Lega e Forza Italia, la fusione fredda

Non appassiona per niente il balletto che, da qualche giorno, Forza Italia e Lega stanno inscenando intorno all’ipotesi di fondersi o federarsi. Ed è giusto così: tutto, infatti, si sta svolgendo senza alcun coinvolgimento di militanti ed elettori, senza alcun vero confronto di idee e programmi, senza alcun dibattito sul futuro dell’Italia e sulle cose da fare.

Che il gioco in atto appassioni solo i parlamentari e le nomenklature di partito non significa, però, che l’esito di tali manovre non abbia ripercussioni anche su di noi.  Quel che accadrà in queste settimane, infatti, cambierà l’offerta politica e, per questa via, potrà produrre conseguenze per tutti.

Vediamo, dunque, di che cosa stiamo parlando. A dar credito alle dichiarazioni ufficiali, la proposta di federare Lega e Forza Italia sarebbe venuta da Salvini, e Berlusconi la starebbe valutando.

Ma è un racconto fuorviante: la realtà è che l’idea di conferire Forza Italia alla Lega risale a due anni fa, e si deve a Berlusconi stesso, che ebbe ad avanzarla in una riunione dei parlamentari azzurri a Palazzo Grazioli. Era il 12 giugno del 2019, Forza Italia veniva da un risultato deludente alle Europee (8.8%), i sondaggi la davano al 6%, e Berlusconi dichiarava: “Forza Italia è destinata a stare con la Lega o attraverso un’alleanza o con una fusione (…). Con Salvini sono in costante contatto. Mi è sembrato interessato a ragionare sull’ipotesi di una federazione di centrodestra”.

Le cronache dell’epoca (2 anni fa esatti) raccontano che, in quella occasione, Berlusconi aveva addirittura calcolato i seggi uninominali conquistabili, e commissionato ben tre sondaggi per la scelta del nome: Centrodestra unito in caso di partito unico, Centrodestra italiano in caso di federazione. Alla fine quest’ultimo nome gli era parso il più promettente, perché i sondaggi gli attribuivano la capacità di aumentare del 25% i voti.

E’ anche il caso di ricordare che, nei due mesi successivi, avvengono alcuni cambiamenti decisivi dentro e intorno a Forza Italia. Il 19 giugno Giovanni Toti e Mara Carfagna vengono nominati coordinatori di Forza Italia, con il compito di riorganizzare il partito e modificarne lo statuto, anche in vista di un congresso da tenersi a settembre.

Non essendo addentro alle faccende di Forza Italia, non ho idea delle ragioni per le quali questa operazione, nel giro di poco più di un mese, ebbe ad incepparsi. Sta di fatto che, già ai primi di agosto del 2019, il piano salta e Giovanni Toti avvia la costruzione di Cambiamo!, piccola formazione politica cui nel tempo aderiranno diversi big di Forza Italia (fra gli altri Paolo Romani e Gaetano Quagliariello), fino alla recentissima confluenza di varie sigle e persone in Coraggio Italia, il partito fondato dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

In breve: il progetto di fusione con la Lega è farina del sacco di Berlusconi, risale a ben due anni fa, ed ha già provocato la formazione di un’area di resistenza alla fusione stessa, area attualmente capeggiata da Toti e Brugnaro.

Ma veniamo al punto. Perché si torna a parlare di fusione?

Difficile rispondere con sicurezza. Per quanto riguarda Berlusconi, la mia sensazione è che, più che la (ingenua?) speranza di essere candidato alla presidenza della Repubblica, conti l’esigenza di sistemare le cose della sua vita, in un tempo in cui la salute è malferma e il futuro è incerto. Forse non è un caso che la prima idea di consegnare Forza Italia alla Lega maturi, un paio di anni fa, in un periodo in cui Berlusconi prepara o conclude altre liquidazioni, come la cessione del Milan ai cinesi, o di Panorama a “La Verità”, o la chiusura della sede romana del Giornale. Insomma: mi pare comprensibile che, non avendo trovato un leader in grado di succedergli, Berlusconi trovi più onorevole mettere il suo suggello a un marchio nuovo di zecca che assistere mestamente al tramonto del suo giocattolo.

