Legge elettorale

Un paio di giorni fa i partiti di maggioranza hanno fatto depositare alla Commissione Affari Costituzionali della Camera una nuova proposta di legge elettorale, che alcuni hanno già battezzata “germanicum” causa vaghe somiglianze con il sistema tedesco. La proposta prevede, in buona sostanza, un ritorno al proporzionale (come nella prima Repubblica), con una soglia di sbarramento al 5%, corretta con un fumoso “diritto di tribuna”, ossia con un meccanismo per dare qualche seggio anche ai partitini incapaci di raggiungere la soglia del 5%.

Fra qualche giorno la Corte Costituzionale dovrà decidere sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega, che in caso di successo prevede il passaggio a un sistema esattamente opposto, interamente maggioritario.

L’impressione è che fra i due eventi vi sia un nesso. Verosimilmente, i partiti di maggioranza hanno scelto questo momento per avviare l’iter di una nuova legge elettorale anche per mandare un preciso segnale alla Corte Costituzionale: se di legge elettorale ci stiamo già occupando noi in Parlamento, perché mai dare la parola al popolo?

Ma la di là dei tempi e delle piccole convenienze dei protagonisti di questa vicenda (leggermente surreale se si pensa allo stato della nostra economia e alle tensioni del quadro internazionale), qual è la posta in gioco? Che conseguenze può avere l’adozione di una legge elettorale o di un’altra?

La prima cosa di cui dobbiamo renderci conto è che non può essere la legge elettorale a fornire al sistema politico ciò che gli manca. Se non ci sono, da molti anni in Italia, coalizioni ben strutturate, dotate di programmi comprensibili e di dirigenti politici seri, non sarà certo una legge elettorale ben fatta a fare il miracolo di fornircele.

Con ciò non intendo dire che la legge elettorale sia irrilevante. Adottare una legge elettorale piuttosto che un’altra, qualche conseguenza tende a produrla. Uno dei luoghi comuni più diffusi, ad esempio, è che scegliere una legge di impostazione maggioritaria (ad esempio: collegi uninominali, o sistema proporzionale con premio di maggioranza) favorisca la governabilità, mentre sceglierne una di tipo proporzionale assicuri la rappresentatività del Parlamento.

Non si tratta di un’opinione infondata. Fondamentalmente le cose stanno proprio così, perché, di norma, i sistemi maggioritari danno al vincitore più seggi di quanti ne meriti sulla base dei soli voti ricevuti. E, simmetricamente, è difficile (anche se non impossibile) che un Parlamento eletto con una legge proporzionale non rispecchi sostanzialmente le preferenze politiche dell’elettorato.

Tuttavia…

Tuttavia ci sono anche alcune complicazioni, che forse dovrebbero renderci alquanto prudenti prima di adottare un sistema proporzionale, almeno in un paese come l’Italia. Se in un sistema politico la destra e la sinistra hanno un consenso simile, ma nessuna delle due riesce da sola a superare il 50% dei consensi, allora è inevitabile che un potere sproporzionato venga detenuto dai partiti “intermedi”, ossia dai partiti di centro, o da quelli che non sono né di destra né di sinistra. Se per ottenere la maggioranza in Parlamento un governo deve ottenere i voti dei partiti intermedi, allora le sorti del governo sono in mano a forze politiche che rappresentano un’esigua minoranza dell’elettorato. Con tanti saluti al principio di rappresentatività: i seggi possono anche essere proporzionali al consenso, ma il potere che quei seggi conferiscono diventa inversamente proporzionale al consenso stesso.

Non è tutto, però. In un contesto fortemente trasformistico come quello italiano, l’esistenza di un 10-15% di voti che confluiscono sui partiti intermedi rende perfettamente possibile un’eventualità piuttosto inquietante, e cioè che uno dei due blocchi principali (destra e sinistra) sia minoranza nel Paese, ma diventi maggioranza in Parlamento perché riesce a stringere accordi con uno o più partiti intermedi. Giusto per fissare le idee, immaginate un parlamento in cui i blocchi Salvini/Meloni/Berlusconi da una parte e Zingaretti/Grillo/Leu dall’altra hanno ciascuno il 45% dei voti, e in mezzo flottano un partito riformista di Renzi e/o di Calenda, nonché un partito populista di Di Battista e/o di Paragone, tutti vicini al 5%: è chiaro che in una situazione del genere a decidere chi governa il paese non sarebbero gli elettori, ma le scelte di campo dei dirigenti dei partiti minori.

