Gli errori della sinistra. Intervista a Luca Ricolfi

Questa ennesima tornata elettorale del 2018 ha come risultato il titolo del suo ultimo libro: “Sinistra e popolo“. Era una profezia?

In un certo senso sì, tuttavia è dal 2000, ossia da quasi vent’anni, che denuncio che “la sinistra non è più di sinistra”.

Dove ha sbagliato e continua a sbagliare il Pd, che ha perso anche santuari come Pisa e Siena?

Il Pd sbaglia sui due punti fondamentali, ossia sulla questione della sicurezza e su quella dell’eguaglianza, perché di fatto sottovaluta entrambe. Ma sbaglia anche in ciò con cui le sostituisce: puntare quasi tutte le carte su diritti umani e diritti civili significa trasformare il Pd in una specie di partito radicale, libertario e individualista.

Però ormai la frittata è fatta. È prima che doveva correggere la rotta, non ora che il vento soffia nelle vene dei populisti. Se domani cambiassero completamente linea, nessuno gli crederebbe…

È più dannoso un segretario che non si dimette mai (Renzi) o un partito Ztl che rappresenta l’alta borghesia dei centri storici?

La seconda che ha detto: il partito Ztl è più dannoso del suo segretario. Le colpe di Renzi sono ampiamente sopravvalutate: se il problema del Pd fosse Renzi, una valanga di voti sarebbe piovuta su LEU.

Un Pd così in difficoltà avrebbe potuto rimanere un partito rifugio (parole sue) contro la strana alleanza 5stelle-Lega. Perché non è così?

Perché la gente è stufa di chiacchiere, e detesta i racconti trionfalistici. Chi vota i populisti non lo fa in base a una scelta di fondo, o a convinzioni ferme. Semplicemente pensa: Renzi è un bullo chiacchierone e inconcludente, vediamo se questi qui riescono a combinare qualcosa.

Tenete presente che, qualsiasi indicatore serio si prenda (Pil, occupazione, disoccupazione, povertà), siamo agli ultimissimi posti in Europa, e su molti indicatori le cose sono peggiorate con Renzi e Gentiloni. Per cui chi si sente ripetere fino alla noia “siamo stati bravi, abbiamo portato la barca in salvo, con noi le cose vanno meglio”, tutt’al più pensa ai barconi dei migranti, non certo alla barca-Italia.

C’è un altro partito che soffre in silenzio dentro la coalizione di centrodestra: Forza Italia. È un declino passeggero o un tramonto?

Tramonto, direi. A meno di un cambio completo di persone, idee, organizzazione, che però è del tutto improbabile: i vecchi tendono a conservare sé stessi, e Forza Italia è un partito culturalmente vecchio, senza guizzi e senza ricambio. Vi sembra possibile che sia ancora Gasparri a dire la sua frasetta preconfezionata ogni giorno nei Tg di Stato?

Cosa pensa di questa prima fase governativa di Salvini e Di Maio? La grinta piace agli italiani? Dalle risposte nell’urano si direbbe di sì.

Penso quel che pensano le persone normali: sull’immigrazione almeno questi ci provano a cambiare le regole, stiamo a vedere se ottengono qualcosa.

Sull’economia resto della mia idea: o ridimensionano molto il programma, o ci portano al disastro. Teniamo presente che lo spread è 120 punti sopra il livello ante-elezioni, e che altrettanti punti sono destinati ad aggiungersi quando finirà il Quantitative Easing. Ma i politici italiani fanno il solito errore: credono che il problema sia Bruxelles, mentre il problema sono i mercati. Quando lo spread tornerà vicino a 400 punti base sarà del tutto inutile ottenere più flessibilità sui conti pubblici.

Wolfgang Munchau, condirettore del Financial Times e mai tenero con l’Italia, ha scritto che finalmente il nostro è un Paese che non ha paura. E l’Europa dovrà tenerne conto. Sensazione reale o passeggera?

Sensazione reale, speriamo non passeggera.

L’Europa, soprattutto quella di Emmanuel Macron, è molto infastidita dal nuovo governo italiano. Perché?

Un po’ è un fatto di classe. L’Europa di Bruxelles è fatta di persone istruite, estremamente educate, diplomatiche (talora anche un po’ ipocrite), che reagiscono a Salvini come nei salotti si reagisce se entra un barbone, o come i nobili del’800 reagivano ai borghesi. Macron è un esemplare perfetto di questa specie di élite.

