Sinistra e legalità

Vedremo come andrà a finire il braccio di ferro tra il ministro Salvini e i sindaci ribelli, che non intendono attenersi al decreto sicurezza perché lo ritengono “criminogeno”, “inumano”, “incostituzionale”, qualcuno arriva persino a dire “razzista”. Vedremo, soprattutto, se la Corte Costituzionale, investita della questione, individuerà qualche profilo di incostituzionalità.

Quel che possiamo osservare fin da ora, invece, è come le forze politiche si stanno posizionando. Qui, in barba alla presunta scomparsa della distinzione fra destra e sinistra, le cose sono piuttosto chiare. Forza Italia e Fratelli d’Italia difendono il decreto sicurezza e il principio secondo cui le leggi si rispettano anche se non le si condivide. La sinistra, per quel che è dato capire fin qui, pare schierata piuttosto compattamente a fianco dei sindaci ribelli, e in qualche caso torna persino ad agitare il dovere della “disobbedienza civile”.

Non mi sembra un segnale particolarmente incoraggiante per il futuro, non solo in vista delle elezioni Europee, ma più in generale per il processo di ricostruzione della sinistra stessa, faticosamente avviato dopo la catastrofe del 4 marzo. L’atteggiamento assunto in questi giorni da tanti esponenti della sinistra, infatti, non fa che reiterare, portandolo alle estreme conseguenze, l’errore politico di fondo che l’ha condotta alla sconfitta, consegnando il paese alle forze populiste.

In che cosa consiste tale errore?

L’errore è di trattare un problema politico cruciale, quello della gestione dei flussi migratori, come se si trattasse di un problema morale, ovvero di una scelta etica: da una parte il bene, fatto di apertura, accoglienza, integrazione, dall’altra il male, fatto di chiusura, ostilità, intolleranza per il diverso. Senza rendersi conto che, per sua natura, la politica è chiamata a scegliere fra soluzioni diverse, ciascuna con i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza, e non fra il Bene assoluto e il Male assoluto. Se accettasse la prima prospettiva, pragmatica anziché etica, non le sarebbe difficile riconoscere che sia il decreto sicurezza sia le politiche precedenti, basate sull’accoglienza, hanno enormi limiti, e che nessuna delle due è la soluzione perfetta, se non altro perché entrambe sono basate su un mix di misure di segno opposto, alcune delle quali incentivano l’irregolarità, mentre altre la disincentivano. Continuare con l’accoglienza indiscriminata avrebbe moltiplicato l’esercito degli irregolari senza permesso, bloccare o ostacolare i percorsi di integrazione di chi è già arrivato produrrà a sua volta nuova irregolarità.

Quanto sia pericoloso il registro manicheo con cui, da sinistra, si discute di immigrazione, è divenuto particolarmente evidente in questi giorni, quando il legittimo (e in gran parte condivisibile) scetticismo sulle conseguenze effettive del decreto sicurezza ha condotto a invocare la sua disapplicazione o inosservanza. Qui l’impostazione etica del discorso politico arriva a dare la peggiore prova di sé: si è talmente certi del valore morale delle proprie convinzioni, che ci si sente autorizzati a non rispettare la legge. Come se una sinistra moderna potesse scendere in piazza a difesa della legalità in certi casi, e al tempo stesso invitare a disobbedire alla legge in altri casi, naturalmente a proprio insindacabile giudizio. Come se la condizione del cittadino italiano oggi fosse quella di un perseguitato da un potere politico dittatoriale, e non semplicemente quella di un cittadino che disapprova una legge dello Stato, regolarmente votata dal Parlamento e promulgata dal Presidente della Repubblica. A tanto conduce, purtroppo, la confusione fra il piano politico, delle decisioni collettive, e il piano etico, della coscienza individuale.

