Coronavirus, obbligatorio cambiare rotta

(Why Giuseppe Conte is unfit to save Italy)

Non ho molti dubbi sul fatto che gli storici del futuro avranno molto da dire sulle responsabilità del governo Conte in questo cruciale mese di febbraio.

E’ molto verosimile che, quando la distanza temporale degli eventi avrà reso gli animi più distaccati e le menti più lucide, alla mediocre classe dirigente che ha gestito questa crisi verranno imputati tre errori fatali, dislocati più o meno a una settimana di distanza l’uno dall’altro.

  • Errore 1: aver sottovalutato, nonostante le avvertenze degli esperti (il primo allarme di Roberto Burioni è dell’8 gennaio, ben due mesi fa), la gravità della minaccia dell’epidemia di coronavirus, non solo respingendo la linea rigorista dei governatori del Nord, ma tentando di approfittare politicamente delle circostanze: un’emergenza sanitaria è stata trattata come un’emergenza democratica, come se la posta in gioco fosse l’antirazzismo e non la salute degli italiani (il medesimo Burioni, per le sue proposte di quarantena, è stato accusato di fascio-leghismo).
  • Errore 2: aver rinunciato, quando la misura sarebbe stata ancora efficace, a una campagna massiccia di tamponi, per la paura di danneggiare l’immagine dell’Italia all’estero.
  • Errore 3: aver insistito per giorni sulla necessità di far ripartire l’economia, come se questo obiettivo – se perseguito nel momento di massima espansione dell’epidemia – non avesse l’effetto di facilitare il contagio.

Non so se, in queste ore, il governo correggerà la rotta, e in che misura eventualmente lo farà. Ma penso di poter dire, sulla base dell’evidenza statistica disponibile, che non essere intervenuti drasticamente e subito avrà un costo enorme in termini di vite umane, prima ancora che in termini di ricchezza.

Il numero di persone già contagiate è molto più ampio del numero di positivi, e il numero di morti raddoppia ogni 48 ore senza, per ora, mostrare alcun segno di rallentamento. Il tasso di propagazione dell’epidemia, il famigerato R0, è tuttora largamente superiore a 2, probabilmente prossimo a 5 contagiati per infetto.  Se, come molti esperti considerano possibile, il virus dovesse raggiungere anche solo il 20% della popolazione (12 milioni di persone), i morti non sarebbero il 3% (circa 360 mila) ma almeno il triplo o il quadruplo, ovvero 1 milione o più. In quel caso, infatti, i posti di terapia intensiva necessari per salvare i pazienti gravi non sarebbero sufficienti, nemmeno ove – tardivamente – il governo varasse oggi stesso un piano per raddoppiare o triplicare la capacità attuale (oggi i posti disponibili sono 5000, con 12 milioni di contagiati ce ne vorrebbero almeno 50 mila, ossia 10 volte la capacità attuale).

Questa eventualità, ossia che il coronavirus raggiunga un cittadino su 5, è così poco inverosimile che il Regno Unito la sta considerando seriamente come uno scenario possibile. E non voglio neppure pensare che cosa potrebbe accadere se, come alcuni esperti ritengono possibile, l’epidemia dovesse raggiungere quasi l’intera popolazione italiana.

In questa situazione ci vorrebbe ben altro governo e ben altra classe dirigente, ma non è questo il tempo di fare considerazioni politiche. Oggi è il tempo di salvare l’Italia da una catastrofe potenzialmente peggiore di una guerra, e di farlo con i mezzi che abbiamo e il tempo ristrettissimo che ci sta davanti. So di star per dire una cosa non provabile in modo inoppugnabile (i dati sono ancora parziali) ma solo plausibile, e tuttavia voglio dirla lo stesso, perché proteggere la mia reputazione di studioso è meno importante che avvertire di un pericolo che è largamente preferibile sopravvalutare che ignorare.

Ebbene, nelle prossime 72 ore, se nulla cambia, è verosimile che l’Italia attraversi la barriera dei 60.000 contagiati, un limite oltrepassato il quale il rischio di interagire con persone contagiate diventa non trascurabile, ed enormemente più grande di quello che avevamo anche solo fino a un paio di settimane fa.

