Hate speech

Ha suscitato qualche inquietudine, anche fra alcuni parlamentari dell’opposizione di destra, il fatto che 98 senatori (tutti di centro-destra) non abbiano votato a favore della “Commissione Segre”, ovvero di una Commissione straordinaria “per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo, e dell’istigazione all’odio e alla violenza”. Anch’io mi sono stupito un po’, conoscendo la passione dei parlamentari per le commissioni, e trovando strano che ci si debba dividere persino su principi così generali e ovvi. Possibile che ci siano senatori che difendono l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’odio e alla violenza?
Poi però mi sono ricordato di una cosa: il titolo di una legge, come il titolo di un articolo di giornale, spesso non corrisponde a quel che c’è scritto dentro. Meglio leggere tutto prima di esprimere un’opinione.
Allora ho letto il testo istitutivo della Commissione, e il mio stupore è aumentato, ma capovolto di segno. Ora sono stupito che sia stato possibile mettere al voto un testo simile. Attenzione: ho detto mettere al voto, non approvare. Perché si può essere d’accordo o contrari a una proposta, ma si dovrebbe pretendere che la proposta sia chiara, ossia ben formulata nei suoi presupposti, nei suoi propositi e nei suoi limiti (e magari anche scritta in un buon italiano, come la nostra Costituzionale).
Ebbene, questi requisiti sono drammaticamente assenti, quindi la proposta è ingiudicabile nel merito. Può essere usata come arma di lotta politica, ma non valutata polititicamente. Provo a spiegare perché.
I presupposti. Un presupposto (noto, ma non dichiarato nel testo) è costituito dai messaggi d’odio, presumibilmente a sfondo antisemita, indirizzati quotidianamente alla senatrice Segre, come a decine di altri personaggio pubblici. Un secondo presupposto è la convinzione degli estensori del testo che “il fenomeno denunciato” (i messaggi d’odio sul web, sembra di capire) “è purtroppo in crescita in tutte le società avanzate”. Questo secondo presupposto è perlomeno mal definito, e a mia conoscenza non è supportato dal alcuno studio empirico condotto sistematicamente nel tempo “in tutte le società avanzate”. Quel che è verosimile, semmai, è che un po’ tutti i generi di messaggi siano in crescita sul web per la ovvia ragione che aumenta molto velocemente il numero di utenti del web. Quando dico tutti i generi di messaggi intendo quelli di odio e quelli di solidarietà, quelli ostili agli ebrei e quelli ostili all’occidente, quelli che fanno l’apologia del fascismo e quelli che fanno l’apologia dello Stato islamico. Quanto ai personaggi pubblici, credo ve ne siano parecchi, a destra (Matteo Salvini), a sinistra (Laura Boldrini), e persino al centro (Elsa Fornero), che hanno ricevuto, e continuano a ricevere, dosi non certo omeopatiche di ingiurie, specie se sono attivi sul web.
I propositi. Che cosa dovrebbe fare la Commissione straordinaria? Non è chiarissimo. A parte studi, viaggi, scambi di informazioni, missioni all’estero, report annuali, la commissione ha “compiti di iniziativa per l’indirizzo e il controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” (fino alla richiesta di rimozione dal web di contenuti che la Commissione giudica manifestazioni di odio, intolleranza o discriminazione).
I limiti. Il problema è che nel testo non vengono mai circoscritti e definiti in modo chiaro i comportamenti che si ritengono inammissibili, e dunque potenzialmente segnalabili, stigmatizzabili, sanzionabili, o addirittura perseguibili penalmente. Se si legge attentamente tutto il testo, si scopre un’incredibile insalata di comportamenti che la Commissione sembra far rientrare nel proprio campo di interesse e di sorveglianza. In alcuni punti, sembra che il bersaglio sia l’odio in quanto tale, a prescindere dal suo contenuto ideologico o politico, fino a includere il cyberbullismo nelle scuole. In altri punti del testo nel mirino finisce “l’istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali” ma limitatamente al caso in cui l’odio è “sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre condizioni fisiche o psichiche”. Altrove il testo si allarga ancora un po’ e parla di hate speech e di “tutte le manifestazioni di odio nei confronti di singoli o comunità”. Infine, per quanto riguarda le ideologie, il bersaglio è molto ampio, con qualche omissione: rientrano il razzismo, l’antisemitismo, l’antigitanismo, l’antislamismo, il “nazionalismo aggressivo” (chi stabilirà se il nazionalismo è aggressivo o mite?) e persino l’etnocentrismo; ma non rientrano l’anticristianesimo e l’antioccidentalismo, topoi tipici della propaganda islamica radicale. Lo stesso strabismo riguarda la denuncia del negazionismo: giustamente stigmatizzato quando è negazione della Shoah, dei genocidi, dei crimini di guerra o contro l’umanità, ma sorprendentemente mai riferito ai Gulag e alle altre tragedie del comunismo (una dimenticanza particolarmente grave in un testo che si sforza di avere un respiro europeo, in un’Europa nella quale i crimini del comunismo sono ancora vivi nella memoria di tanti popoli).
Le perle. Parlando di hate speech, e poggiando sull’autorità del “Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa”, si arriva a includere nel raggio di azione della commissione “gli abusi, le molestie, gli epiteti, gli stereotipi e le ingiurie che stigmatizzano e insultano”. Gli stereotipi? Chi stabilirà che un’etichetta appioppata a qualcuno è uno stereotipo, e come tale perseguibile o stigmatizzabile? Non sanno gli estensori del testo che la vita sociale si nutre di stereotipi, e che moltissimi stereotipi sono semplicemente la cristallizzazione di esperienze individuali e collettive?
Che dire, alla fine?
Siamo di fronte a un testo le cui sacrosante e condivisibili intenzioni, combattere l’odio e l’istigazione alla violenza, convivono con due limiti che, almeno nella tradizione liberale, appaiono difficili da accettare. Il primo è la completa mancanza di consapevolezza di quanto delicato sia l’equilibrio fra il diritto a non essere insultati e offesi, e il diritto alla libera manifestazione delle opinioni, specie in campo politico. Il secondo limite è l’incapacità di vedere che, ove si decida di percorrere la rischiosa strada di tutto monitorare, controllare, sorvegliare e punire, anche nei casi in cui l’aggressività è confinata al piano verbale, allora occorre essere veramente neutrali, imparziali, universali: il diritto della Boldrini di non subire una campagna d’odio sul web vale quanto l’analogo diritto di Salvini, che di insulti – presumibilmente – ne riceve anche di più, e di assai più organizzati.
Qualcuno ha dimenticato la copertina dell’Espresso (Uomini e no) in cui il leader della Lega veniva presentato come un non-uomo? Se è impossibile, nell’era di internet, impedire a legioni di imbecilli frustrati di sfogare il loro odio e le loro antipatie sul web, potremmo almeno cercare, come sistema dei media, di accordare a tutti il diritto di essere trattati come esseri umani.

