti analisti, restano i due principali elementi di fragilità del sistema capitalistico quale si è affermato negli ultimi decenni.

Il primo è la mancata separazione fra banche commerciali e banche di investimento. La grande crisi del ’29, come la lunga crisi del 2007, sono entrambe figlie del medesimo errore di regolazione. Consentire al medesimo intermediario finanziario di raccogliere il risparmio, finanziare l’economia reale, e supportare la speculazione finanziaria è stato uno dei fattori della crisi del ’29, ma anche di quella del 2008. La sovrapposizione fra queste funzioni è fra le concause della crisi del ’29, mentre la loro separazione per legge (sancita dal Glass Steagall Act del 1933) è stata una delle condizioni dei “gloriosi trent’anni”, il lungo periodo di stabilità e crescita che seguì la fine della seconda guerra mondiale. Specularmente, l’abolizione della separazione (avvenuta nel 1999, sotto la presidenza di Bill Clinton) è stata una delle concause della crisi scoppiata nel 2007-2008.

Ma c’è anche un secondo elemento di fragilità, forse ancora più importante, che non è stato rimosso, ed è la possibilità di operare su mercati non regolamentati, i cosiddetti mercati OCT, in cui le transazioni avvengono “over the counter”, ossia sul bancone, come per le transazioni in contanti. Nessuno sa esattamente a quanto ammontino le attività finanziare negoziate su questi mercati rispetto a quelle negoziate sui mercati regolamentati, ma l’ordine di grandezza è conosciuto: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali il loro valore nozionale è dell’ordine di 10 volte il Pil mondiale. E anche se il loro valore lordo di mercato è molto inferiore (circa un quinto del Pil globale, secondo alcune valutazioni), resta il fatto che si tratta di una massa di denaro enorme, i cui movimenti hanno un potenziale di destabilizzazione molto elevato. Un potenziale, peraltro amplificato dalle Agenzie di rating, spesso in sonno quando avrebbero dovuto avvertire dei pericoli, e fin troppo severe a cose fatte, ovvero quando i pericoli erano già stati segnalati dai mercati.

Se questo è il quadro, viene naturale chiedersi: ci attende una nuova crisi?

Ovviamente nessuno lo sa, ma se devo esprimere un’opinione la mia risposta è: sì, e piuttosto presto. La ragione è abbastanza semplice, e la riassumerei in quattro punti.

Primo. Quel che doveva essere fatto, separare banche commerciali e di investimento, imporre limiti ai mercati non regolamentati, attenuare i conflitti di interessi delle Agenzie di rating, non è stato fatto, o è stato fatto in modo insufficiente. Non aver corretto questi fattori di instabilità ci rende vulnerabili in caso di crisi.

Secondo. Il principale rimedio escogitato, negli Stati Uniti come in Europa, è stato inondare di liquidità i mercati, con i bassi tassi di interesse e le iniezioni di liquidità (Quantitative Easing e affini). Ma la liquidità è, al tempo stesso, il lenimento che attenua le crisi e il combustibile che le prepara.

Terzo. Diversi indicatori segnalano che la crescita di questi anni, in particolare quella dell’economia americana, sia arrivata al limite. Quel che si è formato in questi anni non è una bolla speculativa di tipo immobiliare, come nel 2007-2008, ma una bolla speculativa di tipo azionario, come nel 2000, quando crollò l’indice dei titoli tecnologici (NASDAQ). Per accorgersene basta osservare la corsa degli indici borsistici in rapporto al Pil: la capitalizzazione della Borsa americana rispetto al Pil USA ha superato il livello record del 2000, quando scoppiò la bolla tecnologica. E anche se, verosimilmente, i fondamentali delle aziende tecnologiche americane sono migliori di quelli di vent’anni fa, il rischio di una brusca frenata è tutt’altro che trascurabile.

Quarto. Anche in Europa si manifestano segni di tensione, in particolare sul mercato dei titoli di stato decennali. Il coefficiente di variazione dei rendimenti, una delle più semplici misure di allerta dei mercati, dopo aver toccato un minimo alla fine di gennaio di quest’anno, da 7 mesi è in costante ascesa. Anche se non siamo ancora entrati in una fase di “flight to quality” (cercare rifugio nei titoli sicuri, come i bund tedeschi), potremmo già essere nell’anticamera che la precede.

Se una crisi verrà, nei prossimi anni o già nei prossimi mesi, essa sarà anche il frutto delle omissioni di questi anni. Dopo aver proclamato ai quattro venti che l’importante era l’economia reale, non quella di carta (Main Street contro Wall Street), i regolatori dell’economia ben poco hanno fatto per ridurre le nostre fragilità, prime fra tutte una legislazione bancaria troppo permissiva e l’estensione del cosiddetto Sistema bancario ombra (Shadow Banking System), fondamentalmente sottratto ad ogni forma di vigilanza: “troppi paradisi”, verrebbe da dire, riprendendo il titolo del romanzo di Walter Siti. Perché quel che si è fatto, o meglio non si è fatto, è proprio questo: permettere la sopravvivenza di troppi luoghi in cui l’economia di carta soggioga e inquina l’economia reale.

 




L’eredità del centro-sinistra

Può sembrare strano, ma un bilancio del quinquennio di governo del centro-sinistra (dal 2013 al 2018), ovvero dell’azione dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, ancora non l’abbiamo né letta né ascoltata. Renzi se l’è sbrigata con poche battute, ma anche dai padri nobili e dai candidati alla successione sono arrivati, finora, solo discorsi più fumosi che alati, ma ben poche analisi. E autocritica ancor meno, se non la ferma  decisione di voler fare autocritica, e le solite due ammissioni di colpa: forse c’è stato un difetto di comunicazione, forse dovevamo parlare di più con la gente.

Eppure è di analisi e di autocritica che ci sarebbe bisogno. Servirebbero al Pd, se vuole fermare il declino e sperare di tornare al governo, ma servono anche a noi, studiosi ed opinione pubblica, per inquadrare l’azione (e le difficoltà) del governo gialloverde. L’azione di un nuovo governo, infatti, non è mai un inizio assoluto, ma sempre la continuazione di una storia scritta da altri, con cui i nuovi venuti sono costretti a fare i conti.

Qual è, dunque, l’eredità del centro-sinistra?