Non spetta a me, né ne avrei gli strumenti, per redigere un piano che limiti i danni. In proposito ci sono idee e proposte di grande spessore degli esperti che in queste settimane sono stati più vigili, e meno disponibili ad accodarsi alle oscillazioni delle autorità di governo: penso al prof. Roberto Burioni (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), al prof. Andrea Crisanti (Università di Padova), al prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano).

Due cose, però, mi sento di dirle. La prima è che la priorità non può essere far ripartire l’economia subito, perché questo non farebbe che accelerare la circolazione del virus. Le risorse economiche dovrebbero essere indirizzate prima di tutto a moltiplicare le unità di terapia intensiva e sub-intensiva, perché quasi certamente fra 2 o 3 settimane i malati gravi saranno molto più numerosi dei posti disponibili.

La seconda è che, se vogliamo limitare il numero dei morti, dovremo rinunciare, per almeno qualche settimana, a una parte delle nostre libertà e, probabilmente, anche a una frazione di ciò che siamo abituati a pensare come parte integrante della democrazia.

Quando dico rinunciare alle nostre libertà, penso soprattutto alla libertà di circolazione e di spostamento. E quando dico rinunciare a una frazione della democrazia intendo dire che, se vogliamo salvare il servizio sanitario nazionale, dobbiamo avere il coraggio di nominare un commissario per l’emergenza, che sia competente, dotato di pieni poteri, di un budget adeguato, e completamente immune alle interferenze della magistratura e della politica.

L’alternativa esiste, naturalmente, ed è di continuare con la rancida minestra che ci sta somministrando questo governo. Ma bisogna sapere, allora, che il costo non si misurerà in termini di consenso, o di punti di Pil perduti, bensì in termini di vite umane che si è rinunciato a salvare.

(4 marzo 2020)



Dobbiamo fermarci un paio di mesi. Intervista a Luca Ricolfi

Con gli attuali trend, si può arrivare, nelle mie simulazioni, anche ad avere 2-300mila decessi. Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila.

Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che al momento non è noto, ma che, a mio parere, è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti.

I dati noti con i quali misurarsi nel modello sono le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

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Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo aiuterebbe la circolazione del virus, potrebbe essere la catastrofe». Luca Ricolfi, sociologo, ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino, ha letto le informazioni disponibili sul Coronavirus- contagio, ammalati, morti- utilizzando le sue competenze statistiche. I risultati delle simulazioni fatte per la Fondazione David Hume, di cui è presidente, sono choccanti: con gli attuali tassi di prorogazione, se il virus non verrà rallentato drasticamente, potrebbero esserci centinaia di migliaia di decessi in pochi mesi. Decisiva una politica rigorosa di contenimento, in tal senso «le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione». I 3,6 miliardi di sforamento del deficit che la UE potrebbe autorizzarci? «Andrebbero utilizzati non per dare aiuti a pioggia alle imprese ma a rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto. Altrimenti si rischia il collasso».

Professore, lei stima che, con gli attuali trend di contagio e di morte, si possa arrivare anche ad avere 2-300mila decessi. Una cifra terribile. Come arriva a questa conclusione? Qual è il metodo di calcolo?
Il calcolo si basa su due parametri, uno (relativamente) noto e l’altro ipotetico. Il parametro noto è che, su 100 infetti, ne muoiono 2 o 3. Questo dato, da solo, ci dice che, ove avessimo 8 milioni di infetti (come in una comune influenza), il numero di morti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila. Il parametro ipotetico è invece il tasso di propagazione del virus, che dipende da tanti fattori e al momento non è noto, ma a mio parere è nettamente superiore a 2 o a 2.5 contagiati per ogni infettato. È qui che subentrano i modelli matematici di simulazione, che partono da ipotesi sul tasso di propagazione e controllano se le traiettorie che ne risultano sono compatibili con i dati noti, ossia con le serie storiche dei contagi accertati e, soprattutto, delle morti connesse al coronavirus. Queste ultime sono le più affidabili, perché dipendono solo dalla diffusione effettiva del contagio, e non dalle politiche sanitarie e diagnostiche messe in atto, come accade invece con le statistiche sul numero di positivi al test.

