La crisi è un missile a 3 stadi

Ha suscitato una certa attenzione, anche a livello nazionale, la marcia sì-Tav di sabato scorso a Torino, la mia città. Molti hanno visto in essa i primi sintomi di un possibile indebolimento del consenso al Governo, peraltro segnalato anche da alcuni recenti sondaggi. L’opposizione, finora inerte, comincia a nutrire qualche timida speranza di rimonta.

Dobbiamo dare credito a questi segnali?

Per certi versi sì. E’ da qualche settimana, infatti, e precisamente dal giorno della denuncia in tv, da parte di Di Maio, della “manina” che avrebbe manipolato la manovra inserendo proditoriamente un condono fiscale troppo indulgente, che Salvini e Di Maio non sembrano più quelli di prima. Non passa giorno senza un battibecco, per lo più indiretto, via internet e via social media. Reddito di cittadinanza, condono fiscale, condono edilizio, decreto sicurezza, riforma della prescrizione, grandi opere, e ora persino gli inceneritori e la gestione dei rifiuti in Campania, offrono continue occasioni di punzecchiamento reciproco. Sembra quasi che, se non vi fosse l’odiata Bruxelles contro cui dirigere quotidianamente i propri strali, a Lega e Cinque Stelle resterebbero ben pochi motivi per restare insieme (il che, detto per inciso, forse spiega le rigidità dell’esecutivo sulla manovra: lo scontro con la cattiva Europa è l’unico vero cemento ideologico dei due partiti che ci governano).

Per altri versi però no, l’idea che il governo sia alla vigilia di una crisi non mi convince, o meglio non mi convince ancora. Quel che è interessante, infatti, e meriterebbe una spiegazione, è la circostanza per cui, in questo momento, nell’opinione pubblica paiono convivere due maggioranze di segno contrario, di cui i sondaggi tracciano puntualmente il profilo.

Da una parte c’è la maggioranza (circa il 60%) costituita da quanti approvano l’azione di governo e, in caso di elezioni, voterebbero Lega o Cinque Stelle. Ma dall’altra c’è anche una seconda maggioranza, costituita da una pluralità di maggioranze concentriche: la maggioranza dei contrari al reddito di cittadinanza, la maggioranza dei favorevoli alla Tav e alle grandi opere, la maggioranza di coloro che temono (e prevedono) tasse in aumento. Per non parlare della maggioranza più importante, quella di coloro che vogliono restare nell’euro (circa il 70%).

Strano: sulle cose importanti la maggioranza degli italiani non mostra molta fiducia nelle politiche del governo, ma poi – venuti al dunque – paiono ancora intenzionati a votare Lega e Cinque Stelle. Come mai?

Io penso che le ragioni fondamentali siano due. La prima è che, per votare altro, bisognerebbe che questo “altro” battesse un colpo. Pd e Forza Italia non lo stanno facendo: vorrebbero, ma non ne sono capaci. Se nascerà un’alternativa a questo governo, è più facile cha arrivi da fuori che da dentro il sistema politico attuale.

C’è anche una seconda ragione, però, per la quale il consenso al governo tutto sommato regge, a dispetto delle varie maggioranze contrarie sulle cose che contano. La ragione è che la recessione non è ancora arrivata (verosimilmente sarà riconoscibile la primavera prossima) e la manovra è un congegno a tempo, una sorta di missile a tre stadi.

Il primo stadio è già partito, e ha colpito la ricchezza finanziaria degli italiani, che hanno subito perdite virtuali per oltre 175 miliardi dalla data del voto, e per 85 dalla data di insediamento del governo (per i dettagli vedi: www.fondazionehume.it). Queste perdite hanno colpito, per ora, quasi esclusivamente le banche e i ceti medio-alti, che detengono ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, fondi comuni). Non si tratta certo di quattro gatti, ma nemmeno di una vasta maggioranza (la maggior parte delle famiglie detiene ricchezza sotto forma di immobili e depositi, due asset assai poco colpiti dall’aumento dello spread e dalla crisi della borsa). Questo primo stadio del missile, a occhio e croce, dovrebbe aver raggiunto 1 famiglia su 5.

