Covid: una Norimberga per “crimini di pace”?

Ma come fanno a non capire? E come facciamo noi cittadini a sopportare tanta incoscienza?
Chiedo scusa al lettore per il modo crudo con cui inizio questo articolo ma, dopo mesi passati a cercare di mettere il mondo politico di fronte ai numeri di questa epidemia, sono sgomento. A quanto pare il manipolo di politici e burocrati della sanità che ormai da otto mesi è padrone delle nostre vite, e settimana dopo settimana stabilisce (senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno al Parlamento) che cosa possiamo fare e che cosa no, non ha ancora capito. E, sia chiaro, dico “non ha ancora capito” per lasciar loro una ciambella di salvataggio, una scusante. Se avessero capito, e agito come hanno agito in piena coscienza, dovremmo cominciare pensare a una Norimberga per “crimini di pace”. Perché 36 mila morti ufficiali, il tracollo dell’economia, milioni di persone alla disperazione, centinaia di migliaia di attività che stanno chiudendo, una seconda ondata che sta per sommergerci, sono un bilancio che non possiamo accettare da nessuna classe dirigente. Tanto più se consideriamo che la maggior parte degli altri paesi ha pagato un prezzo molto più modesto, sia in termini di morti sia in termini di punti di Pil perduti.

Ma veniamo al punto. Che cosa non hanno capito?

Non hanno capito, prima di ogni altra cosa, l’aritmetica di un’epidemia. Ammetto che non è molto intuitiva, ma con un piccolo sforzo possiamo capirla. Dunque proviamo a spiegarla, usando un esempio che si usa a scuola, specialmente in Francia, a quanto pare. C’è uno stagno, e al centro dello stagno c’è una ninfea. Il numero di ninfee raddoppia ogni notte, e lo stagno ne può contenere fino a 1000, prima di saturarsi e far soffocare tutto ciò che contiene. Il contadino che custodisce lo stagno si sveglia al mattino e nota che le 2 ninfee del giorno prima sono diventate 4. Il giorno dopo nota che sono 8. Il giorno dopo ancora che sono 16. Dopo una settimana sono 128, e occupano meno del 13% dello stagno. Il contadino non è preoccupato: penserà domani a ripulire lo stagno, in fondo in 7 giorni le ninfee sono cresciute lentamente, meno di 20 ninfee al giorno. Ma oggi è venerdì, e il contadino pensa: sabato e domenica mi riposo, lo stagno lo ripulirò lunedì o martedì. Lunedì le ninfee sono 512, ma il contadino rimanda ancora una volta la pulizia, e in una sola notte le ninfee diventano 1024, riempendo tutto lo stagno: ora è troppo tardi, perché in una sola notte le ninfee sono cresciute di numero quanto nei 9 giorni precedenti. Lo stagno è saturo, tutta la vita animale e vegetale che conteneva è morta o sta morendo.

Questa, all’osso, è l’aritmetica di un’epidemia. I giorni del nostro apologo sono le settimane che il governo aveva di fronte per intervenire. I primi segnali di ripresa dell’epidemia risalgono a metà giugno, ma non erano facilmente riconoscibili senza strumenti raffinati. Invece a partire da luglio capire che l’epidemia stava rialzando la testa era facilissimo, bastava non ignorare i dati della Protezione Civile. Ricoveri, terapie intensive, rapporto nuovi casi/tamponi hanno cominciato a crescere in modo esponenziale (e rapido) già da luglio. E da settembre lo hanno cominciato a fare anche i dati dei decessi, che nei mesi precedenti erano stati frenati dall’abbassamento dell’età mediana dei contagiati (gli under-50 muoiono molto meno degli over-50), creando così l’effetto-Sgarbi, ossa l’ingenua credenza che pochi morti al giorno significassero epidemia domata.

In questa situazione che cosa hanno fatto i nostri governanti?