Poi naturalmente ci sono i conflitti di interesse reali fra Francia e Italia, che i media italiani si ostinano a non vedere. Su questo una delle poche voci coraggiose è stata quella di Roberto Napoletano, che con “Il cigno nero e il Cavaliere bianco” (La Nave di Teseo, 2017) ha provato a spiegare un po’ di cose sul nazionalismo francese.

La sinistra vincente sembra rimasta solo nelle redazioni, da dove partono anatemi nei confronti degli italiani ignoranti. È una strategia o un dirotto della Valtellina?

Solo nelle redazioni? Non direi, la sinistra è tuttora egemone nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo, in una parte della magistratura, nel terzo settore, e ovunque controlla il potere locale. La non-sinistra, invece, è tuttora in difficoltà, perché non possiede un contro-racconto dell’Italia. E’ questa la forza della sinistra: finché la non-sinistra sarà impersonata da figure come Salvini, Di Maio o Berlusconi, la sinistra purosangue continuerà ad esercitare un’influenza rilevante, se non a dettar legge come in passato.

Quali caratteristiche dovrà avere la sinistra del futuro per tornare a vincere in Italia?

La sinistra italiana è così impermeabile agli input esterni che non credo proprio possa tornare a vincere cambiando sé stessa. Tendo a pensare che, se tornerà a vincere, sarà soprattutto perché gli italiani sono volubili: se neanche questi due (Salvini e Di Maio) funzionano, e Forza Italia dovesse restare appisolata come oggi, prima o poi riproveremo quelli di prima.

Intervista a cura di Giorgio Gandola pubblicata su La Verità del 27 giugno 2018



PD: stupefacente è quanti lo votano ancora

Per molti versi i risultati dei ballottaggi non fanno che confermare quelli del primo turno. L’elettorato si è spostato decisamente a destra, il movimento Cinque Stelle non riesce a replicare il successo delle politiche, la sinistra arranca. Se però si osservano le cose più da vicino, si possono notare anche altri elementi.

Il primo è che in diversi comuni i risultati hanno ribaltato le previsioni della vigilia, o hanno contraddetto i trend nazionali. In Sicilia, il Movimento di Grillo ha perso Ragusa, che governava da cinque anni; ma in Puglia il centro-sinistra, sconfitto alle Politiche del 4 marzo, ha vinto 10 ballottaggi su 11. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Si potrebbe osservare che la mobilità dell’elettorato italiano non è una novità, perché risale almeno ai primi anni ’90. Ma l’impressione è che ora si sia davanti a un salto di qualità. Con l’affermazione del tripolarismo, e la formazione di un’alleanza di governo del tutto inedita, gli elettori sono diventati pronti a capovolgere le proprie scelte ad ogni appuntamento elettorale, non di rado in una logica essenzialmente punitiva. Al modello della “fedeltà leggera” (cambiamenti di partito all’interno del medesimo schieramento), descritto da Paolo Natale ormai molti anni fa, sembra essere subentrato un modello che si potrebbe chiamare di “infedeltà repentina”, per cui l’elettore non si sente minimamente vincolato ad alcuna appartenenza, sia pur definita in senso lato.

E qui incontriamo il secondo elemento saliente di queste ultime tornate elettorali: la perdita, da parte del principale partito della sinistra, di molte sue roccaforti delle regioni rosse, in particolare in Toscana (emblematico il caso di Siena).

Ora il gruppo dirigente del Pd si interroga sul perché dell’ennesima sconfitta, tanto più sorprendente se si pensa che, dopo l’alleanza dei Cinque Stelle con la Lega, per i delusi di sinistra è diventato molto più difficile di prima punire il partito di Renzi votando quello di Grillo. Quel che stupisce, tuttavia, non è la sconfitta della sinistra, ma che essa sia arrivata così tardi. Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.

Provo a spiegare queste due affermazioni, volutamente provocatorie (ho ancora un lumicino di speranza che qualcuno le provocazioni le raccolga).

