La sagra dell’ipocrisia

Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi.

Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica.

Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera. Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico.

Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora Di Maio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: ‘contratto’) con la Lega a un possibile contratto con il Pd, magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.

Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana?

Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo.

Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza.

Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici.

Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 agosto 2019



La lotteria delle elezioni

La data del voto nessuno la sa ancora con certezza, ma sembra molto probabile che entro la fine di ottobre gli italiani saranno chiamati di nuovo alle urne.

Come andrà a finire?

Gli ultimi sondaggi dànno la Lega in vista del 36-38%, una percentuale che in passato venne toccata solo dalla Dc, negli anni della prima Repubblica, e dal centro-destra unificato da Berlusconi sotto la sigla del Pdl giusto dieci anni fa, alle politiche del 2008.

Dopo la Lega dovrebbero piazzarsi il Pd o i Cinque Stelle, oggi dati in prossimità del 20%, che lotteranno per il secondo posto. Infine, alle spalle dei tre partiti maggiori, dovrebbe andare in scena un duello inedito, quello fra Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Berlusconi (forza Italia), per la conquista del quarto posto, con una percentuale di voti dell’ordine del 7-8%. Tutto il resto, sempre stando ai sondaggi, è il solito folklore dei partiti-bonsai, di cui ci si chiede soltanto se troveranno il modo di eleggere qualche deputato o senatore.

Se le cose dovessero andare come i sondaggi ce le dipingono oggi, non ci sarebbe storia: Salvini formerebbe un governo con Giorgia Meloni, e starebbe a Berlusconi decidere se vuole essere della partita oppure no.

Ma le cose andranno così?

Non è detto. Quando si azzardano questo genere di previsioni, si dimenticano infatti alcune cose.

La prima è che l’elettorato italiano è diventato estremamente volubile. Anche in passato succedeva che un leader a lungo osannato perdesse repentinamente il consenso, come accadde a Mussolini e a Craxi, per citare i due casi più clamorosi. Ma di solito il consenso durava a lungo, prima di essere ritirato. Oggi non è più così, un leader può cadere nel giro di 2-3 anni. Forse ce ne siamo scordati, ma era già successo con Walter Veltroni. Corteggiato, osannato, considerato l’unico in grado di ridare un’anima alla sinistra, venne incoronato segretario del neonato Partito democratico nel 2007, ma già due anni dopo, nel 2009, veniva indotto a dimettersi da una sconfitta elettorale (in Sardegna) ma soprattutto dalle faide interne al nuovo partito. Pochi anni dopo è toccato a Matteo Renzi, anche lui acclamato e considerato l’unico in grado di innovare il Pd, ma sonoramente sconfitto e abbandonato alla fine del 2016 (referendum costituzionale), meno di 3 anni dopo la sua ascesa alla presidenza del Consiglio. E’ naturalmente possibile che Salvini duri qualche decennio, ma i precedenti di Veltroni e di Renzi suggeriscono molta cautela. Anche perché non è detto che l’elettorato apprezzi la mossa di Salvini di far cadere il governo anzitempo.

Una seconda cosa, ancora più importante, che si tende a dimenticare è che l’esito di un’elezione non dipende solo dalla domanda politica degli elettori, ma anche dall’offerta politica. I sondaggi che in questi giorni vengono freneticamente consultati dai leader politici degli attuali partiti nulla possono dire su come reagirebbe l’elettorato se scendessero in campo nuove forze politiche, o se quelle attuali cambiassero drasticamente linea politica.

Qualcuno, ad esempio, ha fatto osservare che un’eventuale rottura dei Cinque Stelle con la Lega, con conseguente ritorno alla purezza originaria del movimento, potrebbe anche riportare all’ovile una parte dell’elettorato grillino, rifluito verso il non voto e verso il Pd. Ma la fonte di incertezza più significativa è la possibile nascita di nuove forze politiche, specie al centro, in quell’area che in passato era presidiata dai cattolici (ricordate la Margherita?) e dalle forze moderate, come il partito di Mario Monti. Non sappiamo se nascerà un partito del Sud (anche di questo si parla da qualche tempo), o un partito di Renzi, o un partito di Calenda, o un partito di Conte, o un partito di qualche imprenditore della politica tentato dall’avventura elettorale, ma quel che è certo è che, se alle elezioni dovesse presentarsi una forza politica nuova e credibile, di voti ne potrebbe attirare parecchi, con conseguente indebolimento dei maggiori partiti, e probabilmente anche di Forza Italia (e se fosse questa la ragione dello strappo di Salvini, timoroso che – con il passare del tempo – il centro possa essere occupato da altri)?.