Anziché cominciare a ripulire lo stagno, hanno rimandato ogni intervento al futuro, contando sul fatto che il numero assoluto di nuove ninfee, giorno dopo giorno, sembrava modesto: poche decine di morti la settimana, poche migliaia di nuovi casi la settimana, aumenti contenuti del numero di ricoveri in ospedale e in terapia intensiva.

Poi, circa 10 giorni fa, quando il numero di nuovi casi ha cominciato a puntare verso quota 10 mila, e il numero di morti giornalieri verso quota 100, un barlume di consapevolezza si è cominciato a fare strada. Sono cominciate le disquisizioni su nuovi lockdown e o semi-lockdown, coprifuoco globali o locali, chiusure più o meno severe di bar, ristoranti, palestre, scuole, con un’unica preoccupazione: escludere un nuovo lockdown globale, come quello di marzo e aprile, e convincerci che sconfiggere l’epidemia era compito nostro, o tutt’al più dei poteri locali, governatori delle Regioni e sindaci dei Comuni. Nessuna autocritica, nessuna ammissione di avere sbagliato tutto nel trimestre estivo quando, nonostante i dati dicessero il contrario, si è fatto come se l’epidemia stesse battendo in ritirata, e non ci fosse bisogno di rafforzare il trasposto pubblico locale, la politica dei tamponi, le strutture scolastiche, i controlli su movida e assembramenti.

Il risultato è che il tentativo maldestro di salvare l’economia durante l’estate verrà pagato con gli interessi nei mesi prossimi quando, per limitare le dimensioni della catastrofe sanitaria, le autorità saranno costrette a nuove chiusure, che ora non hanno il coraggio di annunciare ma che non potranno evitare.

Sembra incredibile, ma quello che sta andando in scena in questi giorni è il remake del film che abbiamo già visto tra febbraio e marzo, quando per “riaprire Milano” si rinunciò a chiudere per tempo Nembro e Alzano. Anche oggi, come allora, per paura di fermare l’economia si prende tempo, sperando che l’epidemia retroceda da sola, e dimenticando che quel che sta succedendo questa settimana, così come quel che succederà la prossima, è già scritto, perché dipende dai comportamenti di 2-3 settimane fa. Nel frattempo i contagi e i morti raddoppiano ogni settimana, come le ninfee dello stagno, nella vana attesa che il contadino faccia qualcosa. E quando finalmente ci si deciderà a fare qualcosa, sarà così tardi che questo qualcosa dovrà essere molto duro e prolungato.

Perché la legge fondamentale dell’epidemia è questa: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti.




Il mondo fino a ieri

Uno dei libri che più mi hanno fatto riflettere, negli ultimi anni, è “Il mondo fino a ieri”, del grande antropologo Jared Diamond (a suo tempo reso famoso dal capolavoro “Armi, acciaio e malattie”). In quel libro, uscito nel 2013, Diamond sostiene e documenta una tesi suggestiva: le società moderne sono, in moltissimi campi e aspetti, superiori a quelle tradizionali, ma vi sono alcuni ambiti assai importanti nei quali una società tradizionale è superiore a una società moderna.

La tesi di Diamond, che ho solo riassunto per lasciare a chi non l’avesse ancora letto il piacere di avventurarsi in questo bellissimo libro, mi è tornata alla mente in questi giorni, sotto forma di dubbio. Il dubbio è questo: siamo sicuri che, di fronte alla pandemia che sta travolgendo le nostre modernissime (e ricchissime) società, non ci siano aspetti delle società tradizionali che ci avrebbero fatto comodo?

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Se scoppia un’epidemia, è sicuramente meglio essere cittadini di una società moderna, in cui esiste un servizio sanitario nazionale, piuttosto che trovarsi in una società arretrata, in cui le condizioni igieniche sono disastrose, l’acqua corrente non c’è o non è potabile, gli ospedali e il personale medico scarseggiano.

Il punto però non è questo. Il mio dubbio è un altro: siamo sicuri che, culturalmente, una società tradizionale non sia più attrezzata, molto più attrezzata, di una società moderna ad affrontare una pandemia?

