Emergenza sanitaria o emergenza democratica?

Dunque, il governo sta per prorogare lo “stato di emergenza”. Per altri 5 o 6 mesi potrà ricorrere ai famigerati Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), senza passare attraverso il vaglio del Parlamento. In sostanza il governo sta per riattribuirsi i “pieni poteri” che già si era preso nel semestre scorso.

Si potrebbe osservare che, più o meno lentamente, stiamo cessando di essere una democrazia, e che il modo in cui stiamo passando a un regime dispotico è paradossale: questo governo è nato (o meglio dice di essere nato) per impedire che libere elezioni conferissero a Salvini i “pieni poteri” che aveva invocato, ma il risultato è che i pieni poteri – quelli veri – se li sta prendendo precisamente questo governo, senza chiedere il permesso a nessuno, e meno che mai a noi cittadini.

Qui però non voglio fermarmi su questo. La domanda cui vorrei provare a rispondere è un’altra: la situazione è così grave da giustificare la richiesta di pieni poteri?

Per certi versi sì. Dopo essermi preso un mese di insulti per aver detto (a metà giugno) che l’epidemia stava rialzando la testa, devo constatare che il fronte dei minimizzatori è oggi meno saldo nelle sue convinzioni. Ormai è l’Organizzazione mondiale della sanità stessa ad avvertire che la pandemia è in espansione, e solo i più ostinati fra i negazionisti continuano ad additare a modello “gli altri paesi europei” che hanno riaperto scuole, fabbriche e viaggi prima di noi.

Aggiungo solo che un’analisi dettagliata delle province italiane, pubblicata nei giorni scorsi sul sito della Fondazione David Hume, ha mostrato che il numero di province in cui i contagi stanno aumentando è in continua crescita. Erano una ventina tre settimane fa, sono quasi il doppio oggi. Il fatto che i dati nazionali mostrino solo una leggera tendenza all’aggravamento della situazione è in realtà il frutto di una polarizzazione fra i territori in cui l’epidemia si sta lentamente spegnendo, e quelli – sempre più numerosi – in cui sta invece ripartendo, non sempre e non solo a causa di specifici, circoscritti e quindi controllabili “focolai”. In breve, per chi è disposto a vedere, la situazione è abbastanza chiara: nonostante il favore della stagione, l’epidemia non si sta spegnendo.

Meno chiaro è perché ciò accada. La mia opinione è che, fondamentalmente, ciò dipenda da una scelta di fondo che le autorità politiche e sanitarie hanno compiuto all’inizio di giugno: traghettarci in un regime di anarchia cognitiva, una sorta di “libero arbitrio” nella lettura della situazione epidemica.

Lo avete notato, parlando con i vostri amici e conoscenti? Ognuno interpreta la situazione a modo suo. Ci sono gli iper-prudenti, che rispettano le regole, e sono spesso considerati “fobici”. E ci sono gli ipo-prudenti che se ne infischiano allegramente, e sono spesso guardati come “untori”: si assembrano, non rispettano le distanze sui mezzi pubblici e nei supermercati, entrano nei negozi senza la mascherina, o con la mascherina abbassata (il che equivale a senza).

Gli uni e gli altri hanno buone ragioni per comportarsi come si comportano. Agli iper-prudenti è sufficiente richiamarsi alle ancora severe regole vigenti, agli ipo-prudenti è sufficiente appellarsi alle sciagurate esternazioni dei virologi ottimisti, e più o meno sottilmente negazionisti (eufemismo). Ma su tutti pesano due mosse cruciali delle autorità politiche, nazionali e locali: ridurre il numero di tamponi e chiudere sistematicamente un occhio sulle numerosissime violazioni delle regole. Due mosse aggravate dall’ostinazione con cui fin qui non si è voluto distinguere fra le regioni (innanzitutto la Lombardia) in cui la gravità dell’epidemia avrebbe richiesto un prolungamento del lockdown, e le regioni (molte del Sud) in cui la tenuità dell’epidemia avrebbe consentito di accorciare la durata della clausura.

Naturalmente non è difficile capire la logica di queste scelte: non allarmare la popolazione, favorire la ripartenza dell’economia, salvare la stagione turistica. Come se una pandemia potesse essere domata lasciando le briglie sciolte sul turismo internazionale, allentando le regole di distanziamento sugli aerei, e più in generale incentivando la circolazione delle persone.

Ed eccoci allora al punto. La situazione è grave, e forse richiede davvero la ri-proclamazione dello “stato di emergenza”, ma la situazione stessa è diventata grave perché il governo, coscientemente, ha permesso che lo diventasse. Il regime di libero arbitrio sanitario, in cui uno vale uno e l’analisi della situazione si fa nei salotti televisivi, è il risultato della schizofrenia governativa: lasciare in piedi regole molto severe, e al tempo stesso permettere che siano sistematicamente violate.

Ecco perché rispondere alla domanda sulla sensatezza o meno di una proroga dello stato di emergenza è difficile. Sì, verrebbe da dire, perché occorre – ma soprattutto potrebbe occorrere in autunno – una nuova stretta (ma allora perché il governo continua a tollerare le violazioni?). No, perché questo governo ha già dimostrato di non saper governare l’epidemia: l’aggravamento della situazione sanitaria non è dovuto a un meteorite piovuto dal cielo, ma è stato favorito dall’inerzia dell’esecutivo, che proprio così si è costruito le pre-condizioni e il pretesto per invocare un ulteriore aumento dei propri poteri.

C’è poi un’ultima osservazione, che lascio lì sotto forma di dubbio. Siamo sicuri che lo stato di emergenza di cui ora si parla durerà solo altri 6 mesi? La maggior parte degli scienziati ritiene che, da oggi a dicembre, la situazione sia destinata a peggiorare drasticamente già solo per ragioni climatico-ambientali, e che a fine anno, quando lo stato di emergenza dovrebbe finire, la situazione non potrà che essere peggiore di quella odierna. Dunque, facendo 2 + 2: fanno finta di chiedere altri 6 mesi di pieni poteri, ma la richiesta verrà rinnovata in inverno, così quello che di fatto stanno chiedendo è un altro anno di pieni poteri, che si aggiungono ai 6 mesi già consumati.

Ma diciotto mesi di pieni poteri non sono un po’ troppi per un governo che si è lasciato sfuggire di mano la situazione e, per quanto formalmente legale, non ha alcuna legittimazione democratica?