La rappresentatività del Parlamento, assicurata dal sistema proporzionale, dunque non esclude due conseguenze anomale, e per così dire contrarie al principio di rappresentanza: che alcuni partiti piccoli abbiano più potere di quanto gliene hanno conferito gli elettori, e che si installi un esecutivo che è l’opposto di quello che si formerebbe se a scegliere il governo fossero chiamati direttamente i cittadini.

Questo, beninteso, non significa che qualsiasi sistema maggioritario sia migliore di qualsiasi sistema proporzionale. Anche un sistema maggioritario basato sui collegi uninominali può risultare incapace di generare una chiara e netta maggioranza di governo. E nulla esclude che un sistema proporzionale assicuri a lungo maggioranze stabili e sostanzialmente rappresentative.

Il punto, però, è che quando ci si accinge a cambiare per l’ennesima volta la legge elettorale, sarebbe bene esplicitare che cosa si vuole ottenere. Perché ogni sistema elettorale produce conseguenze, e spesso tali conseguenze sono diverse, parecchio diverse, da quelle che gli si attribuiscono. La mia impressione è che l’attuale ritorno di fiamma per il sistema proporzionale sia, essenzialmente, il goffo tentativo di una parte del ceto politico di rendersi ancora più indipendente (di quanto già oggi non sia) dalla ingombrante volontà dell’elettorato.

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 gennaio 2020



Cinque Stelle, implosione di una Supernova?

È vero che la politica italiana assorbe tutto, anche i colpi di teatro più pirotecnici, e tuttavia non riesco a non farmi la domanda: l’espulsione del senatore Gian Luigi Paragone decretata pochi giorni fa dai “probiviri” dei Cinque Stelle sarà ricordata, fra qualche anno, come il gesto fatale che fece implodere (o esplodere?) la Supernova grillina? E magari pure come l’errore più grande commesso da Di Maio da quando è in politica?

Questo genere di domande non me le sono poste quando le agenzie hanno battuto la notizia dell’espulsione di Paragone, un fatto in sé poco significativo, e più che prevedibile da quando i Cinque Stelle hanno messo ben in chiaro di essere un partito genuinamente stalinista (nessun partito ha un ritmo di espulsioni più elevato: 1 parlamentare ogni 2 mesi, all’incirca). No, la domanda mi è sorta pochi istanti dopo, quando le agenzie hanno battuto un’altra notizia, la vera notizia: e cioè che Alessandro Di Battista, il più carismatico dei discepoli di Grillo, il “Dibba” che ha passato buona parte della sua vita adulta scorrazzando da un paese del Terzo mondo all’altro, il “Dibba” della campagna elettorale in motocicletta, “il Dibba” che alle Politiche del 2018 aveva avuto la saggezza (o l’astuzia) di non candidarsi, ebbene “il Dibba” dava il suo pieno sostegno a Paragone. Secondo Di Battista, Paragone non è l’eretico che tradisce la Chiesa grillina, ma è l’eroico difensore dell’ortodossia Cinque Stelle, un’ortodossia da cui altri si sono colpevolmente distaccati. Insomma, il vero grillino è il senatore Paragone, non Di Maio che lo fa espellere (o quantomeno non muove un dito a sua difesa).

Perché la presa di posizione di Di Battista apre all’eventualità di uno sconvolgimento del mondo grillino?