Per quanto riguarda Salvini, ci sono almeno tre ragioni, due buone e una meno, per guardare con interesse alla annessione con Forza Italia. La prima è che “a caval donato non si guarda in bocca”, posto che Berlusconi non pare richiedere contropartite significative. La seconda è che la ibridazione con Forza Italia non può che rafforzare  la credibilità della Lega in Europa. La terza è che, agli occhi di Salvini, una eventuale fusione con Forza Italia potrebbe allontanare lo spettro del sorpasso da parte di Fratelli d’Italia, con conseguente passaggio della leadership del Centrodestra da lui stesso a Giorgia Meloni.

Ma è un calcolo ben fondato?

Io ne dubito. Trent’ anni di analisi dei flussi elettorali permettono, infatti, di azzardare due previsioni piuttosto solide: primo, la somma dei voti dei due partiti diminuirà; secondo, i voti perduti resteranno nel centro-destra (secondo la dottrina della “fedeltà leggera”, copyright Paolo Natale).

Dunque la domanda è: dove andranno i voti perduti?

Fondamentalmente verso due destinazioni. La prima è la galassia di centro, dove sarà interessante capire chi sarà più lesto ad acciuffarli (potrebbe essere Coraggio Italia, ma anche Azione di Carlo Calenda, se si posizionerà sufficientemente lontano dal Pd). La seconda destinazione, ahimè per Salvini, è proprio Fratelli d’Italia, che già ha il vento in poppa, e potrebbe trarre ulteriore slancio dall’arrivo di quanti non gradiranno la fusione fredda fra Lega e Forza Italia.

Insomma, se lo scopo è impedire a Giorgia Meloni di assumere la guida del centro-destra, la fusione non sembra l’arma più appropriata. Quanto allo scopo stesso, lo si può ritenere più o meno condivisibile, ma è difficile non vedere che, stante la popolarità della Meloni (di gran lunga superiore a quella di Salvini e Berlusconi), “fermare Giorgia” renderà meno e non più agevole la vittoria del centro-destra alle prossime elezioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 giugno 2021




Una lezione di Carla Fracci

Mi è capitato, qualche sera fa, di assistere a una trasmissione televisiva in cui Ritanna Armeni (ex firma del Manifesto) sosteneva, in modo assai accorato, che la propria generazione era stata fortunata, molto fortunata, mentre le nuove generazioni sarebbero sfortunate, molto sfortunate. Questa tesi lasciava alquanto perplessa, per non dire di stucco, la conduttrice Barbara Palombelli (ex firma di Repubblica), che ricordava alla collega che anche per la loro generazione – quella dei cosiddetti baby-boomers – farsi largo nella vita non era stato semplicissimo, e spesso era costato anni e anni di duro lavoro, senza facilitazioni e scorciatoie.

In realtà l’idea che i giovani abbiano diritto oggi a una sorta di risarcimento per il destino cinico e baro cui gli adulti li avrebbero condannati, è molto diffusa. E qualche fondamento ce l’ha pure: non c’è dubbio che, se l’Italia è nello stato penoso in cui si trova, è perché così l’hanno ridotta coloro che l’hanno governata e guidata fin qui.

E tuttavia, di qui a dire che i baby boomers sono una generazione fortunata e i giovani di oggi una generazione sfortunata c’è un salto logico. Quel che è difficilmente controvertibile, perché lo dicono i dati, è che le opportunità di ascesa sociale si sono ridotte, e che passare dai ceti medio-bassi a quelli medio-alti è diventato più difficile. Questo già solo per il fatto che lo stock di posizioni sociali pregiate, che grazie all’industrializzazione prima e alla terziarizzazione poi era impetuosamente cresciuto nei primi decenni del dopoguerra, ha ormai da tempo smesso di espandersi. E anche per una seconda ragione, su cui si preferisce sorvolare: in cinquant’anni lo scarto fra titolo di studio rilasciato e competenze effettivamente acquisite è cresciuto a dismisura, e con esso il divario fra ciò cui un giovane è autorizzato ad aspirare (perché ha il pezzo di carta) e ciò che il mercato del lavoro è disposto a riconoscergli.

