Le risposte del Governo e la fase 2

Qualche giorno fa, dalle colonne del “Messaggero”, avevamo posto al governo 7 domande, con l’obiettivo di capire se il governo stesso, e più in generale le autorità che gestiscono l’epidemia, erano pronti per la fase due. Le risposte sono arrivate nel giro di poche ore, con una tempestività che è stata molto apprezzata da tutti, a partire dai lettori che già il giorno dopo hanno potuto leggere le valutazioni del governo.
Bisogna anche dire che alcune risposte, penso in particolare a quella sulle residenze per chi non può passare la quarantena in casa per il rischio di infettare i familiari, a quella sull’indagine campionaria sulla diffusione del Coronavirus, e a quella sulla app per il tracciamento, sono risultate relativamente rassicuranti, o lo stanno diventando di ora in ora, man mano che si apprendono nuove notizie sulle iniziative in corso.
E tuttavia credo sia giusto, avendo lanciato il sasso delle domande, non ritirare la mano a proposito delle risposte, che vorrei qui passare in rassegna ad una ad una, con l’intento di fare più chiarezza possibile.
Domanda 1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
Qui la riposta è stata che sono state fornite 93 milioni di mascherine al personale sanitario, ma quanto al punto cruciale, la capacità delle farmacie di rifornire noi cittadini, la risposta è che le farmacie “devono rivolgersi al mercato” e che “presto arriverà il modo e il momento di regolarlo”. Ma adesso? Se dovesse partire la fase 2, il mercato (più o meno ben regolato) riuscirebbe a rifornire tutti? Perché lo Stato non ha avviato autonomamente, o stimolato con incentivi, la produzione di mascherine? E sulle misure di protezione dei lavoratori nel trasporto pubblico e sui luoghi di lavoro a che punto siamo? Hanno ragione i sindacati a dire che la fase 2 non può partire perché non siamo ancora in grado di mettere in sicurezza i lavoratori?
Domanda 2. Quanti tamponi al giorno è in grado di effettuare la sanità pubblica? Qui la risposta è precisa (50 mila al giorno) ma inquietante. Non solo perché il fabbisogno è di almeno il doppio, ma perché la risposta è corredata da affermazioni non veritiere o fuorvianti sulle capacità italiane rispetto ad altri paesi. La realtà, come documentato nei giorni scorsi dalla Fondazione Hume, è che l’Italia è uno dei paesi che di tamponi ne ha fatti di meno, a parità di “anzianità dell’epidemia”. Una circostanza aggravata dal fatto che non solo avremmo potuto approvvigionarci sul mercato prima che partisse la corsa degli altri paesi, ma avremmo anche potuto incentivare e potenziare la produzione interna facendo cadere le barriere normative e burocratiche che finora l’hanno ostacolata.
Domanda 3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
La risposta è chiara: no, una simile data non esiste. Il perché non esiste è inquietante: l’Organizzazione Mondiale della Sanità è indietro, i percorsi autorizzativi saranno ancora lunghi. E, aggiungo io: quando un imprenditore si dà da fare per sottoporre a test i suoi dipendenti, rischia una denuncia o l’intervento dei Nas (è successo alla Sbe di Monfalcone pochi giorni fa).
Va detto, però, che nelle ultime ore le cose si stanno muovendo. Almeno per quanto riguarda i lavoratori, si sta finalmente affrontando il problema di rendere possibili test sierologici certificati. A quel che si apprende, dovrebbe essere imminente la pubblicazione, sul sito della protezione Civile, del bando per raccogliere le offerte delle aziende che si candidano alla produzione del kit per gli esami sierologici. Questo è estremamente positivo.
Domanda 4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone finora sono state reclutate a questo scopo?
Qui la sostanza della riposta è: no, non ce l’abbiamo ancora (sono passati 2 mesi dall’inizio dell’epidemia!), ma prima o poi ce l’avremo. Infatti la ministra all’innovazione tecnologica “sta lavorando – insieme a una task force di 74 esperti – a un’app su base volontaria che dovrebbe essere elaborata da una software house milanese”. Sarà perché faccio il professore universitario, e di commissioni e gruppi di lavoro un po’ ho esperienza, ma confesso che venire a sapere che ci lavora una task force di ben 74 esperti (ovviamente in smart working), che i medesimi esperti devono ancora testarla su un campione, e che a usarla saranno solo volontari, non mi rassicura per niente. Ma non potevamo comprarne subito una funzionate e collaudata dai Cinesi o dai Coreani, i quali (anche) grazie al tracciamento sono riusciti a contenere rapidamente l’epidemia?