Pubblicato il 2 novembre su Il Messaggero



La destra della sinistra

Sono stati in molti, soprattutto a destra, ad affermare che il governo giallo-rosso è il governo “più di sinistra” che l’Italia abbia mai avuto. Questo giudizio non è privo di una sua plausibilità, se riflettiamo sul fatto che, oltre al Pd, nel governo sono presenti l’estrema sinistra di Leu e il Movimento Cinque Stelle, che alcuni vedono come una sinistra più pura, più radicale, meno compromessa con il potere. In effetti ci sono temi su cui Leu e il Movimento Cinque Stelle hanno posizioni più radicali (più di sinistra?) del Pd, ad esempio in materia di giustizia (i Cinque Stelle sono più giustizialisti) e di assistenza (la spesa per il reddito di cittadinanza è un multiplo di quella per il reddito di inclusione). Quanto al presidente del consiglio Giuseppe Conte, la sua dichiarazione di guerra all’evasione, con relativo patto degli italiani onesti contro quelli disonesti, non può non richiamare l’elogio delle tasse che così spesso è risuonato a sinistra, tanto ai tempi di Vincenzo Visco (che da destra veniva gentilmente dipinto come il “vampiro rosso”), quanto a quelli di Padoa Schioppa (sua l’affermazione secondo cui le tasse “sono una cosa bellissima”).

E tuttavia, a ben pensarci, la tesi che questo governo sia “di sinistrissima” non è poi così fondata. Io direi, piuttosto, che questo governo è sì un governo di sinistra, ma ha al suo interno due bombe a orologeria di destra, che prima o poi potrebbero portarlo a deflagrare.

Pensate a Renzi?