Molto più controvertibile, invece, è la tesi che la condizione giovanile sia  sostanzialmente peggiorata. Chi sostiene questa tesi dimentica il dato sociologico fondamentale della “classe disagiata”, mirabilmente descritta da Raffaele Alberto Ventura in un libro di qualche anno fa (Teoria della classe disagiata, Minimum Fax 2017): la possibilità, per molti, di dilazionare le scelte fondamentali e, al tempo stesso, usufruire di un tenore di vita relativamente elevato, con poche responsabilità e molti paracadute. Tecnicamente: una condizione “signorile di massa” che nessuna delle generazioni del passato aveva mai sperimentato.

Detto più crudamente: il lusso di consumare senza lavorare, la generazione dei baby boomers non se lo poteva permettere. Quel lusso, invece, è divenuto una caratteristica distintiva delle ultime generazioni, un lusso che – in questi giorni di riaperture – ha assunto tratti grotteschi allorché migliaia di esercenti, provati da 15 mesi di chiusure e alla disperata ricerca di personale da assumere, si sono sentiti rispondere che loro – giovani e meno giovani – preferivano il reddito di cittadinanza, o addirittura volevano essere assunti in nero per non perderlo (come faccia, in questo contesto, il segretario del Pd a proporre una “dote” di 10 mila euro a metà dei 18-enni è per me un mistero). Una situazione che esisteva già prima, ma che nel dopo-Covid, con l’enorme allargamento dei sussidi intervenuto nell’ultimo anno, ha assunto tratti ancora più patologici, coinvolgendo un po’ tutte le generazioni. Quasi a significare che il “paradigma vittimario”, ben descritto dallo storico Giovanni De Luna in un libro di una decina di anni fa (La Repubblica del dolore, Feltrinelli 2011), fosse ormai il solo registro in cui sappiamo pensarci e riconoscerci.

Naturalmente questo non significa che tutti i giovani consumino senza lavorare, o che non vi sia anche un robusto settore di giovani che lavorano con serietà e impegno (non di rado all’estero!). Ma è certo che il tenore di vita medio dei giovani italiani è oggi nettamente più alto di quello dei loro padri e nonni alla medesima età, e la quota di giovani che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet), o ancora studiano in età nelle quali si dovrebbe lavorare, è enormemente aumentata rispetto a cinquant’anni fa.

Ed ecco il paradosso: a fronte di condizioni economiche indubitabilmente migliori e privilegiate rispetto a quelle delle generazioni precedenti, la politica e i mass media hanno cucito addosso ai giovani un abito falso e ingannevole, che li dipinge come vittime da compiangere e da risarcire, anziché come persone dotate di autonomia e padrone della loro vita. Come se le generazioni del passato avessero beneficiato di privilegi non dovuti, e come se quel che – nel bene e nel male – hanno costruito fosse stato sottratto alle generazioni attuali. Soprattutto, come se gli obiettivi più alti si potessero raggiungere senza fatica, impegno e duro lavoro, e il successo fosse un diritto da esercitare, anziché un traguardo da conquistare.

Lo aveva capito bene Carla Fracci, figlia di un tranviere e un’operaia, che di sé stessa ha detto: “Sa qual era la mia forza? Sapevo da dove venivo. E volevo farcela. Ecco: decoro, dignità, voglia di fare. Non la rabbia, il disfattismo, l’invidia sociale, non il rancore che oggi è così diffuso”.

Un giudizio severo, su cui varrebbe la pena meditare.