Il secondo stadio si farà sentire più avanti, quando comincerà a mancare il credito alle imprese e alle famiglie, con conseguenti riduzioni del fatturato e della spesa, dai mutui immobiliari ai consumi. Più o meno succederà a metà 2019, intorno alle elezioni europee. Subito dopo, ovvero verso la fine dell’anno prossimo, arriverà il terzo stadio, quello delle riduzioni dell’occupazione, un esito difficilmente evitabile se lo spread resterà ai livelli attuali, e praticamente certo se lo spread dovesse salire ancora, trascinando nel baratro le banche.

Ecco perché, nonostante tutto, il governo è ancora popolare. Chi desidera vederlo vacillare, farà bene ad attendere che la manovra dispieghi i suoi effetti, e che nasca una vera opposizione. Due eventi di cui solo il secondo è auspicabile, almeno per chi non è iscritto al “partito del popcorn”, che cinicamente attende che sia il naufragio dell’Italia a trascinare con sé il timoniere.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 17 novembre 2018



Piazza e governo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, la manifestazione a Torino per la tav, e quindi contro il M5s, è stata un successo superiore alle aspettative. Come la interpreta?

Superiore alle aspettative? Forse sì, ma si potrebbe capovolgere il giudizio: con una maggiore organizzazione e più tempo davanti si potevano portare ancora più persone in piazza. Io penso che se la Tav non parte, e il Governo continua a non fare nulla per il Nord (o addirittura a disfare quel che aveva fatto l’esecutivo precedente), fra un paio di mesi di gente in piazza ne vedremo molta di più. 

I ceti produttivi, soprattutto al nord, iniziano a ribellarsi al governo? 

Certo, quel che è stupefacente è che abbiano messo così tanto tempo ad accorgersi che per il governo gialloverde i ceti produttivi vengono dopo quelli improduttivi (pensionati e inoccupati).

Beppe Grillo dice che sono tornati “i borghesucci più aggressivi e sempre più benpensanti”, accreditando così l’idea che il popolo è con loro, mentre l’élite borghese è nemica del governo. La convince questa tesi del comico?

Come sociologo la trovo imbarazzante (o forse semplicemente degna di un comico) nella sua completa incapacità di leggere la realtà. La protesta di Torino non è né solo borghese né solo popolare, perché è una protesta interclassista, a differenza della “marcia dei 40 mila” del 1980, che era fondamentalmente di ceto medio e anti-operaia. Quel che unisce oggi non è una condizione sociale specifica, ma è il rifiuto dell’immobilismo di fronte al declino che minaccia i ceti produttivi, specie nel Nord-Ovest.

Lei con la Fondazione Hume ha calcolato il costo del governo M5s-Lega per l’Italia. Finora è enorme, eppure il governo sembra godere ancora di buoni sondaggi di popolarità.

Abbiamo finito giusto pochi minuti fa di completare il calcolo delle perdite virtuali del sistema Italia nell’ultima settimana, che sono risultate pari a circa 12 miliardi, che aggiunte alle perdite dei mesi scorsi fanno un totale di 175 miliardi dalla data del voto, e di 114 miliardi dalla nascita del governo.

Pensa che la manovra con i suoi effetti pratici possa essere l’inizio di un’inversione di tendenza? La fine della luna di miele con gli italiani?

Sì, lo penso, anche se non posso non aggiungere che la percezione dei danni avverrà con tempi diversi a seconda dei ceti sociali. I primi colpiti, in ordine di tempo, sono i ceti medi detentori di ricchezza finanziaria sensibile, che hanno già subito perdite virtuali per 70 miliardi (136 dalla data delle elezioni). Poi, dopo le elezioni Europee, toccherà a imprenditori, artigiani, commercianti, su cui più peserà la restrizione del credito bancario. Poi, fra circa un anno, sarà il turno dei lavoratori dipendenti, a causa della contrazione dell’occupazione. Infine, nel lungo periodo, le vittime saranno i giovani, cui toccherà pagare i debiti addizionali che lo Stato contrae oggi. Per capire come evolverà il consenso, dobbiamo ricordarcelo: la manovra è un missile a 4 stadi.

Il reddito di cittadinanza sarà un ulteriore enorme trasferimento di risorse dal nord al sud, dove si concentra la maggior parte di potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza. Che effetto avrà secondo lei?

