I conti non tornano

Quando, un paio di mesi fa, uscirono le prime stime Istat sul numero di contagiati ne rimasi molto stupito. Secondo l’indagine, condotta fra la fine di maggio e parte del mese di luglio, le persone in cui erano stati rilevati anticorpi (persone “con esito IgG positivo”) erano solo 1 milione e mezzo, pari al 2.5% della popolazione. Questi numeri sono stati quasi sempre interpretati come stime del numero di persone “venute a contatto con il virus” fino a quel momento, ovvero come valutazioni della “reale diffusione dell’infezione”.

Il mio stupore poggiava su tre elementi. Il primo è che, fin dai mesi della massima espansione dell’epidemia, autorevoli studiosi avevano congetturato cifre molto più alte, per lo più comprese fra 4 e 10 milioni di contagiati. Il secondo elemento fonte di perplessità è che, nei casi in cui erano state effettuate indagini di sieroprevalenza su popolazioni ordinarie (senza un cluster di contagi in atto), le percentuali emerse erano risultate sistematicamente più alte, talora molto più alte, del 2.5% stimato dall’indagine Istat. Ma la mia maggiore fonte di perplessità derivava da una conseguenza logica della stima Istat: poiché nel periodo dell’indagine i morti Covid ufficiali erano 35 mila, e quelli effettivi erano almeno 60 mila (come si sa molte morti per Covid sono sfuggite alle statistiche ufficiali), la stima di soli 1.5 milioni di persone entrate a contatto con il virus implicava logicamente un tasso di letalità del 4% (60000/1500000=0.04). Troppo alto rispetto a quel che si sa dalla letteratura scientifica, ormai sostanzialmente concorde sul fatto che il tasso di letalità effettivo dovrebbe essere compreso fra lo 0.5% congetturato dai più ottimisti, e l’1.5% congetturato dai più pessimisti.

I miei calcoli, basati sull’ipotesi (probabilmente ottimistica) che i morti effettivi fossero un po’ meno del doppio di quelli ufficiali, fornivano queste cifre: se il tasso di letalità effettivo fosse dell’1.5%, i contagiati totali sarebbero dovuti essere non 1.5 bensì 4 milioni, se fosse dell’1% avrebbero dovuto essere 6 milioni, se fosse dello 0.5% avrebbe dovuto essere 12 milioni, ben 8 volte la stima deducibile dall’indagine Istat.

Perché, fino ad oggi, non ho mai reso pubblici questi calcoli, peraltro del tutto elementari?

La ragione fondamentale è che non avevo una spiegazione convincente dello scostamento fra le mie congetture e i dati Istat. Ora invece, grazie a un fondamentale studio del prof. Paolo Gasparini, ordinario di Genetica dell’Università di Trieste, una spiegazione esiste. Ed è una spiegazione abbastanza inquietante. La ragione per cui l’Istat ha trovato solo 1.5 milioni di persone presumibilmente “venute a contatto con il virus” è che gli anticorpi IgG su cui l’indagine si basa durano pochissimo. E’ ancora presto per dire quanto durano, ma lo studio del gruppo del prof. Gasparini suggerisce che la sopravvivenza a 3 mesi sia inferiore al 10%, e che il tasso di decadimento possa essere dell’ordine del 20% la settimana. Il numero di contagiati che l’Istat ha stimato, in altre parole, non è nemmeno lontanamente assimilabile al totale effettivo delle persone contagiate fino al momento dell’indagine (giugno-luglio), ma è semplicemente il numero di persone i cui anticorpi non erano ancora scomparsi.

Ma c’è un altro elemento molto interessante di questa indagine, basata su due rilevazioni condotte a 3 mesi di distanza su personale dell’Ospedale materno infantile Burlo Garofalo di Trieste. Nella prima rilevazione, che risale ai primi di aprile, il numero di contagiati del sottocampione più assimilabile alla popolazione generale (gli amministrativi) era del 9.6%. Se riportiamo questa percentuale all’intera popolazione, otteniamo un numero di contagiati (ai primi di aprile) di poco inferiore a 6 milioni. Ma questo numero, ricondotto all’epoca dell’indagine Istat (che è successiva), porta a valutare il numero totale di contagiati in 8-9 milioni, che è un valore intermedio fra quello della curva alta e quello della curva media (vedi grafico).

Conclusione. E’ verosimile che, a oggi, il numero di contagiati totali dall’inizio dell’epidemia sia non lontano da 10 milioni, e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5 e l’1%.