Provo a spiegare perché. Oggi ci troviamo di fronte a una drammatica ripresa dei contagi. Questa ripresa non era affatto inattesa, ma era stata ampiamente prevista dagli osservatori indipendenti. Probabilmente era stata prevista anche dalle autorità sanitarie e governative. Perché non si è fatto quasi nulla per evitare di arrivare al punto cui siamo oggi?

Una risposta possibile è che, in Italia come in diversi stati europei, siamo governati da una burocrazia politico-sanitaria inetta e poco coraggiosa. Ma c’è anche un’altra risposta possibile, che certo non assolve i governanti, ma li colloca nel loro contesto. Ebbene, questa risposta alternativa è, semplicemente, che la nostra non è una società tradizionale. La nostra è una società moderna, che della società moderna possiede perciò il tratto culturale fondamentale: la divinizzazione dell’individuo e dei suoi diritti, a scapito di ogni autorità e gerarchia, sia essa quella dei genitori, degli insegnanti, o più in generale delle altre istituzioni che rappresentano (o dovrebbero rappresentare) il bene comune.

Da questo tratto fondamentale delle nostre società, che le distingue in modo radicale dalle società tradizionali, deriva una conseguenza cui forse abbiamo prestato troppo poca attenzione, in questi mesi di lotta contro il virus. In una società in cui la libertà individuale assurge a totem indiscutibile è impossibile chiedere agli individui di rinunciare a porzioni significative delle loro libertà. O meglio, è possibile chiederlo, ma una volta sola, e a condizione che vi sia un risarcimento.

E’ di questo che i nostri governanti, ma non solo loro, hanno preso atto quando hanno rinunciato a chiederci di accettare un’estate in tono minore, senza discoteche, senza divertimento di massa, senza viaggi all’estero o nelle cattedrali della movida. Ma è questo, anche, ciò che ha impedito ai giovani e ai meno giovani di recepire i messaggi che, in modo un po’ criptico, il Presidente della Repubblica ha ripetutamente provato a trasmetterci denunciando “il virus dell’egoismo dei singoli”, o ammonendoci a “non confondere la libertà con il diritto di infettare altri”.

La realtà è che il rispetto dell’autorità e la capacità di affrontare rinunce sono tratti normali, se non costitutivi, delle società tradizionali, ma sono merce rarissima nelle società moderne. In una società tradizionale è semplicemente inconcepibile che i giovani (e i meno giovani) non si preoccupino di mettere a repentaglio la vita degli altri, compresi genitori, nonni e parenti. Ma in una società moderna, in cui la civiltà del lavoro è sempre più soppiantata dal consumo di tempo libero, questo diventa perfettamente possibile, come abbiamo potuto constatare quest’estate, e come continuiamo a constatare in questi giorni nelle scuole e sui mezzi pubblici, dove la gente si divide nei due grandi partiti dell’Italia di oggi, il partito di quelli che hanno paura e quello di chi prova ad infischiarsene del virus.

Né credo sia un caso che, nel dibattito pubblico, le voci che hanno detto in modo forte e chiaro che avremmo dovuto accettare delle rinunce, o che i giovani avrebbero fatto meglio a passare l’estate studiando quel che non avevano studiato durante il lockdown, si siano contate sulle dita di una mano. Personalmente, ricordo nitidamente solo quella di Federico Rampini, in un appassionato intervento in tv, quella di Antonio Scurati, in un lucido articolo sul Corriere della Sera, e ultimamente quella di Massimo Giannini, dolorosamente colpito dall’esperienza del Covid.

Ma tutti gli altri? Non solo ai politici, ma anche alla maggior parte dei genitori, insegnanti, educatori in genere, non è passato neppure per l’anticamera del cervello di richiedere qualche sacrificio in nome del bene comune, come se vacanze e divertimento più o meno massificato fossero diritti fondamentali, inalienabili e improcrastinabili.

