Professor Ricolfi, l’anno scorso di questi tempi ci chiedevamo se il mondo dopo il Covid sarebbe stato lo stesso. Lei che risposta si è dato?
Come molti altri, mi ero augurato che il mondo, ferito dalla pandemia, avrebbe saputo riflettere e imparare qualcosa da una esperienza così drammatica. Nel caso dell’Italia, in particolare, mi ero chiesto se, dopo la pandemia, saremmo rimasti una “società signorile di massa” (il mio libro era uscito pochi mesi prima dello scoppio della pandemia).
A un anno e mezzo dall’inizio della crisi constato invece che questo tipo di riflessione, almeno in Occidente, non ha avuto minimamente luogo, e che anzi siamo impegnatissimi a riportare le lancette dell’orologio esattamente al punto in cui – 18 mesi fa – la festa è improvvisamente finita. Prima del Covid eravamo diventati una società signorile di massa, un anno e mezzo dopo lo siamo ancora di più. Come l’estate scorsa, su tutto domina la volontà di rilanciare il modello di vita precedente, basato sul turismo, le vacanze, i divertimenti di massa, il consumo di tempo libero ovunque divenuto sovrabbondante. Vogliamo essere come prima. Anzi più di prima. Le attività legate alla ristorazione si sono moltiplicate, come possiamo vedere a occhio nudo nelle nostre città con la proliferazione di tavolini e dehor che offrono colazioni, aperitivi, pasti, merende, pizze, focacce, panini, kebab. Nei luoghi di vacanza non si trova più posto, e gli operatori turistici non riescono più a fronteggiare la domanda, anche perché non si trovano abbastanza persone disposte a lavorare.
La ripartenza è diventato il nostro mantra collettivo, che ci ripetiamo e ci sentiamo ripetere.
Questa frenesia da ripartenza non potrebbe essere un fenomeno temporaneo? Un rimbalzo, come direbbero gli economisti. Oppure è qualcosa di strutturale?
Secondo me è strutturale, almeno in Italia e in buona parte dell’Occidente. Nel pre-covid mi chiedevo quali altre società avanzate si sarebbero, poco per volta, trasformate in società signorili di massa. Pensavo alla Francia, alla Spagna, alla Grecia, forse anche al Belgio. Oggi vedo il problema in modo completamente diverso: quasi tutto l’Occidente pare avviato a diventare un immenso lunapark, più o meno contornato da importanti arcipelaghi di duro lavoro, spesso affidato agli immigrati.
Tutte società signorili di massa, dunque?
Io intravedo solo due tipi di eccezioni, fra le società avanzate. Una prima eccezione è costituita dai paesi del Pacifico, sia nell’emisfero settentrionale (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong), sia in quello meridionale (Australia e Nuova Zelanda). Lì la lezione del Covid ha lasciato tracce importanti, in parte durature: chiusura delle frontiere, riduzione della mobilità interna, limitazioni della privacy. Sono società capaci di imparare dall’esperienza, non completamente abbarbicate al proprio modello di sviluppo e ai propri stili di vita.
E la seconda eccezione?
Di questa sono meno sicuro, è solo una congettura. A giudicare però dal modo in cui hanno gestito la pandemia, e da come le cose stanno andando anche adesso, non escludo che i paesi scandinavi, fra i quali includo anche l’Islanda e la Danimarca, possano non evolvere verso il modello iper-consumistico e turismo-centrico dell’Europa e del Nord America. Forse anche aiutate, in questo, dalla tradizione luterana e da una cultura del lavoro ancora forte.
Il lato oscuro di questo iperconsumismo è che si basa sulla leva del debito, privato ma in larga parte pubblico. Ergo sull’assistenzialismo. S’avvera quindi la sua previsione sulla società parassita di massa. Non è preoccupante?
E’ estremamente preoccupante, anche perché nemmeno Draghi ha avuto il coraggio di dire agli italiani la verità: noi il lusso di “seppellire la civiltà del lavoro” (secondo l’efficace formula di Dahrendorf) non possiamo permettercelo. Quando i mercati finanziari rialzeranno la testa, nemmeno super-Mario basterà a evitarci una nuova crisi. Io temo che, alla fine, il ruolo di Draghi non sarà quello di riformare radicalmente il paese, ma semplicemente di assicurare che i soldi che l’Europa ci presta siano spesi in modo dignitoso, e il loro flusso non si interrompa per le nostre negligenze e sciatterie.
Passiamo al lato sanitario dell’epidemia. Continuiamo con l’analogia rispetto all’anno scorso. Il professore Tremonti sostiene che se andiamo a guardare i dati di morti e ospedalizzati, siamo più o meno ai livelli dello scorso anno. Lei che monitora i dati ogni giorno da 16 mesi a questa parte conferma?
Anche se Tremonti ne conclude – pessimisticamente – che stiamo messi come l’anno scorso, e quindi come l’anno scorso avremo delle sorprese in autunno, io penso che Tremonti resti, tutto sommato, ancor troppo ottimista. E’ vero che, se guardiamo i contagi e i decessi, non sembra esservi alcuna differenza apprezzabile fra la situazione di oggi e quella dell’anno scorso.
