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La battaglia di Milei – Femminicidio?

5 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Hanno scatenato e continuano a scatenare torrenti di indignazione le recenti prese di posizione di Javier Milei, presidente argentino, relative al reato di femminicidio e alla necessità di abolirlo dall’ordinamento penale. In realtà né in Argentina né in Italia esiste un reato specifico, distinto dall’omicidio, che definisce i casi in cui l’uccisione di una donna configura un reato a sé stante. Quello che esiste nell’ordinamento giuridico è l’aggravante che consiste nell’uccisione di una donna “in quanto donna” o, secondo un’altra formulazione, “per motivi di genere”.

I problemi, con queste definizioni, sono due. Il primo è di tipo logico: nessuno scienziato sociale serio accetterebbe mai, in un’indagine empirica, una definizione così fumosa e soggetta a interpretazioni soggettive. In termini tecnici: femminicidio è un concetto privo di una definizione operativa. E infatti non esistono statistiche sui femminicidi intesi in questa accezione, nonostante da anni le burocrazie e gli uffici studi dell’Unione Europea si arrabattino nel tentativo di produrre una definizione condivisa dai 27 paesi. Inutile aggiungere che, se sociologi e statistici non riescono a venire capo del problema, non si vede come un giudice che deve decidere se applicare oppure no l’aggravante possa stabilire con ragionevole certezza se una donna è stata uccisa “in quanto donna” o per altro motivo. Per non parlare del problema speculare: come regolarsi se una donna uccide un uomo “in quanto uomo”, qualsiasi cosa ciò voglia dire?

Il secondo problema – il problema vero, in quanto problema politico-culturale di fondo – è se abbia senso continuare sulla strada, intrapresa da molti paesi negli ultimi decenni, di prevedere aggravanti sulla base dell’appartenenza della vittima a una o più categorie protette. È questo, ad esempio, il caso delle norme che in Italia restringono la libertà di espressione nei casi in cui i comportamenti di incitamento all’odio, alla discriminazione o alla violenza appaiono dettati da “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali” (legge Mancino, 25 giugno 1993, n. 205). Qui le categorie protette sono implicite, ma accomunate dal fatto che non rimandano a comportamenti, o a scelte personali, ma a caratteri ascritti o sostanzialmente ascritti, nonché potenzialmente identitari: essere rom, essere nero, essere ebreo, essere cristiano. È su tale zoccolo duro che, qualche anno fa, ha tentato (invano) di intervenire il Ddl Zan, con la estensione dei motivi aggravanti a quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

Vista in questo quadro, la presa di posizione di Milei appare in una luce molto diversa da quella che, su di essa, viene proiettata dalle proteste di piazza delle donne argentine. Per le donne argentine, e per le tante femministe indignate europee, quello di Milei è un attacco al mondo femminile, una sorta di legittimazione del femminicidio e della violenza sulle donne. Ma l’obiettivo di Milei è diverso e molto più vasto, e non ha certo le donne come bersaglio privilegiato. Il bersaglio del presidente argentino (come quello del presidente americano), non sono le donne, o i neri, o gli ispanici, o gli omosessuali, o gli islamici ma le norme che, negli ultimi decenni, hanno eroso alla radice il principio di equità, alterando gravemente i meccanismi di reclutamento (politica delle quote, penalizzazione dei maschi bianchi, perseguimento della diversity), le regole di ammissione nelle gare sportive (caso Khelif), l’accesso agli spazi riservati alle donne nelle carceri (trasferimento in reparti femminili di maschi biologici in transizione).

L’idea generale è che l’esistenza di categorie protette comprometta gravemente il principio del merito e dell’uguaglianza davanti alla legge. Per Milei, come a suo tempo per Martin Luther King, le persone andrebbero giudicate, apprezzate, criticate, o punite in quanto individui, non come appartenenti a una categoria.

È questa la vera posta in gioco. Un gioco che le proteste delle donne semplicemente non stanno capendo.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 febbraio]

A proposito del caso Almasri – Ipocrisia?

3 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Credo siano in pochissimi a sapere quel che davvero è successo nelle convulse giornate che hanno portato prima all’arresto, poi alla scarcerazione, infine al rimpatrio su un aereo di Stato italiano, del capo della polizia giudiziaria libica. In compenso siamo in tantissimi ad esserci fatte alcune domande fondamentali: perché il governo ha scelto di rimpatriare Almasri anziché arrestarlo? Perché Giorgia Meloni non ha detto a chiare lettere quello che quasi tutti credono di sapere, e cioè che la vera ragione del frettoloso rimpatrio di Almasri è stato il timore di ritorsioni del governo libico, pronto a scagliare verso il nostro paese orde di richiedenti asilo? E infine: perché Giorgia Meloni non ha fatto come Trump, che non ha esitato a sbandierare ai quattro venti la durezza delle proprie misure contro i migranti illegali? Perché tanta ipocrisia nella vicenda del torturatore libico?

