Come va l’economia?

All’insegna della mediocrità

Se avvolgiamo il film all’indietro e ci chiediamo che cosa predicevano i protagonisti della politica un anno fa, quando il governo giallo-verde muoveva i primi passi, dobbiamo rispondere: nessuno ci ha azzeccato.

Ricordate il ministro Savona?

Per lui il Pil sarebbe potuto crescere del 2% nel 2019 e del 3% nel 2020. Quanto al deficit pubblico, il livello del 2.4% (quello sbandierato dai Cinque Stelle dal balcone di Palazzo Chigi) sarebbe stato sostenibile. Meno incauto del suo ministro, il governo ripiegava su stime più caute di crescita del Pil, e fantasticava di investimenti pubblici per decine di miliardi di euro.

E l’opposizione di sinistra, ve la ricordate?

Come Cassandra, prevedeva ogni sorta di sfracelli: una nuova recessione, crollo dell’occupazione, aumento della disoccupazione, spread fuori controllo, crisi finanziarie. Per non parlare del “partito del pop corn”, ingenuamente convinto che per veder cadere rovinosamente questo governo sarebbe bastato aspettare che il disastro si compisse, e gli italiani fossero costretti a prenderne atto.

A un anno di distanza, possiamo invece constatare che nessuna delle mirabolanti previsioni che con tanta sicurezza venivano avanzate si è realizzata. L’economia, a quanto pare, predilige la prosa.

E’ vero, ci sono stati momenti difficili, ma dopo un anno la situazione sul versante finanziario è rassicurante, anche grazie al cambio di orientamento della politica monetaria. Il temuto deficit al 2.4% viaggia invece verso il 2,1%. Le ingenti perdite virtuali registrate sui mercati finanziari nel 2018 (circa 200 miliardi di euro) sono oggi completamente assorbite e hanno lasciato il posto a un leggero saldo positivo. L’occupazione è aumentata di circa 100 mila addetti, la disoccupazione è diminuita di circa 200 mila unità.

Nello stesso tempo non si può non osservare che né la produzione industriale né l’export vanno bene, ci sono circa 160 tavoli di crisi aziendali aperti, gli investimenti pubblici ristagnano, i cantieri restano bloccati, le ore di cassa integrazione straordinaria sono raddoppiate in un anno, con un impatto paragonabile alla perdita di 50 mila posti di lavoro.

Insomma: la situazione non è né eccellente come ci raccontano i governanti, fieri delle molte misure adottate, né catastrofica come cerca pateticamente di convincerci l’opposizione. La situazione è mediocre, semplicemente mediocre.

E in prospettiva? Che accadrà con la Legge di Bilancio?

Anche su questo assistiamo alla consueta divaricazione fra le previsioni. Per le opposizioni le promesse del governo, a partire dalla flat tax e dal non-aumento dell’Iva, costano 40-50 miliardi, e quindi sono destinate a far esplodere i conti pubblici. Per il governo le coperture si troveranno, e l’Europa dovrà consentirci di abbassare le tasse in deficit.

E’ probabile, invece, che la realtà – come è successo finora – smentirà sia gli uni sia gli altri. Per qualche mese assisteremo alla consueta sceneggiata con l’Europa, che si concluderà con un mediocre compromesso (ci lasceranno fare un po’ di deficit, ma molto poco). Quanto alle tasse, le parole d’ordine saranno “rimodulazione” e “riordino”: la parola rimodulazione (delle aliquote Iva) servirà a nascondere che, complessivamente, l’Iva aumenterà. La parola riordino (delle tax expenditures, ovvero delle esenzioni e agevolazioni fiscali) servirà invece a nascondere il fatto che, complessivamente, la pressione fiscale non diminuirà, perché i soldi per varare un assaggio di flat tax si troveranno disboscando la giungla delle agevolazioni.

Insomma: quest’autunno non vedremo né il crollo dell’economia, né la sua ripartenza grazie al carburante di quota cento e reddito di cittadinanza. Ancora una volta, la mediocrità sarà la nostra cifra.