Molto dipende da fattori tecnico-organizzativi. Se riusciranno a farlo partire ordinatamente ci sarà un aumento di consenso per i Cinque Stelle, se invece sarà un caos, e gli abusi saranno numerosi e pubblicamente denunciati, sarà un boomerang per la Lega di Salvini.

Non la sorprende che sia proprio la Lega ad avallare un sussidio pubblico del genere, dopo aver denunciato per anni il “sacco del Nord”, per riprendere il titolo di un suo libro?

Sì mi sorprende, ma le dico di più: proprio non riesco a capire Salvini. Non perché ha lasciato passare il reddito di cittadinanza, ma perché non ha preteso in cambio la flat tax.

L’attacco violento alla stampa dato da Di Maio e Di Battista come lo giudica?

Lo trovo aberrante nella forma, del tutto fuori luogo sul caso Raggi, ma non del tutto infondato parlando in generale.

Quanto durerà questo governo?

Dipende soprattutto da due fattori: la crescita dell’economia e la nascita di nuove forze politiche. Se l’economia non dovesse ripartire, e scendesse in campo un nuovo imprenditore politico, l’attuale governo difficilmente potrebbe sopravvivere.

Lei è convinto che cadrà per colpe proprie, non per meriti delle opposizioni, che in effetti sembrano molto deboli?

I governi non cadono da sé: se questo governo cadrà, sarà per perché nasce un’opposizione, o di piazza (come a Torino) o politica (nuovo partito).

Alle Europee ci sarà uno scontro tra fronte populista-euroscettico, e moderati europeisti. C’è un vento populista che soffia in tutta Europa, o quella italiana è una anomalia?

No, il vento c’è dappertutto, ma non soffia con la stessa forza a tutte le latitudine.

Intervista a cura di Paolo Bracalini per Il Giornale, pubblicata il 13 novembre 2018



L’Italia sta entrando in recessione?

Dopo cinque mesi di governo, per la prima volta si ha la sensazione che qualcosa stia cambiando, sia nei rapporti interni al Governo, sia in quelli con l’elettorato.

Dentro il Governo decreto sicurezza, disegno di legge anticorruzione, condono fiscale, grandi opere, stanno suscitando i primi dissensi veri. Visto dall’esterno, il clima fra gli alleati non sembra armonioso come nei giorni degli sbarchi o in quelli della crociata anti-Bruxelles.

Ma è sul versante dell’elettorato che le cose mi sembrano più in movimento, forse anche perché sono torinese e tocco con mano i primi segni di delusione, che nella mia città sono strettamente legati a due clamorosi no della sindaca Appendino: no alle olimpiadi invernali, che se verranno assegnate all’Italia si terranno a Milano e Cortina; no alla Tav, che se fermata costringerà molte imprese a chiudere o a licenziare. Due no che, almeno qui, paiono indebolire il consenso ai Cinque Stelle sia a livello cittadino, sia a livello nazionale. Qualcuno comincia addirittura a immaginare una nuova “marcia dei 40 mila”, questa volta promossa da un fronte che potrebbe unire imprenditori, sindacati, forze politiche di destra e di sinistra.

Si sarebbe tentati di pensare che il cambio di umori sia legato innanzitutto all’azione dell’esecutivo, assai popolare quando attacca i migranti e l’Europa, assai meno convincente quando tenta di mettere in atto il “contratto di governo”. Credo ci sia del vero in questa impressione, specie per i ceti produttivi, preoccupati del blocco o rallentamento delle grandi opere, ma anche della modestia degli sgravi fiscali alle imprese. Poco per volta, ci si rende conto che, complessivamente, le tasse non diminuiranno affatto, perché gli sgravi sull’Ires e l’Iva sulle piccole imprese (circa 2 miliardi nel 2019) sono più che compensati da nuove tasse e dal venir meno di altre misure di sostegno alle imprese, come l’Ace (che viene soppressa) o l’Iri (che non entra in vigore).