Pubblicato su Il Messaggero del 1 giugno 2021




Ddl Zan, cavallo di Troia del politicamente corretto

Ho cercato di capire come funziona il ddl Zan e, poiché non sono un giurista né sono dotato di un’intelligenza prodigiosa, ho impiegato circa una settimana per ricostruire la ragnatela di norme che esso introduce, spesso modificando leggi precedenti e articoli del codice penale. Sono quindi assai stupito che tante persone, negli studi tv e nelle piazze, siano convinte di possedere delle opinioni su un oggetto che – nella stragrande maggioranza dei casi – semplicemente non conoscono.

La ragione per cui ciò accade è abbastanza semplice: siamo abituati a giudicare le leggi dalle intenzioni dei proponenti, anziché dagli effetti che verosimilmente sono destinate a produrre. E’ un grave errore, perché non è raro che intenzioni ed effetti divergano, tanto è vero che lo studio degli “effetti perversi” e delle “conseguenze non attese” dell’azione è uno dei filoni di studio più fecondi delle scienze sociali.

Nel caso del ddl Zan le intenzioni paiono chiarissime, e sostanzialmente condivisibili: colmare una lacuna della legislazione esistente. La lacuna è che le leggi vigenti (e in particolare la legge Mancino) puniscono con particolare severità alcuni comportamenti motivati da ostilità nei confronti di razze, etnie, nazionalità, religioni, ma si dimenticano altri possibili moventi: sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità.

Messa così, come non essere d’accordo? L’unica obiezione che mi sentirei di sollevare è di natura logica: siamo sicuri che allungare la lista delle categorie protette sia la strada giusta?

Si potrebbe osservare, ad esempio, che nella lista del ddl Zan mancano i barboni, spesso oggetto di cieca violenza. E, se uno dei fenomeni che si vogliono colpire è il bullismo giovanile, come non considerare che, nelle classi scolastiche, da sempre la crudeltà dei nostri amati bambini umilia i grassi, i secchioni, gli introversi?

Non mi stupirei che, in futuro, il “legislatore” – questa figura mitica del discorso politico – si decidesse a novellare periodicamente le norme esistenti, aggiungendo di volta in volta, alle categorie da proteggere, nuove e sempre diverse sensibilità offese.

Ma supponiamo, per un attimo, che la moltiplicazione delle categorie sovra-tutelate sia la strada giusta, e che la lista Zan sia completa. E torniamo alla domanda inziale: al di là dei fini dichiarati, sicuramente lodevoli, quali sono gli effetti prevedibili del ddl Zan?

E’ su questi effetti, infatti, che si concentrano le critiche che, non solo da destra, sono state sollevate nei confronti del disegno di legge.

Una prima classe di critiche riguarda il restringimento dell’area della libertà di espressione, determinato non tanto dall’ampliamento delle categorie protette, ma dal fatto che a decidere se la manifestazione di un’idea, di un sentimento, di un’opinione sia o non sia reato, non potrà che essere la sensibilità del singolo giudice. Questo è già un problema oggi, vigente la legge Mancino, ma viene aggravato dall’articolo 4 del ddl Zan (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte), secondo cui le idee si possono esprimere “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Qualcuno può credere che, sul giudizio di “idoneità” di un’idea a determinare il “concreto pericolo” di atti discriminatori, non influiranno pesantemente le idiosincrasie (e le idee politiche) del magistrato chiamato a giudicare?

Ma la classe di critiche più fondata, a mio parere, è quella che osserva che il ddl Zan non si limita ad allargare le tutele di determinate categorie, ma pretende di rieducare ideologicamente i reprobi (articolo 5), intervenire attivamente sui contenuti trasmessi dalla scuola (articolo 7), e persino di legiferare sul linguaggio (articolo 1), fissando e delimitando il significato di parole come sesso biologico, genere, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Che simili pretese possano determinare effetti aberranti credo sia evidente a (quasi) tutti. Ne abbiamo avuto un assaggio nelle linee guida gender apparse sul sito dell’Ufficio Scolastico del Lazio, poi precipitosamente ritirate (il titolo esatto era: “Linee guida per le strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere).