E’ un vero peccato, perché il fatto che le cose non vadano troppo male forse aprirebbe lo spazio per tentare qualche mossa di rilancio della crescita. Mosse che, per essere efficaci, dovrebbero essere non troppo elettorali e non troppo gravose per i conti pubblici. O, ancora meglio, essere a costo zero. A partire dalla mossa che da decenni è il sogno proibito di ogni imprenditore: una riduzione degli adempimenti burocratici che, almeno in questo, ci renda finalmente simili agli altri paesi europei.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 luglio 2019



Perché Salvini tiene

Che né Salvini né Di Maio abbiano la stoffa dell’uomo di Stato, o perlomeno di ciò che un tempo eravamo abituati a designare con questo termine, era chiaro prima del voto ed è ancora più chiaro oggi, dopo 14 mesi di governo. Né l’uno né l’altro sono stati capaci di mostrare, verso gli altri leader europei, verso le istituzioni comunitarie, verso gli organismi sovranazionali, il rispetto ad essi dovuto indipendentemente dalle differenze di vedute sulle questioni cruciali, siano esse la politica economica o la gestione dei migranti. Quanto alla politica interna, non si può non notare che il tasso di demagogia e di semplicismo toccati in questo primo anno di governo non ha precedenti nella storia unitaria: mai era successo che le analisi fossero così infantili tanto nella diagnosi dei nostri mali, quanto nella indicazione dei rimedi.

Negli ultimi mesi, tuttavia, su queste caratteristiche comuni dei due leader da cui dipende la sopravvivenza del governo, si è poco per volta innestata anche una importante differenza, di atteggiamento e di stile comunicativo. Il linguaggio di Salvini ha mantenuto (e forse accentuato) i suoi tratti più crudi, talora offensivi, mentre quello di Di Maio si è fatto via via più moderato e istituzionale, una differenza che peraltro si è anche sostanziata nel voto per l’elezione di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Europea, con i leghisti schierati contro e i pentastellati a favore.

A fronte di questa evoluzione, e nonostante il duro colpo all’immagine di Salvini inferto dalle recenti accuse di aver preso soldi dai russi, i sondaggi continuano a premiare Salvini e a punire Di Maio. Sembra quasi che, qualsiasi cosa accada nella comunicazione o nella realtà, l’elettorato non abbia alcuna intenzione di cambiare le proprie scelte, molto chiaramente espresse nel voto europeo, che ha più che raddoppiato i consensi alla Lega e quasi dimezzato quelli ai Cinque Stelle.

Su che cosa poggiano questa sorta di invulnerabilità di Salvini e fragilità di Di Maio?

Una possibile spiegazione è che Salvini, grazie alla sua insistenza sulle cose da fare e alle continue denunce delle resistenze altrui, sia riuscito ad accreditare la Lega come “partito dei sì” (sì alla flat tax, sì al Tav, sì all’autonomia delle regioni del Nord) e soprattutto ad appiccicare al Movimento Cinquestelle l’etichetta di “partito del no” (nonostante i Cinque Stelle abbiano anch’essi i loro “sì”, a partire dal salario minimo europeo). In certo senso si potrebbe dire che Salvini è riuscito nel capolavoro di trasformare un errore, o se preferite una scelta azzardata (bruciare risorse per quota 100, sottraendole alla flat tax), in un vantaggio competitivo con l’alleato di governo: proprio perché ho fatto solo quota 100, ora devo fare la flat tax.

Una seconda spiegazione è che gli italiani sono diventati sostanzialmente indifferenti alle presunte malefatte dei politici. Finché non emergono comportamenti clamorosamente immorali o scorretti, e finché i processi si celebrano solo sui giornali e in tv, gli italiani tendono a sospendere il giudizio sui politici chiacchierati, accusati, inquisiti. E’ paradossale, ma proprio la faziosità e superficialità di parte della Magistratura ha fornito alla politica un formidabile scudo contro le inchieste giudiziarie, viste come parti in commedia di una lotta fra poteri più che come strumento di garanzia.