Come cittadino, sono sconcertato come tutti. Ma, come sociologo, non lo sono per niente. Viste con la lente della mia disciplina, le vicende del caso Almasri sono perfettamente comprensibili. Uno dei cardini della sociologia, posto da Max Weber fin dal 1919 nel saggio La politica come professione, è la distinzione fra etica della convinzione, o dei principi (tipica di missionari e predicatori), e etica della responsabilità (che secondo Weber dovrebbe guidare i politici). Agisce secondo l’etica della convinzione chi opera secondo principi ritenuti giusti, senza curarsi delle conseguenze pratiche che ne possono derivare. Agisce secondo l’etica della responsabilità chi valuta le proprie azioni non solo in base a principi etici o morali, ma anche in base alle loro conseguenze. Ad esempio: un cultore dell’etica della convinzione in nessun caso potrebbe sottoporre a sevizie e torture un altro essere umano, ma che fare se torturare un terrorista è l’unico modo per evitare la morte di migliaia di innocenti minacciati da un ordigno a orologeria che solo lui può disinnescare?

Ebbene, alla luce della distinzione weberiana, è chiaro che Giorgia Meloni si è mossa secondo l’etica della responsabilità, mettendo sui due piatti della bilancia sia la palese ingiustizia di lasciare libero un criminale, sia la (meno palese) ingiustizia di esporre i cittadini italiani alle conseguenze di vari tipi di possibili ritorsioni (ripresa degli sbarchi, sequestri di cittadini italiani in Libia, per non parlare degli interessi dell’ENI in quel paese). Nell’ottica di Weber, stupefacente e discutibile sarebbe stato che il governo avesse agito secondo l’etica della convinzione, anziché secondo quella della responsabilità. Se le cose stanno così, a maggior ragione sembrerebbero porsi gli altri interrogativi: perché non proclamare le proprie ragioni davanti ai cittadini? Perché non adottare una postura trumpiana? Perché tanta reticenza e ipocrisia?

Anche qui la sociologia ha molto da dire, benché non sia stata certo la prima a farlo. Secondo Jon Elster, uno dei più grandi scienziati sociali del Novecento, l’ipocrisia praticata nella scena pubblica ha una fondamentale funzione di coesione sociale, di irrobustimento delle istituzioni, di rafforzamento di valori positivi condivisi. A suo modo, e paradossalmente, funziona come una “forza civilizzatrice”. Il cattivo che ipocritamente si finge buono, proprio attraverso quella finzione proclama il valore della bontà. È esattamente quello che, quattro secoli fa, aveva intuito François de La Rochefoucauld con il suo fulminante aforisma: “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù”. Il vizioso che si finge virtuoso riconosce con ciò stesso il valore della virtù.

Ed eccoci al tema della mancata postura trumpiana. Perché adottare un profilo basso? Perché non maramaldeggiare assumendo atteggiamenti ostili nei confronti dei migranti detenuti in Libia?

L’interpretazione malevola è che il governo, come i governi precedenti, si vergogni degli accordi con la Libia ma in cuor suo (ammesso che un governo abbia un cuore) ne è ben felice, purché gli accordi funzionino. L’interpretazione del sociologo che ha recepito la lezione di Elster è che siamo in Europa, non in America. Il nostro orizzonte valoriale certo include la necessità di trovare una soluzione al problema della sicurezza e dei confini, ma include anche l’imperativo etico di rispettare i diritti dei richiedenti asilo. È per questo che, in Italia, nessuno – nemmeno la destra – si permette di fare la faccia feroce, come succede in America con Trump e in Germania con l’Afd di Alice Weidel. L’imbarazzo di Meloni è l’ammissione che, nell’affare Almasri, più che fare la cosa giusta il governo ha scelto il male minore, nonché l’implicito riconoscimento che i campi di detenzione in Libia sono un problema, e non da oggi (già nel 2018 ne diedero un resoconto illuminante Franco Viviano e Alessandra Ziniti in Non lasciamoli soli, Chiare Lettere).