La ragione per cui trovo stupefacente che la sinistra abbia mantenuto i suoi consensi fino a poco fa ha un nome e un cognome: Giorgio Guazzaloca. Ve lo ricordate? Il 27 giugno 1999 (esattamente 19 anni fa) veniva eletto sindaco di Bologna, primo sindaco non comunista della città rossa. Nella vittoria di Guazzaloca un posto centrale occupava il tema della sicurezza, che giusto in quegli anni emergeva anche in altre città del Nord (ad esempio a Torino, a Padova), e nel 2001 avrebbe contribuito non poco al trionfo elettorale del centro destra (2° punto del “Contratto con gli italiani”). Ebbene quella vittoria, avvenuta nel cuore dell’Emilia rossa, era un campanello d’allarme chiarissimo, e perciò difficilissimo da ignorare. E invece la classe dirigente del maggior partito di sinistra, con pochissime eccezioni, ci riuscì benissimo. Allora come oggi, di fronte ai timori della gente, la parola d’ordine della cultura di sinistra è sempre rimasta la stessa: dimostrare alla gente che le sue paure sono infondate. L’ho sentito ripetere ancora pochi giorni fa, in una trasmissione radiofonica, da uno dei più autorevoli giornalisti progressisti: il dovere della sinistra è “smontarle”, le paure della gente. Perciò la mia domanda non è: perché il Pd perde? Ma semmai: perché i suoi elettori hanno resistito così a lungo?

La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa (Forza Italia è stato di massa, ma non è mai stato liberale), così Emma Bonino (con e senza Marco Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa (le liste Bonino-Pannella sono state radicali, ma non di massa). Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa. Se pensate ai temi su cui, specie in questa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità, trovate: unioni civili, testamento biologico, riforma carceraria, reato di tortura, ius soli, accoglienza dei migranti, Europa (ricordate lo slogan? ci vuole “più Europa”). E che cosa sono questi temi? Sono i temi tipici di un partito radicale di massa, assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali. Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche come mezzo pieno. Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.

Che queste, al di là della provocazione, possano essere in realtà due facce della medesima medaglia lo aveva perfettamente capito il grande filosofo Augusto del Noce, che nel 1978, giusto 40 anni fa, in un libro significativamente intitolato “Il suicidio della rivoluzione“, aveva coniato quella definizione, intuendo quel che il Pci sarebbe diventato: non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.

Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi) di massa, paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovvero un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere i grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.




Fine del sogno europeo?

I rappresentanti di una decina di paesi, fra cui (forse) anche l’Italia, si incontreranno a Bruxelles per preparare il Consiglio europeo del 28 giugno. Immersi fino al collo nelle miserie della politica nostrana, rischiamo di non renderci conto che, da come andranno questi due incontri, dipenderà il futuro dei cittadini europei, e non solo di essi. Quanto disperata sia la situazione europea lo ha invece visto lucidamente Niall Ferguson, editorialista e professore di storia, in un articolo pubblicato pochi giorni fa su “The Sunday Times”. Scettico fino a qualche tempo fa sulle ragioni della Brexit, ora si sta convincendo che non avevano tutti i torti i fautori dell’uscita dall’Unione Europea quando osservavano che uscire altro non era che scendere da una barca che affonda.

Ora quella barca potrebbe cominciare ad affondare davvero, non per l’austerità, non per le regole sul deficit e sul debito, non per i problemi della povertà e della diseguaglianza, non per disaccordi sull’unione bancaria, o sul bilancio comune, o sul costituendo Fondo Monetario Europeo. No, l’Europa rischia di affondare, più o meno lentamente, su un unico problema: la gestione dei migranti. Un problema che Ferguson descrive con un aggettivo, “intrattabile” (intractable), che i matematici riservano ai problemi per i quali non esistono strumenti, non dico per risolverli, ma nemmeno per provare ad attaccarli.

Da dove viene tanto pessimismo?

Per Ferguson l’intrattabilità del problema migratorio ha due radici. La prima è la difficoltà di far coesistere i valori culturali dell’Occidente con quelli dell’Islam. La seconda è che milioni di africani intendono raggiungere l’Europa, ma “la frontiera meridionale dell’Europa è quasi impossibile da difendere da flottiglie di migranti, a meno che i leader europei siano preparati a lasciarli annegare”. La differenza fra Europa e Stati Uniti sarebbe che all’America per evitare la guerra civile basta chiudere la frontiera con il Messico (è impensabile un’invasione dal mare), mentre questa strada è quasi impossibile da percorrere in Europa, perché il Mediterraneo è una frontiera indifendibile: uno dei tanti casi in cui è la geografia che fa la storia.

È convincente una simile diagnosi?

Per certi versi no. Se il problema è evitare la guerra civile, si potrebbe osservare che forme di guerra civile possono prender piede non solo perché si lasciano aperte le frontiere, ma anche perché le si chiude. Non so se, dopo la guerra civile per l’abolizione della schiavitù (1861-1865), vi sia mai stato nella storia americana un periodo in cui i cittadini statunitensi siano stati divisi come lo sono oggi, grazie a un presidente divisivo come Trump.