Questa seconda classe di critiche mette a nudo il vero punto debole del ddl Zan. Che non è di voler assicurare una protezione speciale a determinate categorie finora trascurate (obiettivo sensato, e condiviso anche dal centro-destra) ma di voler imporre alla società nel suo insieme il linguaggio, la visione del mondo e gli obiettivi educativi di una élite politico-culturale. Questo progetto, in forme più innocenti e ridicole, era già in atto negli anni ’80, quando Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa e dell’Unità – con un coraggio e un anticonformismo che agli intellettuali di oggi difetta – denunciava il velleitarismo e l’ipocrisia del politicamente corretto. Ma nel corso degli ultimi anni ha assunto forme sempre più pervasive, condizionando pesantemente il mondo dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, persino dell’economia, con l’effetto – presumibilmente non voluto – di allargare sempre più la frattura fra le parole dell’establishment e il comune sentire dei ceti popolari.

Che sia questo il vero obiettivo del ddl Zan lo prova, in modo secondo me incontrovertibile, una comparazione filologicamente puntuale fra il testo finale (già approvato dalla Camera) e le proposte di legge che l’hanno preceduto, sempre a firma di Alessandro Zan. Se si ha la pazienza di leggere, ad esempio, il disegno di legge del 2013 (primi firmatari Scalfarotto e Zan) o la proposta di legge del 2018 (primi firmatari Zan e Annibali) si può notare, con enorme sorpresa, che tutto ciò che inquieta i critici attuali del ddl Zan semplicemente non c’è. Niente articolo 4 su “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”.  Nessuna pretesa di legiferare sul linguaggio. Nessuna pretesa di intervenire nelle scuole.

Ma c’è di più. Se andiamo alla sostanza, e lasciamo perdere la tecnica giuridica adottata (intervenire su leggi precedenti, o direttamente sul codice penale), scopriamo una cosa molto interessante: le due vecchie proposte Scalfarotto-Zan e soprattutto Zan-Annibali, sono del tutto esenti dalle critiche che oggi vengono rivolte al ddl Zan. E la proposta di legge del centro-destra (prima firmataria Licia Ronzulli) è decisamente più avanzata della proposta Zan-Annibali del 2018, che si era scordata dei disabili.

Dunque la situazione è abbastanza chiara. Fino a un certo punto le principali proposte di legge si sono mosse in una direzione ragionevole, o quantomeno circoscritta all’obiettivo di estendere a nuovi soggetti tutele finora previste per un insieme troppo ristretto di situazioni e di categorie. Poi, non saprei dire perché, i proponenti hanno deciso di strafare, finendo per snaturare gli obiettivi originari. Il ddl Zan, anziché limitarsi a proteggere i deboli, è diventato un cavallo di Troia per imporre a tutti una particolare concezione del bene comune, dell’educazione, e persino degli usi appropriati del linguaggio. Il tutto semplicemente riscrivendo in Commissione Giustizia i testi originari, e senza un dibattito pubblico, come invece è avvenuto in altri paesi.

Il minimo che si dovrebbe pretendere è che delle preoccupazioni dei cittadini (sulla libertà di espressione) e delle inquietudini delle famiglie (per l’educazione dei figli) si discuta apertamente, senza demonizzare nessuno. Perché la posta in gioco è alta, e nessuno ha il monopolio del bene comune.