Ecco, per una volta mi sembra giusto fornire un’attenuante a chi ha così mal governato l’epidemia, portandoci al disastro in corso. Se le cose sono andate così è certamente perché la politica pensa solo al consenso immediato, e uomini e donne di Stato, capaci di guardare al futuro di una nazione, non ci sono più da un pezzo. Ma forse dovremmo anche riconoscere che una parte del problema sta in noi stessi, nel nostro esserci allontanati troppo dalla grammatica di una società tradizionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 ottobre 2020




Il grande abbaglio del “modello italiano”. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, dal vostro osservatorio della Fondazione Hume continuate ad analizzare i dati sull’andamento dell’epidemia. Come siamo messi a contagi rispetto a marzo scorso?
Il numero attuale di persone contagiose nessuno lo conosce, perché i casi rilevati – oggi come ieri – sono solo la punta dell’iceberg. Io ritengo, basandomi soprattutto sui dati dei ricoveri, che il numero di persone in grado di infettare gli altri possa essere dell’ordine di 1/3 di allora.
Quanto al parametro più importante, la velocità di crescita dei contagi, quella attuale è la stessa dei giorni intorno al 21 marzo, quando venne decretato il vero lockdown, con la proibizione degli spostamenti fra comuni: i nuovi casi raddoppiano ogni settimana. Evidentemente è questa la soglia che induce i politici a risvegliarsi dal loro torpore.

Perché, dovrebbe essercene un’altra?
Certo, la soglia vera non è quando l’epidemia va fuori controllo, ma quando si passa da una crescita lineare a una crescita esponenziale.

E questa seconda soglia quando è stata attraversata?
Dipende dallo strumento che si usa per accorgersi che l’epidemia sta rialzando la testa. Se, come pare siano abituate a fare le autorità sanitarie, si usa il numero di nuovi casi giornaliero, il campanello di allarme era già suonato nell’ultima parte del mese di luglio. Se invece ci si basa su strumenti più sofisticati, il punto di svolta si situa intorno a metà giugno. Come Fondazione Hume abbiamo sollevato il problema precisamente allora (4 mesi fa!), con un’intervista all’Huffington Post in cui notavo che, per salvare il turismo estivo, il nostro governo stava lasciando ripartire l’epidemia.

E a tamponi come stiamo?
Sui tamponi ci sono state varie fasi, ognuna caratterizzata da un diverso tipo di negazionismo.
Nelle prime settimane, il negazionismo governativo era assoluto: i tamponi danneggiano il turismo, facciamoli solo in casi estremi.
Poi, fino all’appello di Lettera 150 promosso da Giuseppe Valditara e Andrea Crisanti (inizio maggio), è stato il tempo del negazionismo relativo: i tamponi servono, e noi ne facciamo più di ogni altro paese, Germania compresa (era falso, ma loro mostravano di crederci).
Infine, dopo un breve periodo in cui anche le autorità sanitarie parevano essersi convinte della giustezza dell’appello di Lettera 150, siamo passati al negazionismo di fatto: sappiamo che dobbiamo fare molti più tamponi, ma di fatto ne facciamo pochi. Giusto per darle un’idea: il numero medio di tamponi settimanali di agosto era ancora ai livelli di maggio.
L’unico cambiamento significativo è intervenuto fra settembre e ottobre, quando finalmente il numero di tamponi è aumentato sensibilmente (di circa il 40% rispetto a fine agosto), se non altro per limitare i danni provocati dai vacanzieri di ritorno. Ma siamo ancora lontanissimi dal livello suggerito da Crisanti, che a fine agosto aveva chiesto di (almeno) triplicare il numero di tamponi, con tanto di piano trasmesso la governo.

Ma non siamo tra quelli che fanno meglio in Europa?
Questo è semplicemente un abbaglio collettivo, qualcosa di cui come sociologo stento a darmi conto. Capisco che chi ci governa non abbia il minimo rispetto per la pietrosa realtà dei dati, e abbia voluto alimentare il mito del “modello italiano” che tutti ci invidierebbero, ma trovo mortificante che – fortunatamente con qualche eccezione – il sistema dei media per mesi abbia accettato acriticamente questa narrazione.