Le notizie delle ultimissime ore, però, sono un po’ diverse, e decisamente più incoraggianti: il commissario Arcuri ha appena firmato un’ordinanza per accelerare il decollo della app, le sperimentazioni a livello regionale dovrebbero partire in tempi relativamente rapidi. Speriamo bene.
Domanda 5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
La risposta non è precisa, ma è abbastanza rassicurante: 6800 posti nelle strutture messe a disposizione da Forze Armate e Polizia, più “decine di migliaia” negli hotel grazie ad accordi conclusi dalle Regioni. E’ verosimile che, finché si faranno pochi tamponi come adesso, questa disponibilità di posti risulterà più che sufficiente.
Domanda 6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
Anche in questo caso nessuna data, né per l’inizio, né per la conoscenza dei risultati. Per fare l’indagine sul numero di cittadini previsti (150 mila), oltre a costruire il campione, occorre approvvigionarsi di test (molecolari e sierologici), che al momento non sono disponibili. Che il commissario Arcuri li stia cercando sul mercato “in queste ore” è una buona notizia, anche se inquieta un po’ il fatto che non lo abbia già fatto, visto che della necessità di fare un campione nazionale si parla da settimane.
Domanda 7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?
Qui la risposta brilla per chiarezza: mai. Le motivazioni invece brillano per oscurità, burocratese e, mi spiace dirlo, per capziosità. Si invocano “la tutela della riservatezza”, e le “valutazioni a garanzia della tutela dei dati personali e sanitari”. Mi limito ad osservare che, mentre si sospende la libertà fondamentale di spostamento, e si discute (giustamente) della possibilità di limitare le tutele alla privacy per permettere il tracciamento dei soggetti positivi, è davvero curioso che ci si preoccupi di proteggere la privacy dei malati di Covid, e persino dei morti.
Eppure, chi ha esperienza di ricerca sa benissimo che da decenni esistono collaudati sistemi di “anonimizzazione” e aggregazione dei micro-dati che permettono di trattarli nel perfetto rispetto dell’anonimato. Senza dire che, se proprio non vogliono fornire i micro-dati, le autorità potrebbero almeno rilasciare dati aggregati ma tuttora non disponibili come il numero di morti per Covid nei singoli comuni: una informazione che, incredibilmente, ancora oggi non è disponibile, e la cui conoscenza permetterebbe finalmente di tracciare la mappa delle morti nascoste.
Se devo basarmi sulle risposte ricevute fin qui, mi sembra inevitabile concludere che, nonostante alcuni importanti passi avanti, le autorità non sono pronte alla fase 2. Allo stato attuale, anche se i nostri sacrifici fossero già riusciti ad azzerare i contagi, dovremmo comunque – per evitare che l’epidemia riparta – stare ancora fermi, in attesa che le autorità forniscano un numero adeguato di tamponi, test sierologici, mascherine, dispositivi di protezione per i lavoratori.
Dobbiamo dunque pensare che la fase 2 è lontana, e che saremo costretti agli arresti domiciliari per mesi e mesi?
Niente affatto. Potrò sbagliarmi, ma la mia sensazione è che la fase 2 partirà comunque. Troppa è la pressione della gente, troppa la più che comprensibile impazienza del mondo delle imprese. Difficile che il governo riesca a tenerci tutti nel congelatore oltre la prima metà di maggio. Del resto quasi tutto il Nord sta già, più o meno incautamente, avviando la fase 2, sia pure per tappe progressive.
Dunque la domanda non è: quando partirà la fase2? La vera domanda è: quanti altri morti ci costerà la scelta di ripartire comunque per timore di un tracollo economico e sociale?
La risposta a questa domanda è che il numero di morti dipenderà molto dalla velocità con cui le autorità colmeranno i ritardi che hanno accumulato.
Per questo abbiamo fatto le 7 domande. Per questo speriamo che, con il passare del tempo, le risposte diventino sempre più rassicuranti.