Pubblicato su Il Messaggero del 22maggio 2021




Il pass vaccinale

Dalla prossima settimana, ne possiamo star certi, quello del pass vaccinale diventerà il nostro pensiero perenne. L’obiettivo del governo, infatti, è piuttosto chiaro: massimizzare il numero di persone che, grazie al pass, possono contribuire alla ripartenza dell’economia consumando, spostandosi, partecipando ad eventi culturali, ricreativi e sportivi. Siamo entrati, infatti, in una fase in cui i timori di perdere il treno dell’economia prevalgono nettamente sulla preoccupazione di limitare il numero di morti e di malati. E questo per tre solidi motivi: la maggior parte degli indicatori dell’epidemia sono in ritirata (per ora), il danno inflitto all’economia da 6 mesi di chiusure è divenuto insostenibile, i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è nettamente schierata a favore delle riaperture, e terrorizzata dal rischio di mettere a repentaglio le vacanze estive.

In questo quadro, il pass vaccinale sta diventando il santo Graal cui ognuno aspira per riconquistare la normalità perduta. Non entro nel merito della sensatezza di questa corsa al pass, né sul realismo delle previsioni ottimistiche che politici, medici e mass media stanno dispensando in queste settimane, contro il cupo ma non irragionevole pessimismo dei Galli e dei Crisanti. Quel che vorrei invece domandarmi è: ammesso che la ritirata dell’epidemia prosegua, e non capiti di dover richiudere tutto fra qualche settimana, come potrà funzionare il pass vaccinale?

Qui io vedo almeno tre problemi, che sarà bene affrontare e risolvere per non essere travolti dal caos.

Primo: che cosa è il pass?

Finora si è solo detto che, per muoversi liberamente o accedere a determinati eventi pubblici, si dovrà essere in possesso di almeno uno di tre requisiti: certificato di guarigione dal Covid, certificato di vaccinazione, certificato di negatività a un test molecolare o antigenico (rapido) rilasciato nelle ultime 48 ore. A me pare che solo i primi due certificati (essere guariti dal Covid, essere vaccinati) possano ragionevolmente venir inclusi in un pass, ossia in un documento che – tendenzialmente – ha una durata di almeno qualche mese. Pretendere di includere nel pass anche l’eventuale esito negativo di un test appena effettuato comporterebbe ripetute operazioni di aggiornamento del pass stesso, con conseguente inferno burocratico-informatico.

Secondo: chi e come rilascia il pass?

Posto che le informazioni necessarie per emettere il pass sono già in possesso della Pubblica Amministrazione (in particolare: delle Asl e dei medici di famiglia), sarebbe logico che fossero le autorità sanitarie a rilasciare il pass, o recapitandolo (per via postale o informatica) a tutti coloro che hanno titolo per averlo (guariti e/o vaccinati), o permettendo di scaricarlo da un sito sulla base della semplice digitazione dei propri identificativi anagrafici. Se non si farà così, o si introdurranno capziose complicazioni “a tutela della privacy” (SPID, password, ecc.), possiamo star certi che nessuno ci eviterà anche questo ulteriore inferno burocratico-informatico.

Terzo: che cosa certifica il pass?

Qui c’è una notevole confusione, perché si tende a pensare il funzionamento del pass come quello di un semaforo: disco verde se ce l’hai, disco rosso se non ce l’hai.

E’ un grave errore logico. E’ certo che il pass conterrà delle date (di guarigione e di vaccinazione), ed è estremamente probabile che contenga delle informazioni sul tipo di vaccino ricevuto. I vari vaccini, infatti, non solo non assicurano la medesima protezione, ma potrebbero – sulla base di nuove evidenze scientifiche – essere giudicati non equivalenti quanto a durata dell’immunità, rischio di trasmissione, resistenza alle varianti. Questo significa che due persone, pur entrambe dotate del pass, potrebbero avere gradi di libertà molto diversi in funzione di quando e come (con quale vaccino) si sono vaccinate.

Dunque il pass sarà, inevitabilmente, un documento che – a seconda dell’evoluzione dell’epidemia, delle conoscenze scientifiche e delle decisioni dei governanti – stratificherà la popolazione in classi di rischio diverse. Anche trascurando il problema dell’anzianità di vaccinazione (da quanto tempo ci siamo vaccinati), già oggi si stanno delineando 5 grossolane classi di rischio:

A2 = vaccinati Pfizer o Moderna con 2 dosi

A1 = vaccinati Pfizer o Moderna con 1 dose

B2 = vaccinati AstraZeneca con 2 dosi e vaccinati Johnson&Johnson

B1 = vaccinati AstraZeneca con 1 dose

C   = non ancora vaccinati.

