La Ley Trans contro le imprese

Quando si parla di diritti LGBT+, di norma lo si fa in termini sociali, giuridici o culturali. Per quanto riguarda, in particolare, il diritto a cambiare genere a piacimento, divenuto effettivo in Spagna dal marzo dell’anno scorso con la cosiddetta Ley Trans, le questioni di cui si discute sono del tipo: è giusto che i minorenni (over 16) possano cambiare genere senza il consenso dei genitori? è giusto che gli atleti maschi transitati a femmina gareggino nelle competizioni femminili? è accettabile che i carcerati biologicamente maschi accedano ai reparti femminili? è ammissibile cambiare genere per evitare il carcere in un processo per stupro? è giusto che le quote rosa siano occupate da maschi che si percepiscono come femmine?

Molta meno attenzione ha ricevuto il lato economico della faccenda. Che non consiste solo nel fatto che i passaggi da maschio a femmina possono essere sfruttati opportunisticamente per usufruire di benefici riservati alle donne, ma riguarda direttamente i conti delle imprese. È di questi giorni la notizia che a breve entreranno in vigore varie norme che comporteranno nuovi e pesanti obblighi per le imprese sopra i 50 addetti. Ad esempio: istituire iniziative di formazione e sensibilizzazione ai diritti LGBT+, redigere report annuali sulle politiche aziendali in materia, concedere speciali permessi retribuiti, promuovere la “eterogeneità della forza lavoro”, ovvero garantire una adeguata rappresentanza a determinate minoranze sessuali.

Si potrebbe pensare che, in questo, la Spagna sia particolarmente avanti rispetto agli altri paesi occidentali. In realtà è semmai vero il contrario. Linee guida pro-inclusione analoghe a quelle spagnole sono state adottate da moltissime imprese americane
soprattutto dopo il 2020 (anno dell’uccisione di George Floyd, e conseguente decollo del movimento Black Lives Matter), ma sono entrate in crisi nel 2023 e sono ora in precipitosa ritirata. La Spagna, in altre parole, sta facendo con 4 anni di ritardo un
esperimento – quello delle politiche DEI: Diversity, Equity, Inclusion – che è già ampiamente fallito negli Stati Uniti.

Perché è fallito?

È molto semplice: perché danneggia pesantemente la competitività delle imprese. Quando le politiche DEI sono prese sul serio, e non si riducono a qualche banale misura di facciata, il loro impatto sui conti economici aziendali può risultare molto severo.

Tre sono i meccanismi fondamentali che minano la salute e la vitalità delle imprese.

Il primo è l’aumento dei costi fissi, perché le politiche DEI possono essere molto dispendiose: assumere personale dedicato, pagare esperti e consulenti, fare indagini interne, attuare misure di sorveglianza, istituire corsi di sensibilizzazione, comporta
sia cospicui costi diretti, sia non trascurabili costi indiretti, sotto forma di tempo sottratto ad attività aziendali vere e proprie.

Il secondo meccanismo riguarda le politiche di assunzione. Il fatto di avere vincoli o obiettivi di rispetto di quote (tot posti per minoranze di vario tipo), nella misura in cui impedisce all’impresa di assumere i dipendenti valutandoli solo per l’adeguatezza a
ricoprire determinate mansioni, impatta inevitabilmente sulla produttività del lavoro, ovvero sul valore aggiunto per addetto.

Il terzo meccanismo è la comparsa di un disincentivo a superare i 50 addetti se l’impresa è di poco sotto la soglia, e – simmetricamente – la comparsa di un incentivo a ridurre l’occupazione se è appena al di sopra dei 50 addetti.

Non a caso, da tempo le imprese spagnole e i loro rappresentati manifestano dubbi e preoccupazioni in vista dell’entrata in vigore delle norme della Ley Trans che impattano sui bilanci aziendali. I due tempi dell’esperienza americana – prima adesione entusiastica, poi precipitosa retromarcia – suggeriscono che quei dubbi e quelle preoccupazioni non siano campate per aria.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 ottobre 2024]




Crimini d’odio e libertà di manifestazione

La manifestazione anti-Israele che si è svolta sabato a Roma, purtroppo non senza violenze e incidenti, almeno un merito ce l’ha: quello di avere evidenziato l’inadeguatezza, incompletezza o ambiguità del complesso di norme che disciplinano il diritto di manifestare.