Ma questa è, al tempo stesso, una buona e una cattiva notizia. E’ una buona notizia perché ci dice che, anche conteggiando i morti nascosti (non rilevati nelle statistiche ufficiali) il tasso di letalità è inferiore all’1%, e piuttosto lontano dai tassi (dal 2 al 4%) spesso ipotizzati nelle prime fasi dell’epidemia. E’ una cattiva notizia, perché ci dice che, nonostante un lungo e severo lockdown, e nonostante le precauzioni adottate nei mesi successivi, il numero di italiani che hanno contratto il virus è molto più alto di quanto supponessimo prima; e che il numero di italiani che hanno gli anticorpi, e quindi sono presumibilmente più protetti dal rischio di reinfezioni, è terribilmente basso, in barba alla dottrina dell’immunità di gregge.

A quanto pare, il virus è leggermente meno cattivo del previsto, ma è molto più alto di quanto si supponesse il rischio di venire a contatto con il virus. Una realtà negata da troppi, e che le drammatiche cifre diffuse ieri sera dalla Protezione civile (24 morti e oltre 2500 nuovi infetti nelle ultime 24 ore) purtroppo confermano.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.

Pubblicato su Il Messaggero del 2 ottobre 2020




Quanti sono i contagiati in Italia?

Nel grafico seguente riportiamo alcune stime del numero di persone contagiate dal virus Sars-Cov-2 dall’inizio dell’epidemia alla fine di luglio e le confrontiamo con la stima fornita dall’Istat all’inizio di agosto sulla base di una vasta indagine nazionale di sieroprevalenza.

La traiettoria dei contagiati è stata costruita assumendo, prudentemente, che il numero effettivo di morti per Covid-19 sia un po’ inferiore al doppio del numero ufficiale (per l’esattezza: 1.71 volte), e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5% e l’1.5%.

Le tre curve sviluppano tre ipotesi sul tasso di letalità (0.5%, 1%, 1.5%) secondo la seguente espressione:

contagiatit = 1.7 * mortit+τ / λhyp

dove τ rappresenta la sfasatura fra contagio e morte (assunta pari a 14 giorni), e λhyp è il tasso di letalità sotto le 3 ipotesi (λ1 = 0.005, curva rossa; λ2 = 0.01, curva gialla; λ1 = 0.015, curva verde).

Il valore di τ è presumibilmente variabile nel tempo ma, nel range 10-25 giorni, non modifica in modo apprezzabile il profilo delle varie curve.

La linea orizzontale in basso rappresenta la stima dell’Istat, ottenuta con un’indagine di sieroprevalenza svolta fra la fine di maggio e la fine di luglio.

Il grafico si ferma al 31 luglio perché, dopo quella data, a causa dell’abbassamento dell’età mediana dei contagiati e la conseguente progressiva riduzione (temporanea) del tasso di letalità medio, non è più possibile assumere la sostanziale proporzionalità fra numero di contagiati e numero di morti.

Come si vede l’Istat stima 1.5 milioni di contagiati, mentre le nostre stime suggeriscono un numero di contagiati compreso fra 4 e 12 milioni.

Per una spiegazione più ampia vedi “Il Messaggero” del 2 ottobre 2020 e, a partire dal 3 ottobre, il sito della Fondazione Hume.




Noi e gli altri. Seconda ondata?

Di “seconda ondata” ormai si parla da qualche mese. In Europa come in Italia. Ma non mi è ancora capitato di sentire una definizione precisa di che cosa si debba intendere per seconda ondata, e che cosa esattamente distingua un’ondata da una “ondina”, o da una serie di ondine.

In questo vuoto di definizioni statistiche, anche l’affermazione che ci sarà o non ci sarà una seconda ondata diventa vuota di significato. Proviamo allora ad abbozzare una definizione, per poi tornare alla domanda.

Per “seconda ondata” è ragionevole intendere una situazione nella quale sia il numero di contagiati per 100 mila abitanti, sia la sua velocità di crescita siano quantitativamente comparabili a quelli della prima ondata, che nella maggior parte dei paesi si è sviluppata tra marzo e maggio.

Dunque, in Italia sta arrivando una seconda ondata? E negli altri paesi?

Qui arriva il difficile. Per applicare la nostra definizione, bisognerebbe conoscere il numero dei contagiati e il suo andamento nel tempo, che sono grandezze incognite non solo in Italia ma ovunque nel mondo. Quel che conosciamo, paese per paese, è solo il numero di nuovi casi diagnosticati ogni giorno, che sono molti di meno dei casi effettivi. Per ricostruire la curva epidemica reale di ogni paese dovremmo conoscere il moltiplicatore che fa passare dai casi diagnosticati a quelli effettivi. Non solo, ma dovremmo sapere come il moltiplicatore varia nel tempo e nello spazio, fra paesi e all’interno di un paese. Senza queste informazioni sia i confronti nel tempo sia quelli nello spazio diventano problematici.

