Antigone rovesciata

Non sono un giurista. Quindi è possibile che quel che sto per dire verrà giudicato inappropriato, semplicistico, aberrante, contrario alla civiltà giuridica. Però sento la necessità di dirlo.

A Strasburgo, martedì sera, tre persone hanno perso la vita, altre lottano conto la morte, altre ancora sono rimaste gravemente ferite perché un giovane di origine nordafricana, nato in Francia, ha deciso di onorare così il suo Dio. O almeno così pare, se è vero quel che riferiscono i testimoni, ossia che è fuggito gridando “Allah Akbar”, Allah è grande.

Ora, agli attentati terroristici nel cuore dell’Europa purtroppo siamo ormai abituati da anni. Così come siamo consapevoli che non esiste un modo per renderli impossibili. Però c’è una cosa che non mi torna, come cittadino europeo. Le cronache riferiscono che il giovane Cherif Chekatt (così si chiama l’attentatore) era già stato condannato 27 volte, in Francia, in Germania e in Svizzera. Per reati comuni (nel senso di non legati al terrorismo), ma non certo di poco conto (truffe, violenze, rapine, furti, a quel che si apprende: ma solo il tempo ci dirà se è esattamente così). Pare che la polizia francese l’avesse schedato con la “fiche S”, ossia con il codice che contraddistingue i soggetti pericolosi (S sta per “sûreté de l’Etat”, sicurezza dello Stato), non necessariamente islamici o terroristi in erba. Si apprende, infine, che di soggetti così classificati, e quindi monitorati dalle forze dell’ordine, in Francia ve ne siano circa 26 mila. E che “ovviamente” non ci sono abbastanza poliziotti per controllarli tutti 24 ore su 24.

Ed ecco quel che non mi torna. Supponiamo per un attimo che nulla di tutto quel che si ritiene di sapere di Cherif Chekatt sia vero, salvo il fatto che è già stato condannato 27 volte. Supponiamo, per sgomberare il campo da ogni convinzione o pregiudizio su immigrazione, etnie, islam, terrorismo, che il nostro attentatore fosse semplicemente un giovane francese, figlio di francesi, bianco, mai prima coinvolto in fatti di terrorismo ma “solo” autore di 27 reati in 3 paesi europei. Ebbene, non vi sembra che, comunque, vi sarebbe qualcosa che non va?

Come è possibile che nella civilissima Europa, anche dopo la 26-esima volta che si commette un reato, ci si possa trovare perfettamente liberi, ovvero scarcerati per la 26-esima volta, pronti a commettere il nostro 27-esimo reato? Non c’è qualcosa di profondamente illogico in un ordinamento entro il quale tutto ciò non è l’eccezione, l’anomalia, l’errore che può scappare in una situazione-limite, ma è la norma, ovvero la logica conseguenza delle avanzatissime leggi che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, abbiamo ritenuto di darci?

Adesso vorrei fare un passo di lato. Supponiamo che un fine giurista, un politico illuminato, o un sincero democratico, riescano a convincermi che tutto ciò è giusto, anzi è la giustizia stessa, è il senso della civilizzazione, e dunque gli Cherif Chekatt che, anziché stare in carcere, fanno stragi nei mercatini di Natale, sono semplicemente il prezzo della nostra libertà. Ebbene, anche se io ne uscissi convinto, anche se il mio rieducatore riuscisse a rieducarmi, io comunque una cosa non potrei non fargliela notare: tutto ciò che affermi è contro il comune senso di giustizia della gente normale; tutto ciò cozza contro i sentimenti che qualsiasi persona non accecata dall’ideologia prova; tutto ciò contraddice la “legge naturale”, al di là delle “norme positive” inventate dagli uomini. Perché non è naturale che una comunità non possa difendersi da chi ha ripetutamente manifestato la volontà di colpirla.