E allora diciamoli questi dati…
Il primo dato, il dato di fondo, da cui qualsiasi analisi dovrebbe partire, è il bilancio complessivo in termini di morti e di caduta del Pil. Ebbene, su 37 società avanzate (paesi Oecd e Unione Europea) solo quattro hanno avuto più morti per abitante di noi. Si tratta di Spagna, Belgio, Regno Unito, Stati Uniti (vedi grafico). Quanto al Pil, le previsioni del Fondo Monetario Internazionale uscite pochi giorni fa, ci dicono che quest’anno solo la Spagna farà peggio di noi (vedi grafico).
Ma non è tutto. Anche se guardiamo esclusivamente alla fase attuale, quella in cui – secondo la narrazione dominante – l’Italia si starebbe comportando meglio degli altri paesi, la realtà è che siamo a metà classifica, un po’ meglio di Francia e Regno Unito, ma molto peggio della Germania. L’illusione di stare molto meglio di Francia e Regno Unito si basa semplicemente su un errore, o ingenuità, di tipo statistico.

Che tipo di errore?
L’errore di basarsi sui nuovi casi giornalieri accertati, senza tener conto del fatto che la capacità diagnostica dei vari paesi è molto diversa, perché diverso è il numero di tamponi per abitante, e diversa è l’efficacia del tracciamento. Tutti i maggiori paesi occidentali, compresa la Francia, da almeno due mesi fanno il doppio o il triplo dei tamponi che facciamo noi, e questo finisce per gonfiare il numero di nuovi casi diagnosticati, permettendo a noi – che di tamponi ne facciamo molti di meno – di cullarci nell’illusione di stare meglio di altri.
Ma c’è un errore ancora più grande, che un po’ tutti hanno commesso.

Quale?
E’ quello di puntare sempre i riflettori su chi stava peggio di noi, anziché su chi aveva fatto molto meglio, con un bilancio di morti (e di caduta del Pil) enormemente più favorevole del nostro. Avremmo dovuto studiare i paesi migliori per cercare di imitarli, anziché auto-rassicurarci con i guai dei paesi che avevano sbagliato strategia.

La riapertura delle scuole, e il successivo svolgimento delle elezioni, hanno avuto un peso sulla crescita dei contagi? O stiamo pagando ancora le vacanze matte di agosto?
La scuola è semplicemente il luogo nel quale, a causa di un livello di attenzione lodevolmente elevato (tamponi), si tocca con mano quanto folle sia stata la nostra estate. Quanto alle elezioni sì, è possibile che, come temeva il prof. Massimo Galli, decine di milioni di italiani alle urne abbiano accelerato la circolazione del virus. Lo dico perché la serie dei decessi ha avuto un repentino innalzamento dopo l’11 ottobre, giusto 20-25 giorni dopo la data del voto, e giusto ieri un nuovo balzo (+83 morti, il doppio del giorno prima).
Ma quello che stiamo pagando davvero, in questi giorni, sono i 5 peccati capitali dei nostri governanti: pochi tamponi; mancato rafforzamento del trasporto pubblico locale; incredibili ritardi nel rafforzamento del servizio sanitario nazionale e della medicina territoriale; deliberata indulgenza su movida, discoteche, assembramenti; nessun serio piano per ridurre il numero di alunni per classe.
E’ ipocrita, e anche un po’ vile, attribuire la responsabilità del dramma attuale alla popolazione, quando si sono passati mesi ad adulare i cittadini per il loro presunto senso di responsabilità, anziché denunciarne le follie estive, e magari provare a far rispettare le regole. La realtà è molto semplice e cruda: la frittata l’hanno fatta i governanti, e adesso tocca a noi toglier loro le castagne dal fuoco. Perché la strategia del governo è sempre quella, ieri come oggi: tergiversare finché i casi sembrano pochi; svegliarsi di colpo quando si profila il collasso del sistema sanitario; e a quel punto terrorizzare l’opinione pubblica perché accetti l’unica cosa che al governo riesce bene, ossia chiuderci tutti in casa.
Ma il dato più terribile è che, oggi come ieri, chi si ammala non riceve alcuna visita a casa, ed è abbandonato nei meandri della burocrazia sanitaria, digitalizzata e senza umanità (una realtà che il caso di Feruccio Sansa riassume fin troppo bene).