E cosa dicono le sue simulazioni?
Ebbene, le simulazioni mostrano che, se si vogliono generare serie storiche compatibili con la dinamica di quelle osservate, si è costretti a ipotizzare un tasso di propagazione più alto di 2.5. Qualche esperto, come il prof. Andrea Crisanti, virologo dell’Università di Padova, è arrivato a ipotizzare un tasso di 4 o 5 contagiati per infettato, che nelle simulazioni risulta più compatibile con i dati storici di un tasso di 2 o di 2.5. Ma il dramma è che, se il tasso di propagazione è davvero 4 o 5, e non si interviene con politiche di contenimento drastiche, il numero degli infettati non ci metterà molto ad arrivare a qualche milione, come accade con l’influenza stagionale.

Il calcolo statistico non sconta variabili, nella fattispecie potrebbero essere il caldo della primavera, l’indebolimento del virus stesso o l’efficacia delle misure prese dal governo. Che margini di errore hanno di solito analisi di questo tipo?
Le analisi basate su modelli matematici possono solo formulare ipotesi su eventuali meccanismi di attenuazione (o di amplificazione), perché la capacità di propagazione del virus non è un dato assoluto, o intrinseco, ma dipende da numerose condizioni al contorno, perlopiù sconosciute nelle loro dimensioni e nel loro impatto. Cionondimeno, la mera osservazione della dinamica attuale basta a suggerire che, per frenare il virus, occorrerebbero fattori di grandissimo impatto, come una elevata sensibilità al caldo, o una tendenza all’indebolimento nel ciclo delle mutazioni.
Fra i fattori potenzialmente frenanti, però, ve n’è uno fondamentale, che nei miei modelli ho chiamato qt.

Cosa indica qt?
È la quota di malati “ritirati” dalla scena pubblica al tempo t e collocati in quarantena, in quanto precocemente diagnosticati come positivi al coronavirus. Ebbene, poiché (insieme alle norme comportamentali) l’incremento di q mediante una campagna massiccia di tamponi è l’unica arma che abbiamo, considero irresponsabile (per non dire altro) il comportamento del premier Giuseppe Conte, che qualche giorno fa ha esortato a fare meno tamponi.
Se anziché straparlare di numero eccessivo di tamponi il governo avesse seguito il saggio consiglio del virologo Roberto Burioni di moltiplicarli, prevedendoli per chiunque abbia anche solo 37 gradi e mezzo di febbre, oggi la progressione del contagio sarebbe sensibilmente più lenta, e avremmo qualche speranza di fermarlo.

Tra Nord e Sud c’è qualche differenza? Ad oggi ci sono meno contagi.
Penso che l’esplosione dei contagi al Nord sia dovuta a due fattori distinti. Il primo è il caso, ossia che il Nord abbia avuto un paziente super-spreader (ultra-capace di infettare), che da solo ha dato luogo a una catena di contagi molto vasta, favorita dai protocolli seguiti nell’ospedale di Codogno, che per quel che ne so erano quelli vigenti, anche se inadeguati.
Il secondo, decisivo, fattore è che sono tutte del Nord le regioni più produttive e internazionalizzate del Paese, ossia Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Io ho fatto calcoli separati per la propagazione al Nord e al Sud e, allo stato attuale dell’informazione disponibile mi risulta che la velocità di propagazione sia analoga.

L’Italia da zona franca è diventato focolaio europeo. Ma c’è chi sostiene che la differenza sia proprio nel numero (in eccesso) di tamponi fatti in Italia.
La considero una sciocchezza. In Italia il processo è partito un po’ prima, per ragioni casuali, ma temo che gli altri paesi vedranno il medesimo film, a meno che qualche paese si decida a percorrere la strada-Burioni anziché il precipizio-Conte. Lì si vedrà quali paesi hanno una classe dirigente all’altezza.

A fronte di questa situazione, le autorità stanno via via riavviando le attività. Che segnali arrivano alla popolazione?
Errati. Le attività dovrebbero essere poste sistematicamente in folle, o meglio al regime di giri minimo necessario per la sopravvivenza fisica della popolazione.
Io però distinguo nettamente fra l’intervento assistenziale e riparativo dello Stato (che è opportuno) e il tentativo di riaprire le attività, tornando alla vita normale (che produrrebbe effetti catastrofici). Quest’ultima cosa, il ritorno alla normalità, non possiamo ancora assolutamente permettercela.

Senza risorse massicce, il servizio sanitario nazionale rischia di non farcela.
Rischia il collasso. A mio parere è praticamente certo che, nel giro di poche settimane, si comincerà a morire perché non ci sono abbastanza posti nei reparti di terapia intensiva. È il guaio delle democrazie, che non possono costruire un ospedale in 10 giorni, né rinchiudere qualche milione di abitanti in una zona rossa, né proclamare il coprifuoco.