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 luglio 2020




La gazzella e l’ornitorinco. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, nella nostra ultima intervista del 21 giugno scorso lei ha mostrato come in una quindicina di province l’epidemia non poteva considerarsi sconfitta, anzi. Ora, a distanza di venti giorni, gli ultimi dati pubblicati sul sito della Fondazione Hume confermano che purtroppo il trend dei nuovi contagi in diverse province è in aumento. A che punto è la notte?
Direi che siamo nel momento più buio della notte, non nel senso che le cose vadano malissimo, ma nel senso che massima è l’incertezza interpretativa sui pochissimi dati che “Lor Signori” (mi permetto di evocare l’indimenticabile Fortebraccio) hanno la benevolenza di comunicare a noi umili sudditi di questa sfortunata Repubblica. Quello che è certo è che nella prima metà di giugno, ossia in coincidenza della liberalizzazione degli spostamenti fra comuni, è successo qualcosa di grave e di nuovo. Fino ad allora, di settimana in settimana, il numero di province critiche diminuiva, da allora ha smesso di diminuire e, nelle ultime due settimane, ha cominciato a salire in modo sistematico e preoccupante. Nella scorsa intervista i calcoli della Fondazione Hume segnalavano 15-20 province critiche, ora ne segnalano quasi il doppio. E in queste province non vi sono solo le “solite” province della Lombardia e del resto del Nord ma anche molte province del Centro Italia (fra cui Firenze e Roma) e del Mezzogiorno, ad esempio Avellino, Sassari, Chieti, Pescara, Salerno.

Mi sembra più che chiaro, perché allora parla di incertezza interpretativa?
Perché noi vorremmo sapere come le cose stanno andando in questo momento, mentre i dati dei nuovi contagi ci possono dire soltanto che, per la piccola porzione di realtà che le autorità sanitarie sono in grado di monitorare, le cose stavano nettamente peggiorando una decina di giorni fa, ovvero il tempo che occorre ad un evento di contagio per essere rilevato da un tampone. Oggi le cose potrebbero essere migliorate, ma potrebbero anche essere nettamente peggiorate.

Lei che cosa pensa?
Io penso che, verosimilmente, siano ancora un po’ peggiorate.

E’ il suo consueto pessimismo?
No, purtroppo: è l’andamento del numero di persone sottoposte a tampone che mi rende poco incline all’ottimismo. Nonostante le autorità nazionali abbiano finalmente compreso che è stato un grave errore fare pochi tamponi, e che occorrerebbe farne molti di più, la maggior parte delle Regioni sta riducendo il numero di tamponi. Se ne facessero di più, anziché di meno, i dati del numero di contagiati sarebbero ancora più inquietanti. E io non mi ritroverei ad essere fra i pochi che, da tre settimane, segnalano il pericolo.

La Fondazione Hume utilizza anche un altro strumento, un termometro giornaliero, che “misura” la temperatura dell’epidemia. Cosa ci dicono le ultime misurazioni? Confermano un incremento della pericolosità del virus?
Il termometro della Fondazione Hume si basa su tre indicatori: il numero di decessi, il numero di nuovi contagiati (corretto per il numero di tamponi) e una stima degli ingressi in ospedale. Queste tre informazioni vengono sintetizzate in una temperatura assoluta, in gradi pseudo-Kelvin, variabile fra 0 e 100, dove 0 significa che non ci sono nuovi contagi, mentre 100 significa che ce ne sono tanti quanti nella settimana di picco (ossia nei giorni a cavallo fra marzo e aprile). Negli ultimi 3 mesi la temperatura dell’epidemia è sempre diminuita, fino a portarsi al di sotto di 2 gradi pseudo-Kelvin (il 28 giugno toccava il minimo di 1.8), ma da una quindicina di giorni oscilla intorno a 2 e manifesta una leggera tendenza all’aumento. Poiché il termometro può solo rilevare quel che succedeva 2-3 settimane fa, anche questo strumento ci dice che nella prima metà di giugno il vento è cambiato, ma non sappiamo esattamente a che punto siamo oggi.

Siamo sopra o sotto la soglia di sicurezza?
Dipende da cosa consideriamo soglia di sicurezza. Io ritengo che, sfortunatamente, siamo ancora ampiamente sopra, e spiego perché. Per me la soglia di sicurezza è 6000 persone in grado di contagiare il prossimo, il che – in un paese di 60 milioni di abitanti – significa avere un contagiato ogni 10000 abitanti. La considero una soglia di sicurezza per vari motivi, ad esempio perché, nel breve periodo, anche i più “relazionati” fra noi difficilmente hanno contatti con più di 1000 persone, e comunque solo una parte di tali contatti è abbastanza stretta da comportare un serio rischio di contagio.
Ma la mia stima, basata sul termometro della Hume, è che attualmente il numero di contagiati ancora contagiosi sia dell’ordine di 60 mila persone, ovvero 10 volte al di sopra della mia personale soglia di sicurezza. Per farci stare abbastanza tranquilli il termometro dovrebbe segnare 2 decimi di grado o meno.

Ma come si passa da 2 gradi pseudo-Kelvin a una stima di 60 mila persone contagiose?
Non è un calcolo semplicissimo, diciamo che un grado pseudo-Kelvin corrisponde a circa 2000 nuovi contagiati al giorno, e che considerando che la contagiosità dura una quindicina di giorni, 2 gradi pseudo-Kelvin segnalano un numero di persone potenzialmente in grado di infettare altri non lontano da 60 mila (2000 x 2 x 15 = 60 mila).

Però le cifre ufficiali sono molto più basse…
Certo, le cifre ufficiali indicano che negli ultimi 15 giorni i nuovi contagi sono stati circa 3000 (non 60 mila), ma è noto che il numero di contagiati effettivo è un multiplo di quello ufficiale. Non arrivo a pensare, come Ilaria Capua, che il multiplo sia 100, mi limito a dire che potrebbe essere circa 20.