Ma la spiegazione più importante è probabilmente un’altra e sta negli stili comunicativi di Salvini e Di Maio, o forse sarebbe meglio dire: nelle preferenze comunicative degli italiani. A me pare che, dopo un quarto di secolo di seconda Repubblica, almeno due punti dovrebbero essere considerati assodati.

Il primo è che, ci piaccia o no, volgarità, aggressività verbale, mancanza di rispetto dell’interlocutore, sono ormai entrate fra le modalità di comunicazione accettate dalla maggior parte degli italiani, e questo non certo per colpa dei politici. La politica si è limitata ad assorbire, per lo più con notevole ritardo, cambiamenti che si erano già ampiamente imposti in tv, alla radio, su internet, più in generale nel costume. Da questo punto di vista il fatto che la comunicazione di Salvini sia spesso poco ortodossa (eufemismo) e quella di Di Maio sia quasi sempre formalmente educata, non fornisce alcun vantaggio a quest’ultimo. Un esito aggravato dal fatto che, presumibilmente, quella parte (minoritaria) dell’elettorato che apprezza la pacatezza preferisce vederla unita a doti come competenza, preparazione, esperienza, capacità di argomentare in modo non ideologico, semplicistico o preconcetto: tutte qualità che non sono le prime che vengono in mente quando si tratta del capo politico del Movimento Cinque Stelle.

Il secondo punto è che, da quando Berlusconi ha rivoluzionato il linguaggio della politica, verosimilmente la qualità più apprezzata dagli elettori è diventata l’aderenza al senso comune. Agli italiani piace che il politico si esprima come l’uomo della strada, ma piace ancora di più che mostri di pensare e sentire come l’uomo della strada. Una sottile e perversa declinazione dell’ideale egualitario ci rende diffidenti verso i politici che sono (o appaiono) in qualche misura o in qualche senso superiori a noi, e ci fa adorare quelli che si pongono ostentatamente al nostro livello di persone comuni.

E cosa ha fatto Salvini, in questo primo anno di governo, se non esprimere pensieri, concetti, impulsi che chiunque di noi può provare solo che si trovi in determinate situazioni? Quanti milioni di persone, quotidianamente alle prese con i problemi della criminalità e dell’immigrazione nelle periferie della Penisola, hanno potuto constatare che il Ministro dell’Interno la pensava proprio come loro?

La differenza con Berlusconi è solo che Berlusconi si rivolgeva soprattutto ai ceti medi, in un’epoca in cui eravamo ancora pieni di speranze, e credevamo che questo paese potesse risollevarsi. Mentre Salvini si rivolge soprattutto ai ceti popolari, in un’epoca in cui la fiducia nel futuro è ormai un ricordo del passato.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 luglio 2019



Contro l’inferno libico

Non ha convinto quasi nessuno, nelle sue prime dichiarazioni, Ursula von der Leyen, candidata tedesca alla presidenza della Commissione Europea. E La ragione è piuttosto semplice: le forze politiche tradizionali, presunte vincitrici delle elezioni europee, sono in grave disaccordo fra loro su molte questioni cruciali, fra le quali quella migratoria.

Se si esaminano attentamente le sue dichiarazioni, si capisce facilmente perché. Come spesso accade ai governanti europei, la loro preoccupazione centrale è l’affermazione di principi astratti che possano raccogliere il più ampio consenso possibile, ma la loro attenzione alla soluzione concreta dei problemi è minima. Di qui la curiosa diffusione in Europa di una retorica, quella del “ma-anchismo” (voglio A, ma anche B), di cui erroneamente avevamo attribuito l’esclusiva a Walter Veltroni, ai tempi in cui stoicamente tentava di dare una guida alla sinistra italiana.