Pubblicato su Il Messaggero del 18 aprile 2020




7 domande senza risposta

Supponiamo che a un certo punto, speriamo presto, vi siano buoni motivi per pensare di essere vicini alla meta di nuovi contagi-zero. In sostanza significherebbe che, con i sacrifici dei cittadini, si è arrivati ad avere pochissimi nuovi contagiati ogni giorno (nessun nuovo contagiato è ovviamente impossibile, nel breve periodo).

Bene, a quel punto la pressione di tutti, famiglie e imprese, per ripartire diventerebbe fortissima. Ascolteremmo discorsi del tipo: noi abbiamo fatto il nostro dovere, adesso lasciateci tornare a vivere e a lavorare.

Supponiamo anche, giusto per stare sul concreto, che quel giorno sia fra 3 settimane, ovvero ai primi di maggio.

Ebbene, a quel punto potremmo riaprire?

La risposta è che questo non dipende da noi comuni cittadini ma dipende dai nostri governanti. Se loro avranno fatto la loro parte, i nostri sacrifici non saranno stati vani. Ma se invece non l’avranno fatta, sarà perfettamente inutile quel che abbiamo patito fin qui perché l’epidemia ripartirà. Prima a macchia di leopardo, con pochi e piccoli focolai un po’ in ogni parte d’Italia, poi alla grande, quando i nuovi focolai si espanderanno, più o meno come è già successo dalla fine di febbraio.

Ecco perché dobbiamo farci la domanda: ma loro sono pronti? Hanno fatto i compiti?

E’ una domanda che, meritoriamente, alcuni mezzi di informazione pongono, e ripropongono quotidianamente, a politici e funzionari quando li interrogano su cose come tamponi, mascherine, test sierologici, ma è anche una domanda cui seguono balbettamenti, frasi involute, vaghe intenzioni, riflessioni e valutazioni che sarebbero in corso, rivendicazioni di quel che si è fatto, ma nessuna chiara e univoca risposta, in un frastuono di voci ora confuse, ora discordanti.

Eppure è la domanda cruciale: siete pronti? Se oggi fossimo a contagi zero sareste in condizione di gestire la fase due?

Quel che si è capito fin qui è che loro non sono affatto pronti. Perché se lo fossero ci direbbero cose come quelle che seguono.

  1. Ci siamo approvvigionati, ci sono mascherine per tutti, abbiamo calcolato che ce ne vogliono 100 milioni al giorno (almeno 2 a testa), le farmacie sono rifornite.
  2. Di tamponi ne facciamo ancora pochi, ma entro la settimana prossima arriveranno tamponi e reagenti, e saremo in grado di farne 500 mila alla settimana come la Germania.
  3. Abbiamo deciso di rinunciare al monopolio pubblico dei test, da oggi chiunque lo desideri può sottoporsi a tamponi e test sierologici in una struttura privata, o mediante prelievi a domicilio; episodi come quello di Monfalcone, in cui i Nas hanno sequestrato i tamponi a un’impresa che stava facendo i test ai suoi lavoratori, non si ripeteranno più.
  4. E’ pronta una app per il tracciamento dei contatti, ed è già operativa una task force di 5000 persone che ricostruirà i contatti di ogni caso risultato positivo.
  5. Ci sono 10 mila posti, in alberghi e strutture para-ospedaliere, pronti ad accogliere chi non può passare la quarantena a casa perché rischia di infettare i familiari.
  6. L’Istat sta svolgendo un’indagine a campione in tutto il territorio nazionale, entro una settimana avremo i dati fondamentali per governare l’epidemia, a partire da quelli sul numero di asintomatici e pauci-sintomatici.
  7. Abbiamo deciso di de-secretare i micro-dati (anagrafici e clinici) dell’Istituto Superiore di Sanità sui positivi, per permettere agli studiosi di dare il loro contributo alla comprensione dell’epidemia.

Sfortunatamente, di rassicurazioni di questo tipo non v’è la minima traccia.

Ecco perché, da oggi in poi, noi ve lo chiederemo sempre. Abbiamo preparato 7 domande, una per ciascuno dei 7 punti precedenti, e le ripeteremo periodicamente, per fare il punto, e sapere se avete fatto progressi, e a che punto siete. Potete non risponderci, ma la vostra non-risposta sarà più eloquente di qualsiasi risposta.

Noi cittadini, la nostra parte la stiamo facendo. Ora tocca a voi, che vi siete presi i pieni poteri per gestire l’epidemia, dimostrarci che state facendo la vostra.

***

 

Bozza di questionario

1. Quante mascherine al giorno, al momento, sono in grado di fornire le farmacie e le altre strutture sanitarie?
2. Quanti tamponi al giorno, al momento, è in grado di effettuare la Sanità Pubblica?
3. Esiste una data a partire dalla quale potremo effettuare liberamente tamponi e test sierologici certificati, con la semplice prescrizione di un medico?
4. Avete una app o un software per il tracciamento dei contatti, e quante persone (oltre ai 74 esperti), finora, sono state reclutate a questo scopo?
5. Quanti posti sono attualmente disponibili per la quarantena di chi non può farla a casa?
6. In quale data partirà l’indagine campionaria sulla diffusione del Covid-19 e in quale data saranno disponibili i risultati?
7. Avete intenzione di de-secretare i micro-dati sui casi positivi, i decessi, gli ospedalizzati, in particolare quelli in terapia intensiva? In quale data la comunità scientifica potrà accedere ai dati?

Pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2020




Il Governo non è pronto per la “fase 2”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, siamo tutti segregati in casa da 50 giorni e il governo ha prolungato la chiusura del paese fino al 3 maggio. Il danno economico sarà devastante. Ma almeno il lock down sta funzionando a contenere l’epidemia a suo avviso?
Sì e no. Sì, perché, dopo il duplice lockdown del 5 e del 9 marzo (chiusura scuole + chiusura totale), il numero giornaliero di nuovi contagiati ha quasi immediatamente smesso di crescere, almeno secondo la ricostruzione della Fondazione Hume, basata sulla dinamica recente delle morti e delle ospedalizzazioni).
Ma attenzione: meno nuovi contagi quotidiani non significa che si è fermato il contagio, ma solo che il numero di nuovi infetti cresce a un ritmo via via più lento. Giusto per darle un’idea: se fino all’annuncio della chiusura delle scuole avevamo 100 mila nuovi contagiati al giorno, dopo 10 giorni di arresti domiciliari (ultima settimana di marzo) si può stimare che i nuovi contagiati fossero scesi a “solo” 60 mila al giorno. Oggi dovrebbero essere ancora di meno, ma con i pochi dati che ci forniscono non si può stimare quanti siano.

Insomma il governo ci sta tenendo a casa perché sostanzialmente è l’unica cosa che sa fare per fermare il contagio?
Anche qui, mi permetta di rispondere senza nascondere le due facce della medaglia, quella pro-governo e quella anti. Il governo fa bene a mantenere il lockdown perché un mese non può bastare, e finché non si arriva vicini a contagi-zero è estremamente imprudente riaprire.
Al tempo stesso, però, non si può non rilevare che la curva di discesa è estremamente lenta, e questo è precisa responsabilità del governo, che non solo si è preso l’enorme responsabilità di ritardare di 2 settimane il lockdown totale (è dal 25 febbraio che c’erano gli elementi per capire che bisognava fermare tutto), ma non ha ancora fatto T-M-T, ossia le tre cose che avrebbero potuto abbreviare il percorso di uscita.

T-M-T ?
Sì, T come tamponi di massa, M come mascherine per tutti, T come tracciamento dei casi positivi e dei loro contatti. I paesi che hanno riportato vittorie significative nella lotta al virus (Cina, Corea del Sud, Singapore), hanno avuto successo perché hanno fatto queste cose. E in Europa tutto lascia pensare che il tributo di morti di ogni paese dipenderà più da T-M-T che dalla durata del fermo delle attività produttive. Da questo punto di vista, come ha notato il prof. Massimo Galli, la Germania è in vantaggio su molti altri paesi europei, e potrebbe – alla fine – uscirne meno peggio proprio perché non punta tutte le sue carte sul lockdown.

Lei stima un numero di contagi e morti molto più alto di quello ufficiale. In che modo desume questi numeri? Le autorità stanno sottostimando la diffusione del virus?
L’evidenza che suggerisce che i numeri non sono quelli ufficiali è frammentaria, ma molto convincente perché tutti gli indizi convergono nel farci ritenere che il numero di morti potrebbe essere il triplo dei morti rilevati dalla Protezione Civile, e che la mortalità al Sud potrebbe essere anche 10 volte quella ufficiale (per i dettagli si può consultare il sito della Fondazione Hume: www.fondazionehume.it)
Non credo che le autorità sottostimino la diffusione, semplicemente non vogliono che anche noi sappiamo quel che loro sanno perfettamente.

Il premier Conte a fine gennaio diceva che il governo era “prontissimo, abbiamo adottato tutti protocolli possibili e immaginabili”, possibile che il governo non avesse idea del pericolo che correva l’Italia?
Sì, è possibile. Perché i politici non si circondano di veri scienziati (che per me significa esperti che sono anche menti libere) ma scelgono gli studiosi più pronti a confermare le credenze e le scelte dei politici stessi. L’emergenza fu dichiarata non perché si era capito che saremmo arrivati al lockdown, ma semplicemente perché era un’occasione formidabile per assumere i “pieni poteri” (non metaforicamente, come l’ingenuo Salvini, ma sul serio).

Intervista rilasciata a Il Giornale del 12 aprile 2020




E se il Covid-19 fosse già dilagato anche al Sud?

Pubblichiamo qui i risultati di una analisi statistica sulla mortalità effettiva da Covid-19.
Seguono parti dell’articolo con cui i risultati sono stati presentati sul “Messaggero” dell’8 aprile 2020.