Sì, una è Italia Viva, il partito di Renzi. Sul tetto al contante, su quota 100, e più in generale sull’introduzione di nuove tasse, Italia Viva è più vicina all’opposizione di destra che agli alleati di governo (in particolare i post-comunisti di Pd e Leu). Questo non significa che Renzi sia “di destra”, come amano affermare i suoi detrattori di sinistra, ma mostra che la sinistra che ha in mente Renzi ha poco a che fare con quella del partito da cui proviene.

Ma la vera bomba a orologeria non è quella di Renzi, bensì quella di Di Maio. Non si può ignorare, infatti, che nel Movimento Cinque Stelle è presente anche una corposa componente di destra, o comunque ostile alla sinistra, e in particolare al Pd. Sui migranti, ad esempio, una parte considerevole degli elettori Cinque Stelle sono più vicini alla linea dura di Salvini che all’ideologia dell’accoglienza cara alla sinistra doc.

Quanto alle tasse, il minimo che si possa dire è che le “sensibilità” dentro il Movimento sono parecchio variegate. Il partito di Di Maio, da sempre, ha un occhio di riguardo per le partite Iva e per le piccole imprese. E ora che l’incauto Conte annuncia una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, ai dirigenti Cinque Stelle non può non sovvenire che il grosso dei loro voti provengono dal Mezzogiorno, ossia dalle regioni con la più alta propensione all’evasione. Una propensione che è difficile mettere tutta in carico ai ricchi, alle grandi imprese e alle multinazionali, visto che – al Sudo come al Nord – la si vede quotidianamente, e ad occhio nudo, per le strade, nei negozi, nei mercati, nei cantieri, nei campi, dove coinvolge anche tante persone normali o povere, compresi disoccupati che lavorano in nero e occupati con il doppio lavoro.

Ed eccoci al punto. Questo sarà pure un governo di sinistra, ma le due bombe a orologeria Renzi e Di Maio potrebbero anche, prima o poi, farlo esplodere, o perlomeno provocare qualche terremoto interno.

Quando?

Credo che molto dipenderà da come andranno le molte elezioni regionali in vista, a partire da quella di domani in Umbria. Perché è vero che, se c’è la volontà di restare al potere fino all’elezione del Presidente della Repubblica (2022), non c’è risultato elettorale locale, per quanto eclatante, che possa convincere chi siede in parlamento ad affrontare anticipatamente la sfida elettorale. Ma è anche vero che, se l’elettorato Cinque Stelle, cui fino a ieri il Pd è stato presentato come l’impero del male, mostrasse di non gradire la nuova alleanza, difficilmente potrebbero non esservi conseguenze.

Ecco perché, nonostante gli elettori chiamati al voto non siano molti (circa 700 mila), il test umbro potrebbe risultare cruciale non solo per gli umbri, ma per il futuro del governo nazionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 ottobre 2019



Il partito che non c’è

Ma chi ha vinto il match fra Renzi e Salvini, andato in onda martedì notte a “Porta a Porta”?

Se badiamo solo all’efficacia comunicativa, credo sia solo una questione di gusto, tanto diverse sono state le due prestazioni. Alla dialettica puntigliosa e sferzante di Renzi, Salvini ha risposto nel solito modo un po’ grezzo, ma tutto sommato efficace, con cui suole cercare (e ottenere) il consenso dei ceti popolari.

Ma se andiamo alla sostanza, alla forza delle argomentazioni dei due contendenti, le cose cambiano notevolmente. Nello scontro fra “i due Mattei” non è andato in scena un match unico, più o meno dominato da uno dei due contendenti, ma sono andati in scena due match distinti, uno sull’immigrazione, l’altro sulla politica economica (e in particolare su “quota cento”).

Il match sull’immigrazione lo ha nettamente vinto Salvini, quello sulla politica economica l’ha vinto nettamente Renzi. Se pareggio c’è stato, non è perché gli argomenti dei due contendenti si sono equivalsi, ma perché ciascuno di essi ha stravinto sul proprio terreno, e perso rovinosamente sul terreno altrui.

