A proposito di Elodie – Lotta al patriarcato?
Che le foto sexy di Elodie suscitassero un po’ di brusio non è stupefacente. Succede quasi sempre quando qualcuno esce dal seminato. Se una cantante/modella fa l’intellettuale la cosa non passa sotto silenzio. Ma vale anche l’inverso: pensate se
un’illustre magistrata anti-mafia apparisse sulla copertina di Play Boy.
Nel caso di Elodie, quel che ha fatto scalpore è l’accostamento fra alcune immagini di lei seminuda e le reiterate dichiarazioni di femminismo, difesa della libertà delle donne, lotta al patriarcato, eccetera. Il tutto reso più pepato da una dichiarazione ostile verso Giorgia Meloni: “come può non accorgersi di lavorare per gli interessi degli uomini?”.
Trascuro le sofisticate argomentazioni in base alle quali Elodie ritiene che posare per il calendario Pirelli sia un modo di “usare la propria libertà di espressione”, e che questa sia “una lotta giusta” (in effetti lo sarebbe se qualcuno le impedisse di farlo, e sarebbe addirittura eroico se provasse a farlo in Iran o in Afghanistan). Ma lasciamo perdere. Quello che invece vorrei fare qui è raccontare come le cose possono apparire a un sociologo o a uno psicologo sociale.
La prima cosa che salta agli occhi di un sociologo è la credenza che, nelle società occidentali, esista e sia dominante il patriarcato. Se non ci fossero di mezzo la politica e l’ideologia, nessuno studioso serio si azzarderebbe mai a usare una categoria interpretativa così inappropriata e inattuale. È dal 1963, ossia da quando Alexander Mitscherlich pubblicò il suo profetico libro Verso una società senza padre, che sappiamo che le società occidentali sono caratterizzate dalla progressiva estinzione della figura paterna.
Oggi quel processo è ampiamente compiuto. Siamo diventati una società senza padri né maestri, nella quale tutte le figure che incarnavano l’autorità e il comando, dal padre all’insegnante, dal poliziotto al giudice, dal prete al ministro, hanno perso ogni
prestigio e autorevolezza.
Che senso ha, allora, parlare di patriarcato?
La risposta, verosimilmente, è che chi parla di patriarcato in realtà intende qualcos’altro, che trova comodo etichettare in quel modo. Questo qualcos’altro è la permanenza di modelli culturali, abitudini mentali, atteggiamenti e comportamenti che erano tipici dei maschi quando la società era davvero patriarcale, e che oggi sopravvivono a dispetto della scomparsa del padre. Il loro nucleo profondo non è l’autorità padre-padrone (come nell’Islam), ma la concezione della donna, vista come oggetto sessuale che, in ossequio ai gusti maschili, deve conformarsi a determinati standard e modelli di bellezza.
La realtà è che la nostra è diventata, molto più che in passato, una società ossessionata dal sesso, in cui quasi ogni cosa – messaggio, pubblicità, immagini, testi, spettacoli – ruota intorno al corpo femminile e, più o meno esplicitamente, al desiderio maschile. Buona parte della nostra economia si basa, in modo più o meno diretto, sull’esibizione del corpo della donna, formidabile macchina per vendere prodotti, servizi, fantasie e sogni.
Le donne lo sanno meglio di chiunque altro, e più di chiunque altro ne soffrono. Lo ha spiegato bene la sociologa anglo-libanese Catherine Hakim nel saggio Erotic capital (2010), e nel libro Honey Money (2012), che consentono di mettere a fuoco tre cose. Primo, non esistono solo il capitale economico, il capitale culturale e il capitale sociale (come credeva il grande Pierre Bourdieu), ma esiste anche il capitale erotico. Secondo, la maggior parte delle donne sono impegnate nella manutenzione e nell’impiego ottimale del loro capitale erotico. Terzo, il capitale erotico è una delle risorse più iniquamente distribuite.
Ed eccoci al punto. La gestione del capitale erotico è una formidabile fonte di diseguaglianza fra le donne, oltreché un insperato omaggio ai non sempre casti appetiti maschili. Certo, si può ben capire che chi è al top nella scala della bellezza si dia da fare per valorizzarla ulteriormente, anche sul piano economico e del potere.
Ma come non vedere gli effetti collaterali di questi modi di esercitare la propria sacrosanta “libertà di espressione”?
Nell’era dei social e della circolazione delle immagini una ragazza si trova a combattere su due fronti: da un lato, deve fare i conti con i media, che le propongono a getto continuo modelli di bellezza stereotipati e irraggiungibili, dall’altro deve fronteggiare la pressione dei maschi – coetanei e non – che si industriano a farle credere che fare sexting (trasmettere immagini sessualmente esplicite) sia assolutamente normale. Una trappola che può anche gratificare la minoranza fortunata ad elevato capitale erotico, ma alimenta frustrazione e senso di inadeguatezza in tutte le altre. Su questo, grazie soprattutto agli psicologi sociali americani, esiste ormai una evidenza empirica schiacciante, che riguarda tutti i paesi occidentali, compresa l’Italia: la competizione sui social, decollata inesorabilmente a partire dal 2010 (nascita dell’iPhone 4), è una fonte permanente di frustrazione, depressione, ansia, vissuti di inadeguatezza, comportamenti autolesionistici e suicidari che colpiscono innanzitutto le ragazze, e in particolare quelle delle ultime due generazioni (z e alpha).
Tornando a Elodie, non si può non riconoscerle il pieno diritto di usare il suo corpo come meglio crede, e di esporre il capitale erotico di cui la natura l’ha dotata alla vista di tutti, a partire dai maschi, tuttora i più sensibili al “bene effimero della bellezza”, come cantava Fabrizio De André in Bocca di rosa.
Resterebbe solo da girare a Elodie la stessa la domanda che lei ha rivolto a Giorgia Meloni: “come può non accorgersi di lavorare per gli interessi degli uomini?”.
[Articolo uscito sul Messaggero il 18 agosto 2024]