La risposta dei diretti interessati la conosciamo abbastanza bene, è il racconto autocelebrativo che abbiamo ascoltato in tutte le salse, centinaia e centinaia di volte: noi siamo quelli che hanno portato il Paese fuori della crisi; prima davanti al dato del Pil c’era il segno meno, ora c’è il segno più; con il Jobs Act e la decontribuzione abbiamo creato centinaia di migliaia di posti di lavoro; con gli 80 euro abbiamo dato un po’ di ossigeno alle famiglie, stremate da 9 anni di crisi; siamo stati noi a varare, per la prima volta in Italia, una misura di carattere universalistico contro la povertà (il reddito di inclusione); anche se con lo ius soli non ce l’abbiamo fatta, abbiamo varato importantissime leggi su unioni civili, fine vita, femminicidio; con il ministro Minniti abbiamo ridotto dell’80% gli sbarchi. Come hanno fatto gli italiani a non accorgersi di quanto bene abbiamo governato? Come hanno potuto spedirci all’opposizione?

Provo a rispondere, prima come studioso, poi come cittadino. Come studioso la mia obiezione è semplice: molto di quel che rivendicate come merito vostro, cari dirigenti del Pd, è semplicemente effetto della ripresa economica, che ha preso vigore, in Europa, giusto quando voi siete andati al governo. La marea alza tutte le barche, ma la barca dell’Italia negli ambiti che contano (occupazione e crescita del Pil) è rimasta agli ultimi posti in Europa, esattamente come prima, in certi casi peggio di prima.

Dunque la vera domanda non è se, dopo cinque anni di governo, l’Italia stia meglio o peggio di prima, ma è che cosa avreste potuto fare di diverso, e che cosa avete lasciato in eredità a chi oggi deve governare.

E allora vediamola, questa eredità.

Tasse. Per avere l’ok dell’Europa alle leggi di bilancio avete, come tanti governi del passato, inserito le stramaledette “clausole di salvaguardia”; così oggi chi ci governa deve trovare 12 miliardi e mezzo per non far aumentare l’Iva.

Conti pubblici. Anziché approfittare della ripresa per ridurre il debito pubblico, avete mendicato flessibilità in Europa, promettendo ogni anno che il debito l’avreste ridotto, ma l’anno dopo; poi l’anno dopo arrivava, e il debito continuava a crescere, e voi rimandavate di nuovo, o promettevate senza poi mantenere; una vera discesa del rapporto debito/Pil non è mai iniziata. E i mercati finanziari se ne sono accorti: contrariamente a quel che si crede, la tensione sui nostri titoli di Stato è partita fin dalla fine del 2016, in corrispondenza con il referendum perduto da Renzi (per accorgersene, basta dare un’occhiata, anziché allo spread con la Germania, allo spread fra i titoli di Stato di Spagna, Portogallo e Grecia rispetto a quelli dell’Italia).

Povertà. Che il numero di poveri fosse aumentato durante la crisi e continuasse ad aumentare anche negli anni della ripresa, l’Istat ve l’ha comunicato ogni anno. Ciononostante, quando si è trattato di decidere se ridurre l’Irpef, ridurre l’Irap o pensare agli “incapienti” (così poveri da non pagare tasse), avete preferito – con il bonus da 80 euro – convogliare le risorse sul ceto medio dipendente, il più vicino alla vostra base elettorale. E quando avete varato il reddito di inclusione, che ora chiedete al nuovo governo di potenziare, gli avete destinato le briciole, circa un decimo di quel che servirebbe. Come potete stupirvi che gli elettori abbiano voluto credere alla promessa del “reddito di cittadinanza”?

Investimenti pubblici. Nonostante i ripetuti omaggi a Keynes e alle politiche keynesiane, i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dal sostenere gli investimenti pubblici, che anzi di anno in anno, chiunque fosse al governo (Letta, Renzi, Gentiloni), sono sempre stati ridotti, a differenza della spesa corrente, ben più redditizia sul piano elettorale. Il precario stato di tante infrastrutture in Italia ha indubbiamente origini lontane, ma è difficile non notare che – negli ultimi anni – la costante preferenza accordata alla spesa corrente non può che averlo aggravato.

Immigrazione. Minniti ha fatto un buon lavoro, non c’è dubbio, e questo è forse il principale asset che il governo gialloverde ha ricevuto in dote. Ma come ci si è arrivati? Il fenomeno che Minniti ha domato, gli sbarchi, è stato alimentato da anni e anni in cui i suoi compagni di partito hanno badato solo a sostenere l’industria dell’accoglienza, fatta di eroici salvataggi in mare e assai più prosaiche gesta delle cooperative che gestiscono gli sbarcati. Il risultato è stato che, in pochi anni, in Italia sono entrati quasi 500 mila migranti che non avevano diritto ad alcuna forma di protezione, e che nessuno (nemmeno Salvini) è in grado di rimandare indietro. Se il lavoro di Minniti non è stato apprezzato dall’elettorato è anche perché, in fondo, il Pd e la sinistra se ne vergognavano, in quanto capovolgimento dell’ideologia dell’apertura cavalcata negli anni precedenti.

Questi, purtroppo, sono i lati oscuri, il non detto e non visto, dell’eredità del centro-sinistra. Capisco che riconoscerli sia difficile, perché può suonare come un’implicita legittimazione del governo gialloverde. Ma non si riflette abbastanza sul fatto che non riconoscerli può essere ancora più pericoloso: senza un’autocritica spietata, un’opposizione di sinistra credibile non vedrà mai la luce.

Quello cui invece quotidianamente assistiamo, sui giornali come in Tv, è l’incredibile recita del seguente copione fisso: prima si dice che certamente c’è stato qualche errore di comunicazione, e che si sarebbe dovuti stare di più sulla rete; poi si ammette che sì, qualche errore politico deve essere stato fatto, se no non si sarebbero persi milioni di voti; ma poi, quando l’incuriosito giornalista chiede “dove avete sbagliato?”, o se il Jobs Act è stato un errore, scatta il grande nulla: dobbiamo riflettere, dobbiamo discutere (ma allora perché non avete ancora indetto il Congresso?), dobbiamo tornare fra la nostra gente. Come se la gente li avesse abbandonati non per le loro scelte politiche, ma perché non si facevano più vedere in giro. Incredibile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 10 settembre 2018



Perché la sinistra è all’anno zero

Quello che segue è il testo originale dell’intervista di Annalisa Chirico a Luca Ricolfi. Una versione ridotta è uscita sul “Foglio” venerdì 7 settembre 2018.

