Le tre ragazze terribili e il tramonto del cordone sanitario

È un vero peccato che la dott.ssa Boccia abbia scelto proprio questi giorni per attirare su di sé, e sulla sua vicenda con il ministro Sangiuliano, la vigile attenzione del sistema dei media. Avesse scelto un periodo più insignificante, forse oggi non ci sfuggirebbe quel che proprio in questi giorni sta accadendo nel cuore delle nostre democrazie, e segnatamente nei due paesi leader dell’Unione europea, ossia in Francia e Germania.

Volendo riassumere, la metterei così: in questi giorni si sta celebrando, nei due paesi più importanti, il funerale del “cordone sanitario”, ossia dell’idea che verso i partiti estremisti, e in particolare verso l’estremismo di destra erede del fascismo e del
nazismo, le forze politiche “democratiche” dovessero alzare una barriera invalicabile, capace di tenere i barbari lontani dal potere.

È da anni che la barriera scricchiola, ma è proprio in questi giorni che nel muro democratico si sono aperte le due brecce fondamentali. La prima è in Francia, dove il triplo salto mortale di Macron – scioglimento del Parlamento, successo di Marine Le
Pen al primo turno, vittoria del “cordone sanitario” repubblicano ai ballottaggi del secondo turno – sta per dare vita a un governo conservatore, guidato dal gaullista Michel Barnier e tenuto in piedi dai voti del Rassemblement National di Marine Le Pen.

La seconda breccia, assai meno visibile della prima, si è aperta in Germania una settimana fa, quando in Turingia e in Sassonia (due länder della Germania dell’Est) i quattro partiti tradizionali, ossia popolari, socialdemocratici, verdi e liberali, si sono
trovati – anche messi tutti insieme – a raccogliere meno del 50% dei voti. Ora la maggior parte dei voti è in mano ai due partiti estremisti di sinistra (Linke) e di destra (AfD, ossia Alternative für Deutschland), da sempre tenuti fuori dei giochi dal cordone sanitario, nonché a un terzo partito nuovo di zecca (BSW, o Alleanza Sahra Wagenknecht), che aveva già avuto una buona affermazione due mesi fa alle Europee.

In breve: il cordone sanitario è saltato sia in Francia sia in Germania, e a farlo saltare sono state tre ragazze o ex ragazze terribili, le “estremiste” Marine Le Pen, Alice Weidel (presidente AfD), e Sahra Wagenknecht (fondatrice di BSW). Se vorranno restare al potere, alle forze tradizionali potrebbe non bastare unirsi fra loro, e potrebbe risultare necessario aprire alle forze fin qui tenute fuori della cittadella del potere.

Non stupisce che, se questi sono i risultati delle strategie di esclusione, a qualcuno sorga il dubbio: siamo sicuri che siano state strategie lungimiranti? siamo sicuri che non sia stato proprio il cordone sanitario ad alimentare l’estremismo, e a favorire la
replicazione del virus nazi-fascista? Sono domande legittime, anzi doverose. Ma se ne potrebbe formulare una ancora più radicale: siamo sicuri di aver bene interpretato la natura del virus da cui ci volevamo proteggere?

È possibile, in altre parole, che le forze democratiche abbiano mal compreso il significato profondo della “marea nera” di cui, da diversi decenni, si lamenta l’ascesa. Se andiamo a vedere qual è il carburante che sostiene l’avanzata dei partiti estremisti è difficile non accorgersi che, al centro di tutto, c’è la preoccupazione per l’immigrazione irregolare, e in subordine lo scetticismo per le politiche europee in materia di agricoltura, ecologia, e ultimamente pure riguardo alla guerra in Ucraina. Che bollare tutto questo come neo-nazismo, razzismo o estremismo di destra sia riduttivo, e alla fine pericolosamente fuorviante, lo testimonia non solo il radicamento dei partiti estremisti nei ceti popolari, ma il modo in cui i medesimi ceti popolari percepiscono sé stessi. In Germania, ad esempio, le serie storiche dei sondaggi mostrano che nell’ultimo ventennio alla costante ascesa della Afd, ormai prossima a diventare il primo partito tedesco, si accompagna una formidabile diminuzione – sia nel länder dell’ovest che in quelli dell’est – degli elettori che si considerano di estrema destra: erano circa il 10% una ventina di anni fa, sono meno del 3% oggi, e comunque dai sondaggi più recenti risultano più numerosi nelle regioni dell’Ovest (dove la AfD è debole), e meno numerosi in quelle dell’est (dove la AfD è forte).