Il virologo Andrea Crisanti auspica un nuovo lockdown a ridosso del Natale per frenare il diffondersi del contagio. Cosa ne pensa?
Ho ascoltato l’intervista, ma non mi è sembrato un auspicio, semmai una previsione. Secondo me il prof. Crisanti, per una volta, è fin troppo ottimista: se ci sarà un nuovo lockdown, sarà ben prima di Natale. Il problema dei politici è che sanno benissimo che solo i nostri sacrifici possono rallentare la circolazione del virus, ma non hanno ancora trovato un modo di chiuderci senza dire che ci rinchiudono una seconda volta.

Cosa manca secondo lei per gestire la crisi sanitaria ed economica? Il governo invita tutti al senso della responsabilità
Quel che manca lo sappiamo perfettamente: è tutto quel che il governo avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Ora è tardi, quasi tutto quel che andava fatto richiede mesi, e andrebbe attuato in condizioni di quasi-normalità, in cui siamo stati per 4 mesi e ormai non siamo più. Mentre ai primi di marzo, proprio in un’intervista a questo giornale, mi ero permesso di fare un invito alla chiusura immediata, oggi ogni suggerimento mi pare perfettamente inutile: i buoi sono scappati, possiamo solo inseguirli più o meno affannosamente, e con maggiore o minore cialtroneria.

Ma l’Italia si può permettere un nuovo lockdown?  Il Fondo monetario internazionale ha abbassato le stime di crescita del Pil rispetto a quanto fa il governo nei suoi documenti economici e finanziari, non sarebbe un disastro?
Il disastro c’è già stato, purtroppo, e il neo-lockdown che verrà non potrà che aggravarlo. Ma bisogna capire che l’alternativa non è fra salute ed economia. Contrariamente a quel che il senso comune sembra suggerire, la relazione fra salute ed economia è diretta, non inversa. Meno ci si preoccupa della salute oggi, e più si danneggia l’economia domani. E’ da qualche mese che provo ad avanzare questo dubbio, ora uno studio del Fondo Monetario Internazionale pare arrivare alle medesime conclusioni.
Se il Fondo Monetario ha ragione, i difensori estivi dell’economia sono stati i suoi peggiori nemici, perché è precisamente la superficialità con cui si è riaperto durante la stagione calda che sta per regalarci un nuovo lockdown, più o meno mascherato, ora che inizia la stagione fredda.

Siamo a un passo dall’approvazione del nostro piano di utilizzo delle risorse del Recovery Fund. Che gliene pare? Nel 2021 quanta ricchezza recupereremo?
Le risorse del Recovery Fund arriveranno nella seconda metà del 2021, quindi il loro effetto si farà sentire solo nel 2022. Per quanto riguarda il rimbalzo del Pil italiano, sono pessimista: la politica dei bonus e dei sussidi è la ricetta giusta per non far ripartire l’economia. Siamo avviati a diventare una “società parassita di massa”, e in una società basata sull’invadenza dello Stato e il soffocamento del settore privato il Pil non cresce.

 

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 16 ottobre 2020




L’economia contro l’economia

E’ stato necessario superare i 4000 nuovi casi (giovedì scorso), quasi 1000 in più del giorno prima, perché anche i nostri governanti, fin qui impegnati a lodare il “modello italiano” che tutto il mondo ci invidierebbe, cominciassero a sospettare che non tutto stesse filando liscio. Ora, improvvisamente, si parla di 10 o 20 mila casi al giorno come un punto d’arrivo non troppo lontano (ieri, nonostante i pochi tamponi, erano già ben oltre quota 5000). E c’è persino qualche membro del Comitato tecnico-scientifico che confessa candidamente che “non se lo aspettava”.