Per l’Europa, però, forse la diagnosi di Ferguson è solo incompleta, più che sbagliata. Quel che manca, a mio parere, è la risposta alla domanda: perché la classe dirigente europea è arrivata a questo punto? Perché ha dovuto attendere che in Italia andassero al potere i cosiddetti populisti per scoprire il problema migratorio? Che cosa ha fatto sì che quasi tutti i governi occidentali più illuminati (o presunti tali) abbiano sonnecchiato in questi anni?

Temo che, in ultima analisi, la risposta sia quella che, se fosse vivo, oggi darebbe Max Weber: hanno sostituito l’etica della responsabilità con l’etica dei principi (o etica della convinzione).

La classe dirigente europea si è mossa come se i valori della cultura occidentale, a partire dalla filosofia dei diritti umani, avessero validità universale, e come se il sogno cosmopolita di un’unica comunità mondiale, con le relative istituzioni e la relativa polizia internazionale, fosse già realizzato. I politici che ora faticosamente cercano di non far deflagrare l’Europa, per decenni si sono dimenticati che gli Stati esistono ancora, e che è ai cittadini degli Stati che devono rispondere, se non altro perché è dagli elettori che dipende la loro permanenza al potere. Da questa dimenticanza è scaturita la retorica con cui, in tutti questi anni, si è parlato dei migranti, trattando l’accoglienza come un dovere inderogabile, e assimilando di fatto ogni legittima aspirazione a cambiare paese come un diritto inalienabile della persona umana, valido verso qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.

La cosa ha funzionato finché i migranti erano veri rifugiati (come nei primi decenni del dopoguerra), o erano poco numerosi, o erano tanti ma utili alle nostre imprese e alle nostre famiglie. Ma non ha funzionato più quando l’imperativo di salvare i naufraghi si è scontrato con l’indisponibilità di vasti settori dell’opinione pubblica europea ad accogliere i migranti nel modo massiccio, disordinato e irregolare degli ultimi anni. Quel che gli elettori europei hanno cominciato a fare, in altre parole, è di richiamare i propri governanti all’etica della responsabilità: che non significa semplicemente valutare le conseguenze delle proprie azioni (in questo caso le conseguenze dell’accoglienza “senza se e senza ma”), ma valutarle innanzitutto in relazione ai cittadini da cui traggono la loro legittimazione, che non sono i cittadini del mondo ma i cittadini di uno specifico territorio, con le sue tradizioni, i suoi valori, i suoi bisogni e interessi.

È questo che, a mio parere, ha spiazzato molti governanti europei. È come se, a un certo punto, l’opinione pubblica europea avesse voluto ricordare ad ogni Capo di Stato di essere, per l’appunto, “solo” un capo di stato, non il Papa di Roma. Il quale Papa può permettersi di invitare all’accoglienza universale, ignorando le conseguenze delle sue parole sui cittadini europei, per un ottimo motivo: come ogni autorità spirituale, ogni predicatore, ogni rivoluzionario, ogni convinto sostenitore di una causa, il Papa agisce secondo l’etica dei principi, non secondo l’etica della responsabilità. La sua constituency, il suo “bacino elettorale”, è l’umanità intera, non certo quella minuscola porzione che è l’Italia o l’Europa.

La paralisi dell’Europa è anche la conseguenza di questo lungo sonno della rappresentanza. Orgogliosa di indicare la via al mondo intero, la classe dirigente occidentale (non solo europea) si è mossa come se essa fosse la guida morale del mondo, e al tempo stesso la paladina dei diritti di tutti. Ma era un film, un film girato essenzialmente per sé medesima. Gli stessi che si autoproclamavano paladini dei diritti di tutti, non esitavano a calpestare quei medesimi diritti quando interessi economici, strategici, geopolitici suggerivano l’intervento (a quante guerre umanitarie o di liberazione abbiamo dovuto assistere?) o, ancora più tragicamente, consigliavano l’astensione (ricordate i massacri del Ruanda?).