Sull’immigrazione, e in particolare sul problema degli sbarchi, Renzi ha tentato invano di far credere che la differenza fra il numero di arrivi quando governava lui (170 mila all’anno) e il numero di arrivi quando al Ministero dell’interno c’era Salvini (meno di 9 mila l’anno) sia attribuibile al cambiamento della situazione in Libia, piuttosto che ai differenti segnali provenienti dai governi italiani in carica. Né gli è riuscito di nascondere che, sotto il nuovo governo giallo-rosso, gli sbarchi sono quasi triplicati, e che nell’ultima tragedia in mare Salvini non c’entra nulla.  Così come non gli è stato possibile negare che, con i “cattivi” al governo, il numero assoluto di morti in mare è diminuito, e tanto meno nascondere che, con i “buoni” al governo, l’accoglienza sia stata un disastro. Insomma, sull’immigrazione Renzi ha mostrato di non avere idee concrete, ma solo posizioni morali e formule retoriche.

Sulla politica economica, tuttavia, le cose si sono capovolte. Specie su “quota 100” (la norma che permette di andare in pensione prima) Renzi è stato molto convincente. Le cifre che ha presentato sul costo di “quota 100” sono leggermente esagerate (20 miliardi in 3 anni), ma la sostanza del suo discorso è perfettamente corretta: quota 100 non è sbagliata in sé, ma costituisce una incredibile dissipazione di risorse pubbliche a favore di una piccola minoranza di anziani, e nemmeno dei più bisognosi. Con una cifra comparabile (9 miliardi l’anno), Renzi era riuscito a dare sollievo ai bilanci di milioni di famiglie. E, di nuovo con una cifra analoga, Renzi era riuscito – grazie alla decontribuzione – a dare un po’ di ossigeno alle imprese, e per questa via imprimere una spinta all’occupazione.

La posizione di Renzi, che considera sprecati 10 o 20 miliardi a favore di poche centinaia di migliaia di anziani, quando con la medesima cifra si potrebbero fare cose ben più utili, è tanto più giustificata se riflettiamo su una circostanza: tutti gli studi sulla diseguaglianza concordano sul fatto che l’unica vera, clamorosa e macroscopica diseguaglianza fatta esplodere dalla crisi è quella fra anziani (in particolare pensionati) e giovani (in particolare minori). I giovani hanno visto drammaticamente ridotti i redditi, le possibilità di occupazione, le prospettive future, minacciate dal declino generale del Paese, ma anche dall’aumento del debito pubblico, che oggi serve (anche) a finanziare “quota 100”, e domani dovrà essere ripagato innanzitutto dai figli e nipoti dei beneficiari degli attuali pensionamenti anticipati. Su questo Salvini non è stato in grado di replicare alcunché di convincente, esattamente come Renzi nulla di convincente era stato in grado di dire sul contenimento degli sbarchi. Dunque: su “quota 100” Renzi batte Salvini 3 a 0.

Se devo riassumere, direi: Salvini non ha in tasca la soluzione miracolosa per il problema dell’immigrazione clandestina ma, agli occhi di buona parte degli italiani (compresi molti ex elettori del Pd), ha il merito di non negare il problema, e di aver tentato una strada per risolverlo; Renzi non ha la soluzione in tasca per il problema della condizione giovanile, ma ha il merito di averne capito la centralità, e soprattutto l’assoluta priorità rispetto alle pur comprensibili aspirazioni degli anziani.

Un partito non negazionista sul problema dell’immigrazione irregolare, e capace di rompere con l’assistenzialismo pro-pensionati, sarebbe assai utile all’Italia. Perché le preoccupazioni popolari per l’insicurezza delle periferie, o per la concorrenza degli immigrati su salari e accesso al welfare, sono semplicemente sacrosante; e, d’altro canto, la sconfitta dell’assistenzialismo è una precondizione cruciale per non rendere irreversibile il declino economico e sociale del nostro paese.

E tuttavia, curiosamente, un tale partito non esiste, né a sinistra né a destra. Renzi e il Pd, dopo la marginalizzazione di Marco Minniti e la demonizzazione di Salvini, hanno dimostrato chiaramente che il problema dell’immigrazione non riescono a vederlo, e tanto meno ad affrontarlo. Lega e Cinque Stelle, d’altro canto, sono stati capaci di governare insieme solo spartendosi i rispettivi assistenzialismi: “quota cento” per soddisfare le voglie politiche di Salvini, reddito di cittadinanza per soddisfare quelle di Di Maio.