Eppure i segnali di una ripresa dell’epidemia c’erano tutti, e da parecchio tempo. Come Fondazione Hume, fin dalla metà di giugno (circa 4 mesi fa) avevamo segnalato che in molte province l’epidemia stava rialzando la testa. Come noi, diversi centri indipendenti non hanno mai smesso di snocciolare quotidianamente le cifre che indicavano l’aggravarsi della situazione. E sono state molte, anche se minoritarie, le voci che in questi mesi hanno ripetutamente denunciato l’insufficienza del numero di tamponi, l’errore di aprire le discoteche, l’inerzia delle autorità su movida e assembramenti nei trasporti pubblici, i ritardi sul versante delle scuole (mancanza di spazi, insegnanti, banchi). Per non parlare dei numeri della Protezione Civile: non è certo da quest’ultima settimana che tutti gli indici del contagio – nuovi casi, ricoveri in terapia intensiva, morti – si muovono su una traiettoria di crescita accelerata. Ed è sotto gli occhi di chiunque abbia il coraggio di guardarlo in faccia il dato di base sui tamponi: da almeno due mesi l’Italia fa meno tamponi per abitante di Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, per limitarci ai paesi a noi più comparabili.

Sui veri motivi che hanno condotto le nostre autorità, che sicuramente sapevano quel che stava succedendo, a ritardare gli interventi necessari, preferisco non dire e non pensare nulla. Mi soffermerei, invece, su uno in particolare dei possibili motivi, che è anche quello più citato, capito e approvato un po’ da tutti: “non potevamo fermare l’economia”.

Ebbene, su questo motivo mi sono permesso, nei mesi scorsi, di porre la seguente domanda: qualcuno ha provato a calcolare se i benefici economici immediati della linea “aperturista” siano maggiori dei costi che dovremo sostenere quando la ripresa dell’epidemia sarà evidente a tutti, e si sarà costretti a nuovi lockdown più o meno generalizzati?

Detto in altre parole: siamo sicuri che l’alternativa sia fra salute ed economia? Siamo sicuri che ridando fiato all’economia oggi, non finiamo per soffocarla domani, appena il virus avrà ripreso la sua corsa?

Insomma, la mia idea era che la dottrina Crisanti – assestare il colpo decisivo al virus quando circola ancora poco (cioè a giugno) – non avesse solo giustificazioni sanitarie o etiche, ma potesse avere anche una giustificazione economica.

Ho posto la domanda in un paio di articoli su questo giornale, l’ho ripetuta ad economisti ed esperti di finanza, ma non ho ricevuto risposte, per lo più perché “il calcolo è troppo difficile”. Ora però uno studio del Fondo Monetario Internazionale, uscito pochi giorni fa, una risposta la fornisce.

Nello stile cauto che si addice, molto opportunamente, a chi fa ricerca con modelli statistici, il Fondo Monetario avanza una tesi che pare supportare la mia ipotesi. Secondo lo studio, il lockdown ha sì effetti negativi immediati sull’economia, ma il fattore cruciale per la ripresa dell’economia è quel che succede dopo il lockdown. Se dopo il lockdown, per qualche motivo, il numero si contagiati è ancora alto si innesca una catena causale esiziale per la ripresa delle attività economiche: l’alto numero di contagiati aumenta il rischio percepito, l’aumento del rischio percepito induce la gente a proteggersi volontariamente con il distanziamento sociale, la messa in atto sistematica di misure individuali ultra-prudenti fa crollare la mobilità e le interazioni sociali, e di qui consumi, occupazione, eccetera. Per dirla più in concreto: serve a ben poco far riaprire bar, ristoranti, negozi, perché la gente, se non è ancora tranquilla, non ci entrerà quasi mai in quei bar, ristoranti, negozi. Insomma il vero nodo è se il lockdown è abbastanza tempestivo (il nostro non lo è stato: vedi Nembro e Alzano), e se dopo il lockdown la circolazione del virus è sufficientemente bassa da rendere soggettivamente trascurabile il rischio di contagi.