Professore, a seguire il dibattito italiano, che sensazione ha? Si annoia, è nauseato, è indifferente…

Il dibattito non esiste, perché non c’è più l’opinione pubblica. Gli scambi di opinioni (talora di invettive) tra personaggi pubblici sono sostanzialmente irrilevanti (e questo vale anche per me e per quel che dirò). Un vero dibattito presuppone che ci siano persone autorevoli, rispettate da tutti o quasi, le cui prese di posizione obbligano gli altri a misurarsi.

Non è più così da almeno un quarto di secolo, ossia da quando si è instaurata la curiosa credenza che tutte le opinioni siano egualmente valide, una credenza su cui i grillini si sono buttati a pesce, trasformandola in un credo. Viviamo in un tempo in cui ci sono centinaia di personaggi carismatici, che si contendono i like della “ggente”, ma non ce n’è nemmeno uno che sia autorevole.

Quanto al mio stato d’animo sì, sono molto annoiato, perché non leggo o ascolto quasi mai qualcosa di interessante. Ma se devo scegliere un’espressione per il mio stato d’animo, direi che ho il mal di mare, che è un mix di nausea e senso di impotenza di fronte agli eventi.

Nel governo sono sempre più evidenti le due diverse anime. Salvini ha monopolizzato il dossier immigrazione che gli consente di capitalizzare il consenso e di monopolizzare la comunicazione. Di Maio cerca di ritagliarsi spazi sui dossier economici. Quanto può durare una simile combinazione?

Abbastanza, secondo alcuni. L’ex ministro Minniti, per esempio, la settimana scorsa ha affermato che quello fra Lega e Cinque Stelle è un patto di potere, come quello fra democristiani e socialisti ai tempi del Pentapartito: apparentemente litigavano ogni giorno, in realtà stavano ben saldi sulle rispettive poltrone.

Io sono meno pessimista di Minniti, perché intravedo una differenza fondamentale fra pentapartito e governo giallo-verde: ai tempi del pentapartito si potevano sommare le richieste dei democristiani e dei socialisti aumentando il debito pubblico, oggi è molto più difficile sommare le richieste di leghisti (flat tax) e Cinque stelle (reddito minimo, erroneamente chiamato di cittadinanza), perché il loro costo è elevatissimo, e il debito pubblico si può aumentare sensibilmente solo uscendo dall’Europa.

Il M5S ha già pronto il dopo-dimaio, con l’ala Beppe Grillo, Di Battista e Fico, quella purista, diciamo così, pronta a inaugurare il ritorno alle origini.

Saranno puri, ma sono anche molto sprovveduti. Non vedo facile un cambio di leadership, perché se il governo avrà successo Di Maio diventerà inamovibile, mentre se fallirà nessuna nuova dirigenza sarà in grado di resuscitare il Movimento.

Per Salvini si aprono praterie sterminate: sarà lui il nuovo leader del centrodestra?

Questa è la prospettiva più probabile. Però Salvini sottovaluta alcuni meccanismi, che alla lunga potrebbero ridimensionarlo. Il primo è la fine della luna di miele elettorale, che dovrebbe esaurirsi intorno a Natale. Il secondo è l’azione della Magistratura, che nel breve periodo lo ha rafforzato ma nel medio periodo potrebbe logorarlo. Il terzo è la reazione dell’elettorato moderato, che oggi rigetta l’estremismo umanitario del Pd e della Chiesa, ma domani porrebbe eccepire sull’estremismo anti-umanitario del leader leghista, specie nel caso in cui la Chiesa si decidesse ad assumere posizioni più pragmatiche e meno ideologiche di quelle attuali.

L’immigrazione è il tema che sta decidendo le elezioni in tutta Europa. Anzitutto, secondo lei siamo ancora in una fase di emergenza? A guardare i numeri, si direbbe di no. Meno 80 percento dal luglio 2017.

Quando si parla di emergenza bisogna distinguere. Se per emergenza si intende la presunta “invasione” via mare attuata attraverso gli sbarchi, non c’è dubbio che non c’è più alcuna emergenza, e che buona parte del lavoro l’ha fatto Minniti, non Salvini (anche se io non sottovaluterei il valore aggiunto simbolico apportato da Salvini: la gente sa che il governo sta facendo il possibile per impedire gli ingressi irregolari in Italia, mentre prima aveva la sensazione che i migranti ce li andassimo a prendere).

Se per emergenza, invece, si intende la presenza di un numero imprecisato ma comunque molto alto di migranti irregolari in Europa, direi proprio che l’emergenza c’è eccome, e tanto per cambiare è concentrata in Italia. Il problema vero dell’immigrazione non è più, ormai, un problema di flussi, ma è un problema di stock, ossia di flussi accumulati negli ultimi 7 anni. Facciamo due conti: fra l’inizio delle cosiddette primavere arabe e oggi sono sbarcati in Italia circa 800 mila migranti. Di questi una piccola parte, dell’ordine di 50-60 mila, aveva il diritto di entrarci in quanto rifugiato. Un’altra parte, 250-300 mila, ha ottenuto o otterrà altre forme di protezione, che tuttavia hanno per lo più carattere temporaneo. Il resto, quasi mezzo milione di persone, semplicemente risiede illegalmente in Europa.

Dove stanno costoro?

In parte stanno in Italia, dove lavorano in modo irregolare o al soldo della criminalità, in parte sono transitati in altri paesi europei, da cui, in base alle assurde regole europee, possono essere rimandati nel paese di prima accoglienza, tipicamente l’Italia. E’ questa la vera perdurante emergenza, rispetto alla quale anche Salvini non è riuscito a far nulla.

Vorrei ricordare che il tasso di criminalità relativo dei migranti è 4 in Europa e oltre 6 in Italia, ma supera 20 (e addirittura 30 secondo alcune stime) per i migranti irregolari in Italia. In concreto questo vuol dire che ci vogliono 20 o 30 italiani per fare altrettanto danno di quello che fa 1 solo migrante irregolare.

A proposito della capacità salviniana di cavalcare l’emergenza che non c’è, Marco Minniti ha parlato di “strategia della tensione comunicativa”.