Lei sta seguendo il flusso di informazioni dei media? Come lo giudica?
Ne sono disgustato. Tutto continua con i consueti teatrini, in cui i soliti personaggi si scambiano opinioni (e qualche volta insulti) su cose più grandi di loro. È come la scena finale del Titanic, con la gente che balla mentre la nave affonda.

Che stima è possibile fare per quanto riguarda gli effetti sul Pil?
Stime vere e proprie sono impossibili. Se proprio devo azzardare, però, di stime ne farei non una ma due. Se ci fermiamo per un paio di mesi e ci occupiamo solo di salvare la pelle, forse potremmo uscirne con una semplice recessione, più o meno come nel 2008. Se invece ci intestardiamo a far ripartire l’economia subito, e questo – come è elementare prevedere – anziché frenare il virus aiuta la sua circolazione, potrebbe essere la catastrofe. Che a quel punto non si misura sui punti di Pil perduti ma, come in guerra, sul numero di morti.

Il governo italiano si accinge a incassare uno sforamento dei vincoli Ue pari a 3,6 miliardi di euro di maggiori risorse. Che effetto avrà?
Sono sempre stato ostile agli sforamenti del deficit, ma questo è uno dei pochi casi in cui lo troverei sacrosanto. Il problema, però, è come usarli i 3.6 milioni di euro. Io prevedo che il grosso sarà usato per soddisfare le innumerevoli richieste di risarcimento danni che pioveranno sul tavolo del governo, e ben poco resterà per l’unica vera emergenza: rafforzare il servizio sanitario nazionale con un’iniezione straordinaria di personale, attrezzature, posti letto.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi del 4 marzo 2020



Coronavirus, fermare la catastrofe

Posso sbagliarmi, lo voglio dire subito. Anzi, spero di sbagliarmi, e che domani – retrospettivamente – tutto quel che sto per dire possa apparirmi esagerato, o fuori bersaglio.
Però non me la sento di non raccontare la situazione come si presenta ai miei occhi di osservatore e di studioso di Analisi dei dati.

1. Il pericolo che l’Italia sta affrontando è molto più grave di come ci viene raccontato. L’epidemia di coronavirus somiglia alla classica influenza stagionale per quanto riguarda la capacità di diffondersi (il che è una pessima notizia: l’influenza raggiunge ogni anno circa 8 milioni di persone), ma è enormemente più letale (3 morti ogni 100 contagiati). Anche considerando come morte per influenza tutte le persone che ogni anno muoiono per complicanze ad essa connesse, il rischio di morte è di 1 caso su 1000, mentre nel caso del coronavirus è di 30 casi su 1000, ossia 30 volte superiore.
In concreto significa questo: se non riusciamo a fermare l’epidemia di coronavirus, e i pazienti contagiati diventano quanti quelli della comune influenza, i morti potrebbero essere dell’ordine di 2-300 mila. Non voglio nemmeno immaginare quel che succederebbe se, come alcuni esperti considerano possibile, l’epidemia di coronavirus raggiungesse una % di contagiati vicina al 100% della popolazione.

2. I dati finora disponibili non sono sufficienti per prevedere la traiettoria del contagio, tuttavia si possono fare alcuni esercizi di simulazione. I risultati dicono che, se la velocità di diffusione dovesse restare analoga a quella attuale, o dovesse ridursi in modo marginale, già a Pasqua (12 aprile) i contagiati potrebbero essere parecchi milioni.
E’ comprensibile che le autorità si ingegnino a sostenere che questa velocità si deve al trauma eccezionale di Codogno-Vo’ (18-20 febbraio), e al fatto che le misure restrittive adottate negli ultimi 10 giorni non hanno ancora avuto il tempo di esercitare i loro effetti. Ma si devono fare tre osservazioni:
a) la velocità del contagio nelle zone del centro-sud è analoga, se non superiore, a quella del nord;
b) il tasso di crescita del numero di contagiati non solo non sta dando segni di rallentamento, ma nella giornata di domenica 1° marzo ha subito una violentissima accelerazione (645 nuovi casi in un solo giorno, contro una media giornaliera di 139 casi nei 7 giorni precedenti, e di 161 il giorno prima);
c) anche il numero dei morti è in costante ascesa: erano 1 al giorno una settimana fa, sono saliti a 12 nella giornata di domenica.