Da un lato abbiamo la Costituzione, che tutela sia il diritto di manifestazione del pensiero (articolo 21) sia il diritto di riunirsi in luogo pubblico (art. 17). È vero che la Costituzione prevede alcuni limiti all’esercizio di entrambi i diritti, ma sembra arduo
invocarli per la manifestazione di sabato. Tali limiti, infatti, sono solo l’offesa al “buon costume” o l’esistenza di “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Ed è difficile sostenere che quella manifestazione fosse atta a offendere il buon costume, mentre – per quanto riguarda i motivi di sicurezza o incolumità pubblica – se è vero che alcuni motivi potevano anche sussistere, è altrettanto vero che sarebbe azzardato definirli “comprovati” (questo è un grave limite del dettato costituzionale: quando sussistono, i “motivi” per impedire una manifestazione raramente possono essere detti ex ante e in pubblico senza danneggiare l’attività di prevenzione e repressione delle forze dell’ordine). Dunque, se ci atteniamo alla sola Costituzione, il divieto era difficile da giustificare.

Dall’altro lato, però, esistono anche il codice penale (articoli 604-bis e 604-ter) e le leggi ordinarie (legge Mancino) che regolano i crimini d’odio. E tali norme hanno una impronta fortemente restrittiva della libertà di manifestazione del pensiero e di
associazione.

La legge, infatti, punisce sia “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, sia “chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, sia “chi partecipa a o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

Se ci atteniamo a queste norme, credo sia difficile non rintracciare, in diverse manifestazioni pro-Palestina e anti-Israele degli ultimi tempi (compresa quella di sabato), gli estremi dell’incitazione alla violenza per motivi razziali (essere ebrei) o nazionali (essere israeliani). Da questo punto di vista il divieto di manifestazione appare meno ingiustificato, perché sia i comportamenti sia le dichiarazioni di molti attori coinvolti potrebbero plausibilmente rientrare nella categoria dei crimini d’odio.

Una categoria, si noti bene, che in passato – in nome della lotta a tali crimini – si è più volte tentato di allargare ulteriormente, ad esempio includendo “motivi di sesso, genere, orientamento sessuale o identità di genere”, come in occasione della discussione del Ddl Zan.

Di qui un problema difficilmente risolvibile. Se si vuole dare la massima tutela alla libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, è giocoforza mettere la sordina alla legislazione sui crimini d’odio. Se, all’opposto, si vogliono combattere vigorosamente i crimini d’odio, diventano inevitabili alcune restrizioni alla libertà di pensiero e di associazione.

Quel che non si può fare, invece, è usare due pesi e due misure, ossia schierarci per la libertà di manifestazione del pensiero o per la lotta ai crimi d’odio a seconda dei contenuti per i quali si manifesta. Chi non vede nessun problema nei cortei ostili a ebrei e israeliani, dovrebbe chiedersi che cosa penserebbe se, domani, il bersaglio dovessero diventare gli islamici, i neri o gli immigrati.

[articolo uscito sul Messaggero il 7 ottobre 2024]




A proposito delle elezioni austriache – Il fantasma di Hitler

E così, anche in Austria, come poche settimane fa in Sassonia, Turingia e Brandeburgo (3 länder della Germani Est), le elezioni le hanno stravinte due partiti che la maggior parte dei media definiscono neo-nazisti. Nel caso della Germania il partito vincente è Alternative für Deutschland (AfD), nel caso austriaco è il Partito della libertà (FPÖ), una formazione euroscettica che 25 anni fa, quando era guidata da Jörg Haider, ebbe a creare non pochi problemi a Bruxelles.

La vittoria del Partito della libertà (28.9%), quasi 4 punti in più che alle Europee di pochi mesi fa) è particolarmente significativa perché non avviene a scapito del Partito popolare (conservatore e moderato), che anzi guadagna 2 punti rispetto al risultato delle Europee, ma a scapito dei socialdemocratici (-2 punti) e dei Verdi (-3 punti).

Mai, nella storia elettorale dell’Austria, lo scarto fra i consensi alla destra e quelli alla sinistra era stato così forte: giusto per fare un paragone, in Italia le forze di destra superano quelle di sinistra di circa 6 punti, in Austria di 36.

Ciononostante, è probabile che il Partito della libertà e il suo leader Herbert Kickl (a suo tempo ghost writer di Haider) restino fuori del governo, in base alla dottrina del “cordone sanitario” contro l’estrema destra (come in Francia e Germania): Popolari e
Socialdemocratici austriaci, infatti, hanno seggi a sufficienza per formare un governo, anche senza l’aiuto dei partiti minori (Verdi e Neos, di orientamento liberale).

Ma quali sono le idee di fondo del Partito della libertà austriaco?