Per una ragione molto semplice: quel mondo, già ampiamente ridimensionato dagli ultimi responsi elettorali (a partire dalla sconfitta alle Europee dell’anno scorso), era tenuto insieme da un unico fattore di coesione, che non è tanto (come ama pensare l’opposizione di destra) l’attaccamento alle poltrone parlamentari, ma il fatto che quel medesimo attaccamento si accompagnava alla completa mancanza di una leadership alternativa a quella del duo Grillo-Di Maio. Ibernato Fico nel ruolo di presidente della Camera (peraltro ben felice del cambio di alleanze, da Lega a Pd), con Di Battista lasciato libero di fluttuare in una sorta di bolla esistenziale e pre-politica (l’impegno nei paesi emergenti), con Conte astutamente avviato a diventare un protettorato più o meno docile del Pd, con Di Maio costretto ad obbedire al comando di Grillo, nel movimento non c’era più neppure un solo leader in grado di dare voce a quella parte del Movimento che tuttora pensa quel che il Movimento ha sempre sostenuto, e cioè che (parole di Di Battista) “il Pd è il partito del sistema per eccellenza, quindi il più pericoloso. Il Pd è un partito ‘globalista’, liberista, colluso con la grande imprenditoria marcia di questo Paese, responsabile delle misure di macelleria sociale che hanno colpito i lavoratori italiani”.

Ora invece, grazie alla presa di posizione, netta e inequivocabile, di Alessandro Di Battista, quel leader c’è. Da oggi nel Movimento Cinque Stelle ci sono due voci: quella del ventriloquo Grillo, che riesce a far credere che le parole che mette in bocca a Di Maio siano di Di Maio stesso, e quella di Di Battista, che ha improvvisamente deciso di dire parole proprie, ovvero di non nascondere più il proprio giudizio radicalmente negativo sull’alleanza con il Pd, un partito che, come si evince dalla citazione precedente, egli disprezza con tutta l’anima. In concreto questo significa che quanti sono ostili all’accordo con il Pd, e ancora più recisamente alla sua trasformazione in una scelta strategica, hanno ora qualche opportunità di uscire allo scoperto, organizzarsi, e condizionare l’evoluzione dello scenario politico.

In che direzione?

In prospettiva, sembra difficile escludere che le due anime del Movimento Cinque Stelle, quella (minoritaria) di destra e quella (maggioritaria) di sinistra, finiscano per cristallizzarsi in due formazioni politiche distinte. Un’eventualità resa enormemente più verosimile dall’evaporazione di Forza Italia, che finirà per rendere lo schieramento di destra sempre meno digeribile per i moderati, ma al tempo stesso sempre più compatibile con il populismo di destra, oggi ben rappresentato dal duo Di Battista-Paragone.

Più a breve, quel che potrebbe succedere è che a staccare la spina al governo del “traditore” Conte non siano né Zingaretti, né Renzi, troppo preoccupati di perdere potere e seggi in Parlamento, ma siano invece – inaspettatamente – un manipolo di senatori e deputati ex grillini, cui l’attuale governo proprio non va giù. Mi rendo conto che, detta così, suona un po’ come fantapolitica, e si presta all’obiezione: non hanno anche loro paura di perdere i rispettivi seggi in Parlamento?

A questa obiezione, tuttavia, si può rispondere con una osservazione e una congettura. L’osservazione è che il loro capo, Alessandro Di Battista, non ha alcun seggio da perdere, perché è rimasto volutamente (preveggentemente?) al di fuori del Parlamento: lui, un seggio, rischia solo di guadagnarlo. La congettura è che i prossimi sondaggi mostrino con chiarezza che, nel caso i Cinque Stelle si presentassero con due formazioni, una che guarda a sinistra, l’altra che guarda a destra, quest’ultima supererebbe tranquillamente la soglia di sbarramento del 3%, e probabilmente anche del 4 e del 5%. Di qui due conseguenze paradossali: gli unici grillini sicuri di essere rieletti sarebbero gli espulsi, e l’unica vittima dell’espulsione di Gian luigi Paragone sarebbe Di Maio, costretto a scegliere fra snaturarsi (facendo il capo dei grillini di sinistra) o accettare un ruolo di secondo piano (facendo il vice di Di Battista, leader naturale dei grillini di destra).

Pubblicato su Il Messaggero del 6 gennaio 2020



Il fazzoletto del centro

Forza Italia langue, ma Mara Carfagna – con la neonata associazione “Voce libera” – sembra intenzionata a costruire un’alternativa o una variante rispetto a Forza Italia. Sulla medesima strada si era messo poche settimane prima Giovanni Toti, ex forzista, ora governatore della Liguria, con la costituzione del movimento “Cambiamo”. E un processo analogo, di distacco di ali centriste, è in atto da mesi a sinistra, dove prima Matteo Renzi ha fondato “Italia Viva, e poi Carlo Calenda ha creato “Azione”.