L’origine dell’ondata populista forse è anche qui. Di fronte a una classe dirigente che si autopercepisce come un’autorità spirituale, ma agisce come il più temporale dei poteri, i cittadini europei hanno cominciato a presentare il conto. La “lebbra” populista che sale in Europa, contrariamente a quanto pensa Macron, non è un morbo di origini misteriose. Quel morbo (ammesso che sia tale) è stato accuratamente coltivato nelle cancellerie europee, là dove, lentamente e quasi inavvertitamente, l’etica della responsabilità, che dovrebbe essere il faro di una vera classe dirigente, ha ceduto il passo all’etica della convinzione, che si addice ai profeti, non a chi vuole governare un continente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 giugno 2018



Gli italiani non sono razzisti. Intervista a Luca Ricolfi

Vorrebbero buonsenso nella gestione dell’immigrazione

Gli italiani non sono diventati razzisti. Semplicemente vorrebbero più buonsenso nella gestione dell’immigrazione. Ecco perché «la linea di Salvini è vincente nei consensi». L’analisi è di Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Che spiega: «Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd».Domanda. Secondo un recente sondaggio sette elettori su dieci sono a favore della linea dura del ministro dell’interno e leader leghista, Matteo Salvini, sull’immigrazione e sugli sbarchi. Gli italiani si sono scoperti razzisti e di destra?

“No, gli italiani pensano che non si può continuare a non fare nulla sul problema dell’immigrazione. L’aumento della povertà in Italia è anche dovuto al fatto che non riusciamo a dare un lavoro a tutti quelli che entrano. Di fronte alle continue operazioni di salvataggio, gli italiani hanno la sensazione che i naufraghi ce li andiamo a prendere, per mettere delle stellette sul petto dei salvatori, ma poi non siamo capaci di gestirli. Chi dice che gli italiani sono diventati razzisti non capisce la differenza fra razzismo e buon senso.”

Lei teorizza uno scontro in atto tra utopie, quella cosmopolita e quella comunitaria. Può spiegarsi meglio?

“Credo che solo la sinistra radicale (non parlo di LeU, ovviamente, ma di pensatori come Jean Claude Michéa o Slavoj iek, ad esempio) abbia capito quali sono le vere forze in campo, al di là dei vecchi steccati idelogici. Da una parte ci sono le forze dell’apertura, che vogliono più circolazione di tutto (merci, capitali, informazioni, persone), e sognano un mondo unificato, in cui tutti hanno i medesimi diritti e sono sottoposti a un unico ordine mondiale. Questa è l’utopia cosmopolita, che piace ai capitalisti ma anche al pensiero liberal. Dall’altra ci sono le forze della chiusura, anti-sistema e anti-Europa, che si oppongono alla globalizzazione, e sperano di risuscitare gli stati nazionali, contro le minacce del mondo globalizzato.”

Forze che hanno lo stesso obiettivo, ma sono collocate a due estremi, destra e sinistra.

“Vero, e la cosa interessante è che, in questo momento, in alcuni paesi europei le forze della chiusura, che altrove sono non alleabili, proprio perché vengono percepite come estrema destra ed estrema sinistra, sono riuscite a coagularsi e andare al governo. È successo qualche anno fa con il governo rosso-nero in Grecia, risuccede oggi con il governo giallo-verde in Italia.”

Un terzo di quanti si dicono favorevoli alla linea di Salvini ha votato per il Pd. Come se lo spiega? Siamo davanti a un cambio culturale, sociale della sinistra?

“Sì, ma è un cambio che è iniziato almeno 40 anni fa, come ho cercato di raccontare in Sinistra e popolo, uscito per Longanesi nel 2017. Negli ultimi decenni la sinistra è diventata sempre più l’espressione dei ceti medi istruiti e delle élites che si vergognano della loro condizione, anche quando essa non è il risultato di privilegi ma semplicemente del talento o della buona sorte. L’innamoramento per le virtù del mercato e l’incapacità di capire i rischi della globalizzazione hanno fatto il resto. Oggi sinistra e popolo sono due opposti: il popolo vota Salvini e Di Maio, i benpensanti preferiscono rifugiarsi nella nicchia identitaria offerta dal Pd.”

Questo spiega perché per esempio lavoro e pensioni risuonano più forti nel programma di M5s che non in quello del Pd?

“In termini concreti alla sinistra i diritti civili, compresi quelli dei migranti, interessano molto di più dei diritti sociali. Come aveva previsto Augusto del Noce molti decenni fa (parlando del Partito Comunista), il destino della sinistra italiana è diventare un partito radicale di massa, ovvero pannellizarsi/boninizzarsi sempre più, fino a deporre del tutto quelle che un tempo erano le sue ragioni.”

La linea del governo, ribadita anche dal premier Conte con la Merkel, è che in tema di accoglienza l’Italia vuole la modifica del trattato di Dublino per la quale hanno lavorato anche i governi Renzi e Gentiloni. I modi rudi del nuovo governo serviranno a portare a casa il risultato?