Lei si è lamentato per la poca trasparenza e profondità dei dati messi a disposizione dalle autorità pubbliche. La situazione è migliorata negli ultimi giorni o, se possibile, peggiorata?
Sì, è peggiorata. Oltre ai continui ricalcoli dei decessi e dei contagiati, ultimamente si è aggiunto un improvviso cambiamento nei criteri di assegnazione dei casi alle province. Fino al 23 giugno l’assegnazione era in base alla provincia di ospedalizzazione, dal 24 è in base a quella di residenza. Può immaginare a quali salti mortali tecnico-statistici siamo stati costretti per ricostruire le serie storiche provinciali. Aggiungo che permane il segreto sui dati comunali (che sarebbero essenziali per individuare tempestivamente i nuovi focolai) e che nessuno ha spiegato che cosa è effettivamente successo il 24 maggio in Lombardia (il dato di zero decessi è sicuramente falso, se non altro per la smentita della Ats di Brescia, ma nessuno si è ancora degnato di comunicare il dato vero).

Che tutto non stia andando per il verso giusto è dimostrato da un doppio fallimento: l’indagine sierologica e l’app Immuni sono state finora un flop. Come se lo spiega?
Sinceramente ho solo spiegazioni inquietanti, anche se per motivi diversi. Nel caso della app Immuni tendo a pensare (ma spero di sbagliarmi) che sia stata concepita solo per far credere che il governo stesse facendo qualcosa. Non mi spiego altrimenti perché non siano state utilizzate tecnologie già collaudate da molti paesi, e soprattutto perché non si siano formate ed assunte molte migliaia di persone per il tracciamento dei contatti, come se la app da sola fosse in grado di ricostruire a ritroso il percorso del contagio.
Nel caso della indagine sierologica, pianificata dall’Istat, sono semplicemente sbalordito. A giudicare da quel che riportano i quotidiani, sembra che l’indagine stia facendo flop perché molti dei soggetti inclusi nel campione Istat rifiutano il test. In base alla mia esperienza con i sondaggi mi chiedo: ma non lo sapeva l’Istat che per fare 1 intervista ci vuole una lista di riserva di almeno 5 nominativi, e spesso di 10? E non ha pensato che se così tanti rifiutano una tranquilla chiacchierata telefonica, sarebbero potuti essere ancora più frequenti i rifiuti verso un’indagine così invasiva, che avrebbe comportato un appuntamento per un prelievo del sangue?
Insomma, qui qualcosa mi sfugge. Leggo che il fallimento sarebbe colpa degli italiani, ma come sociologo e statistico sono invece stupefatto che il tasso di adesione (se è vero quello che riportano i mezzi di informazione) sia stato molto superiore a quello di un normale sondaggio politico o di una survey. D’altronde mi risulta difficile pensare che un ente come l’Istat, sicuramente iper-burocratico ma anche dotato di un’enorme esperienza, sia stato così ingenuo da non pensare a una lista di riserva adeguata, e abbia scelto la strategia notoriamente meno efficace: tempestare di decine di telefonate chi non ha voglia di partecipare all’indagine.

E i tamponi?
Anche qui alzo bandiera bianca, perché non capisco. Il governo avrebbe tutto l’interesse a farne a tappeto, per portare i contagi vicino a zero prima dell’autunno, ma non fa nulla, lasciando che le Regioni ne facciano pochi, pur di evitare di scoprire troppi nuovi casi. Eppure basterebbe dire chiaramente: care Regioni, non sarete giudicate (negativamente) sul numero di infetti che scoprirete, ma sarete giudicate (positivamente) sul numero di tamponi che farete per scoprirne il più possibile.
Ma forse la realtà è più semplice: in questa fase nessun governante, nazionale o locale, può permettersi di dire la verità sul contagio, perché ogni segnale di allarme danneggia l’economia.

Uno dei problemi che il governo sta faticando ad affrontare efficacemente è il cosiddetto Covid d’importazione. L’esecutivo finora si sta limitando a sospendere per alcuni giorni i voli diretti dai paesi più a rischio, come il caso del Bangladesh. Però la misura non sembra risolvere il problema: viene aggirata tranquillamente con la triangolazione dei voli, come la cronaca ci ha mostrato mercoledì, quando a Fiumicino sono arrivati 120 bengalesi tramite scalo a Doha. Quanto rischiamo per il virus che torna dall’estero?
Secondo me, e secondo una parte dei virologi, rischiamo molto. Ma qui, a mio parere, la responsabilità maggiore non ce l’ha il nostro governo (per una volta solidarizzo con Conte) ma ce l’hanno gli organismi internazionali, in primis l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Unione Europea. Nessun paese può chiudere o limitare drasticamente i collegamenti internazionali se non lo fanno anche la maggior parte degli altri paesi. Posso sbagliare, naturalmente, ma per me è semplicemente incredibile che chi ci governa non abbia ancora voluto accettare una cosa di puro buonsenso: il turismo internazionale è incompatibile con una pandemia.
Posso anche capire che, in un mondo altamente interconnesso, i movimenti internazionali legati al lavoro non siano limitabili, o lo siano solo in misura molto contenuta, ma i flussi turistici? Si parla e straparla continuamente di nuovo tipo di sviluppo, di green deal, di cambiamenti nello stile di vita, e non siamo in grado di accettare una limitazione temporanea di uno dei fattori fondamentali di diffusione e amplificazione dell’epidemia?
Possibile che non capiamo che questa è una pandemia, e il turismo internazionale è un cerino buttato in una polveriera?

Quanto rischiamo poi una seconda ondata in autunno?
Se non lo sanno i virologi, meno che mai può saperlo un sociologo. Quel che posso dire è che, a mio modestissimo avviso, la vera domanda è: quanto il forte rallentamento dell’epidemia osservato nel trimestre aprile-maggio è stato dovuto anche all’evoluzione del clima e alle sue conseguenze, prime fra tutte diminuzione dell’umidità, aumento del soleggiamento, frazione di tempo trascorsa all’aperto?
Se, come alcuni ritengono (vedi ad esempio l’articolo dell’ing. Mastropietro pubblicato sul sito della Fondazione Hume), questi fattori hanno avuto e continuano ad avere un ruolo cruciale, non si può escludere che con l’arrivo della stagione fredda l’osservanza delle regole comportamentali non basti più, e l’epidemia riparta.
Detto in modo più crudo: forse in questo momento la vera ragione per cui l’epidemia sembra ancora sotto controllo non è né l’autodisciplina della popolazione adulta (quella giovanile è già fuori controllo), né la tempestività delle autorità sanitarie nello spegnere i nuovi focolai, ma è semplicemente il fatto che i fattori climatici stanno contrastando e bilanciando quelli comportamentali.