Ma è ingenuo guardare i contagi, perché il numero di casi diagnosticati è fortemente influenzato dal numero di persone testate, e il numero di persone testate, anziché aumentare (come sarebbe auspicabile), è in costante diminuzione dalla metà di marzo: in 3 mesi e mezzo si è quasi dimezzato.
Ed è ancora più ingenuo guardare il numero di decessi, che sono drasticamente diminuiti essenzialmente grazie alla campagna di vaccinazione, non certo perché il virus circoli di meno che un anno fa. Se vogliamo avere un’idea più realistica della situazione dobbiamo guardare tutti gli indicatori, compresi i ricoverati in terapia intensiva e il quoziente di positività (nuovi casi diagnosticati su 100 persone testate). Ebbene i ricoverati in terapia intensiva del mese di giugno 2021 sono stati il doppio di quelli di giugno 2020. E il quoziente di positività, oggi, è il quadruplo di quello di un anno fa.
Cosa sta facendo il ministero della Salute e il governo per contrastare questa situazione?
Poco, direi, campagna vaccinale a parte. L’unica novità significativa mi pare il tentativo, lodevole ma tardivo, di aumentare i sequenziamenti del virus, ma i risultati per ora sono imbarazzanti. Da un paio di settimane si parla di variante indiana (o variante delta), ma per accorgersi che la variante stava penetrando rapidamente in Italia c’è voluta un’analisi del Financial Times, di cui le nostre autorità sanitarie (e i nostri giornali) si sono accorti con imperdonabile ritardo: negli stessi giorni in cui il FT avvertiva che la variante indiana era ormai sopra il 20% i virologi italiani continuavano a ripetere stancamente le rassicurazioni dell’Istituito Superiore di Sanità, secondo cui la variante era sotto l’1%.
Quali differenze e similitudini fra Draghi e Conte?
Sul piano dell’economia non c’è partita: il governo Conte ha guidato con destrezza e coerenza la trasformazione dell’Italia in una società parassita di massa, con pochi lavoratori veri e un esercito di sussidiati; il governo Draghi sta tentando, timidamente e quando è ormai troppo tardi, di rimuovere alcuni dei tasselli dell’edificio assistenziale eretto del suo predecessore (su tutti: reddito di cittadinanza e blocco dei licenziamenti).
Sul piano sanitario, la differenza fondamentale è che il messaggio estivo di Conte era “stiamo vincendo la guerra contro il virus, siamo i migliori al mondo”, mentre il messaggio di Draghi è “l’epidemia non è finita, ci diamo da fare come gli altri paesi europei”. Ma, al di là di questo, vedo tantissima continuità: discoteche aperte, vacanze a tutto spiano, porti e aeroporti spalancati al turismo internazionale, forze dell’ordine in sordina. E in più: il campionato europeo di calcio.
Ma quel che mi preoccupa di più non è il fatto che Draghi stia facendo le stesse cose di Conte, ma il fatto che, esattamente come Conte, non stia facendo nulla, o quasi nulla, di ciò che andrebbe fatto se vogliamo evitare che la stagione fredda ci trovi ancora una volta impreparati.
Che cosa andrebbe fatto?
Tante cose, su cui la maggior parte della stampa tace, e solo l’opposizione prova a dire qualcosa. Indico solo le più importanti: triplicare il numero di soggetti testati con i tamponi molecolari; impianti di purificazione dell’aria in tutte le aule (a scuola e all’università); sostanziale rafforzamento del sistema dei trasporti urbani; riorganizzazione della medicina territoriale, anche in vista della campagna di rivaccinazione.
Insomma, Draghi immobile come Conte?
Sul piano sanitario sì, vaccini a parte. Quel che è diverso è soltanto che Conte stava fermo perché credeva che l’epidemia fosse in ritirata, mentre Draghi sta fermo perché crede che i vaccini gli toglieranno le castagne dal fuoco.
La vaccinazione non è uno scudo che ci protegge adeguatamente? L’Ema sostiene che tutti e 4 i vaccini, dopo la seconda dose, ci proteggono dalla variante Delta.
Supponiamo per un attimo che sia vero, e che chi si vaccina in modo completo non contragga il virus, non si ammali e non muoia (in realtà è falso, uno studio inglese recente ha dimostrato che, fra i morti con la variante delta, circa il 30% avevano ricevuto la seconda dose da almeno 14 giorni). Resta il fatto che difficilmente la percentuale di persone vaccinate supererà il 70% (in Israele, campione di vaccinazioni, è ferma in prossimità del 60% da ben due mesi). E nel gruppo dei non vaccinati, o dei vaccinati con una sola dose, non vi sono solo bambini, ragazzi, giovani adulti, ma anche anziani che non vogliono o non possono vaccinarsi.