Oggi il ma-anchismo si ripresenta nelle parole della von der Leyen: difendere i confini, “ma anche” rafforzare i salvataggi in mare; non lasciare sola l’Italia “ma anche” non obbligare gli altri paesi europei a prendere chi sbarca in Italia; no agli scafisti “ma anche” no ai porti chiusi.

Che così dicendo la candidata alla Presidenza della Commissione rischi di scontentare tutti è meno grave del fatto che il ma-anchismo non sia una politica. Una vera politica dovrebbe, per cominciare, offrire un’analisi convincente di come le cose effettivamente funzionano, ed accettare il dato di fatto che, per determinati tipi di problemi, non esistono soluzioni in grado di rispettare tutti i nobili principi cui i politici amano richiamarsi. L’importante è che almeno i problemi risolvibili vengano risolti, e su quelli irrisolvibili ci sia un’assunzione di responsabilità, che inevitabilmente significa avere il coraggio di scegliere, quasi mai fra il male e il bene, e quasi sempre fra un male e un male minore.

Fra i problemi risolvibili vi è quello di sostenere davvero, e non solo a parole, l’UNCHR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) nel suo lavoro di trasferimento in Europa delle persone che riesce a liberare dai campi libici e che hanno diritto allo status di rifugiato. E’ oltre un anno che l’UNCHR insiste sul fatto che in Africa (in particolare in Niger e in Libia) ci sono già alcuni centri nei quali l’UNCHR stessa riesce a raccogliere i soggetti più vulnerabili e ad effettuare i colloqui necessari per accertare il diritto alla protezione internazionale, ma tutto si scontra con la lentezza e l’opportunismo dei governi europei, che sulla carta promettono posti (4000) ma poi sono lentissimi nel rendere effettivi i trasferimenti in Europa. Voglio dire che il problema dei corridoi umanitari non è la loro inesistenza, ma il fatto che quei pochi che esistono e potrebbero funzionare ad alto regime (primo fra tutti quello che parte dal Niger) si scontrano con l’inerzia e la lentezza dell’Europa. E’ importante sottolineare che stiamo comunque parlando di numeri piccoli (4000 posti promessi da Unione Europea, Norvegia e Canada), e di un problema risolvibilissimo solo che lo si voglia affrontare. E’ noto che i soggetti che hanno diritto allo status di rifugiato, e di cui specificamente si occupa l’UNCHR, sono una piccola frazione del totale dei soggetti in movimento. Anche in Africa il problema più grosso non sono i richiedenti asilo che ne hanno diritto, ma sono gli sfollati delle zone di guerra (in particolare in Libia), e i migranti economici di cui si occupa soprattutto l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), con programmi di rientro assistito (ed economicamente incentivato) nei paesi di partenza.

Ci sono poi i problemi irrisolvibili, o meglio risolvibili solo pagando un prezzo che pochi politici sarebbero disposti a pagare. Il principale di tali problemi è quello del traffico di esseri umani in Africa, un traffico che non è fatto solo di scafisti, ma di campi di prigionia legali e illegali, con bande armate che spadroneggiano nel territorio macchiandosi dei peggiori crimini: torture, violenze sessuali, umiliazioni, estorsione di denaro, lavori forzati, vendita come schiavi.

E’ il caso di notare che buona parte del problema sta nel business dei guerriglieri che, nel sud della Libia, intercettano le persone in transito per imbarcarsi in Europa. Un’altra parte del problema è costituita dal fatto che i migranti sfuggiti ai campi di prigionia dei signori della guerra spesso, essendo entrati illegalmente in Libia, vengono rinchiusi (in condizioni disumane) nei campi di prigionia governativi, dove fioriscono due ulteriori business, quello della liberazione a pagamento, e quello del trasbordo (sempre a pagamento) su un’imbarcazione diretta in Europa.

Si può fare qualcosa di risolutivo contro questo inferno in terra?