L’analisi statistica

La base di dati è costituita da 1084 comuni selezionati dall’Istat sia in funzione della disponibilità di informazioni aggiornate, sia in base alla circostanza che il tasso di mortalità delle prime 3 settimane del mese di marzo del 2020 risultasse significativamente diverso da quello del corrispondente periodo del 2019.
Per i medesimi comuni l’Istat fornisce:

a) il numero di morti dall’1 al 21 marzo 2019 (x0);
b) il numero di morti dall’1 al 21 marzo del 2020 (x1);
c) il numero di morti nell’intero mese di marzo del 2019 (x2).

Oltre a questa fonte sono stati usati i dati ufficiali della Protezione Civile sul numero di decessi da Covid-19 nell’intero mese di marzo del 2020 (y).
I comuni sono stati ricondotti alle Regioni e Province autonome di cui fanno parte, e per ciascuna di queste 21 unità (19 Regioni e 2 Province) sono stati riportati le variabili x0, x1, x2, y, più la numerosità della popolazione (dati 2019).
Dai calcoli successivi sono state eliminate 4 unità territoriali (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Bolzano) che presentavano problemi di insufficiente numerosità dei casi e/o di disponibilità dei dati. Le 17 unità territoriali superstiti coprono comunque il 97.5% della popolazione totale.
Il procedimento seguito per la stima può essere descritto in 4 passi:
1) calcolo, per ogni unità territoriale, del tasso di crescita della mortalità: r = (x1-x0)/x0
2) stima della mortalità aggiuntiva (z): z = x2 r
3) confronto con la mortalità ufficiale da Covid: y-z
4) calcolo dei tassi di mortalità ufficiali (dati Protezione Civile) e stimati (dati Istat) in rapporto alla popolazione (casi per 100 mila abitanti).
Il calcolo dei tassi di mortalità ufficiali (Protezione Civile) ed effettivi (stime con i dati Istat) è stato effettuato sia per la popolazione generale (17 unità territoriali), sia per le tre zone seguenti, individuate in base alla mortalità quale risulta dai dati della Protezione Civile:

– zona rossa: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche;
– zona verde: Sud incluso il Lazio;
– zona gialla: restanti regioni e province (Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Umbria, provincia di Trento).

Per la popolazione generale e per ogni zona, oltre al tasso di mortalità per 100 mila abitanti, si è calcolato anche un moltiplicatore, che indica di quanto occorre moltiplicare il tasso di mortalità ufficiale per aver una stima del tasso di mortalità effettivo.

Ed ecco i le stime dei tassi di mortalità per 100 mila abitanti (mese di marzo):

 Fonti: Istat, Protezione Civile

E’ verosimile che, a causa della non rappresentatività del campione Istat, i moltiplicatori effettivi siano un po’ più bassi di quelli stimati. E’ invece alquanto improbabile che, con la totalità dei comuni o con un campione di comuni rappresentativo, i moltiplicatori delle varie zone del paese risulterebbero simili fra loro.