E tuttavia io sospetto che un certo raffreddamento del rapporto con l’elettorato possa avere anche un’altra origine, ben più insidiosa. Forse quello di cui imprenditori, artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti cominciano ad accorgersi è che è il ciclo economico stesso a volgere al peggio. Non c’è solo la crescente consapevolezza dei danni prodotti dallo spread a 300 punti base, non c’è solo la preoccupazione per il peggioramento dei rapporti con l’Europa, o addirittura il timore di un’uscita dall’euro. Da qualche giorno, a queste preoccupazioni se ne stanno aggiungendo di assai più concrete e dirette. I dati di settembre sull’export sono pessimi: l’avanzo della bilancia commerciale si è drasticamente ridotto, sia rispetto a luglio sia rispetto a settembre di un anno fa. L’occupazione è in calo, e lo è proprio nella componente che il decreto dignità ambiva a rafforzare, quella dei posti a tempo indeterminato. Ma soprattutto è fermo il Pil, ovvero l’indicatore che tutti gli altri riassume: non succedeva dal 2014, ossia dall’anno di uscita dalla crisi. Perché questa impasse? Perché questi segnali negativi dal versante dell’economia?

Mi piacerebbe avere le certezze di Brunetta, secondo cui la crescita della disoccupazione è “il primo effetto disastroso del decreto dignità”. O quelle di Di Maio, secondo cui, tutto al contrario, il calo dell’occupazione è “l’ultimo colpo di coda del Jobs Act”. E ancora più mi pacerebbe avere quelle del presidente di Confindustria Boccia, secondo cui “se l’economia non cresce è colpa esclusiva delle scelte economiche di questo governo”.

Ma la verità è che, con i dati disponibili, è tecnicamente impossibile stabilire in che misura questi andamenti negativi siano da imputare all’azione del precedente governo, a quella dell’esecutivo attuale, o al rallentamento dell’economia europea, chiaramente avvertibile dal terzo trimestre di quest’anno. Personalmente, ritengo più verosimile che quello cui stiamo assistendo sia il solito film: l’economia italiana si muove più o meno in sincronia con quella degli altri paesi europei, ma a passo più lento, per cui quando “loro” vanno forte noi andiamo piano, e quando (come oggi) loro vanno piano noi stiamo fermi.

Quel che invece mi sento di dire è che è molto pericoloso, per chi governa, mandare all’opinione pubblica messaggi di onnipotenza, per cui l’Italia sarebbe in grado di ignorare le raccomandazioni dell’Europa, i segnali dei mercati, le previsioni dei centri studi indipendenti. Perché a forza di dire che possiamo fare di testa nostra, che tutto dipende da noi stessi, e che la manovra ci farà crescere il doppio del previsto, se poi le cose si mettono storte, e le certezze evaporano sotto i colpi della realtà, si rischia di pagare un prezzo molto alto in termini di consenso.

Vorrei ricordare che, tecnicamente, un paese è considerato in recessione se il suo Pil diminuisce per due trimestri consecutivi. E se al Pil piatto del terzo trimestre 2018 dovessero seguire due trimestri di Pil calante, l’Italia potrebbe venirsi a trovare ufficialmente in recessione già a fine aprile prossimo, giusto un mese prima delle elezioni europee. Se questo dovesse accadere, presumibilmente dipenderebbe poco dalle scelte di questo governo e molto dall’evoluzione della congiuntura europea. Ma difficilmente l’opinione pubblica sarebbe di questo avviso. E’ una questione di logica: se oggi ci vien detto che possiamo fare quel che vogliamo, contro tutto e contro tutti, quel che potrà accadere domani sarà considerato una conseguenza delle nostre azioni, non del “destino cinico e baro”.




A proposito della morte di Desirée: perché lo Stato è impotente

Nell’ora della pietà, dello sconcerto, della rabbia per la morte di una ragazza sedicenne, stuprata e uccisa da un gruppo di immigrati irregolari in un quartiere degradato di Roma, ho provato a fare un passo di lato, lontano dalla cronaca. Una sorta di esercizio, o esperimento mentale. Mi sono chiesto: se fossi il ministro dell’Interno, se fossi al posto di un Salvini o di un Minniti, e avessi la ferma volontà di impedire il ripetersi di fatti del genere (il caso di Desirée è solo l’ultimo di una serie), che cosa potrei fare?

Ci ho pensato a lungo, e la conclusione cui sono approdato è: poco, molto poco, almeno nel breve periodo.