Ha ragione, la Lega aumenta le paure dei cittadini. Ma si potrebbe ribattere che la sinistra ha passato gli ultimi tre decenni a smontare paure perfettamente giustificate, attuando una sorta di “strategia della DIStensione comunicativa”. Non so chi sia da biasimare di più. L’ira popolare contro il Pd è anche figlia del negazionismo della sinistra, che per anni e anni si è rifiutata di “vedere” quel che pure aveva sotto gli occhi.

Le piace il modello australiano del “no Way”?

Non ne conosco i dettagli, ma vorrei dire una cosa di mero buon senso storico in proposito. Noi europei illuminati accusiamo di razzismo, disumanità, xenofobia qualsiasi Stato che, in una forma o nell’altra, schieri l’esercito ai propri confini, impedendo l’entrata illegale sul suo territorio. Ma questo è semplicemente normale, è quello che da che mondo è mondo gli Stati e gli imperi hanno sempre fatto, contro ogni tipo di ingresso irregolare. I confini e le dogane servono a questo, a proteggere un territorio. Su questo l’Europa ha preso un incredibile abbaglio logico: prima abbiamo fatto cadere i dazi interni (fra aree del Paese), poi abbiamo fatto cadere le barriere commerciali fra Stati europei (mercato comune), poi con Schengen abbiamo consentito la circolazione delle persone nello spazio europeo. Infine, abituatici all’idea che chiunque può andare dove vuole, non ce la siamo sentita di difendere sul serio le frontiere dell’Europa, quasi che il confine Italia-Africa fosse assimilabile a quello fra Belgio e Olanda.

Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

A mio parere, la strada giusta non è chiudersi dentro la “fortezza Europa” e non accettare più uno straniero, ma garantire che gli ingressi siano esclusivamente legali, attraverso i corridoi umanitari e un afflusso controllato di migranti economici.

Da uno studio dell’istituto Cattaneo, emerge che per il 70 percento degli italiani gli immigrati presenti sul territorio nazionale sarebbero quattro volte quelli effettivi (circa il 7% della popolazione).

Ma lo sa l’Istituto Cattaneo che la maggior parte degli intervistati non fa di mestiere né lo statistico né lo scienziato sociale?

Lo sa che le credenze numeriche dei cittadini sono QUASI SEMPRE sbagliate, in qualsiasi campo le si indaghi? Se da un sondaggio venisse fuori che la maggior parte degli italiani pensa che i morti sul lavoro siano più di 5000 all’anno, anziché 1000 come effettivamente sono, che cosa ne dedurremmo? Credo che ci limiteremmo a dire che gli italiani sono preoccupati per la sicurezza sui posti di lavoro, e non ci azzarderemmo certo ad accusare i sindacalisti di essere “imprenditori della paura”…

Sulla vicenda della capotreno di Trenord che ha pronunciato parole irripetibili a proposito degli zingari lei ha detto che, al di là della forma, il senso dell’annuncio era sensato.

Lo ribadisco. Chiunque non viaggi in business class o con l’auto di servizio, e sia costretto a prendere treni locali, conosce perfettamente lo stato d’animo di esasperazione, impotenza, e anche di umiliazione, che nella gente normale suscita l’anarchia sui treni presi d’assalto da bande di passeggeri non-paganti, non importa se costituite da tifosi, bagnanti, gang giovanili, questuanti, zingari, o qualsiasi altro gruppo di persone che semplicemente se ne infischia delle regole. La cosa curiosa è che chi reagisce al mancato rispetto delle regole viene accusato di razzismo, xenofobia, intolleranza del diverso, e chi si proclama civile e “umano” se la prende con chi reagisce, anziché con chi viola le regole del vivere civile.

Perchè nella sinistra progressista l’ideologia sembra prevalere ancora sul senso comune? Perchè la sinistra, e i suoi rappresentanti, paiono così distanti dalla “gente”?

Non “paiono”, lo sono proprio, forse irrimediabilmente. Pur avendo, come sociologo, studiato il fenomeno, confesso che l’incapacità della sinistra di osservare la realtà con distacco conserva per me qualcosa di misterioso, quasi fosse un difetto genetico. La persona di sinistra tipica, che sia un politico o semplicemente un simpatizzante impegnato, si distingue per la sua completa mancanza di curiosità per il diverso (a meno che sia esotico), e per l’ostinazione con cui – in qualsiasi situazione – cerca solo ed esclusivamente la conferma della giustezza delle proprie convinzioni. Sul piano psicologico credo che il meccanismo sia chiaro: il militante di sinistra si nutre di autostima, e ha quindi un continuo insaziabile bisogno di conferme di essere nel giusto o, come ama dire, di rappresentare “la parte migliore del Paese”. Perché non riesca a liberarsi di questa sindrome, tuttavia, non arrivo a comprenderlo, visto che l’auto-accecamento ideologico è per lo più controproducente.

Alle volte, come direbbe Altan, mi vengono idee che non condivido, ad esempio questa: forse è di destra semplicemente chi non ha un grave deficit di autostima, e può quindi permettersi di reggere il disprezzo dei benpensanti.

Dalle statistiche del prof Barbagli, emerge che gli immigrati commettono alcuni reati (furti, borseggi etc) in percentuale maggiore degli italiani. Ma dirlo è indice di razzismo.

Barbagli è uno dei pochissimi sociologi di sinistra in cui la curiosità scientifica prevale sulla volontà di dimostrare una tesi politica formulata a priori, ossia prima di vedere i dati. E lo è da sempre. E’ lui che ha scritto Immigrazione e criminalità in Italia, un libro di vent’anni fa che squarciava il velo. Ma quasi nessuno, a sinistra, volle accettare quei dati, perché riconoscerli avrebbe fatto crollare il mito della intrinseca bontà del fenomeno migratorio.

La cultura di sinistra in Italia fornisce la più impressionate conferma empirica della teoria della riduzione della dissonanza cognitiva, formulata dal grande psicologo sociale Leon Festinger nel 1957: quando la realtà smentisce le nostre credenze non cambiamo le credenze, ma cerchiamo di reinterpretare la realtà per rimetterla d’accordo con le credenze che ci fanno stare bene. Negando i dati, o ignorandoli, naturalmente.