E’ la tragedia di Antigone, ma capovolta. Là, nella tragedia di Sofocle, Antigone rivendicava il diritto di seppellire il fratello Polinice in nome della legge naturale, contro la legge della città. Noi, oggi, ci troviamo nella situazione paradossale per cui la gente, in nome della legge naturale, vorrebbe che i criminali di professione stessero permanentemente in carcere, a tutela della comune città (civiltà) europea, mentre i governanti, che quella città dovrebbero difendere, scrivono leggi che non tengono in nessun conto il comune senso di giustizia. Il principio, sacrosanto, per cui a chi sbaglia non dovrebbe mai essere negata una seconda chance, viene dilatato e stravolto fino a stabilire, di fatto, il principio per cui ad ognuno dovrebbe essere data anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta,.., una ventisettesima chance.

E’ abbastanza incredibile, ma sulla criminalità e sul terrorismo l’unica strategia che non viene mai presa seriamente in considerazione è l’incapacitazione: punire la recidiva rendendo il tempo di permanenza in carcere tanto più lungo quanto più numerosi e ripetuti sono i crimini commessi.

So bene che, in tempi di governi (e di maggioranze) populiste, quel che pensa la gente normale viene irriso dall’élite degli illuminati, e bollato come banale buon senso, quando non come anticamera dei peggiori sentimenti e delle peggiori ideologie. Ma agi illuminati io vorrei ricordare quel che Raffaele La Capria, ebbe a scrivere sulla differenza fra buon senso e senso comune: il buon senso è spesso opportunista e conformista, perché si adatta a quel che conviene pensare in quel momento e in quel luogo, magari solo perché tutti lo pensano o fingono di pensarlo; il senso comune è libero da pregiudizi perché ha il coraggio di vedere le cose per quello che sono, al di là delle costruzioni intellettuali con cui il potere cerca di ridescriverle (Lo stile dell’anatra, Rizzoli 2010).

Sulle politiche della sicurezza, quello della gente non è bieco buon senso, ma semmai intrepido senso comune. Io lo chiamerei “senso comune etico”, un naturale sentimento di giustizia che si erge a difesa della città minacciata, e poggia sulla capacità di vedere le cose per quello che sono diventate. E quel che la gente vede è semplicemente questo: che le regole della città si sono allontanate troppo, e troppo in fretta, dal comune sentire delle persone, e proprio per questo stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città.

Articolo pubblicato sul Messaggero del 15 dicembre 2018



Cultura e politica

Una delle cose che più mi stupiscono, quando si approssima una scadenza elettorale (e noi ne abbiamo giusto una in arrivo: le Europee di maggio 2019), è come le solenni promesse dei partiti si concentrino su pochissimi argomenti-chiave, lasciando in ombra tutto il resto. Nelle elezioni del 4 marzo, ad esempio, il 90% del dibattitto politico ha ruotato intorno a quattro soli temi: immigrazione, flat tax, riforma Fornero, sussidi ai poveri variamente denominati (reddito di cittadinanza, di inserimento, di dignità ecc.).

Ma ancor più che la concentrazione su pochi temi, quel che mi stupisce è la completa espulsione dal dibattito politico di determinati temi, che pure in teoria o in altri contesti tutti riconoscono come importantissimi. Uno di questi è l’ambiente, ma meglio sarebbe dire il futuro del pianeta, messo a rischio dai nostri comportamenti quotidiani ma soprattutto dalla latitanza delle istituzioni, ben poco attente a problemi come il riscaldamento globale, i rifiuti, l’inquinamento delle falde acquifere. Un altro è il futuro dei giovani, compromesso dall’aumento del debito pubblico e dalla controriforma delle pensioni. Un altro ancora è la cultura, ovvero il funzionamento di istituzioni e organizzazioni fondamentali come la scuola, l’università, le case editrici, i giornali, la radio, la televisione, i teatri, i musei.