Le ragioni del mio pessimismo sono molte. Penso per esempio che, poiché sono decenni che chiudiamo un occhio su ogni genere di trasgressione – in famiglia, a scuola, all’università, sugli autobus, per strada, sui treni, nei rapporti con il fisco – la violazione delle norme è entrata nel nostro DNA culturale. Per alcuni, succede addirittura che la violazione delle regole diventi un fattore identitario, se non di orgoglio personale: poiché ritengo che una data regola sia ingiusta, mi sento in diritto di violarla.

Non c’è solo la hybris, lo smisurato orgoglio del singolo: c’è anche l’opportunismo e la codardia dello Stato. Non è da oggi, e non è certo solo a Roma o nelle grandi città, che le forze dell’ordine hanno deliberatamente scelto di considerare extraterritoriali, o zone franche, intere porzioni del territorio nazionale, o interi quartieri di una città. Vale per le volanti che si guardano bene dall’entrare in certi territori, per i vigili che non osano entrare in certi edifici, ma anche per i magistrati, per i quali, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, ci sono notizie di reato che non meritano indagini e approfondimenti.

Poi c’è la cultura finto-progressista, per cui la delinquenza comune, dal furto allo spaccio, è una conseguenza della povertà e della diseguaglianza, e dunque va trattata con riguardo. Come con riguardo vanno trattate le occupazioni di case, le occupazioni di scuole, le invasioni dei cantieri, tutte azioni illegali ma di cui si suppone che siano compiute per una giusta causa, o con sufficienti attenuanti per essere tollerate. Una visione del mondo per cui, da almeno vent’anni ci viene spiegato: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, firmataria della legge Turco-Napolitano sull’immigrazione).

Infine, naturalmente, c’è il problema degli immigrati irregolari, una massa di 500 mila persone (o forse più) che vagano per l’Italia, talora lavorando in nero, talora chiedendo l’elemosina, talora delinquendo, e che nessun ministro dell’Interno è in grado di espellere, perché per molti di essi mancano accordi di rimpatrio con i paesi d’origine.

Insomma sono molte, purtroppo, le ragioni per cui è difficile, molto difficile, far sì che quel che è successo a Desirée (e prima di lei a Pamela, e a tante altre e altri) non abbia a ripetersi in futuro. Siamo tutti troppo assuefatti al disprezzo delle regole per poter sperare che qualcosa di sostanziale cambi, non dico domani, ma nemmeno da qui a qualche anno.

Però c’è una ragione che, a mio parere, sovrasta tutte le altre, almeno quando parliamo di reati, ossia di condotte illegali. Questa ragione è l’evoluzione della legge penale e della prassi giudiziaria. Un’evoluzione che, da molti anni, è stata guidata da un unico principio di fondo: rendere quasi impossibile scontare la pena in carcere. Un’idea astrattamente assai nobile, perché punta alla rieducazione e al reinserimento, ma che ha come effetto pratico di togliere allo Stato la sua arma più importante nella lotta al crimine: la cosiddetta “incapacitazione”.

Che cos’è l’incapacitazione? E’ far sì che il soggetto che ha commesso un delitto sia materialmente impedito di ripeterlo (o di commetterne un altro) per un tempo congruo, ossia per la durata della detenzione in carcere. Non è questo il luogo per ricostruire i numerosi cambiamenti normativi, della legge penale e della legge carceraria, che nel giro di pochi decenni hanno condotto alla situazione attuale. E non è neppure il caso di infierire sulle responsabilità della sinistra, che quei cambiamenti ha voluto e promosso, un po’ per mentalità, un po’ per compiacere l’Europa, che giustamente denunciava il sovraffollamento e le condizioni disumane delle nostre prigioni. Ma almeno una cosa va detta: il fatto che si possa iterare un reato innumerevoli volte senza finire in carcere, il fatto che molti giudici tendano a infliggere il minimo della pena, il fatto che reati di forte allarme sociale prevedano pene modeste o la possibilità di accedere a pene alternative al carcere, non può che produrre due conseguenze cruciali: chi delinque matura un sentimento di impunità e onnipotenza, chi dovrebbe impedirgli di delinquere  matura un sentimento di impotenza e di frustrazione.