Dal 2013 sono arrivati in Italia 700mila migranti, attualmente si contano 135mila ricorsi per richieste d’asilo. Qualcuno si domanda dove siano finiti tutti gli altri…I più hanno usato l’Italia come terra di passaggio per spostarsi in nord Europa. Chi rimane da noi di solito entra nell’economia illegale. Ma se lo dici sei razzista.

Esatto, è in questo senso che dicevo che non è vero che l’emergenza sia finita. L’emergenza sono le legioni di irregolari in Europa, che circolano senza averne diritto. Nessuno sa esattamente quanti siano, ma un rapido conto con i pochi dati disponibili suggerisce che non possano essere meno di un milione di persone.

Lei crede alla storia che gli italiani siano diventati razzisti?

Come studioso provo imbarazzo nel vedere tanti colleghi dare credito a questa tesi, che indubbiamente ha un’utilità politica, ma è priva di sostegno empirico. La tesi dell’italiano diventato razzista si basa su un errore logico. Dal fatto che si osino esprimere sentimenti di ostilità verso gli immigrati si deduce un cambiamento degli atteggiamenti di fondo degli italiani. Non si vuole capire che quel che è successo è molto più semplice: nel clima precedente all’avvento di questo governo, certe idee non potevano essere espresse per timore di essere stigmatizzati dalla cultura dominante cattolico-democratica-accogliente, mentre ora trovano libero corso perché esistono un governo e una maggioranza che le sostengono.

In breve, gli italiani ieri come oggi non sono razzisti, ma semplicemente ostili all’immigrazione incontrollata, perché ne vedono le conseguenze, nei quartieri popolari, nelle scuole, presso le ASL. La differenza è che ieri tacevano intimiditi dal clima dominante, ora si sentono più liberi di dire la loro. Il meccanismo è lo stesso di 25 anni fa, quando vinse Berlusconi: la maggioranza degli italiani è sempre stata cauta e conservatrice, ma solo dopo il 1994 è diventato relativamente facile dichiararsi “di destra”.

E’ sempre il medesimo errore, che si ripete eguale a sé stesso. Quando perdono le elezioni, i progressisti credono che gli italiani siano cambiati, e siano improvvisamente diventati nostalgici, fascisti, xenofobi, razzisti, mentre quel che accade è molto più elementare: in certi momenti l’egemonia culturale della sinistra si allenta, e quindi gli italiani si sentono liberi di dire quel che pensano. Non è bello, ma è tutto qui. Siamo un popolo fondamentalmente conservatore e acquiescente, che ogni tanto – quando il costo dell’esternazione si abbassa – rivela quel che pensa

Perchè, se tutte le statistiche confermano il calo dei reati, le persone si sentono più insicure?

Per vari motivi, ma forse due sono più importanti degli altri. Il primo è che fa parte della modernità (e del welfare stesso!) uno spettacolare, talora ossessivo ed eccessivo, aumento degli standard di sicurezza. Se la televisione ti terrorizza persino per le tue placche dentarie, è logico che tu ti preoccupi ancora di più di non essere derubata, picchiata, violentata, accoltellata per strada o all’uscita da una discoteca. Il secondo motivo è l’ineccepibile teorema-Serracchiani: se a farti del male è un ospite, che noi abbiamo salvato in mare, rifocillato e accolto, hai tutto il diritto di indignarti molto di più.

Non trova paradossale che si accusino, a ragione, gli “impresari della paura” quando cavalcano emergenze inesistenti come l’invasione straniera mentre c’è una forma di sudditanza verso chi agita l’emergenza femminicidio, anch’essa smentita dai numeri.

Sì, è paradossale ma è la norma. Fra le ineguaglianze del nostro mondo c’è anche il trattamento discriminatorio cui vengono sottoposte alcune delle “buone cause”, a fronte del trattamento privilegiato riservato ad altre. Ci sono in giro per il mondo decine di migliaia di buone cause, ma solo alcune ricevono supporto finanziario e adeguato sostegno morale. Nessuno si impegnerebbe per la causa delle nonne non autosufficienti, ma il salvataggio di una specie rara di volatili in Amazzonia può ricevere milioni di like. Così è per i temi politici: la nostra è una cultura dei diritti di alcune specifiche minoranze (o presunte tali: le donne sono maggioranza…), che però diventa completamente muta di fronte ai diritti meno glamour (ad esempio che i ponti e le scuole non crollino, o che le case popolari siano occupate da abusivi).

Mentre sulla nave Diciotti si consuma un braccio di ferro con decine di persone ammassate per giorni, e due soli bagni in uso, Matteo Renzi è impegnato nelle riprese del programma tv sulle bellezze di Firenze.

Mi sembra una fotografia perfetta del ragazzo di Rignano.

Qual è il suo giudizio su Renzi? Lei vede leadership alternative emergenti? A ottobre ci sarà la Leopolda: lei parteciperebbe nelle vesti di sociologo per parlare di immigrazione e dintorni?

Sulla mia partecipazione, mai dire mai. Però tenga presente che, almeno finora, la sinistra – cui pure appartengo – mi ha sempre considerato radioattivo, e tenuto rigorosamente fuori del suo circuito.

Quanto a Renzi, sono fra gli ingenui che ha fatto la coda alle primarie per fargli vincere la partita con Bersani. Il mio giudizio è lo stesso che i cinesi danno su Mao Tse Tung (o come diavolo si scrive oggi): “70% giusto, 30% sbagliato”.

Oggi non lo rivoterei, non per gli errori che ha commesso, ma perché non li ha riconosciuti, quando farlo sarebbe stato utilissimo e salvifico per il Pd. Detto questo, non vedo leader più validi di lui, se a un leader si chiede anche energia e capacità di entrare in sintonia con i cittadini. Calenda e Minniti sono ottimi, ma non mi sembrano avere la stoffa del leader. Cuperlo, di cui ho grandissima stima, è un intellettuale del Novecento (anzi dell’Ottocento, se badiamo alla cortesia e alla signorilità dei modi). Zingaretti è solo un Bersani più giovane. Umanamente il mio preferito è Richetti, ma non so se abbia la stoffa del leader.