Discussione

E una congettura. Solo una congettura. E speriamo pure che sia sbagliata. Però è troppi giorni che giro e rigiro i dati Istat sulla mortalità nei comuni italiani, e non riesco a scacciare il dubbio. Quindi eccomi qua, provo a raccontare quel che viene fuori.
Una decina di giorni fa l’Istat ha reso pubblici dei dati sull’andamento della mortalità in due periodi comparabili, ossia le prime 3 settimane di marzo 2019 e le prime 3 settimane di marzo 2020. I dati non riguardano tutti i comuni, ma solo una parte (di qui il tono dubitativo del mio discorso) di quelli in cui vi sono stati scostamenti apprezzabili fra la mortalità di quest’anno e quella dell’anno scorso. Ebbene, in molti comuni è successo quel che per la prima volta venne denunciato dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori qualche settimana fa, ovvero: i morti in eccesso rispetto all’anno scorso, sono molto più numerosi dei morti ufficiali per Covid-19 comunicati dalla Protezione Civile. E poiché non sembrano esserci spiegazioni plausibili per questo eccesso di mortalità, che non si è verificato solo a Bergamo ma in numerosi altri comuni, pare inevitabile concludere che i morti effettivi per Covid-19 siano molti di più di quelli ufficiali.
Su questa conclusione vi è sostanziale accordo fra quanti (studiosi e non) hanno nei giorni scorsi provato a maneggiare i dati della mortalità. Il dubbio è solo se i morti effettivi siano 2, 3 o 4 volte di più dei morti accertati. Sembra che il moltiplicatore sia circa 3, ma il fatto che il campione Istat non includa tutti i comuni, bensì solo comuni con scostamenti anomali della mortalità non può che indurre alla prudenza.
Fin qui tutto (relativamente) chiaro. Se però andiamo un po’ più a fondo, e ci prendiamo la briga di distinguere fra le varie zone del Paese, ecco che ci si presenta un dato scioccante: contrariamente a quanto siamo portati a pensare basandoci sulle morti ufficiali per Covid-19, il Mezzogiorno non risulta affatto un’isola felice, relativamente preservata dal virus, ma ha numeri paragonabili a quelli del resto dell’Italia.
Che cos vuol dire “paragonabili”?
Vediamo. Secondo la Protezione Civile il numero di morti da Covid-19 per 100 mila abitanti è 46.5 nelle regioni della zona rossa (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche), 2.6 nelle regioni del Sud (incluso il Lazio), 15.0 nel resto d’Italia. Dunque al Sud la mortalità da Covid-19 è quasi 20 volte più bassa che nella zona rossa, un ovvio motivo di conforto per chi vive nelle regioni relativamente preservate. Ma se, anziché usare i dati dei morti ufficiali, usiamo gli eccessi di mortalità desumibili dai dati Istat, i numeri cambiano completamente: le morti attribuibili al Covid-19 sono 104 ogni 100 mila abitanti nella zona rossa, e sono ben 61 su 100 mila abitanti nel Sud. Dunque sono un po’ di più della metà, non un ventesimo.
Possiamo anche metterla così. Se prendiamo per buone le stime desumibili dai dati Istat, dobbiamo concludere che nelle regioni della zona rossa si sono attribuiti al Covid 45 casi contro 100 effettivi, mentre al Sud se ne sono riconosciuti meno di 5 su 100. Detto ancora più crudamente: se vuoi sapere quanti sono i decessi effettivi per Coronavirus, ti basta moltiplicare per 2 se sei in una regione della zona rossa, ma devi moltiplicare almeno per 20 se sei in una regione del Mezzogiorno. In breve e in conclusione: per avere il numero effettivo dei morti non ci occorre solo un moltiplicatore (più o meno prossimo a 3), ma ne dobbiamo usare più di uno, molto diversi da un territorio all’altro.
Senza dilungarmi in precisazioni e distinguo (per cui rimando alle informazioni contenute nella sezione inziale), mi limito a due considerazioni, una tecnica e una di sostanza.
La considerazione tecnica è che è molto difficile ipotizzare che l’enorme sotto-diagnosi dei casi di Covid-19 al Sud sia interamente, o in gran parte, dovuta alla non rappresentatività del campione di comuni fornito dall’ Istat. E’ verosimile che con un campione di comuni rappresentativo l’entità della sotto-diagnosi possa attenuarsi, ma è quanto mai implausibile supporre che le differenze territoriali emerse fin qui miracolosamente scompaiano o diventino trascurabili.
La considerazione di sostanza è che, ove si confermasse che la sotto-diagnosi al Sud (ma anche in alcune zone del Nord) è enorme, tipo 9 casi dimenticati su 10, occorrerebbe capire come ciò sia stato possibile. L’unico indizio che sono riuscito a trovare è che l’entità della sotto-diagnosi è fortemente correlata con il sottodimensionamento dei posti letto, come se la percentuale di casi Covid-19 individuati e correttamente classificati fosse in qualche modo connessa alla forza e all’ampiezza della rete ospedaliera.
Resta un’ultima osservazione, forse la più rilevante: se il Covid-19 è diffuso in modo comparabile in tutte le aree del Paese, non sarà facile pianificare una ripartenza per grandi blocchi, con le zone “verdi” del Sud che riaprono molto prima delle zone “rosse” del centro-nord. Anche perché, se – a questo punto dell’epidemia – i punti di partenza sono molto più ravvicinati di quanto finora si è supposto, non è affatto detto che la meta dei contagi-zero sia raggiunta prima da una metà del Paese e dopo dall’altra. La gara per arrivare primi in zona contagi-zero è aperta, e ogni Regione, ogni Provincia, ogni Comune dovrà giocare fino in fondo le proprie carte.




Ci tengono chiusi in casa perché non sono capaci di gestire l’epidemia. Intervista a Luca Ricolfi

Come sta messo il paziente Italia?
Non benissimo, a giudicare dal valore del nostro indice di temperatura.

Come funziona l’indice messo a punto dalla Fondazione Hume che misura la temperatura?
L’indice si basa sugli unici dati relativamente affidabili forniti quotidianamente dalla Protezione Civile, ovvero morti, ricoveri ordinari e ricoveri in terapia intensiva. Queste informazioni vengono rapportate a quelle dei giorni precedenti, e sintetizzate in un indice molto semplice e intuitivo, che si può leggere come una temperatura: quando il termometro segna 42 gradi significa che l’epidemia sta galoppando, quando ne segna 37 vuol dire che si è virtualmente spenta.