Né vale ricordare che, anche nel nostro ordinamento, in caso di leggi votate dal Parlamento ma di dubbia costituzionalità, esistono vari meccanismi di “sospensione cautelare della legge”. Tali meccanismi, infatti, possono essere messi in moto solo dai giudici, non certo dai comuni cittadini o dagli amministratori locali, quale che sia il loro rango: un punto di cui pochi, a sinistra, sembrano consapevoli. Fra essi vale la pena ricordare la voce di un altro primo cittadino, il sindaco Pd di Montepulciano, che a proposito del decreto sicurezza, che non condivide e di cui denuncia gli “effetti nefasti”, ha avuto la correttezza di aggiungere: “si tratta di una legge dello Stato che un Sindaco non può non rispettare: anche questo è un principio fondamentale del nostro ordinamento, al quale non si può derogare se non immaginando scenari da repubblica delle banane”.

Temo che, nel Pd che Zingaretti si accinge a riorganizzare, gli Andrea Rossi siano destinati a restare una minoranza. Un vero peccato, perché la loro assenza non fa che ritardare la nascita di una sinistra moderna, capace di pensare sé stessa semplicemente come portatrice di un progetto politico progressista, anziché come l’incarnazione del Bene o, peggio, come la rappresentante esclusiva della “parte migliore del Paese”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 5 gennaio 2019



Un futuro di tasse, chi l’avrebbe detto?

Anche se mancano ancora un sacco di cifre, e persino l’Ufficio Parlamentare di Bilancio si tiene sul vago, di una cosa possiamo purtroppo essere certi: la pressione fiscale programmata per il triennio 2019-2020-20121 è maggiore, sensibilmente maggiore, di quella ereditata nel 2018. Si parte dal 42% circa dell’anno che si sta concludendo, si passa al 42.4 nel 2019, e si sale ancora negli anni successivi. In che misura dipenderà dalle clausole di salvaguardia, che riguardano essenzialmente l’Iva e le accise sui carburanti. Se dovessero scattare anche solo in parte, ci ritroveremmo, fra un paio di anni, con una pressione fiscale compresa fra il 43% e il 44%, ossia esattamente al livello cui era salita con il governo Monti, ai tempi dell’austerità. Un bel paradosso per un governo che vuole cambiare tutto, e i cui esponenti in campagna elettorale avevano solennemente promesso di diminuire le tasse.

In tutto questo c’è una logica, però. Se le tasse aumenteranno non solo l’anno prossimo ma anche nei due anni successivi, è esattamente per il medesimo motivo: finanziare quota 100 e reddito di cittadinanza, ossia le due promesse cui Salvini e Di Maio si sono impiccati, costa un sacco di soldi nel 2019, ma ne costerà ancora di più nel 2020 e nel 2021, quando le due misure andranno a regime, e cadrà del tutto lo sconto di parecchi miliardi connesso al loro avvio ritardato (ad aprile anziché a gennaio).

Di per sé un aumento dell’Iva non dovrebbe essere guardato come il male assoluto. Molti studi suggeriscono che, dal punto di vista della crescita e dell’occupazione, vi siano forme di prelievo ben più dannose, a partire da quelle che gravano sui produttori: Ires e Irap innanzitutto, ma anche i contributi sociali. La vera domanda non è se nel 2020-2021 l’Iva verrà aumentata di nuovo (cosa estremamente probabile), ma quale sarà la destinazione del maggiore gettito (investimenti o spesa corrente), e soprattutto se l’aumento dell’Iva avverrà in un quadro di pressione fiscale e contributiva decrescente, costante o crescente.

Io temo che la risposta sia che l’Iva aumenterà, ma non per ridurre altre tasse, bensì per finanziare spesa corrente, il tutto nel quadro di un aumento della pressione fiscale complessiva.

Da dove ricavo questo timore? Essenzialmente dalla legge di bilancio stessa, dalle cui voci è possibile individuare almeno tre linee programmatiche inquietanti.

La prima è un cospicuo aumento della spesa per interessi, dovuta all’impennata dello spread. La seconda è lo smantellamento di alcuni pezzi dello Stato sociale: insegnanti di sostegno, protezione civile, accoglienza richiedenti asilo. La terza è una maggiore penalizzazione delle imprese, sotto forma di minori incentivi e minori rimborsi fiscali.