Ma c’è anche un altro indizio, forse ancora più significativo, che smentisce l’equazione che equipara ostilità agli immigrati e razzismo neo-nazista: la clamorosa affermazione del partito BSW di Sahra Wagenknecht, che si colloca nettamente a sinistra ma non per questo rinuncia a porre con forza il problema dell’immigrazione irregolare, suscitando lo sconcerto degli osservatori più convenzionali, cui pare impossibile che un partito di sinistra possa essere ostile agli immigrati, o che un partito ostile agli immigrati possa non essere neo-nazista.

Il caso tedesco e il caso francese stanno lì a dimostrare che, invece, entrambe le cose sono perfettamente possibili. In Germania, la sinistra sta scoprendo a sue spese che se vuole rimanere al governo non può non fare i conti con la sinistra anti-immigrati di
Sahra Wagenknecht. In Francia, Macron sta prendendo atto che, se vuole dar vita a un nuovo esecutivo, non può continuare a considerare neo-fascisti gli elettori di Marine Le Pen. In entrambi i paesi, i partiti (autoproclamati) democratici si stanno
rendendo conto che – come ha denunciato Alice Weidel – ad essere “profondamente antidemocratico” è il cordone sanitario con cui, in tutti questi anni, hanno escluso forze politiche che rappresentano ormai un elettore su tre.

[articolo uscito sul Messaggero l’8 settembre 2024]




Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra?

Partiti né di destra né di sinistra non sono rari nelle democrazie. Il tipico esempio sono i partiti liberaldemocratici, che hanno spesso fatto la loro apparizione nei maggiori paesi europei, come il Regno Unito, la Germania, la Francia. Anche l’Italia ha una
lunga tradizione di partiti moderati di centro, sia nella prima Repubblica (pri, psdi, pli), sia nella seconda: recentemente, il Terzo polo di Renzi e Calenda, in passato le infinite varianti del mastellismo-casinismo-follinismo: ccd, cdu, udc, eccetera.

Ma un partito sia di destra sia di sinistra? Può esistere, o è una contraddizione logica, come l’ircocervo che Benedetto Croce evocava per spiegare l’impossibilità del liberalsocialismo?

Dall’8 gennaio di quest’anno dobbiamo invece ritenere che possa esistere. E da ieri, dopo le elezioni amministrative nei länder tedeschi della Germania e della Sassonia, dobbiamo ritenere non solo che possa esistere, ma che possa sfondare. La prova
vivente è la pioggia di voti che, alla sua prima uscita in un’elezione germanica, ha inondato il partito fondato da Sahra Wagenknecht per l’appunto l’8 gennaio. Il partito si chiama Bündnis Sahra Wagenknecht (Lega Sara Wagenknecht), ed è il risultato di una scissione del partito della Linke, la formazione di estrema sinistra radicata nelle regioni della ex Germania dell’Est. Moglie di Oscar Lafontaine, ex leader della Linke, Sahra Wagenknecht è una politica tedesca con una chiara matrice di sinistra, ma si discosta dalla sinistra ufficiale classica, non importa qui se moderata o estrema, su almeno 4 punti fondamentali.

Il primo è il sostegno all’Ucraina, più in generale l’adesione alla Nato, ritenute controproducenti. Il secondo sono le politiche green, troppo costose per i ceti popolari. Il terzo sono gli eccessi del politicamente corretto e dell’agenda LGBT+. Il quarto, di gran lunga il più importante, sono le politiche migratorie, considerate troppo permissive.