Su questo genere di argomenti il silenzio dei partiti e degli uomini politici è assordante, come se ritenessero che ai cittadini queste cose non importino, e dunque possano essere espulse dal dibattito politico. C’è una differenza, però, fra i primi due temi che ho citato (ambiente e giovani) e il terzo (la cultura). Ed è che, pur stupendomi del disinteresse del mondo politico per questo genere di temi, per i primi due riesco a darmi una spiegazione, per il terzo no. La spiegazione è molto semplice: ambiente e giovani sono problemi del futuro, non dell’oggi, e quindi è normale che la politica, divenuta miope e irresponsabile, non li affronti, o lo faccia in modo puramente ideologico, senza prendere il toro per le corna. Per il terzo tema, l’istruzione e la cultura, la spiegazione invece non c’è. Quel che si fa o non si fa in questo ambito ha conseguenze molto importanti fin da subito, ed è dunque strano che ai politici interessi così poco.

A quali conseguenze mi riferisco?

Se ne potrebbero citare molte, ad esempio si potrebbe ricordare che, secondo diversi studi di tipo empirico, il più importante fattore di crescita del benessere, in occidente, è il capitale culturale, ossia il livello di competenza della forza lavoro. Insieme alle tasse troppo alte e alle pastoie burocratico-giudiziarie, è proprio il basso livello di istruzione il freno fondamentale alla crescita del Pil.

Ma la ragione più importante per cui la politica fa male a non occuparsi della cultura è che la rinuncia a elevare il livello culturale effettivo della popolazione, a partire dalla scuola e dall’università, è un formidabile fattore di diseguaglianza. Si può capire che il tema non appassioni la destra, per cui la diseguaglianza non è il problema fondamentale della nostra società, ma la sinistra? Che cosa fa la sinistra per elevare il livello culturale della popolazione?

Se guardiamo agli ultimi 50 anni di storia, quel che dobbiamo registrare è, purtroppo, che la politica del mondo progressista nei confronti della cultura ha quasi sempre e quasi ovunque avuto due pilastri. Uno è lo sforzo, benemerito, di allargare la platea degli utenti di ogni forma di consumo culturale, dalla lettura dei quotidiani a quella dei libri, dalle notti bianche ai festival. L’altro è l’accettazione, e in alcuni casi la promozione intenzionale e consapevole, di un generale abbassamento degli standard, visto come precondizione per un allargamento della platea degli studenti, nella scuola come nell’Università. E questo abbassamento, se da un lato ha allargato l’utenza (termine orribile, ma che rende bene l’idea di che cosa siano diventate oggi la scuola e l’università), dall’altro ha disarmato completamente i ceti popolari, che avevano nella conquista di una cultura elevata l’unica strada, e l’unica arma, per bilanciare i privilegi dei figli di papà.

Questo fino a ieri. Oggi non c’è neppure questo, perché l’istruzione è uscita dal radar della sinistra, divenuta completamente indifferente ai contenuti culturali, e tutt’al più sensibile ai problemi occupazionali del ceto insegnante (vedi le assunzioni della “buona scuola”, che nulla ha fatto per alzare gli standard).

Da sempre poco interessante per la destra, trattata nel modo sbagliato (perché anti-egualitario) dalla sinistra, la cultura non sembra avviata a un destino glorioso neppure nell’emergente mondo populista. Né potrebbe essere diversamente. Dacché si è teorizzato che “uno vale uno”, dacché esperti e competenti sono stati additati al pubblico disprezzo, dacché chiunque – in televisione o su internet – si sente autorizzato a dire la sua su argomenti su cui non ha la minima cognizione di causa o esperienza, è inevitabile che il mondo della cultura, il suo rafforzamento, la sua difesa dalle contraffazioni, non interessino più la politica.