In concreto questo significa che il governo prevede, per gli anni futuri, un ulteriore massiccio aumento della spesa corrente, in parte per pagare gli interessi sul debito, in parte per mantenere le promesse elettorali (quota 100 e reddito di cittadinanza), ma a fronte di tale aumento riesce solo ad immaginare tagli allo Stato sociale e maggiori oneri per le imprese. E, fatto forse ancora più significativo, non prevede alcuna significativa riduzione generalizzata delle aliquote, con tanti saluti alla più importante promessa della Lega: la flat tax al 15%.

Ora, entrambe le strade delineate nella legge di bilancio (ulteriori oneri per le imprese, ulteriori sforbiciate al welfare), hanno un grave difetto politico: quello di andare contro il mondo dei produttori, che negli ultimi mesi ha già dato chiari e ripetuti segni di scontento, sia sul versante datoriale sia su quello sindacale. Se non vuole indurre una saldatura fra organizzazioni delle imprese e sindacati confederali, il governo non potrà esagerare né nei tagli allo Stato sociale, né in quelli agli incentivi verso le imprese. Detto in altre parole: la copertura delle due costose promesse elettorali cui si è legato andrà cercata anche altrove.

Difficile pensare che questo “altrove” non finisca, come di consueto, per essere un aumento dell’Iva e delle accise, sotto forma di un disinnesco solo parziale della clausole di salvaguardia. E ancor più difficile pensare che, con l’acqua alla gola sul versante dei conti pubblici, il governo riesca ad usare l’aumento dell’Iva per far ripartire gli investimenti pubblici.

Più probabile, specie se l’Italia dovesse entrare in recessione, è che nei prossimi 2-3 anni si assista a un mix di misure che già abbiamo conosciuto in passato: qualche taglio più o meno nascosto alla spesa corrente, presentato come “efficientamento”; qualche taglio o posticipazione degli investimenti pubblici, presentato come “riprogrammazione”; e poi, naturalmente, l’immancabile aumento dell’Iva, presentato come “rimodulazione”.

A riprova del fatto che innovare davvero, nel nostro Paese, è estremamente difficile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2018



Manovra, ma il governo giallo-verde vuole durare?

Rispetto alla prima versione, la manovra concordata nei giorni scorsi con Bruxelles introduce essenzialmente tre cambiamenti: meno spesa corrente, meno investimenti pubblici, un po’ più di tasse, con conseguente miglioramento dei saldi (il deficit previsto scende dal 2.4% al 2%, un valore assai prossimo a quello del 2018, ereditato dal governo Gentiloni).

Sulla natura della “manovra del popolo” i pareri sono divisi. C’è chi vi riconosce un cambiamento sostanziale rispetto al passato, nel bene o nel male a seconda dei punti di vista. E chi invece sottolinea che nulla di veramente importante è cambiato: come sempre, le uscite della Pubblica Amministrazione sono di più delle entrate; come sempre, ci sono misure chiaramente elettorali; come sempre, il futuro è costellato di “clausole di salvaguardia” (aumenti automatici di tasse); come sempre, il metodo è quello: mega testo illeggibile, maxi-emendamento del governo, voto di fiducia.

L’unico punto su cui, fra gli analisti indipendenti, sussiste un notevole grado di consenso è che la manovra non è in grado di fornire alcuna spinta all’economia, né tanto meno di fermare la recessione in arrivo. Questa valutazione poggia su tre circostanze obiettive.

Uno. La manovra non è espansiva, perché l’avanzo primario è analogo a quello di quest’anno.

Due. La manovra non stimola la crescita perché non contempla né una riduzione della pressione fiscale sui produttori né un aumento degli investimenti pubblici.

Tre. La manovra, attraverso l’impennata dello spread, ha già innescato molteplici meccanismi pericolosi: maggiori spese dello Stato per il rifinanziamento del debito pubblico; perdite (virtuali) di famiglie e imprese che detengono ricchezza finanziaria; aumento dei tassi sui nuovi mutui; restrizioni (per ora modeste, ma destinate a crescere) del credito a famiglie e imprese.