In generale, le idee di Wagenknecht si richiamano alla dottrina marxista nel senso che privilegiano i conflitti a livello economico-strutturale, e snobbano quelli di tipo culturale e sovrastrutturale. Di qui la difesa dei lavoratori tedeschi nei confronti della
concorrenza dei migranti, visti come un temibile “esercito industriale di riserva”, e la freddezza rispetto alle rivendicazioni LGBT+.

Il successo di Wagenknecht, che in Turingia ha ottenuto il 16% e in Sassonia il 12%, è cruciale per la politica tedesca perché si è accompagnato a un successo ancora maggiore di Alternative für Deutschland, il partito tedesco più anti-immigrati e più
nostalgico del nazismo, che ormai raccoglie circa 1/3 dei voti in entrambe le regioni. Insieme, i due partiti anti-immigrati sfiorano il 50% dei consensi, a fronte del disastroso risultato dei partiti di governo (socialdemocratici, verdi, liberali), e al discreto ma non sufficiente risultato dei Popolari (24% in Turingia, 32% in Sassonia).
Per questi ultimi si prospetta un dilemma: fare fronte comune con socialdemocratici e Linke contro i due partiti anti-immigrati (BSW e AfD), con il rischio che al prossimo giro possano ottenere la maggioranza dei voti e formare un governo il cui unico vero
obiettivo sarebbe la lotta all’immigrazione illegale; oppure tentare il dialogo con il partito “sia di destra sia di sinistra” di Sahra Wagenknecht, recependo le inquietudini di tanti tedeschi nei confronti degli immigrati.

Resta il fatto che, nei due länder in cui si è votato, i quasi-nazisti di AfD hanno il 30% dei voti, e se Sahra Wagenknecht non avesse canalizzato una parte della protesta contro i migranti, probabilmente veleggerebbero sul 40%.

Qual è la lezione?

Sono tante, e dipendono dai pregiudizi di ciascuno di noi. L’unica lezione difficilmente contestabile è che il partito-ircocervo – sia di destra sia di sinistra – è diventato possibile. Staremo a vedere se solo in Germania.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 settembre 2024]




Occupazione, redditi e produttività – Sostenere il ceto medio?

Che la parola d’ordine della manovra di quest’anno sia “meno tasse al ceto medio” è comprensibile. Sorprendenti, semmai, erano state le manovre precedenti, decisamente sbilanciate nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Dopo un biennio di
politiche di sinistra, è normale che un governo di destra faccia anche qualcosa di destra. Nella prossima manovra, oltre alla conferma delle misure pro ceti bassi, avremo qualche modesta misura a favore dei ceti medi, e forse pure dei ceti alti.

Niente di eclatante, niente di strano. Quel che colpisce, piuttosto, è il ripetersi – da decenni – del medesimo schema: ricerca disperata di “risorse” da ogni rivolo del bilancio pubblico, constatazione che le risorse non bastano a fare quel che si vuol fare, parziale ricorso al deficit per finanziare le misure-bandiera della manovra. Il tutto aggravato, per il futuro, dalla necessità di rispettare impegnativi “piani di rientro” del debito pubblico.

Ma può un governo, un qualsiasi governo, andare avanti così?

Certo che può, e infatti tutti i governi da trent’anni vanno avanti così. La vera domanda è se noi siamo consapevoli che, per questa strada, nessuno dei problemi che tutte le forze politiche denunciano – sanità, scuola, povertà – potrà mai essere risolto, chiunque governi.

L’impressione è che non lo siamo, consapevoli. Se lo fossimo, la smetteremmo di discutere di “politiche palliative”, e ci concentreremmo sulle politiche radicali o “agonistiche” (così le chiama la politologia Chantal Mouffe), ossia su politiche che
provano ad aggredire i problemi alla radice, anche a costo di pagare qualche prezzo in termini di consenso.

Ma qual è la radice dei nostri problemi?