Ma forse mi sto sbagliando. Forse è vero il contrario. A ben vedere, la cultura alla politica di oggi interessa moltissimo. Anzi la politica non fa altro, 24 ore su 24, che occuparsi di cultura. Solo che il suo scopo, forse consapevole forse no, è semplicemente di rimuovere la cultura dall’orizzonte del discorso pubblico. Perché la cultura è un ostacolo, forse l’unico vero ostacolo rimasto, al dilagare senza freni e senza inibizioni dello spettacolo della politica. Uno spettacolo che i protagonisti preferiscono mettere in scena da soli, e cui il mondo dei media, social e no, fornisce un insperato e durevole palcoscenico. H24.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 09 dicembre 2018



Cambiare la manovra? Yes we can…

Nel medio periodo i mercati finanziari valutano i conti pubblici di un paese in base ai suoi fondamentali, nel breve periodo, invece, nella valutazione dei mercati, quella che determina il famigerato spread, entrano anche molteplici fattori di natura politica, psicologica, congiunturale.

In questo momento, nella zona Euro, tutti i paesi sono giudicati dai mercati grosso modo in linea con i loro fondamentali, con una sola eccezione: l’Italia. In Italia lo spread è pari a 300 punti base, ma di questi 300 punti solo la metà circa è attribuibile allo stato dei nostri fondamentali. In concreto vuol dire: se i mercati non fossero influenzati da fattori anomali, lo spread sarebbe prossimo a 150 punti, e tutti vivremmo sonni più tranquilli.

Come se non bastasse, a questa cattiva disposizione (posso chiamarla così?) dei mercati si addiziona la pessima disposizione delle autorità europee, che minacciano l’avvio di una proceduta di infrazione verso l’Italia, colpevole di aver presentato una manovra di bilancio che viola le regole di Bruxelles.

E’ in questo clima che, molto timidamente e in modo volutamente ambiguo, il governo si appresta a modificare (o “rimodulare”, come si dice quando si vuole dire e non dire) la manovra economica con cui intende far uscire l’Italia dalle secche della bassa crescita.

E’ opportuno mettere mano a una sostanziosa correzione della manovra?

Io penso di sì, ma ritengo anche che una tale correzione non dovrebbe preoccuparsi tanto di salvare la faccia alle autorità europee, quanto di riportare i mercati alla ragione, ossia a valutare l’Italia per quel che sono i suoi fondamentali. Provo a dire perché.

Primo. Il vero danno all’Italia non verrà dalle sanzioni europee, ma è già venuto dall’aumento dello spread. Se non ce ne siamo ancora accorti granché è solo perché gli effetti negativi generali si vedranno fra un anno circa, ossia quando gli interessi sui prestiti e sui mutui cominceranno a strangolare famiglie e imprese, mentre gli effetti negativi immediati hanno finora colpito “solo” (si fa per dire) 1 risparmiatore su 4, ossia i possessori di ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di stato). E’ facile prevedere che se, fra qualche mese, le perdite virtuali dei risparmiatori italiani (circa 200 miliardi di euro dalla data delle elezioni) non dovessero essere recuperate grazie a un calo dello spread e un recupero della borsa, assisteremo al progressivo consolidarsi del partito del “I want my money back”, ovvero “rivoglio i miei soldi indietro”, secondo la famosa rivendicazione di Margareth Thatcher (verso l’Europa).

Secondo. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre dai dibattiti in corso, la vera fonte di tensione sui mercati non è il deficit (che da diversi anni oscilla intorno al livello programmato dal governo gialloverde), ma l’evoluzione del rapporto debito-Pil. Quel che preoccupa è la scarsa determinazione del governo nel perseguirne la sua riduzione, e ancor più la convinzione della stragrande maggioranza degli analisti che, sia nel 2019 sia negli anni successivi, il Pil dell’Italia crescerà meno del previsto, rendendo così ancora più improbabile l’avvio di un percorso di riduzione del rapporto debito-Pil.

Terzo. I timori degli analisti sono più che giustificati, e lo sono per un motivo molto semplice: la manovra non inverte affatto la rotta degli anni scorsi, ma semmai ne amplifica i difetti e, bisogna aggiungere per amore di verità, ne paga gli errori. In che senso?