Forse è questo il motivo per cui, nonostante la maggioranza degli italiani non approvi il comportamento del governo in questa vicenda, il consenso alla premier e al suo partito restano alti, se non in ulteriore ascesa. Segno che, almeno nei paesi mediterranei, tanto per l’opinione pubblica quanto per la classe di governo quello del rapporto con l’immigrazione resta un tragico dilemma, più che una crociata politica da intraprendere con la baldanza di chi si sente dalla parte della ragione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 febbraio 2025]

Deportazioni o rimpatri?

29 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Sono tante le ragioni per cui la grande stampa nazionale, e più in generale i grandi media, hanno perso autorevolezza. Certo, anche in passato ben pochi si fidavano ciecamente di “quel che scrivono i giornali”, o di “quel che dice la tv”. Però mai
come oggi il pubblico ha tanto diffidato dell’informazione che pretende di essere obiettiva, non faziosa, o super partes.

Fra le tante ragioni per cui ciò è accaduto, ve ne è una che forse meriterebbe maggiore attenzione, e forse maggiore vigilanza: l’informazione main stream è diventata subdola. Ossia non conduce le sue battaglie fondamentali in campo aperto,
dichiarando esplicitamente da che parte sta, ma manipolando il flusso delle notizie. Un’arte che, con il tempo, si è arricchita di strumenti via via più potenti (e pericolosi).

Un posto importante, in proposito, è occupato dalla sistematica censura delle notizie gravemente dissonanti, condannate a vivere solo su fogli minori, per ciò stesso considerati estremisti, inaffidabili, o semplicemente irrilevanti. Ma un posto forse ancora più importante è costituito dall’uso, cosciente e intenzionale, di termini inappropriati e fuorvianti per descrivere i fatti della realtà.

Il modo di chiamare le cose è importante, perché può suscitare sentimenti e giudizi, ma proprio per questo è essenziale che non sia distorsivo. Qui si annida un pericoloso equivoco: molti giornalisti, e più in generale comunicatori, pensano di essere responsabili dei sentimenti che i loro scritti possono suscitare, e proprio per questo praticano sistematicamente la censura, la deformazione, la manipolazione terminologica. Come se chiamare le cose con il loro nome fosse legittimo solo quando la verità che il nome rivela è innocua, o non rischia di suscitare i sentimenti sbagliati, o è adatta a suscitare i sentimenti giusti.

Di questo tendenzioso uso della lingua abbiamo avuto un esempio lampante negli ultimi giorni. Tutte le maggiori testate italiane hanno tradotto il termine inglese deportation, che negli Stati Uniti è usato per indicare espulsioni o rimpatri, con il termine italiano ‘deportazione’ che nella nostra lingua ha un significato ben diverso, oltreché un sinistro richiamo alle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti (vedi in proposito il Dizionario Treccani, che dà due significati principali di ‘deportazione’, nessuno dei quali corrisponde a espulsioni o rimpatri). È vero che se si deve tradurre il nostro ‘deportazione’ si deve usare deportation (non c’è altra parola in inglese), ma il punto è che – nell’uso che ne fanno gli americani – deportation significa espulsione o rimpatrio, e quindi così andrebbe tradotto.

I giornalisti italiani non sono in grado di cogliere la distinzione fra rimpatrio e deportazione? No, semplicemente hanno ritenuto proprio dovere stigmatizzare le politiche migratorie di Trump, e altrettanto loro dovere non stigmatizzare le medesime politiche quando erano attuate da presidenti democratici.

Con questo non voglio dire che chi è contro le espulsioni non abbia le sue ragioni, o non abbia il pieno diritto di esporle pubblicamente. Il punto è che tali ragioni (che in parte io stesso condivido) dovrebbero essere argomentate come tali, non sostenute surrettiziamente manipolando il linguaggio per deformare l’immagine dell’avversario politico. Usare termini inappropriati (e squalificanti) per descrivere quel che l’avversario fa è una variante peggiorativa della ben nota e screditata tecnica dello straw man, ovvero criticare l’avversario mettendogli in bocca cose che non ha detto. Qui, in altre parole, non gli si fa dire quel che non ha detto, ma – chiamando con altro nome quel che ha fatto – gli si fa fare quel che non ha fatto.