E stasera qual è la temperatura?
È 37.8, poco meno di ieri. Ma il cammino da 38 a 37 è più lungo e difficile di quello da 39 a 38.

Quali sono le realtà più critiche?
La Valle d’Aosta e la Calabria. Lo abbiamo scoperto ieri, quando abbiamo applicato il nostro termometro a tutte le regioni. Nel cammino di avvicinamento a 37 gradi la Valle d’Aosta, con oltre 40 gradi, è la regione più lenta, la Calabria è di un soffio sotto i 40 gradi.

E la più veloce?
Se la Valle d’Aosta è la lumaca, la lepre è la Sardegna, che è già scesa sotto i 38 gradi, 37.6 per l’esattezza.

Alcuni studi dimostrano che il dato dei morti non è certo, quello reale, confrontando gli andamenti comunicati dalla Protezione civile con le medie degli ultimi anni, sarebbe di almeno tre volte tanto. Le risulta?
Mi risulta eccome. La mia stima più recente è che, almeno a marzo, i morti effettivi possano essere anche 3 volte quelli ufficiali. Il 31 marzo i morti ufficiali erano 12.428, il numero effettivo potrebbe essere di 40-45 mila: i morti silenti, dimenticati nelle loro abitazioni e nelle case di riposo, potrebbero essere 30 mila nel solo mese di marzo. E la differenza, credo che ne avremo le prove nei prossimi giorni, potrebbe essere dovuta in misura non trascurabile alle regioni del Sud, dove la diffusione del virus è molto più sottostimata che al Nord.

Ma se così fosse, il numero dei contagiati reali rispetto a quello degli accertati a quanto sale?
Questo è quello che tutti si stanno domandando, le stime che girano (talora relative al 28 marzo, talora aggiornate ai primi di aprile) spaziano da circa 2 a circa 16 milioni. Il valore più basso (1 milione e 900 mila) è il limite inferiore stimato dall’Imperial College, ed è a mio parere abbastanza irrealistico: sono parecchi di più. Il valore più alto, anch’esso di fonte Imperial College (15 milioni e 600 mila) è anch’esso poco credibile, a dispetto che sia stato recentemente accreditato dal nostro rappresentante presso l’Organizzazione Mondiale della sanità, che ha congetturato che gli infetti potessero essere il 20% della popolazione, ossia 12 milioni di persone.
In mezzo si situano ormai almeno 3-4 gruppi di studiosi, che convergono su una stima di 5-6 milioni di contagiati.

E lei ha una sua stima?
No, non ho una stima. Ne ho molte, perché – allo stato dell’informazione disponibile qualsiasi stima dipende da congetture su parametri che non abbiamo.

Quali parametri?
Essenzialmente quattro: il numero effettivo di morti rispetto al numero ufficiale, il tempo medio che intercorre fra il momento in cui si viene contagiati e la morte, il tasso di letalità in Italia (non è detto sia il medesimo in tutti i paesi), il peso degli asintomatici rispetto ai sintomatici e pauci-sintomatici. A seconda dei valori che si attribuiscono a questi parametri, la stima del numero di contagiati può variare notevolmente, anche se – a mio parere – non nel range indicato dall’Imperial College, che è troppo ampio ed equivale a non avere nessuna idea dell’ordine di grandezza del fenomeno: se dici che qualcosa può essere 1 o 10, come di fatto fa lo studio inglese (il rapporto fra massimo e minimo è 8.125), è come dire che non conosci nemmeno l’ordine di grandezza del fenomeno.
La “regola Crisanti” (moltiplico per 10 il numero dei contagiati ufficiali) porterebbe, ad esempio, a una stima di 1 milione e 325 mila contagiati (al 7 aprile). Se si usassero le morti ufficiali, e si ipotizzasse un tasso di letalità dell’1.5%, si potrebbe congetturare che i contagiati siano circa 1 milione. Ma se dovessimo accettare le congetture che molti studiosi stanno formulando in questi giorni, le cifre cambierebbero ancora, e di molto.

Che cosa si sta congetturando in questi giorni?
Il caso di Bergamo, in cui la mortalità fra marzo 2019 e marzo 2010 è esplosa ben al di là di quel che risulta dai morti ufficiali per Covid-19, ha indotto diversi studiosi a considerare come stima della mortalità da Covid non i decessi ufficiali della Protezione Civile bensì l’eccesso di mortalità osservato a marzo in una parte dei comuni italiani (l’Istat non è stata in grado di fornire i dati di tutti i comuni, ma solo di un campione distorto). Ebbene, i dati sulla mortalità pubblicati finora suggeriscono che il numero di morti effettivi possa essere il triplo del numero ufficiale. In tal caso il numero di contagiati non sarebbe di poco più di 1 milione, ma di poco meno di 4.
Ma anche assumendo per buona questa linea di ragionamento, resterebbe l’incertezza sul tasso di letalità, che per la maggior parte degli studiosi è compreso fra l’1 e il 2%, ma secondo i più pessimisti potrebbe anche essere maggiore del 3%.