Assai più controverso è ovviamente il giudizio sulla bontà dei contenuti della manovra, al di là dello loro capacità di stimolare la crescita. Su questo è impossibile dire qualcosa di ragionevolmente obiettivo, perché ognuno di noi ha priorità diverse, oltreché – spesso – una concezione diversa delle conseguenze delle misure governative. Per parte mia, se dovessi qualificare la manovra con un solo aggettivo, userei l’aggettivo “elettorale”. Anzi, se avessi a disposizione anche un avverbio, direi “smaccatamente elettorale”. Da questo punto di vista la cosiddetta manovra del popolo e il governo che l’ha concepita rappresentano davvero una rottura con il passato. Una rottura che è assoluta rispetto al governo Monti, forse il governo meno elettorale della storia repubblicana, ma che, in parte (e contro le apparenze), è tale anche rispetto ai governi Renzi e Gentiloni.

E’ vero, hanno perfettamente ragione quanti, di fronte alla mossa di varare reddito di cittadinanza e quota 100 a poche settimane dal voto europeo 2019, ricordano l’analoga mossa di Renzi nel 2014, con il bonus da 80 euro calato nelle buste paga giusto prima dell’appuntamento europeo 2014. Così come hanno ragione quanti ricordano gli innumerevoli bonus e misure varie che a quella mossa seguirono nei gloriosi anni del centro-sinistra. E ancor più ragione hanno quanti sottolineano un altro elemento di continuità, ovvero la cattiva abitudine di ipotecare il futuro con clausole di salvaguardia (aumenti di tasse), che tranquillizzano Bruxelles e riducono i gradi di libertà dei governi che verranno.

E tuttavia una differenza, un salto di qualità e di quantità, fra la manovra del popolo e le manovre del passato recente, a mio parere c’è. Lo riassumerei così: dopo Monti, tutte le manovre hanno avuto dosi di elettoralismo considerevoli, e tutte hanno fatto ricorso alle clausole di salvaguardia, ma solo ora, con la “manovra del popolo”, quasi tutte le misure sono di tipo elettorale, e la macchina delle clausole di salvaguardia prosciuga completamente gli spazi di manovra dei governi futuri.

La differenza più importante con il passato riguarda il mondo dei produttori. Nelle manovre degli ultimi 4-5 anni, accanto alle misure di stampo prevalentemente elettorale, erano presenti misure rilevanti di sostegno alla crescita, dalla decontribuzione agli sconti fiscali, dal Jobs Act ai provvedimenti di Industria 4.0. Oggi non solo scarseggiano le nuove misure in favore dei produttori, ma si fa marcia indietro su quasi tutte le misure varate nel recente passato: soppressione dell’ACE (Aiuto alla crescita economica); mancato decollo dell’IRI (Imposta sul Reddito Imprenditoriale); ridimensionamento di Industria 4.0 (poi divenuta Impresa 4.0); indebolimento del Jobs Act (attraverso il cosiddetto Decreto dignità); nuove tasse sulle imprese, sulle società finanziarie e sulle banche; per non parlare dello stop imposto a tante grandi opere. Detto in altre parole, il saldo fra le nuove misure pro-imprese (come la mini flat tax sulle partite Iva) e le vecchie misure soppresse o modificate è drammaticamente negativo. Di qui il malcontento che, da qualche mese, comincia a serpeggiare soprattutto nel Nord, dove anche l’elettorato leghista non capisce perché smontare la legge Fornero sia diventato, improvvisamente, molto più importante che varare la flat tax.

L’altra grande differenza con il passato è l’entità delle clausole di salvaguardia, praticamente raddoppiate rispetto alle leggi di bilancio degli ultimi anni. Una zavorra enorme per qualsiasi governo futuro, compreso il governo gialloverde, che già nell’autunno prossimo dovrà ingegnarsi a trovare 23.1 miliardi per non aumentare l’Iva e altre tasse.

Ecco perché, tornando alla questione posta all’inizio (fu vero cambiamento?), la mia risposta è che sì, la manovra del popolo è diversa da quelle del passato, ma la ragione principale per cui lo è non è che cambia direzione, bensì che accentua i due principali difetti delle manovre dei governi precedenti: troppe misure elettorali, abuso delle clausole di salvaguardia. Il che, forse, rende più attuale che mai l’interrogativo posto nei giorni scorsi dall’ex premier Paolo Gentiloni: il governo Conte intende durare, o dà per scontato che la sua pesante eredità – economia ferma & clausole di salvaguardia –dovrà gestirla qualcun altro?