Nel senso che è stato un errore puntare troppo su misure assistenziali (come gli 80 euro e i vari bonus), giustificate dal mito del “rilancio della domanda interna”. E’ stato un errore fare così poco per ridurre la pressione fiscale sui produttori. E’ stato un errore disseminare il futuro (cioè il presente dell’attuale governo) di clausole di salvaguardia da disinnescare, come quelle sull’Iva e le accise. E’ stato un errore chiedere continuamente all’Europa di fare più deficit di quello consentito dalle regole, anziché approfittare della congiuntura favorevole per risanare il bilancio. E’ stato un errore ridurre, anno dopo anno, le risorse destinate agli investimenti pubblici. E’ stato un errore non fare una manovra correttiva allorché l’Europa ci avvertì che i nostri conti pubblici stavano deragliando dal percorso concordato.

Di fronte a questi errori, rinunciare a una sensibile riduzione delle tasse e puntare quasi tutto su due grandi misure di spesa (reddito di cittadinanza e pensionamenti anticipati) non significa cambiar rotta, ma accentuare il principale difetto delle politiche dei governi precedenti, ovvero l’eccesso di misure orientate al consenso anziché alla crescita. Né vale l’obiezione che, così, si rilanciano consumi e domanda interna, o che la manovra è “finalmente” espansiva: fare il 2.4% di deficit non significa immettere nell’economia più soldi di prima, ma solo immetterne di più di quanti se ne incassa, esattamente come prima e nella stessa misura in cui lo si faceva prima (il deficit è sempre stato prossimo al 2.4% negli ultimi anni).

Che fare, dunque, per correggere la manovra?

Arrivati a questo punto una correzione radicale, una vera inversione di tendenza, è politicamente impossibile, perché ormai su pensioni e reddito di cittadinanza Salvini e Di Maio si sono impegnati con i rispettivi elettorati, e non è certo pensabile che sacrifichino una di queste due promesse per mantenere la terza, ovvero la flat tax. Però, forse, qualche correzione si potrebbe fare lo stesso. Di queste correzioni, non ottimali ma comunque capaci di calmare i mercati, io ne vedo almeno quattro. La prima è un aumento degli investimenti pubblici, soprattutto legati all’edilizia e alla gestione del territorio (dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole). La seconda è una lieve riduzione del deficit programmatico, magari anche solo dal 2.4 al 2.2%, che è poco in termini di bilancio ma è tanto come segnale ai mercati. La terza, a copertura delle prime due, è un avvio graduale delle misure di spesa (pensioni e reddito di cittadinanza), non nel senso di un inizio tardivo (impensabile con le elezioni europee alle porte) ma nel senso di un inizio tempestivo (aprile?) che allarga poco per volta la platea dei beneficiari. La quarta, a mio parere la più importante, è il capovolgimento del reddito di cittadinanza. Anziché mettere i soldi in tasca ai disoccupati, attendendo che gli inefficientissimi centri per l’impiego offrano loro un corso di formazione e un lavoro veri, che li distolga dalla tentazione del lavoro nero, si potrebbe varare un sistema di incentivi che renda convenienti per le imprese l’assunzione e/o la formazione di lavoratori disoccupati e disponibili a lavorare: imparare un lavoro dentro l’impresa che di quel tipo di lavoro ha bisogno è la migliore garanzia che il lavoratore formato venga assunto, e che la formazione serva proprio a lui, e non – come oggi troppe volte accade – ai formatori che si contendono i disoccupati.

Un aggiustamento di questo tipo non sarebbe il più efficace possibile ai fini della crescita, se non altro perché privo di altri cruciali pilastri (riduzione delle tasse, investimenti in capitale umano, efficientamento della giustizia civile), e tuttavia avrebbe, a mio parere, buone probabilità di centrare almeno quattro obiettivi: salvare la sostanza delle promesse elettorali già fatte; rendere meno improbabile il raggiungimento dei tassi di crescita programmati, grazie al reddito di cittadinanza reindirizzato verso le imprese; bloccare la proceduta di infrazione dell’Europa contro l’Italia; raffreddare le tensioni sui mercati finanziari. Un ritorno dello spread sotto quota 200 riporterebbe un po’ di fiducia, ridarebbe ossigeno ai bilanci delle banche, eviterebbe la contrazione del credito e l’aumento dei tassi sui mutui, permetterebbe ai risparmiatori di recuperare le perdite (virtuali) di questi mesi.