Il fatto che qualcosa si muova nel cosiddetto centro dello spazio politico non può che rallegrare quanti, e sono molti, considerano inquietante l’attuale destra e deprimente l’attuale sinistra. Ciò nonostante, il consenso che le forze politiche di centro riescono a catalizzare è decisamente modesto, oggi come ieri. Alle elezioni politiche del 2008 le formazioni di centro raccoglievano il 7% dei consensi (soprattutto con l’Udc di Casini), a quelle del 2013 l’11% (soprattutto con Scelta civica di Monti), a quelle del 2018 il 15% (soprattutto con Forza Italia). E oggi?

Oggi, a giudicare dall’ultimo sondaggio pubblicato, il centro è sempre lì, appena sotto il 15%. La novità è che ora i soggetti partitici testati dai sondaggi sono diventati ben quattro, di cui due a destra (Forza Italia e Cambiamo, 5.5 e 1% rispettivamente), e due a sinistra (Italia Viva e Azione, 4.7 e 3.3% rispettivamente).

Ma che cosa impedisce l’allargamento del consenso ai partiti di centro? Come mai, nonostante i due blocchi principali suscitino tante perplessità, in Italia non si assiste alla formazione di un partito liberal-democratico capace di influire sugli equilibri complessivi del sistema politico?

Una ragione, ovviamente, è che spesso le operazioni di questo tipo sono al servizio di ambizioni personali, ed hanno quindi scarsissime possibilità di fondersi in un progetto politico unitario. Ma esiste, a mio parere, anche una ragione più profonda, e come tale più seria, per cui il centro non decolla. Ed è che, a ben vedere, le 4-5 formazioni che si contendono l’esiguo spazio politico dell’elettorato di centro sembrano d’accordissimo fra loro finché si tratta di sottoscrivere valori generici, ma si rivelano tutt’altro che d’accordo quando dal piano dei principi generali si scende a quello delle proposte politiche specifiche. Accade così di leggere che essere liberali significa condividere valori come “la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, i diritti individuali, la crescita collettiva”, ossia tutte cose su cui sarebbero d’accordo anche le altre forze politiche, siano esse di destra o di sinistra. Fra i grandi e generici valori della politica solo l’europeismo sembra distinguere le formazioni liberali dalla maggior parte delle altre forze politiche (e in special modo da Lega, Fratelli d’Italia, Cinque Stelle).

Mentre non appena si passa a questioni più concrete, la comune matrice liberale sembra mettere tutti d’accordo su un punto soltanto: il garantismo e il conseguente rifiuto del giustizialismo. Su tutto il resto, come i migranti, la spesa pubblica, le tasse, la lotta all’evasione fiscale, i conti pubblici, spesso non è chiaro se le formazioni politiche che si richiamano alla tradizione liberale la pensino tutte allo stesso modo, e anzi talora è più che chiaro che la pensano in modo diverso. Ciò vale, in particolare, per le tre formazioni maggiori (Forza Italia, Italia Viva, Azione), di cui bene o male si conoscono alcune proposte portanti, ma anche non pochi significativi silenzi, specie in materia di risanamento dei conti pubblici.

Per quel che riesco a vedere, in questo momento l’offerta politica più interessante, e meno scontata, viene da Azione, il partito di Calenda. Da studioso, non posso non apprezzare il fatto che il programma del nuovo partito poggi su una interpretazione complessiva e dettagliata, degli anni della globalizzazione, nonché su un’analisi specifica del caso italiano (entrambe esposte nel suo libro Orizzonti selvaggi, Feltrinelli 2018). Quanto al contenuto del programma, trovo di notevole interesse due punti, entrambi controversi ma proprio per questo meritevoli della massima attenzione.