 




Antigone rovesciata

Non sono un giurista. Quindi è possibile che quel che sto per dire verrà giudicato inappropriato, semplicistico, aberrante, contrario alla civiltà giuridica. Però sento la necessità di dirlo.

A Strasburgo, martedì sera, tre persone hanno perso la vita, altre lottano conto la morte, altre ancora sono rimaste gravemente ferite perché un giovane di origine nordafricana, nato in Francia, ha deciso di onorare così il suo Dio. O almeno così pare, se è vero quel che riferiscono i testimoni, ossia che è fuggito gridando “Allah Akbar”, Allah è grande.

Ora, agli attentati terroristici nel cuore dell’Europa purtroppo siamo ormai abituati da anni. Così come siamo consapevoli che non esiste un modo per renderli impossibili. Però c’è una cosa che non mi torna, come cittadino europeo. Le cronache riferiscono che il giovane Cherif Chekatt (così si chiama l’attentatore) era già stato condannato 27 volte, in Francia, in Germania e in Svizzera. Per reati comuni (nel senso di non legati al terrorismo), ma non certo di poco conto (truffe, violenze, rapine, furti, a quel che si apprende: ma solo il tempo ci dirà se è esattamente così). Pare che la polizia francese l’avesse schedato con la “fiche S”, ossia con il codice che contraddistingue i soggetti pericolosi (S sta per “sûreté de l’Etat”, sicurezza dello Stato), non necessariamente islamici o terroristi in erba. Si apprende, infine, che di soggetti così classificati, e quindi monitorati dalle forze dell’ordine, in Francia ve ne siano circa 26 mila. E che “ovviamente” non ci sono abbastanza poliziotti per controllarli tutti 24 ore su 24.

Ed ecco quel che non mi torna. Supponiamo per un attimo che nulla di tutto quel che si ritiene di sapere di Cherif Chekatt sia vero, salvo il fatto che è già stato condannato 27 volte. Supponiamo, per sgomberare il campo da ogni convinzione o pregiudizio su immigrazione, etnie, islam, terrorismo, che il nostro attentatore fosse semplicemente un giovane francese, figlio di francesi, bianco, mai prima coinvolto in fatti di terrorismo ma “solo” autore di 27 reati in 3 paesi europei. Ebbene, non vi sembra che, comunque, vi sarebbe qualcosa che non va?

Come è possibile che nella civilissima Europa, anche dopo la 26-esima volta che si commette un reato, ci si possa trovare perfettamente liberi, ovvero scarcerati per la 26-esima volta, pronti a commettere il nostro 27-esimo reato? Non c’è qualcosa di profondamente illogico in un ordinamento entro il quale tutto ciò non è l’eccezione, l’anomalia, l’errore che può scappare in una situazione-limite, ma è la norma, ovvero la logica conseguenza delle avanzatissime leggi che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, abbiamo ritenuto di darci?

Adesso vorrei fare un passo di lato. Supponiamo che un fine giurista, un politico illuminato, o un sincero democratico, riescano a convincermi che tutto ciò è giusto, anzi è la giustizia stessa, è il senso della civilizzazione, e dunque gli Cherif Chekatt che, anziché stare in carcere, fanno stragi nei mercatini di Natale, sono semplicemente il prezzo della nostra libertà. Ebbene, anche se io ne uscissi convinto, anche se il mio rieducatore riuscisse a rieducarmi, io comunque una cosa non potrei non fargliela notare: tutto ciò che affermi è contro il comune senso di giustizia della gente normale; tutto ciò cozza contro i sentimenti che qualsiasi persona non accecata dall’ideologia prova; tutto ciò contraddice la “legge naturale”, al di là delle “norme positive” inventate dagli uomini. Perché non è naturale che una comunità non possa difendersi da chi ha ripetutamente manifestato la volontà di colpirla.

