Flat tax e Iva, la grande ammuina

Prepariamoci. Fino alla fatidica data delle elezioni europee (26 maggio), ma anche dopo – se il governo sopravviverà – siamo destinati ad essere sommersi da una girandola di cifre, aliquote, clausole, scaglioni, detrazioni, deduzioni, sgravi, regimi fiscali speciali o agevolati, con cui cercheranno di acquisire il nostro favore, cioè il nostro voto. Possiamo stare certi che sentiremo decine di ipotesi di “rimodulazione” delle aliquote, innumerevoli dichiarazioni sull’assoluta esigenza di alleggerire il carico fiscale delle famiglie, disinnescare l’aumento dell’Iva, combattere l’evasione, introdurre più o meno rapidamente la flat tax. E poiché, come sempre, mancheranno cifre certe e dettagli essenziali, sarà difficilissimo capire che cosa davvero ci viene gentilmente promesso.
In questa situazione, però, una bussola relativamente chiara c’è. E’ un numeretto semplice-semplice, che non dice tutto sulla politica economica di un governo, ma dice molto. Anzi moltissimo. Questo numeretto è la pressione fiscale, ossia il rapporto fra le entrate totali della Pubblica Amministrazione e il Pil. Se la pressione fiscale diminuisce (come quasi tutti promettono, in campagna elettorale), allora vuol dire che il governo sta dando ossigeno all’economia. Se invece aumenta, allora significa che il governo sta soffocando l’economia. Certo quel numeretto non dice tutto, perché non è la stessa cosa prelevare ai ricchi o ai poveri, alle imprese grandi o a quelle piccole, all’economia regolare (inasprendo le aliquote) o a quella irregolare (costringendo gli evasori a pagare il dovuto). Però resta il fatto che dentro quel numeretto c’è l’essenziale, perché fornisce il segno della politica fiscale.
Il vantaggio di ragionare sulla pressione fiscale, anziché sulle singole misure, è che neutralizza il comando “facite ammuina” che, a giudicare dalle dichiarazioni, dalle interviste e dai tweet, tutti i governi paiono indirizzare ai loro ministri quando le risorse sono scarse rispetto alle promesse. Lo scopo del facite ammuina (confusione, in dialetto napoletano) è inondare l’opinione pubblica di presunte misure di alleggerimento fiscale, senza menzionare le contromisure, anch’esse di natura fiscale, che finanziano e quindi neutralizzano più o meno integralmente le prime. Fra tali contromisure vorrei ricordarne una ovvia e due che lo sono molto di meno.
La contromisura ovvia è l’aumento di altre tasse, di cui si parla pochissimo o si parla ideologicamente, per non dire infantilmente (far piangere i ricchi, punire le banche cattive, ecc.). Le due contromisure meno ovvie sono la cosiddetta lotta all’evasione fiscale e la riduzione delle cosiddette tax expenditures, ossia il disboscamento della selva delle esenzioni, crediti di imposta, deduzioni e detrazioni varie.
Questi ultimi due tipi di misure sono interessanti perché, a prima vista, sono meritorie (e in parte lo sono davvero), in quanto capaci di eliminare iniquità e privilegi. Chi non è d’accordo sul fatto che è ingiusto che il carico fiscale pesi sui contribuenti onesti, e che una miriade di professionisti, artigiani, partite iva, esercizi commerciali, microimprese evadano in tutto o in parte le tasse? Chi non si chiede come mai certe categorie di imprese, associazioni, settori produttivi debbano godere di speciali agevolazioni e sgravi, che sono invece negati ai contribuenti “normali”?
E tuttavia, se ci si riflette attentamente, non è difficile accorgersi dell’altra faccia della luna. Ogni azione di riduzione dell’evasione fiscale e delle agevolazioni, oltre a produrre pesanti riflessi produttivi e occupazionali, comporta inesorabilmente un aumento della pressione fiscale. Questo non significa che non si debba cercare di ridurre evasione e privilegi fiscali ingiustificati, ma che la domanda che dobbiamo farci sempre è del tipo: ok, il tale governo promette una riduzione di una o più imposte, ma si può sapere se, e in che misura, quelle lodevoli riduzioni saranno finanziate, e quindi vanificate, da aumenti di gettito in altri punti del sistema?