L’eventuale seconda ondata sarebbe il colpo di grazia per la nostra economia? Gli stessi imprenditori, del turismo e non, dovrebbero essere più cauti in questo periodo?
Io non sono sicuro che il compito della politica, oggi, sia scegliere fra la salute e l’economia. Può darsi che sia così, ma si dovrebbe preliminarmente provare a rispondere a questa domanda: e se limitare (almeno) il turismo internazionale, misura sicuramente dannosa per l’economia nel breve periodo, non fosse invece una misura che tutela l’economia nel periodo medio-lungo?
Se la risposta fosse affermativa, il conflitto salute-economia sarebbe meno insanabile di quel che appare. Io sono piuttosto sicuro che aver ritardato di circa un mese il lockdown (il vero lockdown inizia solo il 22 marzo, ossia più di un mese dopo Codogno) non ha solo aumentato drasticamente il numero dei decessi, ma ha anche danneggiato l’economia (se si fosse chiuso subito, la chiusura sarebbe durata di meno). Sul domani sono assai meno sicuro, ma la domanda me la faccio: oltre a far ripartire l’economia, non dovremmo preoccuparci – proprio per il bene dell’economia – di evitare l’arrivo di una seconda ondata?
Perché se una tale seconda ondata dovesse abbattersi sulle nostre teste, quello cui assisteremmo non è una recessione drammatica, peggiore di quella del ’29, ma una catastrofe, l’inabissamento di un’intera civiltà.

Ormai esperti dell’analisi dei dati, virologi e medici si dividono fra pessimisti e ottimisti. Dove l’hanno collocata? E soprattutto: da che parte si sente di stare?
Quella dei pessimisti e degli ottimisti è una commedia, volutamente mandata in scena per permettere alla politica, complice la secretazione dei dati essenziali, di tenersi le mani libere. Se fra gli scienziati vi fosse una posizione dominante o egemonica, se i dati fossero pubblici e di qualità, lo spettro delle scelte della politica si restringerebbe drasticamente, perché alcune scelte apparirebbero chiaramente dannose, o strumentali, o palesemente inappropriate.
Invece così, grazie al chiacchiericcio di tutti (compreso il nostro in questa intervista), grazie alla opinabilità di ogni presa di posizione, i governanti possono tutelare il bene per essi più prezioso: la facoltà di decidere solo in vista del consenso, al di fuori di ogni controllo dell’opinione pubblica.
Quanto a me, so che molti mi classificano fra i pessimisti, o fra i nemici dell’economia. Ma sbagliano. Il pessimismo è un’altra cosa, pessimismo è vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, anche quando non lo è. A me capita un’altra cosa, ossia di non essere dotato di quella che molti studiosi considerano una delle caratteristiche distintive, e uniche, degli esseri umani: la capacità di ridurre la “dissonanza cognitiva” mediante costruzioni mentali che servono ad attenuare l’angoscia, a mitigare la paura, a nascondere rischi e pericoli, a dispetto della cruda realtà.
Insomma, come sociologo penso di appartenere al mondo animale: se una gazzella vede un leone, non pensa che sia un ornitorinco solo per controllare l’ansia che sente dentro di sé. Incredibile: pensa che sia un leone.

Intervista di Gianni Del Vecchio a Luca Ricolfi, Huffington Post, 10 luglio




Sul populismo fiscale

Non sono particolarmente incline all’ottimismo. Tendo a pensare che questo governo ce lo terremo il tempo sufficiente a distruggere l’economia del paese, un’impresa per completare la quale – dopo tutto quel che (non) si è fatto – basta ancora davvero poco. Altri sei mesi così, e neanche Mandrake potrà fare il miracolo. Però dentro di me albergava ancora, fino a pochi giorni fa, un lumicino di speranza. Pensavo: magari adesso hanno capito che devono assolutamente fare qualcosa per salvare l’economia, e magari sanno persino che cosa. Magari nei prossimi mesi vedremo un altro film, magari Renzi – che ci ha messi in questo guaio – prova anche a tirarcene fuori.

Poi, pochi giorni fa, è arrivata una trasmissione televisiva (credo fosse “In Onda”), e quella domanda di uno dei conduttori al ministro dell’economia. Più o meno diceva così: signor ministro, si rende conto che, a forza di scostamenti di bilancio, a breve il rapporto debito/Pil schizzerà dalle parti del 170%, e a quel punto ci sarà poco da fare, o aumenti le tasse o riduci la spesa pubblica, “tertium non datur”, insomma altre alternative non ce ne sono.

A questa osservazione perfettamente ragionevole del conduttore, il ministro dell’economia accennava un sorrisetto di soddisfazione, e ribatteva che no, non è vero, “tertium datur”, un’alternativa c’è.

Non ero affatto curioso di sapere che cosa questo “tertium” potesse essere, perché credevo di saperlo già. Dentro di me mi sono detto: ecco, adesso ripeterà il solito discorsetto degli ultimi 10 anni, tanto elegante quanto evanescente: il problema non è ridurre il numeratore (il debito) ma far crescere il denominatore (il Pil). Il che tradotto significa: se cresciamo abbastanza, il rapporto debito/Pil può diminuire senza aumentare le tasse o tagliare la spesa pubblica, due cose che nessun politico ama fare per paura di perdere voti.

Invece, sorpresa: il “tertium” che il ministro dell’economia ha in mente per ridurre il rapporto debito/Pil è un massiccio recupero di evasione fiscale. Un’idea non nuova, ripetuta per decenni sindacalisti e politici convinti che “se tutti pagassero le tasse, l’Italia risolverebbe tutti i suoi problemi”.

A quel punto ho perso ogni speranza. Perché si può anche ipotizzare che un’idea simile sia un parto solitario del ministro dell’economia, ma la realtà – temo – è che è il governo nel suo insieme che a questo punta: ridurre l’extra-debito rimpinguando le casse dell’erario (e dell’Inps) con i proventi della sacrosanta “lotta all’evasione fiscale”.

Che questa idea, che agli ingenui e ai moralisti pare una genialata, sia invece catastrofica, lo si può capire da due semplici considerazioni.