Dipende dalla prospettiva che adottiamo. In astratto la radice è il debito: se il debito fosse al 60% del Pil, anziché al 140%, ogni anno risparmieremmo 40-50 miliardi di interessi sul debito, e con quel “tesorone” potremmo affrontare molti dei nostri
problemi. Peccato che, per arrivare fin lì, ci vorrebbero decenni di austerità, alla fine dei quali potremmo ritrovarci più poveri di oggi.

Se cambiamo angolatura, e diamo il debito come incomprimibile o poco comprimibile, la vera radice dei nostri problemi diventa un’altra. A debito invariato, il nostro guaio è semplicemente il Pil, che è troppo piccolo sia rispetto al debito, sia rispetto al numero di abitanti. Una politica “agonistica”, non meramente palliativa, dovrebbe innanzitutto affrontare il problema del livello troppo basso del Pil pro capite.

Ma perché il nostro Pil pro capite è basso?

Qui è essenziale distinguere due ragioni. La prima è che, da molti decenni, il nostro tasso di occupazione è fra i più bassi dei paesi avanzati. Meno persone che lavorano significa meno redditi che entrano nei bilanci famigliari: la prima causa delle difficoltà economiche di tante famiglie non è il basso livello dei salari orari, ma il fatto che a lavorare sia solo il capofamiglia.

La seconda ragione del nostro basso Pil pro capite è la dinamica della produttività, che ristagna da circa trent’anni. Quando si lamenta che, negli ultimi decenni, i salari reali sono aumentati un po’ dappertutto in Europa, ma in Italia sono rimasti al palo, si
dimentica che la precondizione per l’aumento dei salari orari è l’aumento della produttività del lavoro, che a sua volta dipende in modo cruciale dal progresso organizzativo e dagli investimenti in tecnologie materiali e immateriali.

Rispetto a questi due fattori di crescita del Pil – occupazione e produttività – la situazione del nostro paese è marcatamente asimmetrica. Sul versante occupazionale, le cose vanno benissimo, perché l’occupazione cresce al ritmo annuo di 500 mila
posti, il che significa quasi il 2% all’anno (un risultato particolarmente soddisfacente, perché accompagnato da una riduzione del tasso di occupazione precaria). Sul versante della produttività, comunque la si misuri (produttività totale dei fattori, produttività del lavoro, produttività del capitale), le cose vanno decisamente meno bene: il ritmo di crescita resta ampiamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi, con ovvi effetti negativi sulla dinamica salariale.

Se la politica volesse andare alla radice del problema Italia, continuerebbe con le politiche para-keynesiane di sostegno dell’occupazione fin qui adottate, ma le carte residue le giocherebbe sul versante della produttività, con incentivi alle imprese che
innovano e investono in tecnologia. Perché il rischio, se non si agisce anche su questo versante, è che l’aumento dell’occupazione anziché trascinare il sistema nasconda la stagnazione della produttività, che è il nostro vero, troppo spesso dimenticato, tallone
d’Achille.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]




Forza Italia e il destino del centro

Che succede in Forza Italia?

In questi ultimi giorni si sta parlando di una imminente proposta di legge di Forza Italia che agevolerebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che hanno completato uno o più cicli di studio. L’idea è già stata bocciata da Lega e
Fratelli d’Italia (non è nel programma di governo), mentre una significativa apertura sul cosiddetto Ius scholae – ovvero la cittadinanza in base agli anni di scuola in Italia – è arrivata da Giuseppe Conte con un articolo sul Corriere della Sera.

La cosa interessante è che Conte non solo ha appoggiato l’idea, attribuendone la paternità ai Cinque Stelle, ma ha anche attaccato il massimalismo di Pd e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), che punterebbero sullo Ius soli (basta nascere in Italia per ottenere la cittadinanza), ossia su una proposta non solo impraticabile (mancano i numeri in parlamento) ma anche politicamente sbagliata.

Una lettura congiunta di questi due episodi suggerisce un’ovvia osservazione: sia a destra (con Forza Italia) sia a sinistra (con i Cinquestelle) è in atto un tentativo di differenziarsi dalle forze più radicali, spostandosi verso il centro.