Direi che sono fondamentalmente quattro: ostilità alle chiusure durante il Covid; opposizione alle politiche green; contrarietà all’invio di armi in Ucraina (anche perché l’Austria dipende fortemente dal gas russo); difesa dei confini e rimpatrio degli stranieri irregolari (“remigration”).

Come è facile immaginare, il punto più importante è quest’ultimo. Secondo diversi osservatori, l’ostilità verso gli immigrati tipica dei partiti di estrema destra sarebbe connessa a pulsioni razziste, con venature nazionaliste e antisemite. E il fatto che
simili pulsioni si manifestino in area germanica, ossia in due paesi con un passato nazista, è fonte di ulteriori e più gravi preoccupazioni. Preoccupazioni che non possono non ricevere ulteriore impulso dalle ripetute (ancorché isolate) esternazioni
nostalgiche e nazisteggianti di alcuni esponenti del Partito della libertà (e pure di quelli di AfD): sul trionfo elettorale del Partito della libertà, insomma, aleggia il fantasma di Hitler.

Sono giustificate quelle preoccupazioni?

Per certi versi sì. Il passato nazista, con i suoi simboli e i suoi richiami, può offrire alla protesta populista un immaginario inquietante e aggressivo, e alimentare tentazioni di farsi giustizia da sé, innanzitutto contro gli immigrati percepiti come una
minaccia alla sicurezza e ai valori comunitari. In questo senso sì, la vittoria del Partito della Libertà è inquietante.

Per altri versi, però, l’accostamento fra FPÖ e nazismo è fuorviante. Se guardiamo all’ideologia e agli obiettivi del partito di Kickl, non possiamo non notare almeno tre differenze significative con il partito hitleriano. Primo, il nazionalismo dell’FPÖ è pacifista, e tutt’altro che aggressivo o guerrafondaio verso gli stati confinanti. Secondo, nel caleidoscopio ideologico dell’FPÖ una componente essenziale è il libertarismo, come testimoniano le sue battaglie contro le restrizioni Covid, e come suggeriscono le sue origini (fino al 1993 ha fatto parte dell’Internazionale liberale). Terzo, il bersaglio principale sono gli immigrati, in particolare gli islamici, non certo gli ebrei.

Insomma, il paragone con il Nazismo non regge: si può essere pericolosi senza essere nazisti.

Il vero problema è che nessun partito, né in Austria, né in Germania, né altrove in Europa, ha una soluzione per il paradosso migratorio: gli immigrati sono troppi (o troppo poco integrati), per assicurare ordine e sicurezza, ma sono troppo pochi per coprire la domanda di lavoro, specie qualificato. Il tutto complicato dai vincoli legislativi, soprattutto di carattere internazionale e umanitario, che rendono estremamente difficoltose anche modeste misure di espulsione degli irregolari, e persino degli autori di gravi reati.

La realtà, temo, è che chiunque governi – Popolari, Conservatori, Socialisti, “estremisti” di destra – non ha gli strumenti per risolvere il problema migratorio, finché le regole sono quelle attuali. Con un’aggravante, nel caso austriaco: gli stranieri in rapporto alla popolazione sono più del doppio che in Italia (20% contro 9%).

In queste condizioni, è normale che chi – come il partito di Kickl – non ha responsabilità di governo intercetti buona parte della protesta anti-immigrati, e riesca a farlo anche nelle realtà urbane tradizionalmente più favorevoli alla sinistra: nel
territorio autonomo di Vienna, dove la percentuale di immigrati è oltre il 30%, la FPÖ è riuscita a sfondare il tetto del 20%, un risultato eccezionale in una roccaforte progressista.

Di qui il dilemma di socialdemocratici e popolari: imbarcare gli estremisti, rinunciando alla logica del cordone sanitario, o tenerli fuori del governo, con il rischio che – alle prossime elezioni – siano ancora più forti di prima.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]




Scuole americane e libri all’indice – Censura bipartisan

La storia della censura è singolare. Negli anni ’50 e ’60, in Italia, i limiti alla libertà di espressione venivano soprattutto dalla destra e dai poteri clericali, che altro non facevano che applicare – piuttosto strettamente – l’articolo 21 della Costituzione, il
cui comma 6 recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”.

Questo regime è tramontato progressivamente, fra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, semplicemente perché il concetto di “buon costume”, come peraltro quello di “comune senso del pudore”, sono mutati radicalmente sotto la spinta del ’68 e
soprattutto del femminismo. Probabilmente l’ultimo atto significativo di censura dall’alto è il sequestro, alla fine del 1976, del romanzo Porci con le ali, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice.