Non è moltissimo, ma è comunque meglio che prolungare all’infinito l’incertezza presente.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 novembre 2018



Abusi edilizi del nonno, difendo Luigi Di Maio

Del populismo mi piacciono due cose soltanto: lo sforzo di usare un linguaggio comprensibile, e il rispetto per i sentimenti della gente comune. Tutto il resto, a partire dalla politica economica e sociale, mi lascia perplesso, non saprei dire se di più o di meno di quanto mi lasciassero perplesso le gesta dei governi precedenti, che molto hanno contribuito, insieme ai nostri comportamenti quotidiani, a portare l’Italia nella palude in cui tuttora si trova.

La mia lontananza dalle idee sovraniste e populiste, tuttavia, non mi impedisce oggi di dire una cosa: il trattamento che una parte del mondo dell’informazione, e in particolare i media schierati con l’opposizione, hanno riservato a Luigi Di Maio (per la vicenda di un abuso edilizio sanato con un condono) non è degno di un paese civile. Anzi, vorrei dire di più: non è degno di un paese occidentale moderno, e meno che mai di una democrazia liberale.

Non che Di Maio sia l’unica vittima, naturalmente. E’ successo a decine di politici di essere messi alla gogna per presunti illeciti compiuti dai loro familiari. Recentemente è capitato a Maria Elena Boschi per le condotte del padre in banca Etruria, e a Matteo Renzi, anche lui per affari sospetti del padre. Ma, a mia memoria, mai era successo che un politico venisse crocefisso per un illecito (in materia edilizia) compiuto da suo nonno mezzo secolo prima, sanato da suo padre prima che il malcapitato uomo politico di oggi fosse venuto al mondo. Un quotidiano arriva ad accusare Di Maio di non aver tenuto gli occhi ben aperti quando, 12 anni fa, il padre ricevette comunicazione che la domanda di condono – da lui inoltrata venti anni prima – era stata finalmente accolta.

Eppure, più che aberrante, questa vicenda è molto istruttiva. Essa ci permette, infatti, di accorgerci di quanto radicalmente la nostra società e, dentro di essa, il mondo della comunicazione, si siano allontanati dai principi liberali che per tanti decenni sono stati alla base delle nostre istituzioni.

Ce ne siamo allontanati, tanto per cominciare, perché i difensori di quei principi sono i primi a calpestarli. Fa una certa impressione constatare che siano proprio i paladini delle istituzioni liberali, giustamente preoccupati di ogni indebolimento dello stato di diritto, a dimenticare che – nelle società moderne – la responsabilità è personale, e che le (eventuali) colpe dei padri non possono essere imputate ai figli: il superamento della legge del genos, per cui la colpa si trasmette lungo le generazioni, e la vendetta può abbattersi sui discendenti, è un caposaldo della nostra civiltà, uno dei punti cruciali che la separa dalle tante barbarie del passato.

Ma fa ancora più impressione il meccanismo di propagazione mediatica del fango. Quando una notizia, più o meno vera, più o meno completa, più o meno infamante, viene messa in circolo, essa entra istantaneamente nel tritacarne dei social, senza mediazioni, senza contrappesi, senza alcuna reale possibilità di autodifesa dei diretti interessati. Anzi, la tentata autodifesa non fa che peggiorare la situazione, favorendo la propagazione del fango, moltiplicando le voci che pretendono, senza alcuna cognizione di causa, di esibire i propri istinti e i propri impulsi.