Ma tenuto conto di tutto ciò, se la sente di azzardare una stima?
Sì, a me la stima più ragionevole pare quella che assume una mortalità tripla di quella ufficiale, e una letalità dell’ordine dell’1.5, forse del 2%, il che porta il numero di contagiati vicino ai 4 milioni (1 cittadino su 15), a metà strada fra la stima inferiore dell’Imperial College (2 milioni) e le stime pessimistiche dei colleghi che in questi giorni si sono spinti a parlare di 6 milioni di contagiati.

Come mai in Germania ci sono meno morti che da noi?
Non lo so. In un primo tempo, sono state avanzate due spiegazioni: il fatto che, essendo l’epidemia partita dopo, i malati tedeschi “non hanno ancora avuto il tempo di morire”, e l’ipotesi che il sistema di attribuzione delle cause di morte sia radicalmente diverso dal nostro. Ora però il tempo è passato, ed emerge che anche altri paesi hanno tassi di letalità apparente molto più bassi dei nostri. Quindi ribadisco la mia risposta: non lo so.

Abbiamo superato il picco?
Il concetto di “picco” è fuorviante. C’è un picco dei contagiati, un picco delle ospedalizzazioni, un picco della mortalità. E sono temporalmente sfasati fra loro. Il vero problema, però, non è se abbiamo superato il picco (io ritengo che abbiamo superato sia il picco delle ospedalizzazioni, sia quello dei morti), ma quanto lentamente scenderemo la collina: non è la stessa cosa metterci 5 settimane o 5 mesi, vuol dire riaprire a fine aprile o a settembre, dopo l’estate.
Il confronto con la Corea è scoraggiante: lì dopo il lockdown l’epidemia è scesa a precipizio, noi stiamo comodamente scendendo la collina.

Intanto c’è il rischio di una recessione profonda e duratura dell’economia?
No, non c’è un rischio, c’è una certezza. Purtroppo, per ora, il governo non sembra aver compreso le vere esigenze dell’imprese: si parla di prestiti a tasso zero garantiti dallo Stato, ma i problemi sono altri: pagare i fornitori e coprire i costi fissi quando il fatturato viaggia verso zero. Se vuole aiutare le imprese, lo Stato dovrebbe pagare istantaneamente tutti i suoi debiti verso il settore privato, e fornire aiuti a fondo perduto agli operatori che hanno subito un crollo del fatturato.
Ma le sembra che un imprenditore cui vengono a mancare alcune mensilità di fatturato può pensare di risolvere il problema aumentando l’indebitamento verso il sistema bancario? Che se ne fa di un prestito a tasso zero se ha un buco di fatturato del 20 o 30% rispetto all’anno precedente?

Il vaccino potrebbe arrivare forse il prossimo anno. Da più parti si chiede di mettere a punto una fase due di uscita graduale dalle misure di contenimento (lettera dei 150), con uso massiccio delle mascherine, test diffusi per scovare gli immuni e tamponi per i contagiati sommersi, ospedali dedicati per il Covid. Sperimentazioni stanno partendo in tal senso. Su quali basi e in quale tempo secondo lei si può pensare di allentare la stretta senza ritrovarsi in una situazione di ritorno più grave di quella di partenza?
La mia sensazione è che, non essendo capace di “fare come in Corea”, il governo caricherà quasi interamente sui cittadini l’onere di sconfiggere il virus, mettendo un intero paese agli arresti domiciliari piuttosto a lungo. Il fatto che negli ultimi giorni si siano moltiplicati gli avvertimenti che la fase di lockdown potrebbe essere lunga, io lo interpreto così: cari cittadini, noi non riusciremo a fare granché, quindi armatevi di santa pazienza, perché isolarvi e segregarvi è l’unica cosa che siamo davvero capaci di fare.
Se non fosse così, avremmo già visto: tamponi ed esami sierologici di massa, mascherine per tutti; sistema di tracciamento dei positivi funzionante; dati dell’Istituto Superiore di Sanità non secretati; campione statistico nazionale, per conoscere la diffusione dell’epidemia e tutti i dati necessari a governare la fase di riapertura.
Invece siamo ancora qui, a dibattere ogni giorno di cose che dovrebbero esistere da un pezzo.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi del 7 aprile 2020