E’ la tragedia di Antigone, ma capovolta. Là, nella tragedia di Sofocle, Antigone rivendicava il diritto di seppellire il fratello Polinice in nome della legge naturale, contro la legge della città. Noi, oggi, ci troviamo nella situazione paradossale per cui la gente, in nome della legge naturale, vorrebbe che i criminali di professione stessero permanentemente in carcere, a tutela della comune città (civiltà) europea, mentre i governanti, che quella città dovrebbero difendere, scrivono leggi che non tengono in nessun conto il comune senso di giustizia. Il principio, sacrosanto, per cui a chi sbaglia non dovrebbe mai essere negata una seconda chance, viene dilatato e stravolto fino a stabilire, di fatto, il principio per cui ad ognuno dovrebbe essere data anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta,.., una ventisettesima chance.

E’ abbastanza incredibile, ma sulla criminalità e sul terrorismo l’unica strategia che non viene mai presa seriamente in considerazione è l’incapacitazione: punire la recidiva rendendo il tempo di permanenza in carcere tanto più lungo quanto più numerosi e ripetuti sono i crimini commessi.

So bene che, in tempi di governi (e di maggioranze) populiste, quel che pensa la gente normale viene irriso dall’élite degli illuminati, e bollato come banale buon senso, quando non come anticamera dei peggiori sentimenti e delle peggiori ideologie. Ma agi illuminati io vorrei ricordare quel che Raffaele La Capria, ebbe a scrivere sulla differenza fra buon senso e senso comune: il buon senso è spesso opportunista e conformista, perché si adatta a quel che conviene pensare in quel momento e in quel luogo, magari solo perché tutti lo pensano o fingono di pensarlo; il senso comune è libero da pregiudizi perché ha il coraggio di vedere le cose per quello che sono, al di là delle costruzioni intellettuali con cui il potere cerca di ridescriverle (Lo stile dell’anatra, Rizzoli 2010).

Sulle politiche della sicurezza, quello della gente non è bieco buon senso, ma semmai intrepido senso comune. Io lo chiamerei “senso comune etico”, un naturale sentimento di giustizia che si erge a difesa della città minacciata, e poggia sulla capacità di vedere le cose per quello che sono diventate. E quel che la gente vede è semplicemente questo: che le regole della città si sono allontanate troppo, e troppo in fretta, dal comune sentire delle persone, e proprio per questo stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città.

Articolo pubblicato sul Messaggero del 15 dicembre 2018



Cultura e politica

Una delle cose che più mi stupiscono, quando si approssima una scadenza elettorale (e noi ne abbiamo giusto una in arrivo: le Europee di maggio 2019), è come le solenni promesse dei partiti si concentrino su pochissimi argomenti-chiave, lasciando in ombra tutto il resto. Nelle elezioni del 4 marzo, ad esempio, il 90% del dibattitto politico ha ruotato intorno a quattro soli temi: immigrazione, flat tax, riforma Fornero, sussidi ai poveri variamente denominati (reddito di cittadinanza, di inserimento, di dignità ecc.).

Ma ancor più che la concentrazione su pochi temi, quel che mi stupisce è la completa espulsione dal dibattito politico di determinati temi, che pure in teoria o in altri contesti tutti riconoscono come importantissimi. Uno di questi è l’ambiente, ma meglio sarebbe dire il futuro del pianeta, messo a rischio dai nostri comportamenti quotidiani ma soprattutto dalla latitanza delle istituzioni, ben poco attente a problemi come il riscaldamento globale, i rifiuti, l’inquinamento delle falde acquifere. Un altro è il futuro dei giovani, compromesso dall’aumento del debito pubblico e dalla controriforma delle pensioni. Un altro ancora è la cultura, ovvero il funzionamento di istituzioni e organizzazioni fondamentali come la scuola, l’università, le case editrici, i giornali, la radio, la televisione, i teatri, i musei.