Questo doppio movimento, tuttavia, è molto più credibile a destra che a sinistra. La mossa di Forza Italia, infatti, non è estemporanea come quella dei Cinque Stelle, ma segue una serie di recenti mosse dello stesso tipo. Pochi giorni fa Tajani, leader di Forza Italia, ha fatto significative e assai esplicite aperture anche su un’altra proposta non gradita agli alleati di governo, quella di varare un provvedimento svuotacarceri, misura peraltro perfettamente in linea con la tradizione garantista del partito berlusconiano. Ancora più significativamente, un paio di mesi fa Marina Berlusconi, presentando i progetti della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, ha fatto una dichiarazione molto impegnativa: “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi
sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere”.

Sono tre mosse significative, che convergono su un unico obiettivo: salvare Forza Italia rafforzandone il profilo moderato garantista, liberale, e pure laico-libertario. Alla luce delle ultime mosse, non vi sarebbe nulla di strano se domani Forza Italia dovesse farsi promotrice di una legge sul fine vita, o desse disco verde al matrimonio egualitario.

È realistico un simile progetto di riposizionamento politico?

Secondo me sì, ma per spiegare perché occorre tornare ai Cinque Stelle e al loro speculare progetto di distacco da Pd e AVS. La differenza fra le due situazioni è che a sinistra qualsiasi forza moderata suscita una crisi di rigetto di natura ideologica, aggravata dal ricordo della stagione renziana. Mentre a destra un analogo rigetto non avviene perché i partiti di centro-destra, ormai da decenni, sono abituati a ricercare un equilibrio fra loro in modo pragmatico, lungo linee negoziali, senza scontri sui principi ultimi.

Ecco perché a destra c’è posto per una robusta gamba moderata, mentre a sinistra non c’è.

E la Margherita? potrebbe obiettare qualcuno, pensando a quando il centro sinistra la gamba moderata ce l’aveva eccome.
Ma è precisamente questo il punto. Per essere pienamente accettati nello schieramento di centro-sinistra, i moderati dovettero creare un loro partito, dotato di una massa elettorale critica, vicina a quella della componente post-comunista, e puntare su un “papa straniero” (Romano Prodi). È così che riconquistarono la maggioranza nel 2006, dopo il quinquennio berlusconiano.
Oggi siamo lontanissimi da quelle condizioni. La Margherita non esiste più, inabissata nel Pd; il progetto di dare al centro-sinistra una gamba moderata è fallito con la dissoluzione del Terzo Polo; la massa elettorale di Renzi è ridicola; il partito di Conte ha ben poco di moderato; quello di Calenda lotta per non scomparire; Elly Schlein è tutto tranne che un papa straniero.

Allo stato attuale il duo Tajani-Marina Berlusconi è di gran lunga l’offerta più credibile per gli elettori che guardano al centro.

[articolo per la Ragione, inviato il 19 agosto 2024]




Politiche aziendali e elezioni americane – La grande ritirata

Se siete italiani e sentite la parola ‘dei’ pensate agli dei dell’Olimpo: Zeus, Era, Afrodite, Ares, Poseidone… Ma se siete inglesi o americani, la prima cosa che vi viene in mente è la triade Diversity, Equity, Inclusion (DEI), che da anni impazza nelle aziende, nelle grandi burocrazie, nelle università.

Di che cosa si tratta?

Dipende. In alcuni casi è un generico impegno dell’organizzazione a tutelare le minoranze, promuovere l’inclusione dei gruppi sociali marginali, garantire un ambiente aperto e amichevole a omosessuali, transessuali e ogni altra comunità più o meno emarginata, svantaggiata, bisognosa di protezione. In altri casi significa anche l’assunzione di uno staff di specialisti per garantire il rispetto dei principi precedenti, anche con stage di sensibilizzazione-rieducazione dei dipendenti (in particolare maschi bianchi eterosessuali). In altri casi ancora significa qualcosa di ulteriormente costoso e impegnativo: una politica delle assunzioni basata sulle quote, ovvero su obiettivi di riequilibrio della composizione della forza lavoro: in genere, più donne, più neri, più ispanici, più immigrati, più omosessuali, più transgender, eccetera.