Primo, una parte non trascurabile dell’evasione fiscale è “di necessità”, come da anni coraggiosamente ripete Stefano Fassina, il che significa che, se dovessero pagare le tasse con le attuali aliquote, centinaia di migliaia di piccole attività semplicemente chiuderebbero, distruggendo un numero enorme di posti di lavoro. Ma c’è anche una seconda considerazione, ancora più decisiva. Supponiamo che, domattina, un fisco improvvisamente divenuto onnisciente ed efficiente, riuscisse a scovare tutti gli evasori, e che nessuna impresa fallisse. Anche ammettendo questa eventualità (chiaramente impossibile), il risultato sarebbe un aumento spaventoso della pressione fiscale, già oggi a livello record, perché i soldi eventualmente recuperati non verrebbero da Marte, come tanti parrebbero credere, ma verrebbero prelevati dalle tasche di produttori e consumatori, con conseguente drastica contrazione del reddito disponibile e della domanda aggregata. Qualcuno può pensare che, con un incremento della pressione fiscale di 7-8 punti di Pil (a tanto ammonta l’evasione fiscale e contributiva) l’economia non riceverebbe il colpo di grazia?

Si può obiettare, naturalmente, che i soldi recuperati con la lotta all’evasione dovrebbero andare a ridurre le aliquote che pesano sull’economia regolare, ma è proprio qui che il ragionamento del ministro dell’economia va in cortocircuito: se non si vuole aumentare la già insostenibile pressione fiscale attuale, e quindi tutti i proventi della lotta all’evasione fiscale vengono (molto opportunamente!) usati per ridurre le aliquote, alla fine non resta un solo euro per ridurre il debito pubblico. Questo è il duro, e inaggirabile, nocciolo del problema.

Giunti a questo punto, si potrebbe supporre che io auspichi che il timone dell’economia passi ad un ministro espressione dell’opposizione, che della riduzione della pressione fiscale ha fatto un articolo di fede. Sfortunatamente, però, anche questa non è una via rassicurante. Uno dei drammi dell’Italia attuale è il populismo fiscale, che vagheggia riduzioni generalizzate delle aliquote senza fare i conti con la realtà, ed è purtroppo radicato sia in buona parte della sinistra giallo-rossa sia in buona parte della destra verde-azzurra. Riduzione dell’Iva e dell’Irpef, taglio delle aliquote contributive, flat tax per tutti e su tutto: di questo parlano i maggiori partiti, a destra come a sinistra. E se la sinistra di governo preoccupa per la sua incapacità di individuare delle priorità e scegliere una politica fiscale realistica, ancor meno rassicura la destra quando Salvini ripropone forme più o meno mascherate di condono fiscale per finanziare la flat tax, o quando dice che la Lega è pronta ad appoggiare qualsiasi riduzione delle tasse, come se questo non equivalesse a confessare di non avere delle chiare priorità.

Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che in materia fiscale le forze più avvedute, e avvedute in quanto capaci di scegliere, non siano quelle con il maggiore seguito elettorale. A sinistra, solo i piccoli partiti di Calenda e Renzi paiono in grado di formulare delle priorità, ancorché talora un po’ vaghe (detassare le imprese e il lavoro). A destra solo Giorgia Meloni, sia pure molto cautamente, ha più volte dato segni di capire che occorre scegliere, e procedere con gradualità: premiare innanzitutto le imprese che aumentano l’occupazione, introdurre la flat tax solo sul reddito incrementale (sui maggiori guadagni da un anno all’altro), unificare le tutele sul mercato del lavoro, superando la frattura fra garantiti e non garantiti.

Una situazione che lascia un enorme spazio al populismo fiscale. Perché la politica economica del governo la fanno Cinque Stelle e Pd, non certo il partitino di Renzi. E, a destra, la linea continua a dettarla Salvini, non certo il partito di Berlusconi, né quello di Giorgia Meloni. Per adesso.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 luglio 2020




Per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia. Intervista a Luca Ricolfi

Intervista al sociologo e Professore di Analisi dei Dati all’Università di Torino. “In una quindicina di province la curva sta risalendo. Questo perché l’Italia è di nuovo un gigantesco lunapark. La politica annacqua la verità per preservare la macchina dei consumi e la società signorile di massa”.

Professor Ricolfi, l’ultimo post che ha pubblicato sul sito della Fondazione Hume – di cui è Presidente e Responsabile scientifico – è abbastanza preoccupante. Sulla base dell’analisi dei dati della Protezione Civile, vien fuori che ci sono ben 15 province in cui ci sono segnali di ripresa dell’epidemia. In altre 7 la curva dei contagi fa fatica a convergere a zero. Cosa sta succedendo?
Che cosa stia esattamente succedendo, in realtà, non lo sa nessuno. Oggi è uscito un paginone del Corriere della Sera con i pareri di una decina di autorevoli esperti, chiamati a commentare le tesi rassicuranti del prof. Remuzzi, secondo cui la maggior parte dei positivi non sarebbe contagiosa: ne sono venute fuori almeno 4-5 interpretazioni diverse della situazione.
Quel che posso dire io, che non sono un virologo e mi occupo di analisi dei dati, è che i segnali delle ultime due settimane non sono per niente rassicuranti. Se guardiamo quel che succede a livello nazionale, possiamo anche non accorgerci di quel che sta accadendo, perché il dato nazionale è una media, in cui le curve epidemiche dei vari territori si mescolano e giocano a rimpiattino fra loro, nascondendo quel che succede nei territori critici. Ma se si scende al livello più basso consentito dai dati della protezione Civile, ossia a livello provinciale, si riesce a vedere quel che a livello nazionale si intravede appena, e cioè che sono una quindicina le province in cui la curva epidemica, anziché continuare a scendere, ha invertito la sua corsa e ha iniziato a risalire.

Quali sono queste 15 province?
Molte (8) sono in Lombardia, e fra esse c’è Milano. Ma molte (7) sono in altre regioni del Nord o del Centro: Alessandria, Vercelli, Bologna, Arezzo, Rieti, Roma, Macerata.
Se poi consideriamo anche un secondo gruppo di province, in cui i segnali di ripresa dell’epidemia ci sono ma sono meno nitidi, se ne devono aggiungere altre 7, fra cui Padova, Firenze e persino una provincia del Sud (Chieti). In tutto fa ben 22 province (su 107) in cui dovrebbero scattare piani per evitare che il contagio torni a dilagare.