3. A fronte di questi processi, la maggior parte delle autorità si sta muovendo su una triplice direttrice.
Primo, favorire la ripresa delle attività produttive quanto prima, non solo con (doverosi) sussidi a chi ha subito gravi perdite in termini di posti di lavoro e di redditi, ma anche e soprattutto accelerando la riapertura di uffici, fabbriche, negozi, alberghi, musei, scuole, chiese, luoghi pubblici in genere.
Secondo, scaricare sulla popolazione la responsabilità di contenere il contagio. A giudicare dai messaggi ossessivamente ripetuti dagli schermi televisivi, sembra che –fin da oggi fuori della “zona rossa”, e da domani anche in essa – l’unico presidio contro il coronavirus sia la prudenza dei cittadini: lavarsi le mani, disinfettare le superfici, minimizzare i contatti sociali non necessari, non stringersi la mano, non abbracciarsi.
Terzo, contenere l’allarme sociale limitando i tamponi. Molti politici (e molti giornalisti) paiono convinti che se ci sono tanti casi accertati di coronavirus in Italia è perché abbiamo fatto troppi tamponi, e che occorre fare marcia indietro per evitare la catastrofe dell’industria turistica.
Curioso. Prima le autorità fanno di tutto per convincerci che non c’è alcun pericolo di contagio, dalla visita di Mattarella alla scuola con tanti bimbi cinesi alle foto dei politici nei ristoranti cinesi; poi si dichiara lo stato di emergenza, si chiudono massicciamente i luoghi pubblici, si invita a minimizzare i contatti sociali, si segrega la gente in casa; infine, si stigmatizza l’“isteria collettiva” che conduce la medesima gente a fare provviste nei super-mercati…

4. Spero di sbagliarmi ma, studiando i meccanismi di propagazione del coronavirus, mi sono convinto che questa strategia sia perdente, anzi catastrofica. Per tre motivi fondamentali.
Primo motivo. Gli sforzi per far ripartire le attività produttive e commerciali, se concentrati in questo momento, avranno solo l’effetto di accelerare il contagio, rendendo enormemente più difficile e più remota nel tempo la ripresa dell’economia. Meglio perdere un mese di Pil oggi, che subire una catastrofe di dimensioni molto superiori domani.
Secondo motivo. In questo momento la priorità economica fondamentale è evitare il collasso degli ospedali, che già fra pochissimo tempo non saranno in grado di far fronte alla domanda di posti letto, specie nei reparti di terapia intensiva.
E’ triste dirlo, ma è possibile che la Cina, grazie ai poteri speciali di cui godono le dittature, ne esca prima e meglio di noi. Il minimo che possiamo fare è nominare un commissario per l’emergenza coronavirus, con un budget e dei poteri che gli consentano di fare – senza interferenze della magistratura e della politica – quel che la situazione potrà richiedere, ossia assistenza per centinaia di migliaia di persone, molte delle quali in condizioni gravissime.
Terzo motivo. Le simulazioni mostrano chiaramente che, con un contagio così veloce, l’unica strategia di contenimento che ha qualche possibilità di arginare l’epidemia è la ricerca a tappeto dei contagiati e la loro messa in quarantena. Lo ha detto chiaramente una settimana fa Roberto Burioni, suggerendo un tampone anche a chi ha solo 37 gradi e mezzo di febbre: mi chiedo se basterebbe, o non occorrerebbe fare ancora di più, organizzando lo screening più ampio possibile, usando tutte le risorse diagnostiche disponibili.
La velocità del contagio, infatti, ha due fonti fondamentali: la contagiosità intrinseca del virus, che con comportamenti appropriati si può solo attenuare, e il tasso di ritiro dallo spazio pubblico (quarantena) dei già contagiati. E’ solo individuando e mettendo in quarantena coloro che, a propria insaputa, stanno veicolando il virus, che possiamo sperare di vincere la battaglia.
Ecco perché considero enormemente grave, e segno di totale irresponsabilità, il fatto che il premier, anziché accogliere e cercare di rendere attuabile la proposta di Burioni di moltiplicare i tamponi, abbia imboccato la strada opposta. Come se l’immagine dell’Italia all’estero fosse più importante dalla nostra salute, per non dire della nostra sopravvivenza.