Fortunatamente, qualche frammento di informazione ce l’abbiamo. Sappiamo, ad esempio, che il moltiplicatore dell’Italia è almeno 6, dal momento che il numero di contagiati totale stimato dall’Istat con l’indagine di sieroprevalenza di giugno-luglio è dell’ordine di 1 milione e mezzo, ossia 6 volte il numero di casi diagnosticati, che è dell’ordine di 250 mila. Sappiamo anche, dai calcoli effettuati dalla Fondazione Hume comparando dati di mortalità e casi diagnosticati, che il moltiplicatore varia notevolmente nel tempo e nello spazio, perché la capacità diagnostica non è né costante né uniforme. La capacità diagnostica, ad esempio, differisce notevolmente da regione a regione (vedi grafico 1), e anche da paese a paese, generando marcate differenze fra i moltiplicatori che occorre applicare ai dati grezzi. Il moltiplicatore dell’Italia, ad esempio, è sensibilmente più alto di quello di Francia e Germania, perché la nostra capacità diagnostica è sensibilmente inferiore. Ecco perché i confronti internazionali, dai quali principalmente traiamo motivi di conforto, andrebbero presi con prudenza: per comparaci alla Germania, ad esempio, dovremmo quasi triplicare i nostri tassi di incidenza.

Detto tutto questo, e nonostante tutto questo, torniamo al punto: è in arrivo una seconda ondata in Italia? Che cosa si può dire in base ai dati disponibili?

La prima parte della risposta è confortante. Se parliamo dell’Italia nel suo insieme, e in mancanza del numero di contagiati “vero” ci basiamo sul numero di contagiati rilevato con i tamponi, possiamo dire che, al momento, siamo ancora molto lontani da una seconda ondata. E’ vero che la curva epidemica è tornata a salire, è vero che di questo dobbiamo ringraziare le imprudenze estive degli italiani e dei loro governanti (discoteche aperte, movida, ecc.), ma è anche vero che sia il numero di contagiati, sia la velocità a cui crescono attualmente non sono comparabili a quelli di marzo-aprile. E il risultato del confronto fra oggi e marzo-aprile risulterebbe ancora più rassicurante se, anziché disporre solo della serie storica dei casi diagnosticati, disponessimo di quella dei casi effettivi. Quel che è certo, infatti, è che il moltiplicatore di marzo-aprile era molto più alto di quello di oggi o, detto in altre parole, ieri la parte sommersa dell’iceberg del contagio era molto più grande.

Ma c’è anche una seconda parte della risposta, ed è meno rassicurante. In una fase come questa, quel che è importante non è che cosa succede in media, ma che cosa succede nei singoli territori. Certo, possiamo tranquillizzarci perché il mare è molto meno agitato di sei mesi fa, ma dobbiamo chiederci se lo è ovunque, o ci sono invece golfi, insenature e calette dove il mare sta salendo pericolosamente. Ebbene, qui la risposta è diversa da quella sull’Italia nel suo insieme. Perché c’è una provincia, La Spezia, in cui la situazione è molto preoccupante. L’incidenza bisettimanale (nuovi casi ogni 100 mila abitanti), corretta per la capacità diagnostica della Liguria, è quasi 20 volte quella media nazionale (vedi grafico 2). E se compariamo la situazione di oggi con quella di ieri è inevitabile concludere che sono piuttosto simili: la curva epidemica di La Spezia presenta due picchi, uno ad aprile (in pieno lockdown), l’altro questo mese di settembre; l’altezza dei due picchi è la stessa, e la velocità del contagio è comparabile.

Insomma, per la Spezia la domanda non è se, e quando, arriverà la seconda ondata: la seconda ondata è in corso. Semmai viene da chiedersi che cosa si aspetta a intervenire con la dovuta determinazione.

E’ l’unico caso, quello di La Spezia?

Se, in assenza di dati comunali, ragioniamo a livello provinciale, la risposta è che, per ora, non ci sono province con una situazione epidemica grave come quella di La Spezia. La peggiore provincia dopo la Spezia è Genova (ancora una provincia ligure), ma i casi di Genova sono meno di 1/6 di quelli di La Spezia, ancorché il triplo della media nazionale. Come Genova, ci sono una decina di altre province, metà al Nord e metà al Sud, in cui l’incidenza effettiva – senza raggiungere i livelli record di La Spezia – è molto superiore a quella nazionale (vedi grafico 3).

Converrà tenerle d’occhio, prima che il mare si alzi anche lì.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 settembre 2020




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020