“Non lo so ma non posso che augurarmelo. L’unica cosa certa è che i modi educati dei predecessori di Salvini non hanno portato a nulla, nemmeno alla più volte sventolata redistribuzione dei rifugiati.”

Il leader della Lega ha anche annunciato un censimento dei rom in Italia, salvo poi rettificare dopo il coro di proteste, anche dei pentastellati. L’uscita di Salvini è un errore di percorso o risponde invece a una precisa strategia?

“Non lo so, ma secondo me Salvini fa malissimo a canalizzare l’esasperazione della gente su un’etnia particolare. Questo davvero rischia di alimentare, se non il razzismo, l’ennesima caccia alle streghe. Se fossi al posto di Salvini, prima di prendermela con i rom, farei una bella visita, con i carabinieri e gli ispettori del lavoro, nei campi della raccolta del pomodoro, in cui i migranti sono trattati come schiavi.”

Il problema è la legalità?

“Il vero problema sono i territori, non le etnie. Ci sono interi quartieri, per non dire intere zone del Paese, in cui la legge non esiste, al Nord come al Sud. È a partire da lì che si dovrebbe agire. Il male di questi anni è stato di pensare che, se l’illegalità è mescolata alla povertà, al degrado, all’emarginazione sociale, allora è buona e va tollerata: nelle campagne, negli alloggi popolari, nell’occupazione degli spazi pubblici.”

Il ministero dell’interno potrebbe essere per Salvini il trampolino di lancio per diventare primo partito del centrodestra?

“Se Salvini si impegnerà per ristabilire la legge ovunque sia calpestata, senza guardare in faccia alcuna etnia o alcun clan, avrà il consenso degli italiani. Se invece si accanirà contro specifici gruppi sociali, allora, prima o poi, vedrà evaporare i consensi che ha acquistato in questi mesi. Non capire questo significa credere che gli italiani siano razzisti e xenofobi, mentre sono semplicemente stufi.”

Secondo un sondaggio Swg, la Lega è già il primo partito nazionale, ha superato, seppure di poco, il Movimento5stelle, 29,2 contro il 29%. Come si spiega questo trend a poche settimane dall’insediamento del governo?

“Non credo che il sorpasso della Lega su M5s sia già avvenuto, ma non mi stupirei che avvenisse più avanti. La spiegazione che più mi convince è assai semplice: Salvini è l’unico politico italiano che, insieme a non pochi difetti, tra cui semplicismo e volgarità di linguaggio, possiede due virtù cruciali: la chiarezza e la concretezza.”

Quanto contano nel calo dei consensi del Movimento e nella crescita della Lega le rispettive leadership?

“Molto nel caso di Salvini. Poco nel caso di Luigi Di Maio, che sconta semplicemente il risveglio dell’elettorato di sinistra: votando Cinque Stelle credevano di scegliere una sinistra più idealista e più pura, si stanno accorgendo di aver votato Lega. Come stupirsi se qualcuno si rifugia nell’astensione o medita di tornare alla casa madre?”

M5s e Lega sono forze destinate ad oggi a essere coalizione o a rappresentare il nuovo bipolarismo?

“Bella domanda… Non lo so. E tendo a pensare che non lo sappia nemmeno Salvini: se il governo dovesse andare bene, potrebbe nascere un’alleanza stabile, contro le forze dell’apertura, e dunque Pd e Forza Italia. Se invece andasse male, Salvini potrebbe tornare a guidare il centro-destra e sfidare i Cinque Stelle, accusandoli di aver sabotato il «contratto di governo». In quel caso sarei curioso di sapere che cosa farebbe il Pd, ammesso che non fosse nel frattempo scomparso.”

Già, il Pd. Secondo il sondaggio Swg, il Pd resiste al 18,8, mentre Forza Italia è sotto al 10% . Vede segnali di ricostruzioni per le due opposizioni?

“Per ora vedo solo segnali di suicidio. Forza Italia, o meglio Silvio Berlusconi, pare non aver capito che senza un cambiamento spettacolare, parlo di nuovo nome, nuovo leader, nuovo programma, nuove regole di democrazia interna, non tonerà mai ai fasti del passato. Il Pd, che pure sta recuperando voti grazie ai grillini pentiti, sta facendo di tutto per mettersi fuori gioco. Nessuna analisi coraggiosa degli errori del passato. Nessuna diagnosi seria sui mali del Paese. Nessuna comprensione dei sentimenti e dei pensieri degli italiani.”