A maggio i dati invece sono stati positivi nonostante le prime riaperture, quelle degli esercizi commerciali. Il problema quindi riguarda gli spostamenti della popolazione? Il turismo?
Ha toccato il punto chiave, non solo della situazione attuale, ma di tutta la storia del Covid-19. Il turismo, o meglio la pretesa della politica di proteggere il turismo a qualsiasi prezzo, ci è costato prima (nelle 2 settimane a cavallo fra febbraio e marzo) un imperdonabile ritardo nelle chiusure, a partire dalla tragica vicenda di Nembro e Alzano. E rischia di costarci ora una ripartenza dell’epidemia, perché nessuno vuole vedere che il famigerato parametro Rt (che dovrebbe stare sotto 1) potrà pure essere ancora sotto 1 a livello nazionale, ma quasi certamente è tornato sopra a 1 in molti territori: i nostri grafici provinciali lo mostrano chiaramente, ma sono convinto che se avessero la benevolenza di farci accedere ai dati comunali, scopriremmo delle curve di risalita ancora più ripide, anche se più circoscritte.
E’ perfettamente verosimile, infatti, che l’aumento dei contagiati in una provincia sia concentrato solo in alcuni comuni, che sarebbe fondamentale individuare, anche per non chiudere tutta la provincia o addirittura tutta la regione.
Quel che stiamo scoprendo, in queste settimane, è che la riapertura delle attività economiche, avvenuta essenzialmente a maggio, ha provocato conseguenze molto meno gravi di quelle che sta producendo la riapertura delle attività “ricreative”, che è in corso in questo mese di giugno.

Lei vuole dire che il ritorno al lavoro dei produttori ha fatto meno danni (sanitari) dell’andata in vacanza dei loro familiari?
Sì, fondamentalmente voglio dire proprio questo. Fino a che le scuole sono rimaste chiuse e i ragazzi sono stati tenuti in casa, fino a che sui mezzi di trasporto sono state in vigore limitazioni strettissime (e raccomandazioni asfissianti), fino a che i flussi turistici da e verso l’estero sono rimasti bloccati, finché alle famiglie è stato impossibile muoversi fra regioni per i fine settimana, finché la ristorazione, le spiagge e tutta l’industria del divertimento sono state tenute in stand-by, il Covid-19 ha avuto vita dura, ed è stato costretto a rallentare la sua corsa. Il ritorno al lavoro di milioni di persone, attentissime a non contagiarsi vicendevolmente e sorvegliate da datori di lavoro preoccupati di incorrere in sanzioni, ha avuto un impatto minore del “ritorno alla vita” (possiamo chiamarlo così?) dei protagonisti di quella che io chiamo la “società signorile di massa”. Anche grazie all’arrivo della bella stagione i tavolini dei bar, i parchi cittadini, i locali della movida, le spiagge (specie nei weekend) si sono improvvisamente animati. Finite le scuole, i giovani hanno cominciato a sciamare per le città, le mamme hanno cominciato a portare al mare e nei centri vacanze i loro pargoli, i tifosi hanno finalmente potuto riprendersi il calcio e gli altri sport più popolari, e l’Italia tutta è tornata – quasi di colpo – ad essere luogo di attrazione turistica, sia dall’interno che dall’estero.
Insomma, dopo il 2 giugno siamo tornati ad essere il gigantesco luccicante lunapark che da qualche decennio siamo sempre stati. Il Covid ringrazia.

Chi governa l’epidemia, dal premier Conte fino ai vertici dell’Iss, è consapevole di questo andamento? A me non sembra che finora sia stato inviato questo messaggio “prudenziale” agli italiani. Anzi, la comunicazione delle istituzioni è ormai molto rilassata.
Difficile essere nella testa del premier. Una persona che, dopo aver commesso errori tragici, dalle mancate o tardive chiusure fino alla scellerata lotta contro i tamponi, ha la faccia tosta di dire “rifarei tutto”, sfugge alla mia personale capacità di comprensione e immedesimazione nella mente altrui. Quindi sul premier le rispondo: non ne ho la minima idea, può persino darsi che creda sinceramente di aver fatto bene. La psicologia e le scienze umane insegnano che le vie dell’autoinganno e della falsa coscienza sono infinite.

E sulle autorità sanitarie?
Diverso è il discorso sui membri del Comitato tecnico-scientifico e sul ministro Speranza. I primi hanno detto chiaramente che Conte ha ignorato le loro raccomandazioni sull’opportunità di chiudere Nembro e Alzano ai primi di marzo. Il secondo ha avuto un sussulto di onestà intellettuale, o forse semplicemente di pudore, quando, in un’intervista, ha lasciato intendere che, con l’esperienza maturata fino a oggi, forse non rifarebbe le scelte che fece allora.
La mia impressione è che, avendo molti più dati di chiunque, sappiano perfettamente che la situazione si sta deteriorando e che, con le ultime riaperture e la scelta di chiudere un occhio sulle violazioni delle regole, il premier sta facendoci correre il rischio di una seconda ondata epidemica. Il loro problema è che, come chiunque ha accettato di condividere incarichi di governo, non sono liberi di dire la verità.
Di qui la contraddizione insanabile della comunicazione nella fase 3. Per evitare una nuova esplosione dell’epidemia veniamo ancora, ma sempre meno convintamente, invitati alla prudenza, al distanziamento sociale, all’uso delle mascherine. Nello stesso tempo, assistiamo a un continuo rilassamento delle regole, che veicola il messaggio opposto: se ci lasciano salire sui treni e sugli aerei senza rispettare i 2 metri di distanza, se sui mezzi pubblici e nei negozi non ci sono controlli, se gli assembramenti sono sistematicamente tollerati, la gente non può non pensare che il peggio è passato. E quindi abbassa la guardia, e si autorisarcisce del periodo di lockdown riappropriandosi delle vecchie abitudini.
Inutile girarci intorno: il rilancio del turismo e dell’economia del divertimento (ristorazione, calcio, sale giochi, eccetera) è incompatibile con un discorso di verità sull’andamento dell’epidemia. E la politica ha scelto: in questo momento meglio annacquare la verità, se no la macchina dei consumi non riparte, e la società signorile di massa implode.

Il problema di questa fase mi sembra più puntuale che generale: gestire i singoli focolai sul territorio più che seguire l’andamento nazionale. Il caso di Roma, con i suoi due focolai a Garbatella e al San Raffaele, insegna. Bisognerebbe quindi monitorare l’epidemia partendo dai dati comunali e non da quelli aggregati per regione?
Sì, è quello che, implicitamente, suggerisce il prof. Crisanti, quando denuncia che stiamo perdendo l’occasione di debellare il virus, e che così facendo esponiamo l’Italia al rischio di una seconda, potenzialmente catastrofica, ondata epidemica in autunno. L’idea è che, se vogliamo sconfiggere il virus, dobbiamo approfittare della brevissima stagione in cui è debole, che è esattamente questa. Poi, quando arriverà il freddo, se avremo consentito che in Italia circolino ancora migliaia di soggetti contagiosi, sarà troppo tardi per fermare la valanga.