Il primo è, se mi si permette l’espressione, lo “sdoganamento della paura”, un sentimento di cui si riconosce la fondatezza e la piena legittimità: la paura non è un prodotto artificialmente generato dalla propaganda leghista; la pressione migratoria dell’Africa è insostenibile per l’Europa; l’Italia ha tutto il diritto di proteggere i propri confini, specie marittimi; respingimenti e rimpatri non sono tabù. Questo posizionamento mi pare interessante perché colloca il partito di Calenda in una posizione unica (e finora vuota) nello spazio politico italiano: Azione è l’unica forza di sinistra non populista e al tempo stesso chiaramente critica con le politiche di accoglienza dell’era renziana. È una novità, perché fino a ieri l’elettore progressista preoccupato per gli ingressi incontrollati aveva una sola possibilità: votare i Cinque Stelle, unico partito dello schieramento di sinistra ostile all’apertura dei porti.

Il secondo punto meritevole di attenzione (e forse anche di qualche dubbio) è l’idea, che spesso riemerge dalle analisi e dagli interventi di Calenda, che la via maestra per restituire sicurezza economica alla gente, e al tempo stesso risanare i conti dello Stato, sia la lotta all’evasione fiscale (recuperare 50 miliardi). Da tale lotta, infatti, Calenda non si aspetta solo sgravi contributivi e una riduzione delle aliquote per chi le tasse le paga già, ma anche nuova spesa pubblica (su scuola, sanità e assistenza) e un azzeramento del deficit pubblico. Di qui una conseguenza logica difficilmente eludibile: se solo una parte dei proventi della lotta all’evasione serve a ridurre le aliquote, il gettito fiscale aumenta, e con esso tende ad aumentare la pressione fiscale complessiva (un esito che solo un ritorno alla crescita potrebbe scongiurare).

Questa posizione è interessante perché segnala un’importante (presumibile) differenza con le politiche degli altri partitini di centro, specie di Forza Italia, da sempre indulgente verso l’evasione, e convinta che solo uno shock fiscale possa rimettere in moto la macchina dell’economia.

Ecco perché credo che, al momento, il grande movimento di sigle e persone al centro dello spazio politico meriti attenzione, ma anche una certa vigilanza. Calenda, con il suo libro, le carte le ha messe quasi tutte in tavola. Gli altri partitini un po’ meno. Da Forza Italia e Voce libera, ad esempio, si vorrebbe sapere se le loro ricette economico-sociali sono le stesse degli ultimi due decenni. Quanto a Italia Viva, non è chiaro che partito potrà essere, visto che finora ha governato con una forza politica – i Cinque Stelle – che è il suo esatto contrario.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2019



Moderazione?

Ha suscitato una certa sorpresa la recente improvvisa “conversione al moderatismo” di Matteo Salvini. Prima l’apertura ad una eventuale presidenza della Repubblica affidata a Draghi (il famoso “why not?”), poi l’invocazione di una sorta di “comitato di salvezza nazionale”, aperto a tutte le forze politiche, per varare alcuni interventi condivisi e “salvare il paese che altrimenti rischia di affondare”. Infine l’aperura a un negoziato sulla legge elettorale, sperando che sia propedeutico a un ritorno alle urne.

Perché questa mossa di Salvini?

Mi faccio questa domanda perché, per quanto io abbia un’idea catastrofica di come da un paio di decenni va l’Italia, e veda ben poco di utile nell’azione del governo in carica, non riesco a scorgere alcun salto fra le cose come stanno oggi e le cose come stavano 3, 6, o 9 mesi fa. Semmai, le cose vanno un po’ meglio di come andavano nell’autunno scorso, ai tempi in cui Salvini stesso e Di Maio si cimentavano in un inutile (anzi dannoso) braccio di ferro con la Commissione europea. Insomma, è vero, l’Italia va a rotoli, ogni trimestre sul paese cade una nuova tegola (banche, Whirpool, Alitalia, Ilva, di nuovo banche, di nuovo Ilva, e via rotolando), ma non mi sembra proprio che il rotolamento abbia improvvisamente subito un’accelerazione.

Dunque le ragioni che adduce Salvini non sono convincenti. Se ha fatto questa mossa, devono esserci altre ragioni. Io ne intravedo due, che non necessariamente si escludono a vicenda. La prima è che, forse, gli ultimi sondaggi lo hanno convinto che la vittoria in Emilia Romagna non è affatto sicura, e quindi difficilmente potrà essere quella la strada per imporre il ritorno alle urne. La seconda ragione è che i suoi consiglieri, primo fra tutti Giorgetti, potrebbero averlo convinto che, quale che sia la data del voto, sarà meglio arrivarvi con un profilo meno ruvido di quello esibito fin qui.