Non pensa che l’attuale dirigenza democratica stia ferma in attesa degli errori del governo giallo-verde?

“Basare la propria strategia sulla speranza, o la scommessa, che prima o poi il governo Conte vada a sbattere è una vera sciocchezza. Non perché il governo Conte non possa benissimo andare a sbattere. Ma perché, se ciò dovesse accadere, non saranno certo Matteo Renzi e i suoi a raccoglierne i cocci.”

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi



​Lettera agli illuminati

​Di che cosa parliamo quando ci dividiamo sull’immigrazione

Oggi a Valencia, porto spagnolo che fronteggia le isole Baleari, dovrebbe attraccare la nave Aquarius, con il suo carico di oltre 600 migranti respinti dai porti italiani per volontà del nostro ministro dell’Interno, il segretario della Lega Matteo Salvini. Giusto ieri la maggior parte dei media hanno riportato i dati di un sondaggio Ipsos che rivela che la maggior parte degli italiani (per l’esattezza il 71% di chi esprime un’opinione) è a favore della linea dura di Salvini, basata sulla chiusura dei porti italiani alle imbarcazioni di soccorso; e, dato forse più interessante, stanno dalla parte di Salvini non solo gli elettori che votano a destra o Cinque Stelle, ma anche circa un terzo degli elettori del Pd.

Personalmente non ne sono stupito affatto: è da anni che invito la sinistra a prendere sul serio le preoccupazioni degli italiani in materia di immigrazione, senza tacciare di razzismo chiunque dissenta dalla linea dell’accoglienza “senza se e senza ma”. Ora però, sull’onda del sondaggio Ipsos, credo siano maturi i tempi per porre la questione in termini più radicali: cari politici progressisti, cari intellettuali impegnati, cari manager illuminati, cari prelati, scrittori, cantanti, professori, conduttori televisivi, giornalisti che ogni giorno vi esercitate in accorati appelli a coltivare il senso di umanità, vi siete mai chiesti perché tanti italiani non la pensano come voi?

Ho l’impressione che, a differenza del passato, non vi sia facile trovare una spiegazione che vi rassicuri. Fino a ieri una spiegazione l’avevate: l’Italia cattiva, xenofoba e razzista, era l’Italia della destra, guidata dal cattivo per antonomasia, l’odiato Cavaliere. Ma oggi? Oggi che la destra si è ridotta a rappresentare poco più di un terzo del paese, mentre gli altri due terzi o guardano a sinistra o guardano al Movimento Cinque Stelle? Oggi che un terzo degli elettori di sinistra sta con quello che per voi è il simbolo stesso del male, anzi della non-umanità?

Piccolo inciso. La copertina dell’Espresso di questa settimana riporta due immagini affiancate, a sinistra quella di un nero (sottinteso: il migrante), a destra quella di Matteo Salvini. Sotto, a caratteri cubitali, la scritta UOMINI E NO, con Uomini sotto il migrante e No (cioè non-uomini) sotto Salvini. Sotto i caratteri cubitali una domanda, rivolta evidentemente a quegli italiani che, di fronte all’alternativa fra Salvini e il migrante fossero ancora un po’ esitanti: “Il cinismo, l’indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l’empatia, l’appello all’unità dei più deboli. Voi da che parte state?”.

Incredibile. “Uomini e no”, per chi fosse troppo giovane per averne memoria, è il titolo di un romanzo di Elio Vittorini uscito nel 1945, che fece discutere già allora, perché la dicotomia si lasciava leggere come contrapposizione fra partigiani-uomini e fascisti-non uomini. Ma usarla oggi che una larga maggioranza degli italiani sta dalla parte del non-uomo Salvini lascia esterrefatti. Dobbiamo pensare che 7 italiani su 10 siano non-uomini?

Forse, anziché usare l’intimidazione morale per squalificare ed umiliare chi non la pensa secondo il pensiero unico progressista, varrebbe la pena sforzarsi di capire perché il dubbio sulle politiche di accoglienza serpeggi persino nell’ultimo avamposto della sinistra, ovvero nell’elettorato del malconcio Pd.