Ecco perché, alla fine, il numeretto della pressione fiscale è cruciale. Una riforma dell’Irpef, dell’Irap, dell’Ires o di altre imposte che riduca alcune aliquote e si accompagni anche a una riduzione della pressione fiscale è positiva perché restituisce un po’ di ossigeno all’economia. Una riforma che riduca certe tasse, magari scelte fra le più impopolari, ma aumenti la pressione fiscale è negativa perché soffoca l’economia.
Questa seconda eventualità è, purtroppo, quella in cui siamo incagliati attualmente. Con la legge di bilancio dell’anno scorso, che ora sta dispiegando i suoi effetti, si è deciso di ridurre alcune tasse ma se ne sono aumentate talmente tante altre che la pressione fiscale complessiva è salita (nel 2019 è prevista al 42.4%, contro il 42.0% dell’anno scorso). Per l’anno che viene rischia di andare anche peggio. Mentre si favoleggia di flat tax (che flat comunque non sarà, visto che si parla di 2 aliquote), si cercano disperatamente le risorse (23 miliardi) per evitare l’aumento dell’iva, che questo governo ha messo nella legge di bilancio per evitare la bocciatura dell’Europa. Ma le uniche fonti di finanziamento strutturali ipotizzate sono la spending review (per un importo ridicolo: circa 2 miliardi nel 2020) e il taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia delle esenzioni e agevolazioni, un’azione che per definizione fa salire la pressione fiscale: tagliare gli sgravi, infatti, significa precisamente aggravare il peso del fisco sui contribuenti. Le previsioni che circolano, forse fin troppo ottimistiche, ipotizzano un ulteriore aumento della pressione fiscale nel 2020, che salirebbe dal 42.4 al 42.8%. Ma state sicuri che, quel numeretto, si farà di tutto per avvolgerlo con una fitta nebbia, perché rivelarlo significherebbe far crollare il castello di carte della politica fiscale: che consiste nel fingere che tutto cambi, nascondendo il dato cruciale, ossia che complessivamente pagheremo più tasse di prima.
Dunque la cruda realtà è questa. Proprio perché la pressione fiscale aumenterà anche l’anno prossimo, al governo gialloverde non resterà che la consolidata tecnica del “facite ammuina”. E’ facile prevedere lungo quali linee. L’aumento dell’Iva ci sarà, ma sarà presentato come un “rimodulazione”, in modo che non sia troppo evidente che complessivamente l’imposta è aumentata (anche se meno di 23 miliardi, si spera). La cancellazione di sgravi ed esenzioni sarà presentata come una grande operazione di “riordino”, per nascondere il fatto che, anche qui, si chiede agli italiani di pagare più tasse. Infine, per dare l’impressione che sulla flat tax qualcosa si sia cominciato a fare, qualche tassa e qualche aliquota sarà ritoccata verso il basso, naturalmente attingendo al gettito delle tasse che si sono aumentate o degli sgravi che si sono cancellati.
Però attenzione: è molto probabile che le poche aliquote che saranno un po’ alleggerite saranno quelle dell’Irpef, che grava sulle famiglie, e non quelle dell’Ires o dell’Irap, che gravano sulle imprese. Perché la stella polare di chi ci governa, non solo in Italia e non da oggi, è la massimizzazione del consenso. Con un’importante differenza rispetto al passato. Un tempo gli studiosi di politica economica, per segnalare il fatto che, sotto elezioni, le decisioni dei governi diventavano demagogiche, parlavano di “ciclo elettorale”, ossia di un’anomalia che si presentava periodicamente, ogni 4 o 5 anni, in prossimità delle elezioni politiche. Oggi parlare di ciclo elettorale non ha più senso, perché i politici sono sempre in campagna elettorale, a prescindere dall’imminenza di scadenze elettorali. L’idea che, valicato l’appuntamento elettorale, possa esservi, se non un ritorno alla ragione, almeno un allentamento del calcolo del consenso, è completamente fuori della realtà. Ormai i politici sono in campagna elettorale sempre, ogni anno, ogni mese, ogni, giorno, ogni minuto. E la qualità delle decisioni politiche è esattamente quella che, in queste condizioni, è lecito aspettarsi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 aprile 2019



Siamo Europei?