Veniamo ai temi economici. Lei ha criticato il decreto dignità. Adesso, dopo il crollo di ponte Morandi, il vicepremier Di Maio annuncia che il governo procederà alla revisione delle concessioni, e che alternativamente si procederà a nazionalizzazioni o a modifica delle clausole contrattuali…Certo, messa così, fa un po’ paura. (effetto sugli investitori, è bene tornare allo stato padrone? Etc)

No, tornare allo Stato padrone è una pessima idea. Ma rinunciare alla vigilanza, al controllo, alla trasparenza, come finora tutti i governi hanno fatto, è forse anche peggio.

In due mesi gli investitori esteri hanno ridotto l’esposizione sull’Italia per oltre 70 miliardi di euro. Ora l’Italia guarda anche alla Cina come possibile finanziatore del debito pubblico. Ma Di Maio ha rassicurato tutti dicendo che è “allarmismo infondato” e che il governo punterà sul “contatto diretto” con gli investitori.

Spero che Di Maio, quando dice queste stupidaggini, poi si faccia una risata davanti allo specchio. Se invece prende sul serio quel che dice, la situazione può diventare molto pericolosa.

Lei crede alla tesi del “complotto” dei mercati? Si evocano da più parti i “poteri forti” che non vorrebbero questo governo…

La tesi del complotto non regge, perché i mercati (cioè gli investitori) si preoccupano solo di far soldi, non certo di rovesciare i governi. Quel che c’è di vero, però, nella visione paranoide del ruolo dei mercati, è che può accadere che i mercati scommettano al ribasso su un paese, trascinandolo nel baratro. E’ successo nel 2011, anche perché parte dell’establishment europeo puntava sulla caduta del governo Berlusconi, potrebbe benissimo risuccedere oggi.

L’Ocse certifica che l’Italia è l’unico paese del G7 dove la crescita economica rallenta. Forse si stanno realizzando i sogni grillini di “decrescita”..Lei prevede che sarebbe una decrescita “felice” à la Latouche?

La “decrescita infelice” l’abbiamo già avuta nel 2008-2014. Da questo governo io non mi aspetto decrescita, ma un tonfo, se Tria e Mattarella non ce la fanno a fermare i due scavezzacolli.

Da dove dovrebbe ripartire, secondo lei, l’alternativa al fronte populista? Dall’europeismo? Dal lavoro? …Giuliano Ferrara dice che i sovranisti vanno contrastati non per quello che fanno, ma per quello che sono. Si riferisce all’idea dei muri, dell’antiglobalismo, delle paure infondate etc

Non credo che, oggi come oggi, uno schieramento pro-Europa abbia molte possibilità di successo, chiunque lo guidi. Dire che “ci vuole più Europa” è stato uno sbaglio enorme, quando i difetti dell’Unione europea erano sotto gli occhi di tutti da almeno 3 legislature. Basterebbe rileggere (anzi leggere, perché sicuramente a sinistra non l’hanno letto) Rischi fatali, la spietata analisi dell’Europa che Giulio Tremonti fece all’inizio della legislatura 2004-2009.

Per me demonizzare il cosiddetto sovranismo è una sciocchezza, che potrà portare solo a una Caporetto politica del “fronte democratico”, o come diavolo vorranno chiamarlo. La critica dell’Europa non può essere monopolio del fronte populista, ma andrebbe sostanzialmente condivisa. Dovrebbe essere un presupposto comune di tutte le forze politiche, come la democrazia è stata l’orizzonte comune di destra e sinistra. L’Europa ha portato alcuni vantaggi, ma politicamente ha fallito. Se non si riconosce questo, se ci si trincera dietro la stanca retorica del “sogno europeo”, si consegna l’Europa ai suoi nemici.

Una volta accettato che TUTTI siamo profondamente scontenti dell’Europa, e che su tante cose i populisti hanno le loro ragioni, si può cominciare a spiegare – se ci si riesce – dove e perché le loro non sono le soluzioni ottimali. Che esistono soluzioni migliori. E che certi rischi, primo fra tutti il collasso dell’euro, non li vogliamo correre.

Intervista a cura di Annalisa Chirico pubblicata su Il Foglio del 7 settembre 2018



Nazionalizzare tutto?

La parola d’ordine è quella: nazionalizzare tutto. La agitano i Cinque Stelle, e pare aver fatto breccia anche in alcuni esponenti della Lega, se è vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ritiene che si debbano rivedere tutte le concessioni. Quanto all’opposizione, la sinistra e Forza Italia paiono contrarie, ma Fratelli d’Italia, per bocca di Giorgia Meloni, pare sottoscriverla senza riserve, almeno per quanto riguarda le infrastrutture strategiche (trasporti, acqua, energia, telecomunicazioni, poste).

E’ una buona idea?

Credo che dare una risposta generale, univoca, pro o contro le nazionalizzazioni, sia impossibile, anche da un punto di vista politico o ideologico. Contrariamente a quanto molti credono, le nazionalizzazioni e il loro opposto (le privatizzazioni) non dividono la destra e la sinistra, ma spaccano al loro interno i due schieramenti che – fino a ieri – si sono contesi il governo, in Italia come altrove. Le nazionalizzazioni sono piaciute ai fascisti (negli anni ’30) ma anche ai socialisti (negli anni ’60), le privatizzazioni sono piaciute alla sinistra riformista, ma anche alla destra berlusconiana, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. La posizione verso le nazionalizzazioni, insomma, ha ben poco a che fare con la divisione fra destra e sinistra.

Se prendere posizione sulle nazionalizzazioni in base all’ideologia è impossibile, ancor meno facile è farlo sulla base dell’esperienza, almeno in Italia. Il guaio del nostro paese è che, se guardiamo agli ultimi decenni, sono innumerevoli sia i casi di fallimento dei privati, sia quelli di fallimento dello Stato. Alitalia è stata un disastro sia come impresa pubblica sia come impresa privata. Lo stesso caso del ponte Morandi è emblematico: Atlantia e la società Autostrade per l’Italia hanno fallito, su questo non vi sono dubbi, ma lo Stato ha fallito per certi versi ancora di più: doveva solo controllare il rispetto della convenzione, e non è stato capace di fare neppure quello. Come si possa, a questo punto, immaginare che la nostra elefantiaca ed inefficiente Amministrazione Pubblica, di cui si conoscono gli innumerevoli sprechi e malversazioni, possa sobbarcarsi il compito di gestire tutta la rete autostradale, resta per me un mistero.