E non si venga a dire che le manipolazioni della lingua sono a fin di bene, ovvero per mostrare al mondo in che orribili mani si sono posti gli americani, e rischiamo di finire pure noi. Questa obiezione è sbagliata non solo perché il compito specifico dell’informazione è dire la verità, non cambiare il mondo nella direzione prescritta dalla “linea” della testata. È sbagliata anche perché, proprio se si crede (erroneamente) che il giornalista sia responsabile dei sentimenti che suscita, è arduo non vedere che parlare di deportazioni produce almeno due effetti opposti: non solo indignazione nei già sempre indignati, ma anche ulteriore entusiasmo e odio in quanti sarebbero ben felici di vedere vere deportazioni. È amaro constatarlo, ma si può istigare all’odio anche cercando di spegnerlo.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 28 gennaio]

Oltre il follemente corretto

27 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Ormai lo riconoscono tutti: una delle ragioni fondamentali del successo di Trump, oggi come otto anni fa, sono stati gli eccessi del
politicamente corretto. O, se preferiamo, la progressiva trasformazione del politicamente corretto in “follemente corretto”, un processo che – negli Stati Uniti – è durato una decina di anni, grosso modo dal 2012 al 2022. Pilastri di questo processo sono stati la colpevolizzazione (e discriminazione) dei bianchi, la proliferazione degli staff DEI (Diversity,Equity, Inclusion) nelle imprese e nelle amministrazioni, le transizioni di genere precoci, la diffusione della gestazione per altri (utero in affitto), le limitazioni alla libertà di espressione, la diffusione della cancel culture, la politicizzazione dell’insegnamento universitario, le discriminazioni verso docenti e studiosi non allineati, l’ingresso di maschi biologici (in transizione di genere) negli spazi delle donne, incluse carceri e gare sportive.

Tutto questo aveva cominciato a scricchiolare per conto proprio già un paio di anni fa, ma oggi – dopo la vittoria elettorale di Trump – sta franando rovinosamente, travolto non solo dalla rivolta del senso comune ma, molto più concretamente, dagli “ordini esecutivi” del neo-presidente, che uno dopo l’altro stanno smontando tutti i caposaldi economici, sociali e culturali dell’ideologia woke. Apparentemente, un grandioso contrappasso collettivo, che giustamente colpisce – e punisce – gli eccessi di una parte politica, quella liberal e progressista.

Ma è solo questo che sta accadendo?

Non mi sembra. Intanto, bisogna notare che la reazione contro la cultura woke, fortissima negli Stati Uniti, robusta nel Regno Unito, agli esordi in Canada, è debolissima se non inesistente in altre parti dell’occidente, e in particolare in alcuni paesi europei. Spagna e Germania, ad esempio, hanno entrambe varato negli ultimi anni una “Ley Trans” (legge sulla transizione di genere), che rende completamente libera la scelta del genere, suscitando la vigorosa (e indignata) reazione di parte del mondo femminile. Come spesso accade, i fenomeni culturali sono sfasati nel tempo: noi europei abbiamo importato la cultura woke dal mondo anglosassone, e ce ne stiamo ancora entusiasmando nel momento in cui loro la stanno già seppellendo.

C’è però soprattutto un altro elemento che, a mio parere, complica il quadro. Quello che sta avvenendo negli Stati Uniti, e potrebbe presto arrivare anche da noi, non è semplicemente il superamento del follemente corretto, il ritorno alla normalità, il ripristino del senso comune. Quella che si sta profilando è una sorta di sanguinosa rivincita, che rischia – insieme alle degenerazioni della cultura woke – di sopprimere anche le buone ragioni che, cinquant’anni fa, ispirarono la nascita del politicamente corretto. Trattare il prossimo con rispetto, combattere l’odio, non discriminare in base al colore della pelle o altri caratteri ascritti (sesso, razza, etnia, nazionalità), tutelare le minoranze oppresse o emarginate, cercare di includere le fasce o marginali, erano ottime cause ieri ma lo sono anche oggi. Il peccato originale della cultura woke non è di avere sollevato determinati problemi, ma di aver imposto soluzioni assurde, e di averlo fatto con hybris, ovvero con fanatismo e disprezzo per i non allineati all’ortodossia progressista.

Di qui un rischio, un grande rischio: che la reazione al follemente corretto travolga anche il nucleo etico e razionale del politicamente corretto delle origini, e che – per insofferenza agli eccessi – si finisca per “gettar via il bambino con l’acqua sporca”. L’alternativa al follemente corretto non può essere il politicamente scorretto, proclamato con baldanza e spregio delle minoranze. La vera alternativa al follemente corretto è tornare alla ragionevolezza, o se preferite al sogno di Martin Luther King, quello di una società “cieca al colore” (colour-blind), una società in cui “i miei quattro figli piccoli non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per ciò che la loro persona contiene”.