Più si avvicina la data delle elezioni europee e più diventa difficile districarsi. A giudicare dalla propaganda dei partiti, lo scontro sarebbe fra europeisti e sovranisti. Da una parte le forze europeiste, ovvero Pd, Forza Italia, + Europa (la lista di Emma Bonino), dall’altra le forze sovraniste, ovvero Lega, Cinque Stelle, Fratelli d’Italia. Gli uni convinti dell’inestimabile valore dell’edificio europeo, gli altri fautori di un ritorno al primato degli stati nazionali. O anche, secondo una versione più radicale del medesimo racconto: i primi determinati a salvare l’Europa dalla disgregazione cui sta andando incontro, gli altri ben contenti di infliggere all’Europa il colpo di grazia.
A guardare le cose con più attenzione, tuttavia, le cose sono molto più complicate di come sembrano.
Dopo l’era dei proclami anti-europa e anti-euro, non c’è praticamente alcuna forza politica importante che auspichi l’uscita di uno stato membro dall’Unione, e tantomeno il ritorno alla valuta nazionale. D’altro canto, fra le forze che si proclamano europeiste, non ve n’è neppure una che non riconosca i gravi limiti dell’edificio europeo e della sua governance.
Dunque è lecito porre la domanda: che significa, oggi, essere europeisti? O ancora meglio: per chi deve votare chi si sente europeista?
A prima vista la risposta è semplice: se sei europeista, vota la lista di Emma Bonino oppure il Pd. In effetti, sono gli unici partiti che hanno l’Europa nel nome stesso. Il partito della Bonino si chiama +Europa, il partito di Zingaretti di presenterà con un simbolo nel quale giganteggia la scritta “Siamo europei” (una concessione a Calenda e al suo manifesto per l’Europa).
Se però ci pensiamo bene, il quadro si complica non poco. Una prima complicazione deriva dal fatto che, sulle cose che contano, ossia la politica economico-sociale, non sono affatto chiare le differenze fra i due schieramenti. Al momento, se provate a interrogare un elettore europeo, è molto improbabile che abbia un’idea di quel che effettivamente farebbe, in materia di tasse e spesa pubblica, una Commissione Europea a maggioranza socialista, popolare, o sovranista. Del resto, quasi sicuramente, non avremo né un governo europeo a guida socialista, né uno a guida popolare, né tantomeno uno a guida sovranista. Quel che è ragionevole aspettarsi è o il solito ménage a trois fatto di popolari, socialisti e liberaldemocratici, oppure un qualche tipo di alleanza dei popolari con conservatori e sovranisti.
Ma c’è una seconda complicazione, molto più seria. L’ha messa molto lucidamente in luce Massimo Cacciari qualche giorno fa quando, di fronte a un Carlo Calenda visibilmente soddisfatto che il Pd avesse fatto proprio il motto “Siamo Europei”, inserendolo addirittura nel simbolo elettorale, ha fatto notare che quello “è uno slogan sbagliato perché dà l’idea che l’Europa funzioni”. Secondo Cacciari lo slogan doveva essere un altro, ovvero “Nuova Europa”, per segnalare che si è consapevoli di tutto quello che nell’Europa non va.
Ecco, credo che Cacciari abbia individuato con precisione chirurgica il tallone d’Achille del fronte europeista. Il rischio è che l’elettorato non percepisca affatto gli autoproclamati europeisti come gli intrepidi difensori della casa europea minacciata dai sovranisti, ma al contrario li veda come i custodi dello status quo, che i sovranisti vogliono giustamente sovvertire.
Che questo rischio sia reale mi ha convinto la risposta che Carlo Calenda ha dato a una acuminata domanda di Lilli Gruber: “in queste ore c’è una nave di una Ong tedesca con 60 naufraghi a bordo che chiede di attraccare in Italia, se lei fosse al governo come si comporterebbe?”. Risposta di Calenda: “io li farei sbarcare e chiederei agli altri paesi europei di prenderli pro-quota”. Salvo poi aggiungere, con l’accordo di tutti i presenti, che una delle ragioni per cui l’Europa non ha funzionato è precisamente il nazionalismo degli stati membri, a partire da Francia e Germania.
Che cosa può capire un elettore di fronte a questa posizione?