Credo che, se questo è il consiglio che Salvini ha ricevuto, sia un buon consiglio. Ma penso anche che sia un consiglio largamente insufficiente. È vero che una parte dell’elettorato esita a dare il suo voto alla destra perché è spaventato dal profilo aggressivo e anti-europeo troppo spesso esibito da Salvini. È altrettanto vero, tuttavia, che una parte dell’elettorato potenziale della Lega, e più in generale della coalizione di centro-destra, esita per altri motivi, che non hanno a che fare con il linguaggio della Lega ma con i suoi programmi.

Per questo secondo tipo di elettorato la domanda cruciale non è se la Lega sia disposta a sostenere una candidatura di Draghi alla presidenza della Repubblica o a quella del Consiglio, ma quali siano le risposte della Lega ai grandi interrogativi della politica economica e sociale. Perché quelle fornite fin qui non sono rassicuranti. Penso alla scelta assistenzialistica di quota 100, che ha bruciato risorse che molti elettori avrebbero preferito vedere dirottate sulla riduzione delle tasse. Penso all’idea di finanziare la prossima riduzione delle tasse (dopo il mini-provvedimento sulle partite Iva) con misure una tantum come condoni e rottamazione delle cartelle. Penso all’idea ricorrente, e decisamente bipartisan, di chiedere all’Europa più flessibilità, relegando ogni impegno di riduzione del debito pubblico in un futuro che non arriva mai. Per non parlare della questione del Mezzogiorno (dal deficit di infrastrutture al divario di produttività), un nodo che, da decenni, nessun governo è mai stato in grado di affrontare con qualche visibile risultato.

Questo genere di chiarimenti sono tanto più indispensabili quando si rifletta sul fatto che, nonostante una certa unità di facciata, su molte questioni i tre maggiori partiti di centro-destra non sembrano avere la medesima visione del futuro dell’Italia, o quantomeno non paiono avere le medesime priorità. Vale per la politica economica, dove si affrontano tre approcci diversi alla riduzione delle tasse (più radicale quello di della Lega, più gradualista quello di Fratelli d’Italia), ma vale anche per il problema dei migranti, dove lo spettro delle posizioni è ancora più ampio, dalla linea della redistribuzione fra i paesi europei al blocco navale invocato da Giorgia Meloni.

Insomma, proprio perché è piuttosto probabile che il prossimo governo sia di centro-destra, sarebbe utile capire se la via della ragionevolezza, che qua e là fa capolino nelle dichiarazioni pubbliche di Salvini, sia solo un goffo tentativo di rassicurare l’elettorato, o abbia una sostanza programmatica. Ma soprattutto: sarebbe utile capire se c’è, a destra, qualcosa di davvero nuovo nel modo di affrontare i problemi del paese, primo fra tutti il ristagno ventennale della produttività e la fine della crescita.

Perché di una cosa, almeno, siamo piuttosto sicuri: negli ultimi, lunghi e tormentati 25 anni, nessun governo, di destra o di sinistra, populista o europeista, è mai stato in grado di fermare il declino dell’Italia.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 dicembre 2019



Sardine

La manifestazione di Roma delle Sardine è stata senz’altro utile. Utile perché chiarificatrice. Le Sardine sono un movimento di opinione esplicitamente schierato a sinistra, nato per combattere la Lega di Matteo Salvini e abolire (o rivedere?) i decreti sicurezza (unico punto sostanzioso fra i 6 del loro programma politico). Dopo la manifestazione di Roma ogni incertezza e ambivalenza è caduta: anche se alcune istanze sono bipartisan (chiedere un po’ di bon ton e di serietà comunicativa alla politica è sacrosanto ma non è né di destra né di sinistra, così come non lo è difendere la Costituzione), il posizionamento delle Sardine nel mondo progressista è fuori discussione, con buona pace di Francesca Pascale e di CasaPound.

Ma qual è la cifra di questo movimento?