Se escludiamo (e facciamo bene…) l’ennesimo intervento militare occidentale più o meno mascherato da missione umanitaria, l’unica strada efficace che resta aperta è quella di stroncare il traffico di esseri umani rendendolo non profittevole. Sfortunatamente, l’unico modo per renderlo non profittevole è quello di affermare, e mettere fermamente in pratica, il principio che in Europa si entra solo per via legale. Finché l’Europa consente, e per certi versi incentiva, gli ingressi via mare, il progetto di stroncare il traffico di esseri umani resta del tutto velleitario.

E’ qui che nascono i problemi. Per impedire gli ingressi illegali occorrerebbe allargare i canali di ingresso regolari sia per i richiedenti asilo (corridoi umanitari) sia per i migranti economici (sistema di quote), ma al tempo stesso, una volta assicurata la possibilità di entrare legalmente in Europa, occorrerebbe difendere i confini con risolutezza. Questi due gesti, grazie alla velocità del tam tam nell’era di internet, sarebbero un colpo durissimo per i trafficanti, esattamente come lo sarebbe la droga di Stato per gli spacciatori (a proposito, perché i radicali non fanno il medesimo ragionamento pro-legalità quando si tratta di traffico di persone?).

Quello di cui sarebbe ora di prendere atto è che, per quanto scaldi i cuori e faccia la felicità dei media, ogni sbarco irregolare riuscito, che avvenga in Italia o altrove, che sia gestito da una Ong o da uno scafista, è di fatto un formidabile incentivo al business che si dice di voler stroncare. E’ terribile dirlo, ma l’inferno libico è anche la conseguenza della speranza di riuscire a entrare in qualche modo in Europa che un po’ tutti contribuiamo a tener viva, spesso con le migliori intenzioni.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 luglio 2019



Chi difende l’interesse nazionale?

Difficile, dopo il giro di nomine al Parlamento europeo, pensare che a qualcuno, in Italia, importi qualcosa dell’interesse nazionale. Quando si è trattato di eleggere il presidente della Commissione Europea, il nostro governo ha fatto naufragare la candidatura del socialista Timmermans essenzialmente per una questione di metodo, ovvero per il modo in cui era stata avanzata (accordo Germania-Francia-Spagna-Olanda), trascurando del tutto il fatto che, al suo posto, sarebbe stata scelta una candidata – la tedesca Ursula von der Leyen, rigorista e delfina di Angela Merkel – assai più ostile all’Italia sul nodo centrale della politica economica e del rigore dei conti. Non è andata meglio nel caso dell’elezione del presidente del Parlamento europeo: l’italiano David Sassoli, parlamentare del Pd, è stato eletto a dispetto del voto contrario della Lega (il Movimento Cinque Stelle ha lasciato invece libertà di coscienza).

Se il governo pare muoversi in una logica di piccoli sgarbi e ripicche, senza alcuna vera attenzione agli interessi primari dell’Italia, l’opposizione non è da meno. E’ da quando questo governo si è insediato, che – qualsiasi cosa accada – dall’opposizione sentiamo ripetere quotidianamente: l’occupazione diminuirà, l’Italia entrerà in recessione, la produzione industriale cala, i conti pubblici sono al collasso, la cassa integrazione è in aumento, la Commissione europea punirà l’Italia, i mercati finanziari non si fidano di noi.

Parecchio di vero c’è, naturalmente: ad esempio le ore complessive di cassa integrazione di aprile (ultimo dato disponibile) sono il 30.5% in più rispetto a 12 mesi prima. La produzione industriale è effettivamente in calo (-1.5% in un anno). E’ pure vero che i mercati finanziari poco si fidano dell’Italia, e fino a pochi giorni fa l’hanno punita con la richiesta di tassi di interesse sui titoli di Stato molto maggiori di quelli giustificati dallo stato dei nostri fondamentali.