Quante volte capita, a poliziotti e carabinieri, di dover esclamare: “sì, lo conosciamo, l’abbiamo già beccato più volte ma non c’è niente da fare, noi lo arrestiamo e domani è di nuovo fuori”. E questo non solo di fronte al singolo ladro, spacciatore, estorsore, ma anche di fronte ai gruppi che occupano e controllano determinati territori. Credo che quasi tutti gli abitanti di grandi città abbiano avuto modo di constatarlo più volte nella loro vita: ci sono pezzi di città, quartieri, isolati, marciapiedi in cui brulicano attività illegali, è pericoloso abitare e passare, i criminali assumono atteggiamenti arroganti e intimidatori. In questi luoghi può succedere che i cittadini protestino, facciano esposti, chiedano disperatamente alle autorità di intervenire, e che le Istituzioni (polizia, magistratura, talora anche la Chiesa) si mostrino sorde. Ma può anche succedere, come a quanto pare è accaduto nel caso di San Lorenzo e della povera Desirée, che intervengano ripetutamente ma del tutto inutilmente: la criminalità che occupava un determinato luogo vi torna la settimana dopo, o semplicemente si sposta di un isolato, o cambia zona della città.

Ecco perché, quando si dice che una certa tragedia era “annunciata”, e si accusano le autorità, siano esse politici, amministratori, Forze dell’ordine, di non aver ascoltato, di non aver risposto, di non aver provveduto, io sento un certo fastidio, o forse imbarazzo. Insomma, qualcosa non mi torna. Non tanto perché il mantra di questi giorni, riqualificare le periferie, è “un vasto programma” che ben pochi politici anteporrebbero a più redditizie promesse elettorali, ma perché la precondizione di tutto è che lo Stato sia messo in condizione di tornare a fare lo Stato.

Questo, spiace dirlo, dipende in misura minima dal ministro dell’Interno, e in sommo grado dal Parlamento. Che può continuare con la vecchia linea: depenalizziamo tutto il possibile; riserviamo il carcere ai crimini più gravi (e, barbarie, ai presunti innocenti in attesa di giudizio!); per migliorare le condizioni di detenzione svuotiamo le carceri con indulti e amnistie. Oppure può trovare il coraggio di fare macchina indietro, e di riappropriarsi dello strumento dell’incapacitazione: cambiando le norme penali, limitando il ricorso alle pene alternative, destinando qualche miliardo all’edilizia carceraria.

Se così agisse il Parlamento, le Forze dell’ordine non penserebbero più che il loro lavoro è vano, o che i loro sgomberi sono fatiche di Sisifo. Perché, arrestando qualcuno, confiderebbero di non ritrovarselo la settimana dopo nello stesso posto, a fare le stesse cose, con le stesse compagnie.

E forse i cittadini ricomincerebbero ad avere fiducia nello Stato, a non sentirsi stupidi se rispettano le leggi. Perché, checché continuino a pensarne certi politici, non è vero che “le paure dei cittadini sono infondate”: le paure dei cittadini sono fondatissime, verso la criminalità degli immigrati come verso quella degli italiani. E quelle paure, solo uno Stato che torni a fare lo Stato ha qualche possibilità di spegnerle.




Pd, difendere l’Europa non basta

Questa volta, per la prima volta da 40 anni, ossia da quando esiste il Parlamento europeo (1979), le elezioni europee saranno quel che sempre avrebbero dovuto essere e mai sono state: un confronto sull’Europa, le sue politiche, il suo futuro. Quanto all’Italia, il 26 maggio prossimo sarà un banco di prova decisivo per almeno due soggetti politici: il governo giallo-verde (ammesso che sia ancora in sella) e il Partito Democratico, l’unica forza di opposizione che riscuote ancora un consenso a due cifre (16%, secondo gli ultimi sondaggi).

Ma come si presenterà il Pd al cruciale appuntamento di maggio? Chi lo guiderà?

Qui la nebbia è totale. Per alcuni il Pd dovrebbe addirittura essere sciolto, per far spazio a una formazione politica nuova di zecca. Per altri il Pd dovrebbe aprirsi alla società civile e diventare il perno di una larga alleanza. Per altri ancora l’unico modo per scongiurare la dissoluzione dell’Europa è la nascita di un “fronte repubblicano”, da Tsipras a Macron. Riguardo alla leadership, tramontata a quanto pare l’ipotesi di una candidata donna, le possibilità vere al momento paiono solo tre: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti (se scioglierà la riserva); sempre che Carlo Calenda non ci ripensi, e scenda in campo pure lui.