[2 marzo 2020]



Il referendum del 29 marzo

Fra chi segue settimanalmente i sondaggi si sta facendo strada una sensazione, se non una previsione: il Pd gode di una discreta salute, i Cinque Stelle stanno perdendo consensi settimana dopo settimana, al punto che – a breve – potrebbero essere sorpassati da Fratelli d’Italia, l’unico partito in costante ascesa da mesi. Con la Lega vicina al 30%, il Pd vicino al 20, e il partito della Meloni in vista del 15 i Cinque Stelle (che, lo ricordiamo, in Parlamento sono di gran lunga il primo partito) potrebbero precipitare al quarto posto.

Chi vede le cose in questo modo, però, forse non fa i conti fino in fondo con un evento politico che ormai è alle porte: il referendum confermativo sul taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600), previsto fra una manciata di settimane (domenica 29 marzo). Qualsiasi cosa si pensi di questa riforma costituzionale (personalmente la trovo tanto ragionevole quanto di scarso impatto: sono assai più sostanziali i cambiamenti delle regole di cui ci sarebbe bisogno), resta il fatto che essa è stata una bandiera di un solo partito (il Movimento Cinque Stelle), è stata osteggiata con decisione dal Pd, e alla fine è passata non certo perché il Pd si sia convertito, ma perché i Cinque Stelle l’hanno posta come condizione per imbarcare il Pd e Leu nel nuovo governo.

Dunque quel che dobbiamo attenderci non è che il referendum passi nell’indifferenza generale (visto che nessun partito osa schierarsi apertamente a favore del no), bensì che il Movimento Cinque Stelle, che di quella riforma si considera – del tutto giustamente – il promotore e l’artefice, colga l’occasione per passare all’incasso sul piano del consenso. E’ quasi certo che il taglio dei parlamentari avrà l’approvazione della stragrande maggioranza dei votanti, ed è impensabile che, su questo successo, i Cinque Stelle non tentino un’operazione di recupero del consenso perduto, magari trasformando l’evento degli Stati generali in un’occasione di autocelebrazione, che non potrà non sfociare in un revival della retorica anticasta che ne ha segnato le origini.

Con quali effetti sul seguito elettorale?

Difficile dirlo, perché spesso il consenso ad A è anche il frutto del discredito di B, C e D, ovvero delle altre forze politiche. Quel che però mi sembra ragionevole prevedere è che questa vittoria possa rallentare (se non invertire) il trend di declino dei Cinque Stelle, ma soprattutto possa rendere più evidente l’abdicazione del Pd da ogni velleità di dare un segno, il proprio segno, al governo giallo-rosso. Dopo aver ceduto sul taglio dei parlamentari, dopo essersi rassegnato al reddito di cittadinanza (aspramente criticato fino a pochi mesi fa), dopo aver piegato la testa su concessioni autostradali e giustizia, dopo avere esitato e temporeggiato su tutto ciò che riguarda l’immigrazione (dai decreti Salvini allo ius soli), il Pd zingarettiano appare pronto a tornare quel che era prima di Renzi, forse fino al punto di riaccogliere, a braccia più o meno aperte, i transfughi fin qui rifugiati in Leu.

Un processo, questo, che l’attivismo di Renzi non fa che mettere impietosamente a nudo. Perché è vero che a salvare i Cinque Stelle da un’ecatombe elettorale è stato Renzi, è vero che a sdoganarli a sinistra è stato Renzi, è vero che Italia Viva fin qui ha digerito quasi tutto ciò che il convento giallo-rosso imponeva ai suoi adepti, ma non si può non notare che quello che Renzi oggi dice e rivendica a nome di Italia Viva altro non è, sulla maggior parte delle questioni, esattamente ciò che il Pd diceva e rivendicava fino a ieri.

La conclusione è semplice. I Cinque Stelle sono stati il vero dominus del governo giallo-rosso e si apprestano a rinverdire il loro populismo anticasta. Renzi e Italia Viva, dopo la mossa opportunista e anti-salviniana di far nascere il Conte 2, stanno tornando ad assumere il loro profilo naturale, quello di una sinistra riformista e garantista. Solo il Pd resta un enigma, incerto fra il suo passato renziano e il suo presente grillino.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 febbraio 2020



L’economia dimenticata

Se scorriamo i titoli dei giornali e dei telegiornali delle ultime settimane, è inevitabile constatare che tre argomenti hanno ormai monopolizzato l’attenzione dei media e della politica: il processo a Salvini per la vicenda della nave Diciotti, la giustizia, con la questione della prescrizione, e il coronavirus (ora ribattezzato Covid-19).