Forse però c’è anche un problema di lettura dei dati più complessivo. Lei che è uno studioso e docente proprio di questa materia, che ne pensa?
Penso che dei dati è stato fatto un uso folle, per non dire demenziale. Già la qualità dei dati della Protezione Civile è pessima, ma proprio per questo ci sarebbe voluta una grande attenzione, un grande rigore, una grande pazienza nello spiegare correttamente il loro significato.

Ci fa un esempio di uso improprio dei dati?
Gliene potrei fare almeno una decina, dal più banale al più sofisticato. Un esempio banale è questo: per settimane ci si è compiaciuti che certe regioni avessero zero morti, e ancora oggi ogni sera si sente dire che un certo numero di regioni ha zero morti o zero contagi, dimenticando di osservare che, quasi immancabilmente, le regioni esenti sono semplicemente quelle più piccole (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata ecc.).

E l’esempio sofisticato?
Il numero di guariti o dimessi. Immancabilmente presentato come una buona notizia, è invece per lo più anche, se non soprattutto, una pessima notizia.

Perché mai?
Provo a spiegarlo a partire da un dato di questi giorni, ovvero il fatto che il numero di pazienti in terapia intensiva è pressoché costante. In una situazione di costanza degli ospedalizzati, un alto numero di guariti implica logicamente un elevato numero di ingressi in ospedale, perché – se il numero di ricoverati resta costante – vuol dire che i pazienti che escono (guariti Covid) sono sostituiti da pazienti che entrano (nuovi malati Covid). L’ospedale è come un lago, con un fiume immissario e un fiume emissario: se il livello delle acque del lago è costante, e ci dicono che c’è un emissario che lo sta svuotando (i guariti o dimessi), allora deve per forza esserci a monte un immissario che lo alimenta (i nuovi pazienti).
Insomma: per mesi ci hanno inondato di buone notizie sui guariti, che a ben guardare tanto buone non erano.

Un’ultima domanda: anche in altri paesi, penso alla Cina e alla Germania, si nota una certa recrudescenza del virus. In Italia nota lo stesso trend o abbiamo una nostra specificità?
Chi si occupa di dati non dà alcuna importanza alle cifre che vengono comunicate dalle autorità di paesi totalitari (Cina) e/o troppo arretrati (Iran, Brasile). Diverso il discorso sui circa 30 paesi avanzati e più o meno occidentalizzati, come la Germania e l’Italia. Come Fondazione Hume abbiamo un dossier, non ancora pubblicato, che compara l’andamento delle curve epidemiche di 30 paesi avanzati con la curva epidemica dell’Italia. Ebbene, il risultato della comparazione è impressionate, e mortificante per l’Italia.
Cominciamo dalla Germania. In realtà la recrudescenza è stata solo una piccola fluttuazione, e il numero di morti per abitante è 5 volte più basso di quello dell’Italia. Quanto agli altri paesi, se si eccettuano 4 casi (Usa, Regno Unito, Belgio, Svizzera), tutti gli altri hanno avuto una curva epidemica molto più rassicurante, o perché sistematicamente più “bassa” di quella dell’Italia, o perché più rapidamente convergente verso la meta degli zero contagi. Soprattutto, colpisce il fatto che, pur avendo subito l’epidemia dopo di noi, quasi tutti gli altri paesi avanzati ne siano usciti prima, e molti di essi abbiano già oggi un numero di morti vicinissimo a zero. Fra questi paesi già sostanzialmente liberati dal Covid troviamo Spagna, Germania, Austria, Danimarca, Lussemburgo, Portogallo, Grecia, Norvegia, Israele, Finlandia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lituania. Bisognerebbe studiarli a fondo, questi casi a lieto fine, per capire come hanno fatto a debellare il virus, e provare a imitarli.
Lei mi chiede se l’andamento dell’Italia abbia una sua specificità, rispetto a quello degli altri paesi. Tenderei a rispondere che sì, la curva epidemica dell’Italia è molto diversa da quella della maggior parte dei paesi occidentali, ma non è un unicum. Almeno altri due paesi hanno una curva epidemica simile: gli Stati Uniti, che però presentano un picco più basso del nostro, e il Regno Unito, che ha un profilo quasi identico a quello dell’Italia.

E’ casuale questa somiglianza con Stati Uniti e Regno Unito?
Forse è casuale, o meglio è frutto di un complesso di fattori, che insieme hanno prodotto il medesimo risultato. Ma potrebbe anche non essere del tutto accidentale, se riflettiamo su un punto: Italia, Stati Uniti e Regno Unito, fra i paesi di tradizione occidentale, sono i soli con un governo populista.
E almeno una cosa la abbiamo imparata, in questa pandemia: il primo istinto dei governi populisti è negare o minimizzare la realtà, il secondo è tardare a prenderne atto, il terzo è rassegnarsi al lockdown quando è troppo tardi. E’ questo che è successo negli Stati Uniti, è questo che è successo nel Regno Unito, è questo che sta succedendo in Brasile.
L’Italia non fa eccezione: quando è arrivato il momento delle decisioni difficili, a partire dalla chiusura di Nembro e Alzano, si è preferito temporeggiare, perdendo settimane preziose, e così fornendo al virus un insperato vantaggio.
Ora stiamo ripetendo il medesimo errore. Per sostenere il turismo, e risarcire gli italiani della lunga quaresima imposta nei lunghi giorni della segregazione, stiamo mettendo a repentaglio i sacrifici di ieri, e facendo correre a tutti il rischio di una nuova ondata, che non solo farebbe altri morti, ma – per ironia della sorte – infliggerebbe il colpo di grazia all’economia, ovvero precisamente al bene che la dottrina della riapertura presume di proteggere.
Che Dio ce la mandi buona!