Posto che sia i monopoli di Stato sia le società private spesso non sono state all’altezza dei loro compiti, resta comunque il problema di scegliere una via: puntare sulle nazionalizzazioni, proseguire nelle privatizzazioni iniziate negli anni ’90, decidere caso per caso, concessione per concessione, come saggiamente pare suggerire Giorgetti. L’impressione è che si punterà sulle nazionalizzazioni, capovolgendo la politica messa in atto negli anni ’90, che puntava a ridurre il perimetro dell’intervento pubblico. E’ vero che la Lega sembra opporre qualche resistenza, ma ritengo più probabile che alla fine a riportare qualche vittoria siano i nazionalizzatori: il controllo pubblico dell’economia, con la possibilità di governare la spesa pubblica, gli investimenti, le commesse pubbliche, le nomine, le elargizioni e i favori, è qualcosa che interessa ai politici di governo in quanto tali, indipendentemente dalla loro ideologia.

Resta il dubbio che una politica che punta sull’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico sia, fondamentalmente, più nell’interesse dei governanti che in quello dei cittadini. E questo per almeno tre buoni motivi.

Il primo è che non è affatto detto che un controllo e una gestione diretta (statale) delle infrastrutture sia, per i cittadini, più sicuro di una seria sorveglianza sui concessionari.

Da questo punto di vista è davvero curiosa l’idea del ministro Toninelli che il ministero delle Infrastrutture possa costituirsi parte civile conto la società Autostrade: tutto lascia pensare che, nel processo per il ponte Morandi, sul banco degli accusati saranno chiamati sia Atlantia sia il Ministero di Toninelli, magari nella persona di qualche ex ministro delle infrastrutture.

Il secondo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è che, anche in regime di monopolio statale, è prevedibile che i lavori di ricostruzione dei ponti, manutenzione delle autostrade, costruzione di nuove arterie sarebbero in gran parte affidati a società private, ossia a chi ha le competenze e l’esperienza per realizzare le opere. La nazionalizzazione, in altre parole, potrebbe risultare più nominale che sostanziale.

Il terzo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è il loro costo. Mentre privatizzare porta risorse nel bilancio dello Stato, nazionalizzare brucia risorse pubbliche: la sola revoca della concessione ad Atlantia potrebbe costare allo Stato 20 miliardi, e non è affatto detto che i ricavi netti di una gestione statale delle autostrade sarebbero superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una concessione. Se moltiplichiamo queste cifre per tutte le attività e funzioni che potrebbero essere nazionalizzate, è abbastanza evidente che i costi per lo Stato, cioè per i contribuenti, sarebbero esorbitanti. La nazionalizzazioni, in altre parole, aggraverebbero il nostro problema centrale, quello di un debito pubblico enorme, che non si riesce né a stabilizzare né a far scendere.

Nonostante tutto ciò, penso che alla fine la linea delle nazionalizzazioni finirà per prevalere. Oggi come ieri, infatti, quel che è decisivo non è il bene dei cittadini, ma sono le esigenze dei governanti. E ai governanti di ieri (1996, governo Prodi) conveniva ridurre il debito pubblico per guadagnare il biglietto di ingresso nell’Eurozona, di qui una delle più colossali operazione di dismissione del patrimonio pubblico che si ricordino (oltre 100 miliardi di euro). Ai governanti di oggi (2018, Salvini e Di Maio), conviene assumere il controllo più ampio possibile della macchina dello Stato, costi quel che costi, non certo guadagnare il rispetto delle autorità europee, che detestano e con cui (forse) cercano l’incidente.

Con quale prezzo per tutti noi, contribuenti, risparmiatori, lavoratori, nessuno lo sa. Ma io temo che sarà alto.




Tragedia del Pollino, una lezione dalla Norvegia?

Dopo la morte di 10 persone durante un’escursione nelle gole del torrente Raganello (Parco Nazionale del Pollino, provincia di Cosenza), è immediatamente partita, come sempre accade in Italia di fronte a simili tragedie, la macchina della “individuazione delle responsabilità”. Il ministero dell’Ambiente ha avviato un’inchiesta amministrativa, mentre la Procura di Castrovillari ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando i reati di omicidio colposo, lesioni colpose, inondazione e omissione di atti d’ufficio. La Procura ha anche acquisito diversi documenti da alcuni degli enti coinvolti nella gestione del Parco, nonché disposto il “sequestro probatorio” dell’area del torrente Raganello, con conseguente divieto di accesso alle gole.

Nei resoconti giornalistici sulle due inchieste si legge che si tratta di “accertare responsabilità ed omissioni che hanno provocato la morte di dieci persone”, e che il procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, “è al lavoro per capire se gli amministratori locali (e non solo) avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per evitare la tragedia”.

Suppongo che la Magistratura calabrese stia facendo il proprio lavoro, e che più o meno la stessa sequenza di azioni si sarebbe prodotta in qualsiasi altra parte d’Italia. E tuttavia c’è qualcosa che mi lascia perplesso in questa vicenda, come in tante vicende consimili. Qualcosa che non saprei definire con una parola soltanto, forse perché non è un dubbio unico, ma è una catena di dubbi che ogni volta si affacciano alla mia mente.

Il primo dubbio è di natura logica. Il ragionamento secondo cui una proibizione (in questo caso di accesso all’area) avrebbe il potere di evitare una tragedia ha senso se è formulato prima dei fatti, ma diventa debolissimo a posteriori. È assolutamente ovvio che, quando accade una disgrazia, ci siano decine di comportamenti che avrebbero potuto evitarla (o renderla improbabile), ma è troppo facile indicarli con il senno di poi. Quasi tutte le disgrazie che avvengono in montagna, al mare, in gite ed escursioni, non si sarebbero mai verificate se non si fosse incentivato il turismo di massa, se l’accesso alla bellezze naturali fosse ristretto e iper-regolamentato, e inoltre legioni di poliziotti, forestali, guardie costiere fossero impegnate giorno e notte a garantire l’osservanza dei divieti. La vera domanda non è se una certa regola avrebbe impedito la disgrazia, ma se moltiplicare regole e divieti sia la strada giusta, e se in una determinata situazione è evidente a priori – non a cose fatte, dopo la disgrazia – che un divieto è necessario. E spesso è proprio la frequenza di incidenti o disgrazie, o l’intensificazione della pericolosità, il meccanismo che conduce all’introduzione di divieti, come ad esempio è accaduto a Stromboli, dove un tempo si poteva salire al vulcano senza guide alpine o vulcanologiche, mentre da qualche anno non è più possibile. Nel caso del Raganello, pur spesso teatro di incidenti (per lo più non gravi) in passato, pare che l’ultimo incidente mortale risalga a ben 60 anni fa, quando un turista tedesco, inseguendo il volo degli uccelli, perse la vita a causa del cedimento di una roccia cui si era aggrappato, un chiaro esempio di fatalità, non certo di imprudenza o di evento meteorologico estremo (così riferisce Paolo Brera in un articolo su “Repubblica”).