C’è poi la grande incognita sulle maggioranze parlamentari. Il centro-destra pare sicuro di poter raccogliere il 45% dei voti (Lega + Fratelli d’Italia) senza Berlusconi, e di poter andare oltre il 50% includendo i consensi a Forza Italia. E’ un calcolo verosimile, ma di nuovo occorre ricordare che i sondaggi nulla possono dire su eventuali nuovi attori in campo, e che la regola empirica per cui con il 40% dei voti si conquistano il 50% dei seggi è, appunto, una regola empirica, che dipende da circostanze non facilmente prevedibili, ovvero quali forze politiche non supereranno la soglia di sbarramento, e che cosa succederà nei collegi uninominali della parte maggioritaria, che assegna il 37% dei seggi.

C’è, infine, l’incertezza sul Governo. Se una cosa ci ha insegnato la presente Legislatura, è che i partiti possono benissimo presentarsi alleati e poi dividersi, oppure presentarsi da acerrimi nemici e poi allearsi per formare un Governo.

Insomma, i giochi sembrano chiusi, ma non lo sono. In tre mesi possono cambiare tante cose.

Pubblicato su Il Messaggero del 10 agosto 2019



Il senso (perduto) delle proporzioni

Ricordate la strage del 2011 nell’isoletta norvegese di Utøya, quando in odio agli immigrati islamici un fanatico di nome Breivik uccise a sangue freddo 77 ragazzi, colpevoli di essere socialisti?
Ebbene lo sconcerto, la rabbia e l’indignazione furono unanimi. E altrettanto unanime fu lo sconcerto quando il medesimo Breivik, condannato a 21 anni di carcere (il massimo della pena nella civilissima Norvegia), intentò causa allo Stato e alle autorità carcerarie per “trattamento inumano”. Tra le lamentele di Breivik, ospitato in una prigione ultra-confortevole (un trilocale con tanto di doccia e palestra personale), lo stato di isolamento cui era stato costretto, la versione troppo vecchia della playstation, la paghetta settimanale insufficiente, i videogiochi troppo infantili. Per quanto mi riguarda lo stupore si trasformò in incredulità quando appresi che la giustizia norvegese, progressista, illuminata, avanzatissima, diede ragione all’assassino para-nazista Breivik e torto allo Stato e alle autorità carcerarie.

Questa storia mi è tornata alla mente in questi giorni, di fronte all’espressione “trattamento inumano” da alcuni adoperata per descrivere quel che è successo a uno dei due giovani americani arrestati per l’assassinio del carabiniere Mario Cerciello Rega, che prima (o dopo) un regolare interrogatorio videoregistrato e in presenza di un avvocato, è stato tenuto legato e bendato su una sedia, pare per cinque minuti. La storia di Utøya non mi è venuta in mente perché i due casi siano simili (non lo sono affatto), ma perché il caso norvegese illustra molto bene un fenomeno più generale, che è presente in entrambe le circostanze e in molti altri casi di tutt’altra specie: la completa perdita del senso delle proporzioni.

Un concetto come quello di trattamento disumano, inumano o degradante è stato coniato per individuare pratiche gravemente lesive della dignità umana, come la tortura, la riduzione in schiavitù, la detenzione in condizioni estreme, da Guantanamo ai campi libici. Estenderlo ad episodi più o meno gravi e riprovevoli ma che non hanno nulla a che fare con i comportamenti cui il concetto si riferisce, o addirittura applicarlo a casi ridicoli come illustra il caso norvegese, è un pericoloso abuso di linguaggio, che alla lunga può produrre effetti aberranti. Se la giustizia norvegese ha potuto dare ragione ai capricci di un assassino spietato, colpevole della morte di 77 ragazzi innocenti, è anche perché abbiamo smarrito il senso delle proporzioni. O, se preferite, perché siamo affetti da un eccesso di civiltà, che ormai ci impedisce di mettere i fatti nelle giuste categorie, e di usare le parole appropriate.