Può capire tante cose, ad esempio che il Pd vuol cambiare le regole, e si batte per un’Europa più solidale. Ma può anche capire una cosa diversa. Ad esempio che nulla è cambiato, e che la posizione dell’Italia sarebbe la solita: in nome dell’umanità ci rassegniamo a far sbarcare chiunque sia raccolto in mare, e poi, solo poi, dopo aver accolto i naufraghi in Italia, “chiediamo” agli altri paesi se per favore ne prendono in carico una parte. Ma potrebbe andare anche peggio, per il fronte europeista. L’elettore sconcertato da discussioni come quella fra Calenda e Cacciari, entrambi scatenati come furie contro il nazionalismo passato di quasi tutti gli stati europei, potrebbero anche pensare che lo scontro di maggio non sia fra europeisti e nazionalisti, ma fra il nazionalismo passato dei governi europei, che ha scaricato interamente sull’Italia il dramma dei flussi migratori, e il nazionalismo futuro promesso dai sovranisti, che essi promettono meno penalizzante per l’Italia.
A queste osservazioni, ne sono certo, qualcuno obietterà che sono “ben altri” i problemi dell’Europa, dalla crescita alle diseguaglianze, dall’ambiente alla politica estera, dal commercio con la Cina alla difesa dei consumatori, e che quello migratorio è solo uno dei tanti dossier. Può anche darsi, anzi direi che è proprio così. Ma il punto è che, stante l’incapacità dei politici di fare promesse chiare e credibili in materia economico-sociale, la campagna elettorale si concentrerà su un’unica questione, quella dei migranti. E’ su questo terreno che gli europeisti di casa nostra, se non vogliono essere travolti dall’ondata sovranista e populista, sono chiamati a fornire risposte non elusive. Dire che prima li facciamo sbarcare e poi si chiede agli altri paesi di accoglierli, significa lanciare un solo terribile messaggio: niente da fare, tutto come prima. Con tati saluti alla “nuova Europa” giustamente vagheggiata da Massimo Cacciari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 6 aprile 2019



Odio o senso di ingiustizia?

Riassumiamo i fatti. L’altro ieri i residenti di Torre Maura (quartiere di Roma) hanno dato vita a una rivolta, con vari episodi di violenza e di intimidazione, quando si sono accorti che il Comune stava trasferendo 77 rom in un centro che, fino a poco prima, aveva ospitato alcune decine di migranti. Gli abitanti di Torre Maura, recentemente “liberati” della presenza dei migranti, non ci hanno visto più quando se li sono visti sostituire con i rom.
L’operazione rientra nella cosiddetta “terza via” di Virginia Raggi: trovare un compromesso fra il buonismo “senza sé e senza ma” della sinistra e il cattivismo, anch’esso senza se e senza ma, della Lega e del suo leader Salvini.
L’idea è (o meglio era) di sgomberare i campi rom, assicurando percorsi di reinserimento individuale (formazione, lavoro, alloggio, ritorno in Romania), ampiamente finanziati dalla mano pubblica. Una strategia già tentata senza grande successo l’estate scorsa con il campo rom di Prima Porta (Campo River). Oggi, forse scottata da quell’esperienza, la sindaca la riformula in modo un po’ più filosofeggiante: “Su migranti e campi rom sto portando avanti la ‘terza via’: inflessibili con i delinquenti, accoglienti con le persone fragili. Semplificare i temi complessi è sbagliato”.
Giustissimo, ma più facile a dirsi che a farsi. Perché portare in blocco 77 rom in un quartiere degradato, che ha già enormi problemi, dallo stato penoso degli alloggi comunali ai roghi dei cassonetti, che cos’è se non un modo semplicistico di affrontare il problema? (e infatti l’Amministrazione comunale ha già fatto macchina indietro: i 77 rom, in massima parte donne e bambini, saranno portati tutti via entro una settimana).
Semplicistico, soprattutto, è prendersela con l’ira popolare senza comprenderne le ragioni. Ragioni che non giustificano in alcun modo gli atti violenti e le manifestazioni di odio (su cui già indaga la Procura) ma che hanno una loro macroscopica consistenza. Proviamo a riassumerle, una ad una.