Ed è qui che le cose diventano interessanti, e istruttive per chi volesse non chiudere gli occhi. La ragione per cui le figure pubbliche possono sì raccogliere rapidamente un enorme consenso, ma anche risultare improvvisamente vulnerabilissime, è precisamente che sono saltati tutti gli argini che, ancora pochi decenni fa, mettevano un limite all’arbitrio comunicativo: la realtà è che oggi chiunque può dire quel che desidera senza renderne conto a nessuno, i media non hanno alcuno scrupolo nel nascondere le notizie, nell’inventarle, nel deformarle, tecnici ed esperti sono guardati con sospetto, nessuno è considerato al di sopra delle parti, i fatti sono trattati come opinioni, eventi e comportamenti sono sistematicamente giudicati con due pesi e due misure, nessuno è chiamato a rendere conto delle affermazioni che fa, o a scusarsi per le bugie che dice. Insomma: se “uno vale uno”, e tutti siamo felicemente collegati via internet, allora tutte le opinioni sono sullo stesso piano, e quel che è fake ha esattamente gli stessi diritti di quel che non lo è.

In questo senso la vicenda Di Maio è illuminante, ma lo è per tutti. Si può accusare una parte della stampa di faziosità, o addirittura di aver montato un caso per colpire un avversario politico (non è certo il caso della Raggi, che non è partito dagli organi di informazione). Ma ci si dovrebbe rendere conto che il meccanismo è il medesimo che, una decina di giorni fa, aveva condotto la stessa parte politica, da sempre fustigatrice del cattivo giornalismo, ad ospitare sul proprio sito un video completamente manipolato, in cui a un’autorità europea (nella persona di Jeroen Dijsselbloem) venivano messe in bocca dichiarazioni gravissime (un invito ai mercati finanziari ad attaccare l’Italia) ma completamente inventate. E ancora prima aveva condotto a cavalcare le vicende di Renzi e Boschi con la stessa spregiudicatezza con cui oggi gli avversari dei Cinque Stelle cavalcano le malefatte edilizie del nonno di Di Maio.

Ecco, credo che questa vicenda innanzitutto questo ci insegni: allontanarsi troppo dalle istituzioni liberali, con i loro filtri, le loro mediazioni, i loro meccanismi di tutela della verità e della reputazione, può apparire liberatorio, ma è molto pericoloso. Perché un mondo in cui ciò che è fake e irragionevole conta tanto quanto ciò che è vero e ben fondato, può andare in qualsiasi direzione. Anche le più impreviste e inquietanti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero di martedì 13 novembre 2018



Il non detto delle buone cause

Il caso della giovane volontaria rapita e sequestrata in Kenya riapre antiche ferite nell’opinione pubblica italiana. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima. Chi ha buona memoria, o non è troppo giovane, ricorderà sicuramente il caso delle “due Simone”, che tante polemiche suscitò 14 anni fa (estate 2004), regnante Berlusconi e in piena guerra in Iraq.

Ma perché tanto si discute e tanto ci si divide quando accadono drammi di questo tipo? Perché non ci limitiamo a sperare che qualcuno, sia esso il nostro governo o quello del paese dove è avvenuto il rapimento, riesca a riportare a casa la persona che è stata rapita?

La ragione di fondo è che, di fronte ai sequestri di volontari impegnati in una causa umanitaria, scattano due reazioni opposte, talora entro la medesima persona. La prima è un sentimento di ammirazione per chi spende i suoi anni migliori per aiutare soggetti fragili, siano essi bambini, donne, malati, poveri. La seconda, più che una reazione, è una sorta di stato di perplessità e di dubbio, che si manifesta attraverso un groviglio di domande.

Queste perplessità, più o meno confusamente, poggiano su vari ordini di pensieri. Ma c’è un elemento comune che li attraversa tutti, ed è l’idea che, quando si parla di questo genere di scelte di vita, ci sia un non detto, un pezzo di verità che resta troppo spesso in ombra.