Può così accadere che un professore americano sia punito e addirittura perda il posto perché il materiale cui espone gli studenti (sia esso la Divina Commedia o un testo di Mark Twain) infliggerebbe alle loro menti sensibili un “danno emotivo”. O che un ministro sia accusato di “sequestro di persona” perché non fa scendere tempestivamente da una nave dei migranti salvati in mare. O che un genitore che dà uno schiaffo a un bambino venga accusato di “violenza su minore” (succede anche questo, nei paesi più civili).

Quel che colpisce, in tutti questi casi, non è il giudizio che si dà verso il colpevole, sia esso lo Stato norvegese, l’Arma dei Carabinieri, il professore americano, il ministro della Repubblica, o il genitore, ma che il meccanismo accusatorio si basi sulla medesima tecnica retorica obliqua: anziché contestare francamente la violazione di qualche regola o l’urto di qualche sensibilità individuale, si importano parole forti, cariche di emotività, e che non lasciano dubbi di colpevolezza (trattamento inumano, danno emotivo, sequestro di persona, violenza) per descrivere comportamenti che stanno in tutt’altro ambito. Con ciò si smarrisce una delle fondamentali capacità dell’essere umano, o perlomeno dell’essere umano qual era prima che l’ossessione del politicamente corretto e l’abuso della cultura dei diritti tentassero di riprogrammarlo da zero: la capacità di cogliere la sostanza di un comportamento, e di graduarne la gravità.

Una capacità che è importante, perché connessa al comune senso di giustizia. Chi perde il senso delle proporzioni, perde la capacità di soppesare il bene e il male, o di riconoscere il male estremo per quello che è. E finisce, con la sua indifferenza, per infliggere nuovo dolore a chi dal male estremo è stato colpito.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 agosto 2019



Come va l’economia?

All’insegna della mediocrità

Se avvolgiamo il film all’indietro e ci chiediamo che cosa predicevano i protagonisti della politica un anno fa, quando il governo giallo-verde muoveva i primi passi, dobbiamo rispondere: nessuno ci ha azzeccato.

Ricordate il ministro Savona?

Per lui il Pil sarebbe potuto crescere del 2% nel 2019 e del 3% nel 2020. Quanto al deficit pubblico, il livello del 2.4% (quello sbandierato dai Cinque Stelle dal balcone di Palazzo Chigi) sarebbe stato sostenibile. Meno incauto del suo ministro, il governo ripiegava su stime più caute di crescita del Pil, e fantasticava di investimenti pubblici per decine di miliardi di euro.

E l’opposizione di sinistra, ve la ricordate?

Come Cassandra, prevedeva ogni sorta di sfracelli: una nuova recessione, crollo dell’occupazione, aumento della disoccupazione, spread fuori controllo, crisi finanziarie. Per non parlare del “partito del pop corn”, ingenuamente convinto che per veder cadere rovinosamente questo governo sarebbe bastato aspettare che il disastro si compisse, e gli italiani fossero costretti a prenderne atto.

A un anno di distanza, possiamo invece constatare che nessuna delle mirabolanti previsioni che con tanta sicurezza venivano avanzate si è realizzata. L’economia, a quanto pare, predilige la prosa.

E’ vero, ci sono stati momenti difficili, ma dopo un anno la situazione sul versante finanziario è rassicurante, anche grazie al cambio di orientamento della politica monetaria. Il temuto deficit al 2.4% viaggia invece verso il 2,1%. Le ingenti perdite virtuali registrate sui mercati finanziari nel 2018 (circa 200 miliardi di euro) sono oggi completamente assorbite e hanno lasciato il posto a un leggero saldo positivo. L’occupazione è aumentata di circa 100 mila addetti, la disoccupazione è diminuita di circa 200 mila unità.

Nello stesso tempo non si può non osservare che né la produzione industriale né l’export vanno bene, ci sono circa 160 tavoli di crisi aziendali aperti, gli investimenti pubblici ristagnano, i cantieri restano bloccati, le ore di cassa integrazione straordinaria sono raddoppiate in un anno, con un impatto paragonabile alla perdita di 50 mila posti di lavoro.