Prima ragione. La gente non capisce perché si continui a parlare di periferie degradate, della necessità di riqualificarle, dell’urgenza di un ritorno della politica nei quartieri, e poi non riesce né a tener pulite le strade (che è il minimo sindacale per un’amministrazione), né a garantire la sicurezza (che è il minimo sindacale per uno Stato), e come se questa assenza non fosse già abbastanza colpevole scarica su un territorio già stremato i problemi di specifici gruppi sociali (migranti e rom), peraltro noti per un tasso di criminalità superiore alla media.
Seconda ragione. La gente non capisce perché un cittadino italiano ordinario, per vivere, debba sbattersi in cerca di un lavoro e di una casa, mentre alcuni gruppi sociali “speciali” paiono godere di una sorta di diritto a reddito e alloggio. E ancor meno capiscono che altre minoranze sventurate, questa volta costituite da cittadini italiani, non godano di altrettanti diritti e attenzioni (“andate via, fate venire i terremotati che stanno sotto la neve!” è una delle frasi che si sono ascoltate durante le proteste a Torre Maura).
Terza ragione. La gente non capisce la “terza via” perché sa perfettamente come andrà a finire: il lato buonista premierà le persone fragili (o presunte tali), il lato cattivista resterà lettera morta. Perché è facilissimo spendere soldi dei contribuenti o dell’Europa per gestire l’accoglienza, è praticamente impossibile arginare i comportamenti illegali (le periferie non sono presidiate dalle forze dell’ordine, intere porzioni del territorio sono in mano alla criminalità, chi infrange le leggi può tranquillamente essere arrestato e liberato decine di volte).
La realtà, temo, è che la Terza via, attuata con tanta improvvisazione (pare che dell’operazione di trasferimento a Torre Maura non fosse stato informato neppure il presidente grillino del VI Municipio, di cui Torre Maura fa parte), non possa che rafforzare il cattivismo cui pretende di porre un freno. Certo, se si pensa che le reazioni rabbiose al trasferimento dei rom siano dovute alla rozzezza del volgo romano, o all’estrema destra che soffia sul fuoco, aizzando i peggiori istinti popolari, allora non c’è niente da fare: fascismo e razzismo avanzano tenendosi per mano, e tocca ai sinceri democratici resuscitare antifascismo e antirazzismo, i due grandi anticorpi alla disumanizzazione trionfante.
C’è però anche un altro modo di mettere le cose. A giudicare dai resoconti della protesta, dalle frasi e dagli slogan che si sono sentiti, il sentimento centrale che pare animare la protesta non è l’odio ma, forse più semplicemente e umanamente, un forte, fortissimo, disperato senso di ingiustizia. Chi fatica a sbarcare il lunario in un quartiere degradato, non riesce a capire perché i migranti non siano inviati in altri quartieri delle città (già: perché?), soprattutto in quelli del politicamente corretto i cui abitanti manifestano orgogliosamente in favore dell’accoglienza. Ma soprattutto non capisce un’altra cosa: perché, nella distribuzione delle risorse pubbliche, la maggior parte dei cittadini siano lasciati soli, a giocare la loro difficilissima battaglia individuale per la sopravvivenza, mentre ad alcuni gruppi e minoranze (rom e migranti innanzitutto) è accordata una speciale precedenza e attenzione, il tutto senza che alcun merito, o fragilità estrema, giustifichi una tale differenza di trattamento.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del  4 aprile 2019




Pirati per necessità

Nei giorni scorsi un mercantile turco, che aveva tratto in salvo oltre centro naufraghi al largo della Libia, è stato dirottato (verso Malta) da alcuni di coloro che aveva messo in salvo. Ora, grazie all’intervento delle forze armate maltesi, i dirottatori sono agli arresti, mentre gli altri naufraghi sono ospitati nei centri di accoglienza maltesi. Non appena si è capito che la vicenda non avrebbe interessato direttamente l’Italia ma avrebbe toccato solo Malta, l’eco della notizia si è però rapidamente spento sulla maggior parte della grande stampa. Non saprei se la ragione sia il provincialismo, che fa sembrare rilevanti solo le notizie che riguardano l’Italia, o sia più semplicemente il timore di mettere in cattiva luce i migranti (da poveri naufraghi a dirottatori), ma resta il fatto che di quella vicenda si parla poco. Ed è un vero peccato, perché proprio il fatto che, finalmente, noi non c’entriamo e il cattivo Salvini non ha alcun ruolo (se non quello di appioppare l’epiteto di “pirati” ai naufraghi), ci metterebbe nella condizioni ideali per fare una riflessione non troppo condizionata dall’emotività e dai pregiudizi ideologici.