Credo che le ragioni siano tante, ma due prevalgano su tutte le altre. La prima è il sospetto che l’ondata di sbarchi che ha investito le coste italiane fra il 2014 e il 2016 sia, almeno in parte, una conseguenza dei segnali che i nostri governi, ma anche l’Europa nel suo insieme, hanno dato con le vaste operazioni di pattugliamento e salvataggio in mare denominate Mare Nostrum, Frontex, Triton1, Triton2. Non occorre essere esperti di assicurazioni per intuire la logica dell’azzardo morale (moral hazard): tu mi prometti di salvarmi, e io accetto di correre rischi maggiori di quelli che correrei se tu non ti fossi impegnato in questa promessa. Fra gli studiosi, da anni si dibatte su una congettura: il rafforzamento dei dispostivi di salvataggio, incentivando il ricorso a imbarcazioni meno sicure, potrebbe aver aumentato sia il numero delle partenze, sia il numero dei morti in mare. E’ verosimile che, in modi più o meno chiari, congetture del genere si siano fatte strada anche in una parte dell’opinione pubblica, sconcertata dal fatto che tanto spesso a portare i migranti in Italia non siano i soliti pescherecci e i soliti gommoni, ma le navi della nostra Marina militare, della nostra Guardia Costiera, delle numerose Organizzazioni non governative che pattugliano le coste dell’Africa in attesa di raccogliere naufraghi.

Ma c’è anche un’altra ragione che turba l’opinione pubblica. Una ragione senza la quale le operazioni di salvataggio in mare sarebbero guardate con assai maggiore benevolenza, come del resto è nell’indole degli italiani, checché ne pensino quanti preferiscono considerarli non-uomini. Questa ragione è, semplicemente, ciò che la gente vede con i propri occhi dopo gli sbarchi. Vogliamo fare un piccolo ripasso?

Su 100 richiedenti asilo solo 7 hanno diritto allo status di rifugiato (in base alla convenzione di Ginevra). Dei restanti 93, una minoranza ottiene altre forme, più o meno temporanee, di protezione “sussidiaria” o “umanitaria”, ma tutti gli altri, circa il 60% dei richiedenti asilo, entrano in una sorta di terra di nessuno, senza doveri né diritti. Nessun organismo riconosce loro il diritto di stare in Italia, ma nessuno organismo (salvo casi eccezionali), è in grado di fargli rispettare il dovere di lasciare l’Italia. E’ per questo che gli sbarchi creano tanta inquietudine: si sa che la maggior parte di quanti entrano in Italia non ne hanno il diritto, ma si sa altrettanto bene che, una volta entrati, nessuno (nemmeno Salvini) sarà in grado di riportarli indietro.

Qualcuno può stupirsi se, con questo sistema, abbiamo accumulato circa mezzo milione (nessuno conosce la cifra esatta) di stranieri irregolari, che come un fiume carsico riemergono nelle due forme fondamentali del dramma migratorio: come manovalanza della criminalità organizzata (gli stranieri irregolari delinquono circa 30 volte di più degli italiani), e come forza lavoro iper-sfruttata, ai limiti della schiavitù, nelle campagne del Mezzogiorno?

A questo spettacolo, già desolante di per sé, all’opinione pubblica non di rado se ne parano davanti agli occhi altri due, non meno inquietanti: quello dei richiedenti asilo che bighellonano con i loro telefonini in attesa che l’iter burocratico dell’accoglienza faccia il suo corso, e quello degli immigrati, spesso giovani, che chiedono l’elemosina per conto dei loro padroni (un business che a Torino, secondo le forze dell’ordine, è gestito dalla mafia nigeriana).

Il nocciolo del problema migratorio è tutto qui: il sacrosanto diritto di emigrare di chi fugge da guerre e persecuzioni (il 7% degli arrivi), si scontra con la circostanza che, su quel medesimo diritto, altri e ben più numerosi soggetti si appoggiano per esercitare aspirazioni (quella di trasferirsi e lavorare in un paese straniero) che sono appunto aspirazioni, più che legittime aspirazioni, ma non diritti. Accanto al diritto degli individui a fuggire dal loro paese quando la situazione diventa insostenibile, sussiste il diritto degli Stati di proteggere i propri confini e regolare gli ingressi.

Questo è il punto che divide l’opinione pubblica. Una parte di noi ritiene che il diritto degli individui di spostarsi fra gli Stati debba essere sostanzialmente illimitato, e l’accoglienza sia una sorta di imperativo categorico, ciò che separa gli uomini dai non-uomini. Una parte di noi ritiene, invece, che quel diritto abbia dei limiti, e che uno Stato abbia il dovere, oltreché il diritto, di proteggere i propri cittadini. Si può essere per l’utopia cosmopolita o per quella comunitaria, ovviamente. Ma è triste che ci si debba sentire non-uomini se non si aderisce all’utopia giusta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 17 giugno 2018