Su questo genere di argomenti il silenzio dei partiti e degli uomini politici è assordante, come se ritenessero che ai cittadini queste cose non importino, e dunque possano essere espulse dal dibattito politico. C’è una differenza, però, fra i primi due temi che ho citato (ambiente e giovani) e il terzo (la cultura). Ed è che, pur stupendomi del disinteresse del mondo politico per questo genere di temi, per i primi due riesco a darmi una spiegazione, per il terzo no. La spiegazione è molto semplice: ambiente e giovani sono problemi del futuro, non dell’oggi, e quindi è normale che la politica, divenuta miope e irresponsabile, non li affronti, o lo faccia in modo puramente ideologico, senza prendere il toro per le corna. Per il terzo tema, l’istruzione e la cultura, la spiegazione invece non c’è. Quel che si fa o non si fa in questo ambito ha conseguenze molto importanti fin da subito, ed è dunque strano che ai politici interessi così poco.

A quali conseguenze mi riferisco?

Se ne potrebbero citare molte, ad esempio si potrebbe ricordare che, secondo diversi studi di tipo empirico, il più importante fattore di crescita del benessere, in occidente, è il capitale culturale, ossia il livello di competenza della forza lavoro. Insieme alle tasse troppo alte e alle pastoie burocratico-giudiziarie, è proprio il basso livello di istruzione il freno fondamentale alla crescita del Pil.

Ma la ragione più importante per cui la politica fa male a non occuparsi della cultura è che la rinuncia a elevare il livello culturale effettivo della popolazione, a partire dalla scuola e dall’università, è un formidabile fattore di diseguaglianza. Si può capire che il tema non appassioni la destra, per cui la diseguaglianza non è il problema fondamentale della nostra società, ma la sinistra? Che cosa fa la sinistra per elevare il livello culturale della popolazione?

Se guardiamo agli ultimi 50 anni di storia, quel che dobbiamo registrare è, purtroppo, che la politica del mondo progressista nei confronti della cultura ha quasi sempre e quasi ovunque avuto due pilastri. Uno è lo sforzo, benemerito, di allargare la platea degli utenti di ogni forma di consumo culturale, dalla lettura dei quotidiani a quella dei libri, dalle notti bianche ai festival. L’altro è l’accettazione, e in alcuni casi la promozione intenzionale e consapevole, di un generale abbassamento degli standard, visto come precondizione per un allargamento della platea degli studenti, nella scuola come nell’Università. E questo abbassamento, se da un lato ha allargato l’utenza (termine orribile, ma che rende bene l’idea di che cosa siano diventate oggi la scuola e l’università), dall’altro ha disarmato completamente i ceti popolari, che avevano nella conquista di una cultura elevata l’unica strada, e l’unica arma, per bilanciare i privilegi dei figli di papà.

Questo fino a ieri. Oggi non c’è neppure questo, perché l’istruzione è uscita dal radar della sinistra, divenuta completamente indifferente ai contenuti culturali, e tutt’al più sensibile ai problemi occupazionali del ceto insegnante (vedi le assunzioni della “buona scuola”, che nulla ha fatto per alzare gli standard).

Da sempre poco interessante per la destra, trattata nel modo sbagliato (perché anti-egualitario) dalla sinistra, la cultura non sembra avviata a un destino glorioso neppure nell’emergente mondo populista. Né potrebbe essere diversamente. Dacché si è teorizzato che “uno vale uno”, dacché esperti e competenti sono stati additati al pubblico disprezzo, dacché chiunque – in televisione o su internet – si sente autorizzato a dire la sua su argomenti su cui non ha la minima cognizione di causa o esperienza, è inevitabile che il mondo della cultura, il suo rafforzamento, la sua difesa dalle contraffazioni, non interessino più la politica.

Ma forse mi sto sbagliando. Forse è vero il contrario. A ben vedere, la cultura alla politica di oggi interessa moltissimo. Anzi la politica non fa altro, 24 ore su 24, che occuparsi di cultura. Solo che il suo scopo, forse consapevole forse no, è semplicemente di rimuovere la cultura dall’orizzonte del discorso pubblico. Perché la cultura è un ostacolo, forse l’unico vero ostacolo rimasto, al dilagare senza freni e senza inibizioni dello spettacolo della politica. Uno spettacolo che i protagonisti preferiscono mettere in scena da soli, e cui il mondo dei media, social e no, fornisce un insperato e durevole palcoscenico. H24.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 09 dicembre 2018