Senza contare il problema delle rivaccinazioni: nel suo ultimo libro (Caccia al virus, Donzelli Editore) Andrea Crisanti solleva dubbi sulla capacità del sistema sanitario nazionale di assicurare, senza ridurre drasticamente la sua operatività, 50 milioni di vaccinazioni all’anno.
Sono tanti i virologi che sostengono che con i vaccini anche la più contagiosa variante Delta alla fine provocherà sintomi simili al raffreddore o all’influenza. Questa tesi non la convince?
Non sono un medico, né un virologo, né un microbiologo, né un infettivologo, quindi non ho gli strumenti per sostenere una tesi diversa. Però so distinguere fra una speranza e un risultato scientifico, basato su un un’evidenza empirica: e quella della riduzione a mero raffreddore o influenza è solo una speranza, nessuno sa quanto realistica.
Quindi le ragioni dell’economia e del turismo faranno ripartire il virus, come lei ha purtroppo previsto l’anno scorso a giugno proprio in un’intervista all’HuffPost?
L’anno scorso ero piuttosto sicuro della mia previsione, perché c’erano dati sufficienti per effettuare calcoli attendibili. Oggi fare una previsione robusta è impossibile…
Come mai ieri si poteva e oggi no?
L’estate scorsa non erano ancora comparse le due incognite fondamentali che rendono incerta qualsiasi profezia oggi: la nascita di nuove varianti, molto più contagiose e/o virulente, e il successo della campagna vaccinale. Se non vi fossero queste due incognite, e stante l’inerzia del governo sulla preparazione alla stagione fredda, mi sentirei di ripetere la profezia dell’anno scorso: per salvare il turismo, stiamo rilanciando l’epidemia.
Ma le due incognite ci sono, e giocano a braccio di ferro tra loro. La campagna vaccinale frena la circolazione del virus, la nascita di nuove varianti la accelera. Chi possa risultare vincitore in questo braccio di ferro nessuno può saperlo. Quel che sappiamo, però, è che se la sfida fra vaccini e varianti dovesse finire in un pareggio, ovvero se le due forze si dovessero elidere a vicenda, allora saremmo fritti.
Perché mai?
E’ molto semplice. Oggi, superficialmente, la situazione è simile a quella di un anno fa, salvo i vaccini e le varianti. Stesso numero di casi, stesso numero di morti. Dunque, se vaccini e varianti si elidono, e nulla si fa per preparare il rientro dalle vacanze, quel che ci potrebbe aspettare è uno scenario non troppo dissimile da quello dell’anno scorso, anche se – verosimilmente – con un mix diverso: più infetti, a causa delle varianti, meno morti, grazie ai vaccini (secondo Mario Menichella, che ha provato a fare i conti: non più di 60 mila morti).
Questo significa che la scommessa del governo è un po’ azzardata: l’autunno e l’inverno potranno essere sensibilmente migliori di quelli scorsi solo se il braccio di ferro fra vaccini e varianti fosse vinto dai vaccini. Il che è possibile, ma tutt’altro che certo.
Ma non si può proprio capire chi è più forte fra la variante delta e i vaccini?
No, non si può capire con i dati che abbiamo al momento. Però una cosa possiamo farla, e certamente la faremo nei prossimi mesi come Fondazione Hume: studiare come evolve l’epidemia nei paesi in cui la variante delta è divenuta dominate, come il Regno Unito, il Portogallo, Israele, gli Stati Uniti. Quel che possiamo dire fin d’ora è che in tali paesi il contagio ha preso a galoppare, con valori di Rt sempre maggiori di 1, ma il numero dei decessi giornalieri – fortunatamente – non presenta ancora una dinamica preoccupante. In breve: la variante delta pare in grado di accelerare la circolazione del virus, anche a dispetto dei vaccini (in tutti e 4 i paesi considerati la campagna di vaccinazione è più avanti che in Italia), ma per ora non sembra produrre effetti apprezzabili sulla mortalità.
La politica è condannata a essere impotente? O qualcosa ancora si può fare? Ci si può mettere contro la spinta della società signorile di massa?
Diciamolo chiaramente: la società italiana è diventata una società signorile di massa e, dopo un anno di Covid, ha mostrato nel modo più chiaro possibile che intende restarlo, a costo di trasformarsi – più o meno lentamente – in una società parassita di massa, meno ricca e spensierata di quello che oggi riesce ancora ad essere.
Rispetto a tutto questo la politica, qualunque politica, e chiunque ci governi, non può nulla. Non perché non si possa gestire diversamente un’epidemia – altrove è stato fatto – ma perché, nelle democrazie, la politica fa ciò che la società le consente di fare. Può fare più o meno bene, massimizzare i danni o minimizzarli, ma sempre entro i limiti che la cultura e la mentalità di un determinato popolo le consentono.
E, anche questo converrà ammetterlo, i limiti che la cultura e la mentalità degli italiani pongono all’azione della politica sono piuttosto stretti. Draghi o non Draghi.
Intervista rilasciata a Gianni Del Vecchio, HuffPost, il 3 luglio 2021