Personalmente sono molto scettico sull’idea di un fronte europeista e anti-sovranista. L’ultima volta che la sinistra ha provato a coalizzarsi in un fronte è stato nel 1948, e sappiamo come è andata: trionfo della Dc (48%) e débâcle del fronte popolare, fermo al 31%. Per non parlare del paradosso che si produrrebbe oggi: visto che il popolo sta con Salvini e Di Maio, quello che vedremmo nascere sarebbe una sorta di “fronte anti-popolare”, concetto curioso e difficile da digerire.

In realtà, più che di formule vincenti, o capaci di limitare il disastro, quello di cui si sente la mancanza sono le idee. Dicendo “idee” non mi riferisco a minuziosi programmi di riforma, o ai soliti proclami di politica economica. No, quello che mi pare manchi completamente sono un bilancio onesto sugli errori commessi dalla sinistra (non solo Pd), e risposte chiare alle due domande su cui Lega e Cinque Stelle hanno sfondato: la richiesta di protezione da criminalità e immigrazione, e la richiesta di protezione economica.

Su questo l’attuale campo progressista mi pare balbetti, o si mostri già ampiamente diviso. Penso al caso delle occupazioni di case, o quello del sindaco di Riace. Una parte della sinistra (maggioritaria, suppongo) ritiene che, anche ove emergessero irregolarità e violazioni di legge, la buona causa in nome della quale sono state commesse assolva i loro autori. Quando una legge è sbagliata, e viola principi che la nostra coscienza (o la nostra interpretazione della Costituzione) ritiene fondamentali, è giusto ribellarsi, come sotto i regimi autoritari; una posizione, peraltro, abbastanza simile a quella della destra, quando per difendere gli evasori parla di “evasione di necessità”, giustificata da tasse troppo alte. Un’altra parte della sinistra pensa invece che, in un regime democratico, le leggi si rispettano, e se non funzionano si cerca di cambiarle. Analogo discorso si potrebbe fare sugli sbarchi: una parte del popolo di sinistra è per l’accoglienza senza se e senza ma, un’altra parte condivide la linea dura di Minniti, che Salvini ha un po’ spettacolarizzato ma che resta sempre la stessa: gli ingressi irregolari in Europa (e in Italia) debbono essere combattuti con determinazione.

Ma penso anche a un altro tema, quello della lotta alla povertà e alla disoccupazione. Una parte del popolo di sinistra trova meravigliosa l’idea del reddito di cittadinanza, e si duole soltanto che a pensarci siano stati i Cinque Stelle anziché il Pd. Un’altra parte non ritiene ancora persa la battaglia per creare nuova occupazione, e considera il reddito di cittadinanza come una misura assistenziale, da usare con cautela perché mina dalle fondamenta la civiltà del lavoro.

E ancora. Una parte del popolo di sinistra ritiene che la riduzione della pressione fiscale e contributiva sia un obiettivo sacrosanto, per stimolare la crescita, un’altra parte pensa che i nostri problemi li risolveremo solo con maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio (secondo il celebre slogan del 2006: “far piangere i ricchi”). Una parte dell’elettorato progressista crede che il debito non sia un problema, e anzi sia necessario per far ripartire l’economia, un’altra parte pensa che sia un ingiusto fardello sulle future generazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma quello che voglio dire è solo questo: su queste divisioni i candidati alla guida del campo progressista tendono a non prendere posizioni nette, perché sanno che scontenterebbero una parte, una parte troppo grande, dei loro potenziali sostenitori. Il rischio è che, non essendo nella condizione di spiegare in modo chiaro se e come intendano dare risposte nuove alla domanda di protezione che ha portato al successo dei movimenti populisti, non trovino di meglio che unirsi in una santa alleanza a difesa dell’Europa e della moneta unica.

Sarebbe un disastro. Non perché Europa ed euro non siano risorse cruciali per il nostro futuro, ma perché quella è solo la cornice. E la cornice non basta, ci vuole un pittore che trovi il coraggio di riempire la tela.

Pubblicato su Il Messaggero del 20 ottobre 2018