E’ come se, nello spazio politico, ci fosse posto per tutte le combinazioni, ma non per l’unica che servirebbe. C’è chi vede il problema dell’immigrazione, ma non riesce a rinunciare all’assistenzialismo (Lega e Cinque Stelle). C’è chi vede il pericolo dell’assistenzialismo, ma è cieco di fronte ai problemi dell’immigrazione (Italia viva e +Europa). E c’è, infine, chi non si nega nulla: il Pd e l’estrema sinistra non vedono né il problema dell’immigrazione, né i pericoli dell’assistenzialismo e della spesa in deficit.

A quanto pare, nonostante ci siano una decina di partiti, partitini e aspiranti-partito a sinistra, e quasi altrettanti a destra, l’unica cosa che il sistema politico italiano non sembra in grado di partorire è una forza politica che sia anti-assistenziale in politica economica, e non cieca sui problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Una stranezza, e un vero peccato.

Articolo pubblicato sul Il Messaggero del 17 ottobre 2019



Quante sinistre?

Ma quante sinistre ci sono in Italia?

Almeno quattro, visto che quattro sono le forze politiche che sostengono il governo: Cinque Stelle, Pd, Leu, Italia viva. Ma in realtà parecchie di più se consideriamo che nelle due ultime tornate elettorali (politiche ed europee) hanno ottenuto risultati non irrisori almeno altre sei formazioni politiche: +Europa (Emma Bonino), Italia Europa Insieme (Giulio Santagata), La Sinistra (Nicola Fratoianni), Europa Verde (Pippo Civati, Angelo Bonelli), Partito comunista (Marco Rizzo), Potere al popolo! (Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi).

In tutto fa dieci sinistre. È vero che non si sono mai presentate tutte insieme, ma si può ritenere che attualmente il peso totale delle sinistre che non stanno al governo si aggiri intorno al 5%, più o meno il medesimo consenso che va al nuovo partito di Renzi. Sommandole tutte, sinistre di governo e di opposizione, si arriva intorno al 50% dell’elettorato.

Ma che cosa unisce, e soprattutto che cosa divide, questi dieci partiti e partitini?

È più facile rispondere al primo interrogativo che al secondo. E la risposta è: a parte il disprezzo per Salvini, l’unica cosa che unisce tutti i partiti di sinistra è la credenza che sia necessario ridurre le diseguaglianze, condita con dosi più o meno omeopatiche di ambientalismo.

Assai più difficile è definire con precisione che cosa realmente divide le dieci forze politiche di sinistra, perché le fonti di divisione rilevanti sono almeno cinque: l’immigrazione, le tasse (compresa la patrimoniale), il mercato del lavoro, il debito pubblico, la giustizia.

Su ciascuno di questi temi ci sono, nel campo della sinistra, almeno due forze politiche che la pensano in modo opposto.

Sull’immigrazione e l’accoglienza +Europa e Italia Viva (fautori dell’accoglienza e dei salvataggi in mare) si contrappongono nettamente ai Cinque Stelle, per i quali le Ong sono “taxi del mare” (Di Maio dixit) e gli immigrati irregolari vanno rimpatriati il più celermente possibile.

Sulle tasse Italia Viva e Cinque Stelle sono risolutamente ostili ad ogni aumento, le forze di estrema sinistra accarezzano addirittura l’idea di far piangere i ricchi con una patrimoniale.

Sul Jobs Act i Cinque Stelle e l’estrema sinistra sono ferocemente critici, mentre e Italia viva e +Europa lo considerano una sana modernizzazione del mercato del lavoro.

Sul debito Cinque Stelle ed estrema sinistra ne auspicano un aumento (per “rilanciare la crescita”), solo +Europa vuole ridurlo tagliando la spesa pubblica.

Sulla giustizia Italia viva e +Europa sono garantisti, i Cinque Stelle sono da sempre giustizialisti.

In breve: accomunate dal nobile scopo di ridurre le diseguaglianze, le forze progressiste si dividono – spesso in modo profondo – sui modi per raggiugere l’obiettivo.

Non so se l’avete notato, ma in questa mini-rassegna delle idee che circolano a sinistra non ho mai menzionato il Pd. La ragione è che il Pd non è mai trainante in nessuna delle grandi contrapposizioni che dividono il campo progressista. Quale che sia la questione di cui si parla, il Pd si barcamena, esita, oscilla, distingue, prende tempo.