Questo è il sogno tradito dalla cultura woke, con la sua pretesa di regolare la vita sociale in base a caratteri ascritti e identità percepite. A quel sogno occorre tornare. E l’Europa, forse più dell’America, è oggi in condizione di provarci.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 gennaio 2025]

Manovre al centro – Una nuova Margherita?

22 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Nei giorni scorsi, a proposito delle manovre in corso a sinistra, su Repubblica è uscito un articolo di Massimo Giannini con il titolo “Quale centro può servire alla sinistra”.

Il nucleo dell’articolo si può riassumere così: va benissimo aprire una discussione che allarghi al mondo dei cattolici e dei centristi il perimetro della sinistra ma, per carità, guardiamoci bene dal fondare un nuovo partito, perché il luogo in cui fare quella
discussione esiste già ed è il Pd.

Leggendo – il giorno dopo – le pagine della Stampa (altra testata del gruppo Gedi) dedicate ai due raduni dei riformisti a Milano (con Romano Prodi e Ernesto Maria Ruffini) e Orvieto (con Paolo Gentiloni e Enrico Morando), il messaggio che il lettore ricava è analogo. Un titoletto sottolinea il “no a nuovi partiti” di Romano Prodi, una intervista a Gianni Cuperlo avverte fin dal titolo che “vanno bene anche idee diverse, ma la casa comune dev’essere il Pd”. Esattamente il preoccupato ammonimento di Giannini.

Non so se – sul tema della nuova casa dei riformisti – la stampa progressista che conta abbia una sua linea politica, ma mi pare evidente che, dentro il Pd, l’eventualità di una rinascita di qualcosa di simile alla Margherita di rutelliana memoria suscita molte preoccupazioni. Certo, adesso un po’ tutti negano, ma la tentazione di mettere in scena qualcosa di nuovo, a destra del Pd, si scorge ad occhio nudo. E quindi ben si comprende che chi al Pd è affezionato, o crede nella sua insostituibilità come guida
della sinistra, non veda di buon occhio le manovre al centro.

La mia impressione è che entrambe le posizioni, di chi vuole affiancare il Pd e chi vuole arricchirlo dall’interno, abbiano ottime ragioni dalla propria parte. Chi in cuor suo è tentato di resuscitare la Margherita (ossia cattolici e liberal-socialisti) ha perfettamente ragione a prendere atto che la “fusione a freddo” fra Ds e Margherita è fallita, o meglio ha avuto successo solo nella stagione renziana (2014-018), l’unico breve periodo nel quale i riformisti non sono stati sopraffatti dai post-comunisti.

Dopo Renzi, e più che mai dall’avvento di Schlein, il Pd è tornato a essere quel che erano i Ds, ossia un partito di sinistra-sinistra, ostile al mercato e perenne ostaggio di tentazioni giustizialiste. Quindi ben si comprende che chi è stato sconfitto ed emarginato (cattolici e liberal-socialisti), ora provi a rialzare la testa.

Ma anche quanti, come Cuperlo e Giannini, vedono come fumo negli occhi la nascita di un partito di sinistra moderata hanno le loro buone ragioni. Fusione e scissione non sono operazioni simmetriche e reversibili. Quel che ieri si tentò fondendo Ds e
Margherita, non può essere disfatto oggi scindendo il Pd per estrarne miracolosamente la Margherita. È vero che le grandi manovre per occupare il centro pretendono di rivolgersi soprattutto a delusi e indecisi, ma è difficile pensare che non
finiscano anche per sottrarre voti al Pd, così riattizzando l’incendio che l’era renziana aveva fatto divampare, e che si è spento solo con la riconquista della “ditta” da parte della vecchia guardia ex comunista dei Bersani e D’Alema.

Né pare una soluzione convincente quella – suggerita da Ruffini – di costituire anche in Italia una “maggioranza Ursula”, visto che Forza Italia, l’unico partito di destra candidato a farne parte, non raccoglie neppure il 10% dei voti (8.3% secondo l’ultimo
sondaggio) e rischierebbe di rimpicciolirsi ulteriormente ove un eventuale nuovo partito moderato di sinistra dovesse vedere la luce di qui alla fine della legislatura.

A quanto pare la strada dei riformisti è impervia e costellata di rischi, qualsiasi cosa facciano. Sempre che, di qui al 2027, qualche catastrofico errore di Giorgia Meloni o dei suoi non spiani alla sinistra la strada per tornare al governo. Senza colpo ferire.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 gennaio 2025]

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