Le politiche DEI e le loro varianti esistono da parecchi anni, ma hanno avuto un boom dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd (25 maggio 2020) e l’esplosione del movimento Black Lives Matter. Ultimamente, invece, sono in contrazione, e a giudicare dalle notizie più recenti la caduta si sta facendo sempre più rovinosa. Dalla cosiddetta “agenda DEI” si sono ritirate o hanno manifestato l’intenzione di fare un passo indietro aziende di ogni tipo, compresi marchi famosissimi come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google, Meta, Zoom, e molte altre.

La vicenda potrebbe sembrare poco più che una curiosità sui costumi della società americana se non fosse che ha uno stretto rapporto con le imminenti elezioni presidenziali (novembre prossimo): la precipitosa ritirata di tante organizzazioni dall’agenda DEI è anche dovuta alla mobilitazione ostile dei consumatori di orientamento conservatore o libertario, l’agenda DEI stessa sta diventando uno dei temi della campagna elettorale. Agenda DEI, infatti, significa in definitiva adesione alla visione del mondo woke, basata sulla colpevolizzazione dei bianchi, l’ossessione per il “razzismo sistemico”, i diritti LGBT+, la difesa a oltranza del politicamente corretto. Ritirarsi dall’agenda significa, di fatto, sconfessare anni di propaganda woke. Le organizzazioni sono state ben liete di promuovere obiettivi sociali finché questo migliorava la reputazione e attirava clienti, ma sono divenute repentinamente sospettose e prudenti quando si sono rese conto che frotte di clienti rischiavano di abbandonarle.

Si potrebbe pensare che, come già nel 2016, l’attacco alle follie del politicamente corretto possa essere un’arma in mano al candidato Trump. Un’arma che nelle ultime settimane è stata resa ancora più acuminata da una serie di eventi.

Le Olimpiadi di Parigi, ad esempio, hanno dato modo a Trump di posizionarsi contro la propaganda woke (cerimonia di apertura in salsa LGBT+) e soprattutto a difesa delle atlete (sul caso Khelif: “con me gli uomini non parteciperanno agli sport femminili”). Ed è dei giorni scorsi la presa di posizione di una parte delle femministe americane contro Tim Walz (il vice scelto da Kamala Harris), accusato di aver favorito – come governatore del Minnesota – le transizioni di sesso precoci, anche contro il parere dei genitori e a dispetto delle sempre più numerose evidenze scientifiche contrarie. La femminista Kara Dansky, dirigente del gruppo Women’s Declaration International, impegnato nella difesa dei diritti femminili basati sul sesso biologico, ha chiesto a Kamala Harris di dichiarare “che il sesso è immutabile e che nessun uomo sarà mai una donna”. Se non lo farà, e lascerà a Trump la difesa delle donne (e del buon senso), per molte elettrici progressiste sarà difficile votare per i Democratici.

E tuttavia non è detto che, alla fine, l’attacco all’agenda DEI e alla cultura woke basti a Trump per prevalere su Kamala Harris. La partita è più che mai aperta non solo perché – ovviamente – la campagna elettorale si giocherà anche su altri temi, ma perché in materia di diritti pure il fronte progressista ha le sue armi. Non ultima la campagna di denigrazione sistematica delle femministe ostili alle rivendicazioni trans, da anni bollate con l’acronimo dispregiativo TERF (Trans Exclusionary Radical Feminist), un epiteto toccato anche a Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter.

Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che l’agenda DEI ora in crisi è stata in pieno vigore per almeno tre anni (dalla metà del 2020 alla metà del 2023) e le sue istanze sono profondamente penetrate nella società americana. Alcune rilevazioni del
Pew Research Center rivelano che ancora l’anno scorso il 52% dei dipendenti americani erano sottoposti all’agenda DEI sul posto di lavoro, e il 56% degli elettori ne approvava gli obiettivi progressisti.

Insomma, la partita è aperta.

[Articolo trasmesso al Messaggero il 24 agosto 2024]