Incerto sulla cittadinanza agli immigrati e sul problema degli sbarchi. Tentato dall’aumento delle tasse ma timoroso di introdurre la patrimoniale. Incerto fra la difesa del Jobs Act e la correzione di una riforma in cui non crede più. Contrario a parole al debito pubblico, ma di fatto strenuamente impegnato (quando governa) a ottenere più flessibilità dall’Europa. Legato alla casta dei magistrati, ma ostile alle scorribande della magistratura nella sfera della politica.

Possiamo leggere tutto ciò in una chiave benevola, e sostenere che, se non c’è una sola causa importante di cui il Pd sia il paladino più convinto, è perché il partito di Zingaretti è una forza saggia e matura, il vero baricentro del centro-sinistra, e proprio per questo non può assumere posizioni estreme, che lascia volentieri alle forze meno responsabili, o meno consapevoli della complessità dei problemi: i radicali cosmopoliti di Emma Bonino, i nostalgici del comunismo, i populisti di Grillo, i liberal-riformisti alla Renzi.

Ma forse è più aderente alla realtà riconoscere che il Pd, un partito nato dal sogno di modernizzare lo schieramento progressista, è oggi una forza politica senza identità e senz’anima. Tenuto insieme dalla necessità di perpetuare il controllo sui gangli vitali della società italiana (come a suo tempo accadeva alla Democrazia Cristiana), terrorizzato dall’eventualità di tornare al voto, esso pare aver perduto ogni contatto con le idee originarie dei padri fondatori, giuste o sbagliate che fossero.

Il che non sarebbe un male se al posto di quelle idee ve ne fossero altre, più giuste, o più realistiche, o più moderne, o più nobili. Ma diventa problematico se al posto delle idee vi è il vuoto, riempito da formule e circonvoluzioni che ormai nessuno più intende. È questo, temo, il motivo per cui quel pochissimo che la politica ancora riesce ad esprimere a sinistra non proviene più dal Pd, ma dalle forze politiche che cercano di strappargli lo scettro.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2019



NADEF

Se mi chiedessero di indovinare quale ordine sia stato impartito ai tecnici che hanno il compito di stilare la NADEF (Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) risponderei che, probabilmente, gli hanno ingiunto: “facite ammuina!”. Tale infatti è la confusione di cifre, stime, ipotesi, percentuali che risulta difficile ipotizzare che non sia intenzionale.

E’ vero che, nel tempo, i documenti che illustrano la manovra finanziaria (non meno che altri testi: vedi i regolamenti universitari) sono diventati sempre meno lineari e comprensibili, ma devo confessare che mai ho avuto tante difficoltà a capire che cosa veramente il governo abbia intenzione di fare. E non mi consola certo il fatto di essere in buona compagnia: nei due giorni successivi all’uscita della NADEF su nessun quotidiano sono apparse le consuete dettagliate tabelle riassuntive da cui, tradizionalmente, tutti gli osservatori e gli studiosi cercano di farsi un’idea di quel che ci aspetta.

Devo quindi avvertire che quel che dirò si basa sul pochissimo che si riesce a capire, talora avventurandosi in calcoli resi necessari dalla reticenza del documento, dove insieme a tante cose mal spiegate si incontrano vere e proprie contraddizioni (esempio: i dati sul rapporto debito/Pil di pag. 10 sono incompatibili con quelli di pagina 9).

Ma andiamo con ordine.

La prima cosa che si deduce dalla Nota di aggiornamento è che, per l’anno prossimo, la manovra intende aumentare la spesa corrente un po’ di più dell’aumento già previsto “a legislazione vigente” (18 miliardi): le nuove spese previste sono infatti leggermente superiori alle spese soppresse (spending review). Dunque non c’è alcuno sforzo significativo per combattere sprechi e spesa improduttiva.

Il grosso della manovra consiste nella cosiddetta sterilizzazione (temporanea, ossia per il 2020) degli aumenti dell’IVA (23 miliardi), più una modesta riduzione del cuneo contributivo (2.7 miliardi, da giugno 2020), esclusivamente a vantaggio dei lavoratori.

Ma da dove arrivano questi 25.7 miliardi?

Per quel che si capisce, circa 15 miliardi provengono dalla rinuncia a ridurre il deficit pubblico, che senza manovra sarebbe stato di 24.6 miliardi, mentre con la manovra verrà portato a circa 40 miliardi di euro; quanto agli 11 miliardi mancanti si procederà con aumenti di tasse nella triplice forma di nuove tasse, taglio di sgravi fiscali, “lotta all’evasione”. In breve: per non far aumentare l’Iva ed alleggerire il cuneo fiscale (il che costa 25.7 miliardi), si procederà con 11 miliardi di nuove altre tasse da pagare subito, più 15 miliardi di debito pubblico a carico delle generazioni future.