Insomma: la situazione non è né eccellente come ci raccontano i governanti, fieri delle molte misure adottate, né catastrofica come cerca pateticamente di convincerci l’opposizione. La situazione è mediocre, semplicemente mediocre.

E in prospettiva? Che accadrà con la Legge di Bilancio?

Anche su questo assistiamo alla consueta divaricazione fra le previsioni. Per le opposizioni le promesse del governo, a partire dalla flat tax e dal non-aumento dell’Iva, costano 40-50 miliardi, e quindi sono destinate a far esplodere i conti pubblici. Per il governo le coperture si troveranno, e l’Europa dovrà consentirci di abbassare le tasse in deficit.

E’ probabile, invece, che la realtà – come è successo finora – smentirà sia gli uni sia gli altri. Per qualche mese assisteremo alla consueta sceneggiata con l’Europa, che si concluderà con un mediocre compromesso (ci lasceranno fare un po’ di deficit, ma molto poco). Quanto alle tasse, le parole d’ordine saranno “rimodulazione” e “riordino”: la parola rimodulazione (delle aliquote Iva) servirà a nascondere che, complessivamente, l’Iva aumenterà. La parola riordino (delle tax expenditures, ovvero delle esenzioni e agevolazioni fiscali) servirà invece a nascondere il fatto che, complessivamente, la pressione fiscale non diminuirà, perché i soldi per varare un assaggio di flat tax si troveranno disboscando la giungla delle agevolazioni.

Insomma: quest’autunno non vedremo né il crollo dell’economia, né la sua ripartenza grazie al carburante di quota cento e reddito di cittadinanza. Ancora una volta, la mediocrità sarà la nostra cifra.

E’ un vero peccato, perché il fatto che le cose non vadano troppo male forse aprirebbe lo spazio per tentare qualche mossa di rilancio della crescita. Mosse che, per essere efficaci, dovrebbero essere non troppo elettorali e non troppo gravose per i conti pubblici. O, ancora meglio, essere a costo zero. A partire dalla mossa che da decenni è il sogno proibito di ogni imprenditore: una riduzione degli adempimenti burocratici che, almeno in questo, ci renda finalmente simili agli altri paesi europei.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 luglio 2019



Perché Salvini tiene

Che né Salvini né Di Maio abbiano la stoffa dell’uomo di Stato, o perlomeno di ciò che un tempo eravamo abituati a designare con questo termine, era chiaro prima del voto ed è ancora più chiaro oggi, dopo 14 mesi di governo. Né l’uno né l’altro sono stati capaci di mostrare, verso gli altri leader europei, verso le istituzioni comunitarie, verso gli organismi sovranazionali, il rispetto ad essi dovuto indipendentemente dalle differenze di vedute sulle questioni cruciali, siano esse la politica economica o la gestione dei migranti. Quanto alla politica interna, non si può non notare che il tasso di demagogia e di semplicismo toccati in questo primo anno di governo non ha precedenti nella storia unitaria: mai era successo che le analisi fossero così infantili tanto nella diagnosi dei nostri mali, quanto nella indicazione dei rimedi.

Negli ultimi mesi, tuttavia, su queste caratteristiche comuni dei due leader da cui dipende la sopravvivenza del governo, si è poco per volta innestata anche una importante differenza, di atteggiamento e di stile comunicativo. Il linguaggio di Salvini ha mantenuto (e forse accentuato) i suoi tratti più crudi, talora offensivi, mentre quello di Di Maio si è fatto via via più moderato e istituzionale, una differenza che peraltro si è anche sostanziata nel voto per l’elezione di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Europea, con i leghisti schierati contro e i pentastellati a favore.

A fronte di questa evoluzione, e nonostante il duro colpo all’immagine di Salvini inferto dalle recenti accuse di aver preso soldi dai russi, i sondaggi continuano a premiare Salvini e a punire Di Maio. Sembra quasi che, qualsiasi cosa accada nella comunicazione o nella realtà, l’elettorato non abbia alcuna intenzione di cambiare le proprie scelte, molto chiaramente espresse nel voto europeo, che ha più che raddoppiato i consensi alla Lega e quasi dimezzato quelli ai Cinque Stelle.