E’ proprio questo il nostro problema, mi pare. Per salvare l’industria del turismo, che prospera per tre mesi all’anno, abbiamo messo a repentaglio l’economia nel suo insieme, che ha di fronte sei mesi in cui le condizioni climatiche saranno tutte dalla parte del virus.

Ci hanno abituati a pensare che la politica si trovasse di fronte al dramma di dover scegliere fra la salute e l’economia, o di trovare un ragionevole compromesso. Lo studio del Fondo Monetario suggerisce un’altra lettura: usare la tregua estiva per portare vicino a zero il numero dei contagi sarebbe stato il modo più efficace di aiutare l’economia; usarla per sostenere l’industria delle vacanze è stata una scelta miope, di cui ora siamo chiamati a pagare il prezzo.

Forse dobbiamo prenderne atto: il peggior nemico dell’economia è il “partito dell’economia”.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2020




Cinque province a rischio

I dati degli ultimi 7 giorni (30 settembre – 6 ottobre) confermano la difficile situazione di La Spezia, in cui il numero di nuovi casi per abitante ha avuto un’impennata, ora fortunatamente in rallentamento.

La vera novità è costituita però da Genova, dove il numero di nuovi casi per abitante ha superato quello di La Spezia, ed è tuttora in crescita.

In una situazione analoga a quella di Genova si trova la provincia di Belluno.

In tutte e tre le province il numero di nuovi casi è oltre il quadruplo di quello nazionale.

Dietro queste province critiche se ne trovano altre 8 in cui il numero di nuovi casi è almeno il doppio di quello nazionale. In ordine di gravità della situazione: Treviso, Venezia, Nuoro, Imperia, Barletta-Andria-Trani, Trento, Bari, Savona.

E’ il caso di notare che, su 11 province critiche, 4 sono in Liguria, che è la regione più colpita (con 4 province su 4), 4 si trovano nel Triveneto (Belluno, Treviso, Venezia, Trento), 3 si trovano al Sud (Nuoro, Bari, Barletta-Andria-Trani).

Del tutto assenti, fra le 11 province più critiche, quelle lombarde e delle regioni centrali, dall’Emilia Romagna al Lazio.

Ecco la graduatoria completa:

 

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 6 ottobre (ore 18).

La serie storica dei dati provinciali è stata ricalcolata per tenere conto dell’interruzione di serie che si è verificata il 24 giugno in seguito alla nuova classificazione dei casi positivi (non più in base alla provincia in cui è avvenuta l’ospedalizzazione, ma in base alla residenza della persona risultata positiva al COVID-19).

Data l’impossibilità di stabilire, provincia per provincia, che cosa è effettivamente avvenuto tra il 23 e il 24 giugno, i dati sono stati ricalcolati assumendo che, fra le due date, gli incrementi giornalieri dei nuovi casi fossero pari a zero.

Quando possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità regionali.

La capacità diagnostica è stata calcolata come rapporto fra contagi registrati nell’arco di tre settimane e nuovi decessi avvenuti nelle tre settimane successive con uno sfasamento temporale di 10 giorni. Maggiore sarà la capacità di intercettare i nuovi casi minore sarà la mortalità registrata nella provincia.

L’indicatore è stato costruito utilizzando i dati regionali, perché la Protezione Civile non fornisce il numero dei decessi a livello provinciale, ma solo quello dei casi totali. La capacità diagnostica delle regioni più piccole a livello demografico è stata posta convenzionalmente pari a 1.

Questi valori sono stati applicati al numero di nuovi contagi settimanali (per 100 mila abitanti).