Ed eccoci alla domanda chiave: ma in definitiva, la pressione fiscale aumenterà o diminuirà fra il 2019 e il 2020? L’aritmetica desumibile dalla NADEF (pag. 42) suggerisce: pagheremo circa 15 miliardi di tasse in più, ma se il Pil nominale crescerà nella misura prevista dal governo la pressione fiscale resterà sostanzialmente invariata. Se invece il Pil nominale dovesse crescere di meno (il che è probabile, perché sia le previsioni sul Pil reale, sia quelle sull’inflazione sono un po’ troppo ottimistiche), allora la pressione fiscale potrebbe crescere leggermente, ma meno di quanto sarebbe successo senza la manovra. Conclusione: tenuto conto che le misure pro-impresa sono sostanzialmente assenti, e che la pressione fiscale nella migliore delle ipotesi resterà costante, il meno che si possa dire della manovra è che non fornisce alcuna apprezzabile spinta all’economia (un punto prontamente rilevato dal presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, nell’assemblea generale dell’associazione).

Non è tutto, però. L’altro elemento che emerge dalla NADEF è che il governo giallo-rosso non ha la minima intenzione di correggere i conti pubblici (per il 2020 prevede un deficit fermo al 2.2%, come quello ereditato dal governo giallo-verde), e questo nonostante la prevista diminuzione degli interessi sul debito. E, cosa ancora più inquietante, il nuovo governo pianifica un peggioramento (di 2 decimali) dell’indebitamento netto strutturale, che il governo precedente aveva invece migliorato (di 3 decimali).

Che dire?

Mi limiterei a due osservazioni. La prima è che, come ebbi già modo di notare l’anno scorso in relazione alla manovra di allora, questi governi si presentano come governi di svolta, ma svoltano ben poco. Il Conte 1 non introduceva alcuna radicale innovazione rispetto al piccolo cabotaggio di Gentiloni, il Conte 2 non introduce alcuna radicale innovazione rispetto alla navigazione a vista del Conte 1. Digrignare i denti (come faceva Salvini) non implica, di per sé, mordere nella polpa della spesa pubblica improduttiva; proclamare solennemente la lotta all’evasione, come fa oggi Conte, non comporta automaticamente riduzioni delle tasse ai contribuenti onesti. Finché le aliquote non scendono e i conti pubblici non migliorano, siamo sempre lì, come nel Gattopardo: tutto cambia nel bilancio dello Stato, purché nulla cambi davvero.

La seconda osservazione è che la facilità e la repentinità con cui questo governo ha annunciato di aver “trovato” i 23 miliardi necessari per disinnescare le clausole IVA, la dice molto lunga sulla strumentalità delle critiche che hanno accompagnato il governo precedente, quando Renzi invitava ad aspettare che i giallo-verdi si schiantassero sotto il peso delle loro politiche, e Zingaretti denunciava lo sfascio dei conti pubblici e l’inevitabilità di una manovra “mostruosa”, tutta lacrime e sangue. La realtà, temo, è semplicemente questa: nessuno degli ultimi tre governi ha cambiato veramente l’indirizzo della politica economico-sociale; nessuno ha avuto il coraggio di aggredire gli sprechi; nessuno è stato capace di ridurre la pressione fiscale; tutti hanno preferito rimandare al futuro la correzione dei conti pubblici. L’unica cosa che ha fatto la differenza è stato l’atteggiamento dell’Europa e dei mercati, benevolo quando al governo c’era (anche) il Pd, e comprensibilmente ostile quando al governo c’erano (solo) i populisti, stoltamente impegnati a inimicarsi tutti senza alcuna contropartita.

La conclusione non può che essere amara. Questo governo non è nato per disinnescare l’aumento dell’Iva bensì – più prosaicamente – per disinnescare il rischio che gli italiani potessero tornare al voto, e finissero per scegliere Salvini. Ma Salvini non dà alcun segno di aver capito la lezione: l’Europa non è neutrale rispetto al colore dei governi, e chi abbaia all’Europa senza essere in condizione di mordere, finisce irrimediabilmente per avere la peggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 ottobre 2019