E’ comprensibile che le autorità sanitarie, supportate dai medici più sensibili alle istanze governative, si affannino a dire che l’importante è essere vaccinati, non importa con che vaccino, e se con 1 o 2 dosi. Lo scopo di questa campagna di (pseudo-) informazione è infatti quello di massimizzare il numero di persone che si sentono al sicuro, così favorendo la ripartenza dell’economia. E la campagna funziona: già oggi, se non si distingue fra classi vaccinali, e si aggiungono i guariti dal Covid, il messaggio che la politica è in grado di veicolare è che gli italiani al riparo del virus sono circa 1 su 3 (18 milioni di vaccinati almeno una volta, più circa 2 milioni di guariti non vaccinati).

Ma occorre anche non dimenticare due cose. Innanzitutto, che il pubblico non è stupido, e un vaccinato con 2 dosi di Pfizer sa benissimo di essere più al sicuro di un vaccinato con 1 sola dose di AstraZeneca. E, in secondo luogo, che cercare di nascondere questa differenza, come spesso i politici e i medici-politici tendono a fare, può rivelarsi un boomerang. Più ci autoconvinceremo di essere protetti quando ancora non lo siamo abbastanza, più alto sarà il rischio che l’epidemia obbedisca alle fosche previsioni di Galli e Crisanti, secondo cui fra qualche settimana l’aumento dei morti ci costringerà a richiudere tutto.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 maggio 2021




Bandiere ammainate

Ora che abbiamo due possibili leggi sulla “omotransfobia” (che parola orribile!), ovvero la legge Zan, già approvata alla Camera, e la legge Ronzulli, presentata pochi giorni fa, possiamo star certi che se ne parlerà per un po’. Su entrambe ho maturato qualche idea, ma non è di questo che voglio parlare qui, se non altro perché l’argomento ha aspetti tecnico-giuridici che non si lasciano affrontare nello spazio di un articolo di giornale. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione, invece, è lo sfondo sociologico e culturale su cui questo dibattitto prende forma. Perché lo sfondo è importante, e inevitabilmente influenza il modo in cui le leggi sono interpretate e applicate.

Ebbene, qual è lo sfondo?

Se la questione me l’avessero posta 20 anni fa, avrei risposto soltanto: lo sfondo è il politicamente corretto, ovvero la pretesa di una parte politica (per inciso: quella cui, con crescente imbarazzo, mi sono sempre sentito più vicino) di avere il monopolio del bene. I diritti di gay, lesbiche, transessuali, “diversi” in genere, sono sempre stati a cuore più alla sinistra che alla destra, e anche su questo – oltreché sulla difesa intransigente degli immigrati – il mondo progressista ha costruito l’intima convinzione di essere dalla parte del bene o, peggio, di rappresentare “la parte migliore del paese”. Visto da sinistra, il conflitto politico non è fra due diverse idee del bene, ma fra i paladini del bene e quelli del male (fascisti, razzisti, odiatori delle minoranze oppresse). Io stesso, quando scrissi Perché siamo antipatici? (era il 2004), vedevo nel “complesso dei migliori” il principale disturbo della cultura di sinistra.

Ma oggi?