La questione della prescrizione è arrivata al punto di minacciare la sopravvivenza del governo, mettendo in evidenza la incompatibilità fra Italia Viva e Cinque Stelle.

Il problema del coronavirus ha riacceso le accuse di razzismo e xenofobia che il mondo progressista riversa su chiunque non sposi la linea ufficiale, per la quale il diritto allo studio (niente quarantena preventiva per gli studenti che arrivano dalla Cina) ha la precedenza su quello alla salute. O, se preferiamo dirla in modo più filo-governativo: per le autorità preposte a gestire l’epidemia, i rischi di contagio sono così bassi che possiamo permetterci di correrli.

In tutto ciò, quel che è completamente sparito dalla scena sono i problemi dell’economia. Eppure l’economia batte alle porte.

Ci sono, innanzitutto, i problemi che fino a ieri parevano cruciali, e che ora si preferisce rimuovere. Ricordate il dramma dell’Ilva, che fino a due mesi fa pareva una questione di vita o di morte, per la salute dei cittadini di Taranto come per l’economia del mezzogiorno e dell’intero paese?

E l’Alitalia ? Una vicenda che si trascina da anni e ora è tornata alla ribalta solo perché la magistratura ha deciso di indagare una ventina di dirigenti per presunti favori illeciti a Etihad.

C’è poi la questione della revoca della Concessione ad Autostrade, un problema che si tende ad affrontare in modo ideologico, come se le scelte (o le non scelte) che si compiono non avessero pesanti ripercussioni economiche (la revoca potrebbe costare miliardi alle casse dello Stato, la rinuncia a imporre investimenti al concessionario potrebbe peggiorare ulteriormente lo stato della nostra rete autostradale).

E il MES? Qualcuno ricorda che fino a un paio di mesi sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità volavano le accuse, e anche i più cauti fra gli economisti avanzavano preoccupazioni?

Tutto cancellato, tutto sottotraccia, tutto in sordina, sommerso dalle intemperanze dei politici che si sfidano sul processo al capo della Lega, sulla prescrizione, sulle misure da adottare per contrastare il contagio.

Ma non è tutto. Accanto ai problemi specifici dell’economia italiana ci sono le turbolenze che arrivano da fuori e da lontano. La crescita mondiale sta rallentando, la Brexit sta creando incertezza e instabilità, il commercio con la Cina subirà certamente una frenata.

E in questo quadro arrivano le stime di crescita per il 2020 e il 2021 della Commissione europea, che annunciano un rallentamento dell’Europa in generale, e dell’Italia in particolare. La vera notizia, per noi, è che anche nei prossimi anni, così come in quelli passati, l’Italia occupa l’ultimo posto, dietro paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Tutti i paesi dell’euro, secondo le previsioni, cresceranno più dell’1%, e 10 paesi (su 19) cresceranno fra il 2 e il 4%. Solo per l’Italia la Commissione prevede una crescita prossima a zero (0.3%).

Qualcuno dirà che questa è l’amara eredità del governo populista e del suo capo, quel Giuseppe Conte che aveva profetizzato che il 2019 sarebbe stato “un anno bellissimo”. Qualcun altro obietterà che, nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso, o da Conte 1 a Conte 2, le cose sono addirittura peggiorate, visto che per il terzo trimestre del 2019 l’Istat prevede addirittura una contrazione del Pil (-0.3%).

Ma ad entrambi, e a chi rimpiange gli anni precedenti, vorrei ricordare che il primo segno meno davanti al tasso di crescita del Pil risale al secondo trimestre del 2018, quando il timone dell’economia era ancora in mano al governo Gentiloni. Dunque, facciamocene tutti una ragione: se guardata dal lato dell’economia, l’Italia brilla per la continuità delle sue non-politiche.

Sono anni e anni che, chiunque governi, siamo ultimi in Europa. E sono anni e anni che i nostri nodi veri, dal debito pubblico alla pressione fiscale, dalla produttività all’occupazione, preferiamo non affrontarli. E ogni coronavirus che passa ci fornisce l’insperata occasione di perseverare nella nostra inerzia.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 febbraio 2020