Ma non è solo l’accanimento con cui si cerca ad ogni costo il colpevole di qualsiasi disgrazia a lasciarmi perplesso, come se non potessimo accettare che, in certi casi, le cause di una morte possano essere semplicemente l’imprudenza e la sfortuna, anziché i mille imputati d’occasione: il sindaco che non ha emesso l’ordinanza, il presidente del Parco del Pollino che non ha ancora fatto entrare in vigore il regolamento “Gole sicure”, la Protezione civile che non ha allertato abbastanza, e poi, naturalmente, il business delle escursioni, l’avidità delle guide, in generale la cattiva organizzazione della macchina delle visite al Parco e alle sue meraviglie. Il dubbio che mi serpeggia nella mente è se non sia invece sbagliato proprio l’approccio al problema della “sicurezza turistica”, se così possiamo chiamarla, ossia l’idea che il turista sia un bambino che lo Stato e le istituzioni hanno il dovere assoluto di proteggere in ogni modo, in ogni circostanza e da ogni pericolo.

Forse, quando avviene una disgrazia, la compassione per le vittime non ci dovrebbe impedire di porre la domanda fondamentale: esistono elementari regole di prudenza che, se rispettate, sarebbero state sufficienti ad evitare la disgrazia?

Nel caso del Pollino, ad esempio, le cronache non riferiscono solo che il tempo prometteva pioggia, che la Protezione civile aveva diramato un’allerta gialla (che segnala, fra l’altro, la possibilità di “repentini innalzamenti dei livelli idrometrici” dei torrenti), ma raccontano i ricordi degli anziani, secondo cui, un tempo, ai bambini si permetteva di entrare nell’area del Raganello solo “dopo tre giorni di bel tempo”, per evitare che un temporale improvviso allagasse le forre travolgendo tutto e tutti. Ma, anche restando all’oggi, le regole di prudenza non mancano, come ha ricordato uno dei primi soccorritori, da anni nella squadra calabrese del soccorso alpino: “Per prassi, quando piove nel torrente non si entra. Ieri il cielo era nero e io non sarei mai entrato in quelle condizioni”. Mentre lui, il soccorritore, in quel canyon pericoloso racconta di aver incontrato “esploratori improvvisati in costume da bagno”.

Di qui il mio dubbio: siamo sicuri che molte disgrazie non avvengano semplicemente perché abbiamo delegato ad altri, anziché a noi stessi, la tutela della nostra incolumità fisica? Non sarà che è il nostro rapporto con la Natura, e la sua immane forza, che è intrinsecamente sbagliato, perché irrealistico?

Sono anni che Reinhold Messner, il nostro più grande scalatore, ce lo ricorda. Una parte del pericolo, in montagna ma anche altrove, ovunque la Natura sia in agguato, è proprio l’iper-protezione e l’illusione di sicurezza che alimenta. Parlando del turismo di massa in montagna, ad esempio, Messner afferma: “per sciatori e snowboarders è importante che la neve ci sia; poi da qualche parte si scende senza preoccuparsi di valanghe o crepacci, mentre gli scalatori si fidano dei chiodi piantati da qualcun altro, gli alpinisti delle previsioni meteo, chi si arrampica su ghiaccio di quattro attrezzi, e  tutti, nell’eventualità, fanno affidamento sul cellulare nello zaino, con il quale è possibile chiamare l’elicottero per farsi soccorrere”.

Ma non è solo Messner ad instillare il dubbio che il rimedio non sia moltiplicare i cartelli, le allerte, le protezioni, i divieti, ma semmai rovesciare l’atteggiamento verso il rischio di turisti, esploratori, escursionisti. Perché dobbiamo renderci conto che l’approccio italiano ai problemi della sicurezza turistica non è l’unico possibile. In Norvegia, ad esempio, le autorità adottano una filosofia opposta alla nostra. Proprio perché la Natura è potente, e pericolosa, si preferisce sviluppare nel pubblico il timore per la Natura stessa, anziché perseguire l’obiettivo impossibile di transennarla tutta quanta con recinzioni, parapetti, ringhiere, staccionate.

Il caso della rocca di Preikestolen illustra bene il principio. Si tratta di una falesia di granito alta 604 metri, che si erge a strapiombo sul Lysefjord, uno spettacolare fiordo nel sud del paese (vedi foto accanto).

Ebbene, in cima alla piattaforma di pietra da cui centinaia di turisti possono ammirare il fiordo, e provare vertigini senza pari, non esiste alcuna protezione: né ringhiere, né parapetti, né transenne. Chiunque può avvicinarsi al bordo, sporgersi, fare foto, senza incontrare alcun ostacolo o barriera. Perché? Perché le autorità norvegesi pensano che mettere barriere sarebbe ancora più pericoloso, in quanto disincentiverebbe le persone a proteggere sé stesse con comportamenti appropriati, basati sulla circospezione e la prudenza. A nessuno, in quel paese, verrebbe in mente di accusare le autorità o il governo perché un turista è precipitato nel fiordo e forse una ringhiera ne avrebbe evitato la morte. La protezione contro la Natura selvaggia è innanzitutto in capo a chi si avventura in essa, non a istituzioni, enti, autorità investite della missione impossibile di tutelare i turisti a dispetto della loro imprudenza.

Non so, naturalmente, come siano andate esattamente le cose nella tragedia del Pollino, o nelle numerose altre del medesimo tipo che si verificano ogni anno in Italia. Ma il dubbio mi rimane: se la smettessimo di pretendere che ad assicurare la nostra sicurezza siano gli altri, chiunque essi siano, e ricominciassimo a pensare che proteggerci dai rischi è innanzitutto compito nostro, forse, alla fine, la conta dei morti sarebbe meno drammatica.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il  26 agosto 2018