Eppure questo tipo di riflessione è quanto mai urgente. L’avvicinarsi della bella stagione non può non moltiplicare i tentativi di entrare in Europa via mare, ed è gravissimo che l’Europa stessa non abbia una linea, o meglio abbia come unica linea quella di ritirare quel poco di controllo delle frontiere che aveva messo in piedi con l’operazione Sophia (ora sostanzialmente dismessa), lasciando all’Italia e a Malta il cerino acceso dei naufragi e degli sbarchi.
L’episodio del dirottamento mostra che ci troviamo, ormai, di fronte ad un problema insolubile nel quadro delle regole vigenti. La legislazione internazionale che impone il soccorso in mare e l’accompagnamento nel porto sicuro più vicino richiede non solo un accordo chiaro su che cosa si debba intendere per “porto sicuro” ma anche una disponibilità dei porti sicuri ad accogliere i naufraghi. E’ difficile sostenere, al tempo stesso, che dobbiamo aiutare la Libia a bloccare le partenze, ma non possiamo riportare in Libia i naufraghi salvati lungo le sue coste perché la Libia non è un approdo sicuro. Per non parlare dei porti della Tunisia, considerati sicuri o meno a seconda delle circostanze e dei punti di vista, e comunque tutt’altro che pronti a farsi carico dei naufraghi.
Ma supponiamo pure che, a un certo punto, si arrivi a stabilire quali porti sono sicuri e quali no, e persino che Francia, Spagna, Grecia e Cipro (gli altri paesi euro-mediterranei, oltre a Italia e Malta), aprano improvvisamente e generosamente i loro porti. Sarebbe una soluzione? Potremmo dire che l’Europa, non lasciando più “sole” Italia e Malta, ha finalmente capito il problema?
Temo che la risposta sia no. Una linea del genere, infatti, non farebbe che moltiplicare le partenze dall’Africa, arricchendo il business dei trafficanti. Naufragi programmati e dirottamenti si moltiplicherebbero: una volta affermato il principio che chiunque riesca a farsi salvare in mare, persino se dirotta o fa dirottare una nave, ha il diritto di essere condotto in Europa per fare una domanda di asilo (che nel 90-95% dei casi sarà respinta), il risultato non potrà che essere un aggravamento del problema degli ingressi illegali: accanto a una piccola minoranza di rifugiati, non potrà non crescere la massa degli irregolari, che già tante tensioni sta suscitando in quasi tutti i paesi europei.
Naturalmente si può obiettare che, in realtà, dovremmo accogliere tutti, che i mercantili devono essere pronti, all’occasione, a comportarsi come navi delle Ong, e persino assuefarsi al “dirottamento per necessità”. La ragione sarebbe che chi parte dalla Libia fugge da veri e propri campi di concentramento, come quelli dei nazisti.
Ebbene, forse è giunto il momento di dire chiaramente almeno due cose. La prima è che il principio dell’asilo politico è stato concepito, a suo tempo, per gestire casi individuali o di piccoli gruppi. Nessuno Stato può accettare il principio per cui basta provenire da un paese che non rispetta i diritti umani per acquisire il diritto di entrare in un paese democratico. Chi sostiene questo principio deve essere pronto a portarlo alle estreme conseguenze, prima fra tutte la circostanza che sono alcuni miliardi le persone che potrebbero pretendere di usufruire di questo diritto. Un discorso analogo vale per l’obbligo di salvataggio in mare, un nobile principio che fu concepito senza immaginare che un giorno sarebbe stato sfruttato dai trafficanti di uomini per pianificare viaggi pericolosi, che senza la prospettiva del soccorso in mare non sarebbero stati intrapresi.