Oggi non è più così. O meglio non è solo così. Non tanto perché, dopo la (purtroppo breve) parentesi di Veltroni, unico leader progressista che abbia almeno provato a trattare la destra come avversario e non come nemico, il complesso dei migliori si è aggravato, ma perché sul complesso dei migliori si è innestata una nuova patologia: la costruzione sistematica, talora al limite del ridicolo, di categorie di persone definite fragili, e come tali bisognose di tutela. Il fenomeno è nato negli Stati Uniti, si è diffuso nei paesi europei eccessivamente civilizzati (sto usando l’ironia, per chi non sapesse riconoscerla), ed ora sta sbarcando anche in Italia. L’aspetto interessante di questo fenomeno è che mescola e confonde fragilità incontrovertibili (ad esempio i disabili, o comunque vogliate chiamarli), fragilità connesse a pregiudizi (ad esempio gli omosessuali), fragilità per così dire naturali (ad esempio gli introversi) e infine fragilità indotte dalla deriva vittimistica in atto nella maggior parte dei paesi occidentali. Lo zenit di tale deriva è la pretesa dei singoli (ad esempio gli studenti di un campus) di essere chiamati con articoli e desinenze appropriate (he, she, ze) e, ancora più demenziale, l’obbligo per i professori di avvertire i loro studenti che potrebbero essere turbati da opinioni contrarie alla propria, o da passi scabrosi, offensivi, o politicamente scorretti di opere classiche: la Divina Commedia, il libro Cuore, Biancaneve, la mitologia greca, eccetera. Come se la suscettibilità individuale, la paura del diverso, la pretesa di non incontrare mai – nemmeno in un film, o in un racconto, o in una poesia – cose che urtano la nostra sensibilità, fossero caratteristiche ascritte e immodificabili, e non limiti soggettivi che individui maturi dovrebbero imparare a superare (un compito cui, invano, lo stesso Barack Obama ebbe ad esortare i giovani)

Ne ha parlato più volte Federico Rampini, che ha definito la società americana “una collezione di minoranze suscettibili”. Ma ben prima avevano iniziato a discuterne gli psicologi americani, preoccupati della tendenza dei genitori a iper-proteggere i figli, scusandone ogni manchevolezza e alimentandone ogni insicurezza. E’ del 2004, ad esempio, il saggio di Hara Estroff Marano A Nation of Wimps, che assiste allibita e preoccupata alla costruzione di una generazione di “schiappe”. E, più recentemente, è di un’altra psicologa americana, Jean Twenge, la più accurata radiografia della distruzione di ogni autonomia e fiducia in sé stessi della i-generation, la generazione degli iper-connessi. Processi di cui, finalmente, si comincia a parlare  anche in Italia, grazie a libri come quello di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli), che descrive minuziosamente la degenerazione della letteratura in pedagogia politica, o come quello di Guia Soncini (L’era della suscettibilità, Marsilio),  un capolavoro di intelligenza e ironia che mette a nudo la follia dei nuovi censori del pensiero e guardiani del linguaggio.

Ed eccoci al punto, il clima in cui le leggi Zan e Ronzulli si contendono il campo. Qualsiasi cosa si pensi dei pregi e difetti delle due leggi, è difficile non riconoscere che nell’arduo (in realtà: impossibile) compito di tutelare alcune minoranze e al tempo stesso preservare pienamente la libertà di espressione, il pendolo della legge Zan pende dal lato della tutela delle minoranze, quello della legge Ronzulli dal lato della libertà di espressione.

E’ un male?

No, è solo sorprendente. Sono stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra”, e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista. Così come ero abituato a pensare che la lotta contro le diseguaglianze fosse il primo imperativo della sinistra. Mi ritrovo invece a constatare che, contro la più grande frattura sociale dell’Italia post-Covid, quella fra il mondo dei garantiti (a reddito fisso) e quello dei non garantiti (esposti ai rischi del mercato), oggi è la destra – con la risoluta difesa dei lavoratori autonomi e dei loro dipendenti – ad agitare la bandiera della lotta alle diseguaglianze. E che, di fronte alle problematiche della “omotransfobia”, è innanzitutto la destra a farsi carico della difesa della libertà di espressione, mentre la sinistra semplicemente si rifiuta di vedere un problema che l’onda del politicamente corretto e “l’era della suscettibilità” rendono drammaticamente attuale.

Viviamo in un tempo ben strano…

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 maggio 2021