Intervista a cura di Gianni Del Vecchio rilasciata all’Huffington Post il 21 giugno 2020




Contro la sagra dell’ovvio

Degli Stati generali dell’economia si è detto di tutto. Che sono solo una passerella, che sono un omaggio alla Troika, che rischiano di essere “generici” più che generali, che parole d’ordine come “modernizzazione, transizione ecologica, inclusione” sono di una banalità disarmante (e forse anche un po’ irritante). Beppe Severgnini si è giustamente chiesto quale capo di governo potrebbe mai puntare, invece, su “invecchiamento, inquinamento, esclusione”. Quanto agli inviti alla “concretezza”, che sono piovuti da tutte le parti in questi giorni, non si può non osservare che, finché non si indicano dettagliatamente le cose da fare e soprattutto quelle da non fare, o che sarà impossibile fare subito, non c’è nulla di più astratto dell’invito a essere concreti.
Per parte mia, sono stato colpito soprattutto da due circostanze. La prima è la scelta di tenere gli Stati generali a porte chiuse, senza ammettere ai lavori né i giornalisti né altri osservatori indipendenti. Una scelta aggravata dal fatto che non è la prima volta che il governo percorre la via della non trasparenza. Invano i giornalisti hanno richiesto, nei mesi scorsi, i verbali delle riunioni del Comitato tecnico-scientifico. Invano gli studiosi hanno atteso che l’Istituto Superiore di Sanità mettesse a disposizione i propri dati (o almeno parte di essi), un’esigenza resa sempre più impellente dalla pessima qualità dei dati diffusi dalla Protezione Civile.
Ma la circostanza che più mi ha colpito è un’altra, che peraltro non dipende solo dal governo ma anche dall’opposizione, e in definitiva da tutti noi: la mancanza di un dibattito di politica economica all’altezza della gravità della situazione dell’Italia. Tutta la discussione sul futuro economico-sociale del Paese si svolge sulle note dell’ovvio più ovvio e più trito. Gli esponenti dell’esecutivo sciorinano la mesta giaculatoria dei due-trecento problemi irrisolti del paese, come se – dopo almeno tre decenni di atti mancati – improvvisamente ci fossero le condizioni politiche per porvi mano. Di qui la solita invocazione sulla necessità di “fare le riforme” (quali, con quali priorità e quali tempi?), la immancabile proclamazione della necessità di attuare interventi espansivi per “stimolare la domanda interna”, l’attesa messianica delle ingenti risorse promesse dall’Europa, il tutto condito dalla commedia dell’accesso ai fondi del Mes, con il Pd nella veste di poliziotto buono e i Cinque Stelle in quello di poliziotto cattivo.
Per chi è vissuto in epoche nelle quali la politica economica era oggetto di un serrato dibattito pubblico, nonché di contrapposizioni appassionate, lo spettacolo di questi giorni è più stupefacente che deprimente.
Eppure le scelte che abbiamo davanti non sono né ovvie né facili. Finora la politica economica, con i suoi ritardi e la sua impostazione assistenziale (a oggi sono circa 40 i “bonus” vigenti), ha gettato le basi per trasformare l’Italia in una “società parassita di massa”, in cui il numero dei produttori (già esiguo prima della crisi) si restringe ulteriormente, e una frazione sempre più grande della popolazione è ridotta a dipendere dalla benevolenza della mano pubblica. Siamo sicuri di volere questo? O preferiamo illuderci che non andrà così? E se pensiamo che non andrà così, su quali basi siamo in condizione di ipotizzare un percorso diverso? Come pensiamo di gestire i conti pubblici quando il rapporto debito/Pil sarà a livelli greci e i mercati finanziari rialzeranno la testa?
Si potrebbe pensare che a queste domande, cui la sinistra al governo non sa rispondere perché manco se le fa, sia in grado di rispondere l’opposizione di destra. Ma basta scorrere i programmi economico-sociali della destra, e segnatamente della Lega che ne è il partito più forte, per rendersi conto che anche la destra non ha un’idea convincente del futuro dell’Italia. Per certi versi, anzi, la politica economica della sinistra e quella della destra appaiono varianti del medesimo schema. La tentazione assistenziale, come dimostra la battaglia di tutto il centro-destra per quota 100, non è monopolio della sinistra. E la propensione a risolvere i problemi allargando la voragine del debito pubblico è quanto di più bipartisan sia dato osservare nella politica italiana. Come bipartisan è il mantra degli investimenti pubblici, immancabilmente da “rilanciare” e da “sbloccare”, ma inspiegabilmente sempre al palo.
Certo, si potrebbe pensare che, se non vogliamo affogare nell’assistenzialismo, se vogliamo che l’iniziativa privata non sia definitivamente soffocata e sepolta dall’invadenza degli apparati pubblici, faremmo meglio a cambiare esecutivo e affidarci alla destra. Dopotutto “meno tasse” è l’imperativo fondamentale dell’opposizione di destra, mentre dalla sinistra il meno peggio che possiamo aspettarci in materia fiscale sono ulteriori dosi di sacrosanta “lotta all’evasione fiscale” (il peggio è una patrimoniale e un aumento delle aliquote). Ma attenzione, il diavolo si annida nei dettagli. Meno tasse non vuol dire nulla se non si specifica quante meno tasse, e per chi. E l’esperienza degli anni passati, e dei programmi elettorali, suggerisce che il “meno tasse” della destra sia più al servizio della ricerca del consenso che a quello della crescita. Era così fin dai tempi del “contratto con gli italiani”, che prometteva l’abbattimento delle imposte sulle famiglie ma era silente sull’imposta societaria (Ires) e sull’Irap. Ed è così oggi, in piena crisi Covid, quando riemergono i fantasmi dei condoni fiscali, comunque li si voglia denominare: rottamazione delle cartelle, saldo e stralcio, pace fiscale. Come se, per evitare la chiusura di centinaia di migliaia di attività, fosse più importante un condono una-tantum che assicurare un lungo periodo di basse aliquote.
Il fatto è che destra e sinistra, fondamentalmente, non differiscono negli scopi, ma nel modo di perseguire il proprio scopo dominante, ovvero l’acquisizione del consenso: la sinistra predilige incrementare il debito pubblico per distribuire bonus e mance, la destra incrementare il debito pubblico per distribuire esenzioni e sgravi fiscali.
Ad entrambe, mi pare, manchi la consapevolezza che di debito ulteriore, passata la crisi, non ne potremo fare molto, e quindi è essenziale non riproporre per l’ennesima volta – come è di moda in questi giorni – l’elenco dei 2-300 “ritardi” dell’Italia, ma dire chiaramente quali siano le 2-3 cose di cui ci si occuperà effettivamente nei prossimi mesi, e come lo si intenda fare. Possibilmente nei dettagli.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 giugno 2020