Però su altri punti l’opposizione spesso straparla. Quando fu varato il decreto dignità, si profetizzò che l’occupazione sarebbe diminuita: è passato esattamente un anno e i dati Istat dicono che è aumentata di quasi 92 mila unità (poco, ma è aumentata, non diminuita). Il deficit dei conti pubblici del 2019 è migliore di quelli di tutti gli ultimi governi di centro-sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). La commissione Europea non farà partire la procedura di infrazione contro l’Italia. Lo spread è ancora eccessivo, ma sta alleggerendo la pressione sui nostri conti. Quanto al risparmio degli italiani il bollettino settimanale della Fondazione Hume mostra che le perdite patrimoniali (virtuali) accusate dopo l’insediamento del governo gialloverde sono state interamente recuperate, e da un mese si stanno trasformando in guadagni.

Di fronte a tutto questo, l’opposizione parla come un disco rotto, ripetendo slogan e profezie di sventura del tutto irrelate con i dati. Soprattutto, colpisce per il tono anti-italiano delle sue analisi, quasi che si augurasse che la Commissione europea ci sanzioni, che i conti vadano fuori controllo, che l’occupazione cali, la disoccupazione aumenti, i risparmi degli italiani vadano in fumo.

E dire che ci sarebbe da riflettere, almeno sui dati. Perché se parecchie profezie si sono rivelate erronee, se le cose non vanno come l’opposizione le racconta, se il paese non è ancora affondato, forse la reazione giusta non è di dire: se non è affondato affonderà, è solo questione di tempo, e allora si vedrà che avevamo ragione noi.

La reazione giusta, la reazione di un’opposizione leale e dotata di senso della Nazione, a me sembrerebbe, innanzitutto, di rallegrarsi che i disastri annunziati non si siano realizzati. E poi di farsi una domanda: perché tante previsioni si sono rivelate errate? Lo dico nei confronti di un’opposizione accecata dall’ideologia e dall’odio, ma lo dico anche, autocriticamente, verso la comunità degli studiosi. Se tante previsioni si sono rivelate errate, o anche solo premature, e nondimeno sono state formulate in buona fede, allora vuol dire che c’è, nelle nostre teorie e nei nostri modelli, qualche difetto fondamentale: onestà vorrebbe che ne prendessimo atto, e cominciassimo a pensare ai rimedi.

Pubblicato su Il Messaggero del 07 luglio 2019




Quanti sono i poveri in Italia?

Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli ultimi dati sul reddito di cittadinanza: al 31 maggio il numero totale di domande presentate era di 1 milione e 252 mila, di cui 674 mila accolte, 277 mila respinte e il resto (301 mila) sospese o ancora da elaborare. Complessivamente le domande accolte sono circa il 71% di quelle analizzate.
Il ritmo delle domande è in netto calo: sono state 820 mila il primo mese (marzo), poi 243 mila (aprile), infine 188 mila (maggio). Il governo prevede che, alla fine, le domande accolte saranno circa 1 milione, ovvero parecchie meno di quel che si attendeva.
Poiché il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta, secondo l’Istat (indagine 2018), si aggira intorno al milione e 800 mila, parrebbe che i conti non tornino. Le domande già accolte (674 mila) sono poco più di 1/3 del numero di famiglie povere. Aggiungendo quelle già presentate ma non ancora valutate si arriverà intorno a 884 mila domande accolte, meno della metà (48.5%) del dato Istat. Infine, dando per buona la previsione del governo si dovrebbe arrivare a 1 milione entro fine anno, poco più della metà (54.9%) del dato Istat.
Qualcosa sembrerebbe non tornare. Possibile che a tre mesi dal varo della legge, pur includendo nel calcolo le numerose domande già presentate ma non ancora accolte, si sia sotto il 50%? Quali possono essere le ragioni di una discrepanza così macroscopica?
Una prima ragione, abbastanza ovvia, è che la definizione di povertà assoluta dell’Istat non corrisponde alla definizione implicita nella legge sul reddito di cittadinanza. Le differenze fra le due definizioni sono tantissime, ma la più importante è che la definizione Istat lavora sul potere di acquisto del reddito, e quindi tiene conto del livello dei prezzi della zona in cui la famiglia risiede, mentre la legge considera solo il reddito nominale. Questa è la ragione principale per cui, finora, le domande accolte nel Nord sono state molte di meno dei poveri assoluti residenti in tali regioni; e viceversa quelle del Mezzogiorno, che sono state molte di più. Insomma, il reddito di cittadinanza è servito ben poco ai poveri delle regioni del Nord, specie se abitanti in grandi città: chi è povero al Nord risulta tale se si tiene conto del livello dei prezzi (definizione Istat), ma cessa di esserlo se si ignora il costo della vita (definizione del governo).
C’è però anche una seconda ragione della discrepanza, una ragione che troppo spesso si dimentica. Fra i requisiti della legge vi è la residenza stabile in Italia da almeno 10 anni, un requisito che penalizza severamente sia gli stranieri, sia gli italiani senza fissa dimora. Le prime cifre circolate indicano che fra le domande accolte gli stranieri siano circa il 10%, mentre l’Istat ha stimato che le famiglie straniere in condizione di povertà assoluta siano ben il 31.1%, nonostante gli stranieri siano meno del 9% della popolazione. In altre parole: le domande sono molte meno delle attese anche perché la maggior parte degli stranieri poveri non ha fatto domanda, ben sapendo di non avere i requisiti.
Se teniamo conto di questo fattore le cifre si avvicinano. Le famiglie di italiani in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione e 255 mila, le domande di famiglie italiane già accolte sono circa 600 mila, ma potrebbero salire a circa 900 mila entro la fine dell’anno. In questo caso lo scarto sarebbe di 3-400 mila famiglie, che risultano povere secondo l’Istat ma non richiedono il reddito di cittadinanza. In breve: fatto 100 il numero di famiglie povere Istat, solo circa 70 fanno domanda.
Che cosa ci dice un dato del genere?
Essenzialmente che non è infondato il sospetto che i poveri effettivi siano sensibilmente di meno di quello che si potrebbe dedurre dai dati Istat. E’ perfettamente possibile che diverse famiglie risultino povere semplicemente perché il lavoro in nero di alcuni membri non viene dichiarato, con conseguente sottostima del reddito familiare complessivo. E’ ragionevole pensare che il timore di sanzioni (e di perdere i redditi in nero) abbia indotto molti a non presentare domanda.
Ma è anche possibile che questo timore svanisca (forse sta già svanendo) man mano che dovesse rafforzarsi la convinzione che i controlli saranno rarissimi, che i centri per l’impiego non funzioneranno, e di conseguenza il rischio di ricevere offerte di lavoro che si preferirebbe non ricevere (ma si è tenuti ad accettare) è bassissimo. E’ possibile, in altre parole, che il trend delle domande si affievolisca ancora un po’ nei prossimi mesi, ma poi riprenda vigore ove il governo non potesse o non volesse far scattare controlli e sanzioni.
Se queste valutazioni hanno un qualche fondamento, allora sembra inevitabile trarne due conclusioni. La prima è che il problema della povertà, in Italia, riguarda soprattutto gli immigrati (sono povere più di 1 famiglia straniera su 4), e il reddito di cittadinanza lo aggrava. La seconda è che il tasso di povertà degli italiani non solo è molto minore di quello degli stranieri, ma è probabilmente sovrastimato. Per l’Istat le famiglie italiane povere sono il 5.3% (circa 1 su 20), ma le domande del reddito di cittadinanza pervenute fin qui suggeriscono che siano dell’ordine del 3.7% (1 su 27).
Sempre troppe, ovviamente, ma comunque un po’ minori delle cifre pre-crisi, e molto minori di quelle degli stranieri: il problema della povertà nel nostro paese, più che un dramma italiano, è un aspetto cruciale del problema migratorio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 29 giugno 2019