Su che cosa poggiano questa sorta di invulnerabilità di Salvini e fragilità di Di Maio?

Una possibile spiegazione è che Salvini, grazie alla sua insistenza sulle cose da fare e alle continue denunce delle resistenze altrui, sia riuscito ad accreditare la Lega come “partito dei sì” (sì alla flat tax, sì al Tav, sì all’autonomia delle regioni del Nord) e soprattutto ad appiccicare al Movimento Cinquestelle l’etichetta di “partito del no” (nonostante i Cinque Stelle abbiano anch’essi i loro “sì”, a partire dal salario minimo europeo). In certo senso si potrebbe dire che Salvini è riuscito nel capolavoro di trasformare un errore, o se preferite una scelta azzardata (bruciare risorse per quota 100, sottraendole alla flat tax), in un vantaggio competitivo con l’alleato di governo: proprio perché ho fatto solo quota 100, ora devo fare la flat tax.

Una seconda spiegazione è che gli italiani sono diventati sostanzialmente indifferenti alle presunte malefatte dei politici. Finché non emergono comportamenti clamorosamente immorali o scorretti, e finché i processi si celebrano solo sui giornali e in tv, gli italiani tendono a sospendere il giudizio sui politici chiacchierati, accusati, inquisiti. E’ paradossale, ma proprio la faziosità e superficialità di parte della Magistratura ha fornito alla politica un formidabile scudo contro le inchieste giudiziarie, viste come parti in commedia di una lotta fra poteri più che come strumento di garanzia.

Ma la spiegazione più importante è probabilmente un’altra e sta negli stili comunicativi di Salvini e Di Maio, o forse sarebbe meglio dire: nelle preferenze comunicative degli italiani. A me pare che, dopo un quarto di secolo di seconda Repubblica, almeno due punti dovrebbero essere considerati assodati.

Il primo è che, ci piaccia o no, volgarità, aggressività verbale, mancanza di rispetto dell’interlocutore, sono ormai entrate fra le modalità di comunicazione accettate dalla maggior parte degli italiani, e questo non certo per colpa dei politici. La politica si è limitata ad assorbire, per lo più con notevole ritardo, cambiamenti che si erano già ampiamente imposti in tv, alla radio, su internet, più in generale nel costume. Da questo punto di vista il fatto che la comunicazione di Salvini sia spesso poco ortodossa (eufemismo) e quella di Di Maio sia quasi sempre formalmente educata, non fornisce alcun vantaggio a quest’ultimo. Un esito aggravato dal fatto che, presumibilmente, quella parte (minoritaria) dell’elettorato che apprezza la pacatezza preferisce vederla unita a doti come competenza, preparazione, esperienza, capacità di argomentare in modo non ideologico, semplicistico o preconcetto: tutte qualità che non sono le prime che vengono in mente quando si tratta del capo politico del Movimento Cinque Stelle.

Il secondo punto è che, da quando Berlusconi ha rivoluzionato il linguaggio della politica, verosimilmente la qualità più apprezzata dagli elettori è diventata l’aderenza al senso comune. Agli italiani piace che il politico si esprima come l’uomo della strada, ma piace ancora di più che mostri di pensare e sentire come l’uomo della strada. Una sottile e perversa declinazione dell’ideale egualitario ci rende diffidenti verso i politici che sono (o appaiono) in qualche misura o in qualche senso superiori a noi, e ci fa adorare quelli che si pongono ostentatamente al nostro livello di persone comuni.

E cosa ha fatto Salvini, in questo primo anno di governo, se non esprimere pensieri, concetti, impulsi che chiunque di noi può provare solo che si trovi in determinate situazioni? Quanti milioni di persone, quotidianamente alle prese con i problemi della criminalità e dell’immigrazione nelle periferie della Penisola, hanno potuto constatare che il Ministro dell’Interno la pensava proprio come loro?

La differenza con Berlusconi è solo che Berlusconi si rivolgeva soprattutto ai ceti medi, in un’epoca in cui eravamo ancora pieni di speranze, e credevamo che questo paese potesse risollevarsi. Mentre Salvini si rivolge soprattutto ai ceti popolari, in un’epoca in cui la fiducia nel futuro è ormai un ricordo del passato.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 luglio 2019