La seconda cosa che vorrei dire è che dovremmo avere un po’ più di rispetto per gli ebrei e per tutte le vittime della ferocia nazista. La narrazione per cui sui su barconi e gommoni ci sarebbero essenzialmente persone fuggite dai campi di prigionia del governo libico, dipinti come lager nazisti, è incompatibile con quel poco che si sa dei flussi migratori che alimentano le traversate del mediterraneo. La maggior parte dei resoconti su torture, stupri, vendita come schiavi, sequestri a scopo di estorsione non riguardano i campi governativi (sicuramente non degni di un paese civile), ma provengono dalle testimonianze di persone che sono state catturate e imprigionate in campi di prigionia completamente illegali, gestiti dai signori della guerra che spadroneggiano sul suolo libico, specie nel sud e al confine con il Niger. E’ qui, a quel che risulta da molte testimonianze, che si consuma il vero dramma dei migranti: chi ha abbastanza soldi per pagare viaggio e traversata tenta di arrivare sulla costa (spesso dall’Africa subsahariana), ma una volta arrivato nel sud della Libia viene sequestrato e portato in campi illegali, dove i trafficanti di uomini gli estorcono altro denaro, per lo più ricattando le famiglie. E questo traffico, con il carico immane di violenze che porta con sé, è alimentato precisamente dalla possibilità di attraversare il mediterraneo, grazie al combinato disposto di scafisti, Ong, navi mercantili costrette a salvare i naufraghi, ed ora anche a portarli dove vogliono loro.
Forse, più che dividerci fra buoni e cattivi sulle politiche migratorie, sarebbe il caso di prendere atto che nessuno, né l’Europa assente, né il crudele governo giallo-verde, né la sinistra dura pura e generosa, sono ancora stati capaci di trovare una soluzione non dico ragionevole (perché probabilmente una tale soluzione non esiste), ma anche solo decente a questo dramma dei nostri tempi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 30 marzo 2019




Automazione e perdita di controllo

Ha suscitato una viva impressione il disastro aereo del Boeing 737 dell’aviazione etiope, che è costato la vita a 157 persone. Impressione, certo, perché un disastro aereo fa sempre impressione. Ma impressione anche per altri motivi. In Europa occidentale non siamo più abituati ai disastri aerei (l’ultimo risale a 11 anni fa, in Spagna). La compagnia produttrice dell’aereo, l’americana Boeing, è il più grande produttore di aerei civili del mondo. E poi, soprattutto, le cause presunte del disastro: la ipotesi più accreditata è che il disastro, in questo caso come in un altro di pochi mesi fa in Indonesia, sia stato provocato da un difetto di un sottosistema di controllo automatico (software) della stabilità e correttezza dell’assetto del velivolo, che sarebbe entrato in conflitto con il sistema di guida manuale, ovvero con i tentativi del pilota (essere umano) di correggere gli ordini del “software”.
Sapremo, forse, come sono andate le cose, solo quando i tecnici avranno recuperato e analizzato i dati della scatola nera, nonché raccolto tutte le altre informazioni necessarie per tentare una ricostruzione attendibile di quel che è successo. Fin da ora, però, c’è una cosa che possiamo registrare: l’ipotesi di un disastro dovuto a una cattiva interazione fra operatore umano e software è considerata verosimile. Anche se si scoprisse che la causa è stata tutt’altra (la meno accreditata: un attentato) resterebbe il fatto che le cose potrebbero essere andate così, e comunque quasi sicuramente sono andate più o meno così in un precedente disastro, sempre con un Boeing 737, avvenuto pochi mesi fa in Indonesia (in quel caso con 189 vittime).
Di fronte a questa eventualità, e cioè che sia stata una cattiva interazione fra operatore umano e procedure automatiche a causare il disastro, possiamo naturalmente liquidare la questione (qualcuno lo ha già fatto) notando che sono molto più numerosi i casi in cui la tecnologia evita i disastri che quelli in cui li provoca. Possiamo anche spingerci ad accusare di luddismo, o di avversione irrazionale al progresso, quanti segnalano i rischi talora connessi all’interazione uomo-macchina. Ma sarebbe saggio?
A mio parere no. Perché se è vero che ci sono innumerevoli situazioni in cui la cooperazione fra operatori umani e supporti tecnologici più o meno automatici funziona perfettamente, è altrettanto vero che ci sono ambiti nei quali le cose sono assai più problematiche.
Alcuni di tali ambiti sono apparentemente innocenti. Se lascio libero il correttore automatico di infierire sull’articolo che sto scrivendo, posso star sicuro che la parola Pasolini verrà sostituita con ‘pisolini’, e hackeraggio con ‘shakeraggio’. Se messaggio distrattamente con il telefonino, dovrò vigilare perché la mia firma (ricolfi) non diventi ‘rivolgi’.