Un tipico non detto sono i costi delle scelte più imprudenti. Costi che per i paesi che, come l’Italia, sono usi pagare riscatti, sono di molti tipi, non solo economici. Le operazioni di liberazione degli ostaggi possono costare la vita ai liberatori, come accadde nel 2004, quando per liberare la giornalista Giuliana Sgrena, in Iraq per un reportage di guerra, perse la vita il nostro agente del SISMI Nicola Calipari. Il denaro del riscatto può essere usato per organizzare nuove operazioni terroristiche, che faranno altri morti innocenti. E proprio il buon esito della transazione può incentivare nuovi sequestri, tanto più probabili verso i cittadini dei paesi inclini alla trattativa (è questo il motivo per cui i governi americano e inglese non trattano). Per non parlare di quel che gli economisti chiamano il costo opportunità di ogni nostra scelta: se metto le mie energie in una cosa, le sottraggo a un’altra. Osservazione che può sembrare sottile o capziosa, ma cessa di esserlo quando ci si chiede perché, con tutti i drammi che abbiamo in patria (dalla povertà alla non autosufficienza), così pochi giovani si sentano attratti dall’affrontarli, e preferiscano esercitare le loro virtù in teatri lontani e spesso rischiosi.

E qui veniamo al non detto più insidioso, quello che riguarda i benefici dell’altruismo. Ciò che, a una parte dell’opinione pubblica non torna, è la retorica del racconto delle gesta umanitarie, per lo più descritte nel registro dell’altruismo, dell’abnegazione, del sacrificio di sé, e così raramente colte nel registro sociologicamente più plausibile, ovvero come strategie di autorealizzazione e di costruzione dell’identità (un tratto, sia detto per inciso, che spiega la sottovalutazione dei rischi: è proprio perché così cruciali nella costruzione del sé, che le imprese in teatri pericolosi non suscitano il timore che meriterebbero).

Ecco perché siamo combattuti. Da un lato l’ammirazione per una gioventù che, come ha scritto ieri Massimo Gramellini, non è fatta né di “lamentosi” vittimisti né di indolenti “sdraiati”.  Dall’altro la sensazione che, alla “meglio gioventù” di oggi, un po’ più di lucidità e consapevolezza non farebbero male.

E’ diventato normale, in tutte le società occidentali, che la stella polare di ognuno, giovane e meno giovane, sia la felicità individuale, la cosiddetta autorealizzazione. Una meta per lo più perseguita con determinazione, costi quel che costi, e che crea non pochi problemi nuovi, anche di natura diversissima fra loro: dalla rottura precoce delle unioni sentimentali alla mancanza di elettricisti (e di decine di altre categorie di lavoratori).

Che cosa c’entrano le separazioni con gli elettricisti? C’entrano eccome, perché alla base di entrambe c’è l’enorme, incontenibile, indomito bisogno di autorealizzazione che pervade le società moderne, e conduce a rompere un legame appena se ne presenta uno più promettente, ma anche a rifiutare una carriera solida ma prosaica (elettricista) appena se ne intravede una più incerta ma gratificante (blogger, conduttore televisivo, cantante). Con enormi conseguenze, individuali e collettive: la moltiplicazione delle diadi madre-figlio (più raramente padre-figlio), con uno dei genitori volato a più lieti lidi, la crescente difficoltà delle imprese di trovare le maestranze che servono.

Ecco perché dicevo che, forse, un po’ più di consapevolezza non guasterebbe. Chi usa il suo tempo a favore degli altri merita innanzitutto ammirazione. Ma nel vasto mondo di coloro che perseguono buone cause, merita una speciale ammirazione chi è impegnato in cause umili, che non dànno né visibilità, né speciali gratificazioni. E, soprattutto, non mettono a repentaglio la vita altrui, come accade ogni volta in cui la causa che abbiamo scelto può farci trovare in situazioni drammatiche, da cui solo gli altri ci potranno tirare fuori. Non di rado a prezzo della loro vita, come la storia di Nicola Calipari ci ricorda.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 23 novembre 2018