Qualcuno ha paragonato le Sardine ai Girotondi e al Popolo Viola, due movimenti di opinione sorti negli anni 2000 per combattere Berlusconi. Questo paragone non è sbagliato, perché su almeno un punto le analogie sono fortissime: anche oggi, come ieri, il cemento di questo tipo di movimenti è la credenza di rappresentare “la parte migliore del paese”. Succede in Italia, ma succede anche altrove: ricordate Hillary Clinton che dice dei suoi fan che sono “the best of America”, mentre i sostenitori di Trump sarebbero “a basket of deplorable” (letteralmente: un cesto di deplorevoli, talora tradotto con “branco di miserabili”)?

E tuttavia se ci concentrassimo solo sul “bullismo etico”, che oggi come ieri è il segno distintivo della società civile quando scende in piazza, ci faremmo sfuggire il tratto più nuovo di questo movimento. Che non è né l’incapacità di riconoscere all’avversario politico la sua legittimità, né la tendenza a disumanizzare il nemico (ieri Berlusconi, oggi Salvini), ma è il suo modo di porsi rispetto al potere costituito. A mia memoria, tutti i movimenti del passato hanno sempre avuto una forte carica anti-establishment o anti-governo. Sessantottini, femministe, dipietristi, Girotondi, Popolo Viola, grillini della prima ora, sono sempre stati “contro” alcuni essenziali poteri costituiti (nel caso dei Girotondi e del Popolo Viola i governi Berlusconi nati nel 2001 e nel 2008). Per non parlare dei partigiani, che mettevano a repentaglio le loro vite per abbattere una dittatura e riconquistare la libertà.

Le Sardine no. Non solo sfidano il ridicolo paragonandosi ai partigiani, come se fossimo in presenza di una dittatura, e gli oppositori dovessero rifugiarsi sui monti per combatterla, ma non paiono rendersi conto della unicità e paradossalità della loro protesta. E’ la prima volta, in Italia, che un movimento di protesta non si rivolge contro il potere ma ne è il beniamino. Vezzeggiati dai giornali e dalle televisioni, coccolati dall’establishment, vengono lodati e ringraziati dagli esponenti del governo in carica (esattamente come accadeva qualche settimana fa con le manifestazioni dei seguaci di Greta). E si capisce perché: agli esponenti di governo non par vero che le piazze si riempiano non già per criticare il governo, bensì per demonizzare o ridicolizzare l’opposizione.

Per chi osserva le cose con un minimo di distacco, c’è di che trasecolare. L’Italia si sta disgregando giorno dopo giorno, il governo in carica, per ammissione della stessa stampa progressista, è fra i più grigi, confusi e litigiosi di sempre, e che cosa accade nelle piazze delle Sardine? La protesta non si dirige verso l’esecutivo, esigendo che affronti i problemi reali del paese, ma verso i leader dell’opposizione, dipinti come fascisti, razzisti, anti-semiti, pronti a instaurare un regime autoritario, novelli Mussolini e Hitler, mostri grondanti odio.

Eppure il nodo, a mio parere, è proprio qui. Se dipingi l’avversario politico come un nemico, se arrivi a considerarlo una bestia o un non-uomo, diventi parte attiva di quel clima d’odio che dici di voler combattere; contribuisci tu stesso a imbarbarire il confronto politico; e, in qualche misura, finisci per proiettare sull’altro la profonda ostilità che senti in te. Soprattutto, non riesci a farti la domanda delle domande: perché le piazze delle Sardine attirano i ceti medio-alti, e quelle della destra i ceti medio-bassi? come è possibile che la gente beneducata, colta, civile, preoccupata delle sorti dei deboli, scenda in piazza per squalificare i leader di quei medesimi deboli?

E’ un peccato, non farsela questa domanda. Perché il vero problema della sinistra, che la condanna ad essere elitaria e (tuttora) un po’ antipatica, è di non aver recepito la lezione che a suo tempo, faticosamente, Walter Veltroni aveva provato a impartirle: il rispetto dell’avversario politico è un ingrediente essenziale della democrazia, ma è anche la precondizione per capire perché i ceti popolari hanno smesso di guardare a sinistra.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 dicembre 2019