Ma prendete un caso più serio. Se programmo in un certo linguaggio, e uso un editor amichevole (cioè rivolto a un utente ignorante), non è infrequente che il programma mi suggerisca, e talora mi imponga, che cosa scrivere dopo una certa istruzione. O mi avverta continuamente che non ho completato una espressione, o che ho commesso un errore di sintassi. Questi interventi sono quasi sempre fastidiosi, e non di rado dannosi (perché devi perdere tempo a scovare dove il software ha messo le sue parole al posto delle tue). Ma soprattutto sono rischiosi, perché attenuano la nostra vigilanza e le nostre capacità di attenzione: a forza di essere assistiti da un programma, diventiamo meno bravi a scrivere programmi complessi, che richiedono piena padronanza di una sequenza complicata di passaggi.
Andiamo oltre. Se apri il computer può capitare che il sistema operativo ti obblighi a interagire con una nuova risorsa (per esempio un assistente vocale), che tu non hai richiesto, né hai la minima intenzione di usare. Per non parlare di una qualsiasi, normalissima, visita a un sito internet. Prima di poter fare, finalmente, quello per cui ti sei recato colà, ecco una serie di perentorie richieste di interazione: approvi le nostre politiche sulla privacy? ci autorizzi a usare cookies, cioè a schedarti e pedinarti (naturalmente “per migliorare il servizio”)? vuoi accedere a quell’informazione (se sì devi registrarti)? ti piace quel che hai visto? perché non lasci un commento?
Fin qui, direte, è solo interazione molesta. Niente a che fare con il dramma dell’aereo precipitato. Può darsi, ma non ne sarei sicuro: in entrambi i casi, pur nell’enorme differenza fra una immane tragedia e uno sciame di seccature, c’è una sostanziale perdita di controllo dell’operatore umano, che può incontrare difficoltà ad affrancarsi dalla tutela del software, o può non esserne capace, o semplicemente può trovarsi nell’impossibilità di farlo perché il software non lo consente. Una perdita di controllo che può diventare insopportabile quando, a essere obbligati a interagire con il software (e spesso solo con il software), sono i disperati cittadini di fronte ai mostri burocratici che governano le reti elettriche, il gas, la telefonia, la previdenza, tutti enti divenuti ormai inaccessibili agli esseri umani, costretti a interagire a distanza, inviando mail cui, di norma, risponderà automaticamente un apposito software. Né oso immaginare che cosa potrà succedere quando, con Internet of things e le reti 5G, tutti saremo collegati con tutto, con conseguente moltiplicazione dei rischi e delle vulnerabilità, dai furti informatici agli hackeraggi ai black-out.
Ma dove la cooperazione fra software ed esseri umani sta assumendo i tratti più inquietanti è, probabilmente, nei due pilastri dello Stato sociale, ossia la sanità e l’istruzione. Qui proprio la disponibilità di supporti più o meno intelligenti, di dispositivi più o meno autonomi, spesso rischia di prosciugare le capacità di chi con essi deve interagire e cooperare. Accade così che strumenti nati per potenziare le prestazioni di operatori umani, in un primo momento migliorino il servizio, perché i rispettivi contributi si sommano, ma poi lo peggiorino, perché i contributi si sottraggono: l’operatore umano rinuncia a sapere quel che presume possa sapere al posto suo il software cui lui si affida.
Non sarebbe grave, se si trattasse solo di taxisti che, a navigatore spento, non ti sanno portare da nessuna parte, o di automobilisti che non sono in grado di cambiare una ruota dell’auto perché non c’è campo, e quindi non possono chiedere a Google come si fa (così in The mule, ultimo film di Clint Eastwood). Ma il problema si fa serio quando un professore non è in grado di tenere due ore di lezione senza una montagna di slide. O quando un medico non è in grado di fare una visita clinica, o di formulare una diagnosi senza una caterva di esami strumentali.
In questi casi il mito dell’interazione uomo-macchina perde un po’ del suo smalto, perché rivela quel che essa in realtà è: nient’altro che un Giano bifronte, come la maggior parte delle conquiste dell’umanità.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 17 marzo 2019