Poi, praticamente nulla: libri, film e spettacoli teatrali cominciano a circolare liberamente. La satira in tv, specie nel quindicennio 1985-2001, conosce una stagione di allegria e meravigliosa scanzonatezza (da Quelli della notte, 1985, a L’ottavo nano, 2001), mai eguagliata dopo di allora. Certo, gli episodi di censura ci sono ancora, ma sono circoscritti e strettamente politici, nel senso che scattano se, e solo se, viene toccato un politico in posizione apicale (Craxi, Berlusconi).

Non così nel nuovo secolo, infestato dal politicamente corretto e dalla cosiddetta cancel culture. Inizia una nuova censura, molto diversa da quella del passato: è di sinistra anziché di destra, e procede dal basso anziché dall’alto. Inutile ricordare qui le migliaia di opere di ogni tipo – dalla Divina Commedia a Dumbo, dai dipinti di Gauguin alle musiche di Debussy – cadute sotto la scure dell’attivismo woke, specie negli Stati Uniti e in molti paesi di lingua inglese.

Quello su cui forse vale la pena richiamare l’attenzione, però, è quel che, da qualche tempo succede nelle scuole americane, e in particolare nelle biblioteche interne agli istituti scolastici. Qui da alcuni anni si stanno moltiplicando i tentativi da parte di
genitori, loro organizzazioni, ma anche attivisti esterni e autorità politiche locali, di bandire libri considerati “inappropriati”, ma la matrice dominante delle spinte censorie, a differenza di quel che da molti anni succede nelle università e nelle grandi
istituzioni della società americana, non è di sinistra.

La progressione del fenomeno è attentamente monitorata da varie associazioni di difesa del libro e della libertà di lettura. Ad esempio: l’associazione di scrittori Pen America, l’associazione dei librai American Library Association (ALA), Amnesty
International. Ebbene, i dati raccolti negli ultimi anni segnalano una esplosione del numero di libri di cui viene richiesto il bando. Secondo ALA, che raccoglie dati da più di 20 anni, le richieste di censura di libri erano 729 nel 2021, ma erano salite a 1269 nel 2022 (+74.1% in un solo anno). Secondo Pen America, che non lavora sugli anni solari ma sugli anni scolastici, nel 2021-22 le contestazioni erano state 2532, salite a 3362 nell’anno scolastico successivo (2022-23), e a oltre 10 mila nell’anno
scolastico appena concluso (2023-24).

Se si va a vedere di che libri si tratta e quali sono le ragioni delle richieste di bando, si scopre che, pur non mancando esempi paradossali, o difficili da collocare politicamente (la Bibbia, 1984 di Orwell), i contenuti più contestati ricadono in poche
categorie: oscenità e pornografia; violenza, sesso esplicito; storie LGBTQIA+; personaggi di colore; schiavismo e colonialismo.

Scavando più a fondo, emerge abbastanza chiaramente che la matrice delle contestazioni più frequente è di tipo conservatore e anti-woke (anche se non mancano contestazioni di segno opposto), e che non di rado la contestazione poggia su norme
introdotte dall’alto negli stati a maggioranza repubblicana, come Texas, Florida, Iowa, Utah, South Carolina, Tennessee.

Se teniamo conto del fatto che il fenomeno, pur presente da decenni, è decollato nel 2021 e ha preso vigore negli anni successivi, non sembra azzardato leggerlo (anche) come una reazione del mondo repubblicano alla sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali del 2020.

Naturalmente ognuno può giudicare come preferisce l’esplosione delle richieste di censura dei libri delle biblioteche scolastiche: inaccettabile limitazione della “libertà di lettura”, o salutare reazione all’indottrinamento woke in atto in tante scuole
americane?

Resta il fatto che, almeno nelle scuole americane, la cancel culture non è più un monopolio della sinistra.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° settembre 2024]




Elezioni in Brandeburgo – Nelle mani di Sahra

Dopo la Sassonia e la Turingia, anche il Brandeburgo (la ciambella di territorio intorno a Berlino, nella Germania dell’est) è andata al voto. I risultati sono diversi da quelli previsti, perché l’Spd del cancelliere Scholz – ininterrottamente al potere in
Brandeburgo dall’unificazione tedesca – non è andato incontro a una rovinosa sconfitta, anzi ha aumentato sensibilmente i consensi (+4,7%). Se fosse stato sorpassato dal partito di estrema destra AfD (Alternative für Deutschland), e fosse stato costretto a lasciare il potere in Brandeburgo, con ogni probabilità avremmo assistito a una crisi politica a livello federale, con richiesta di elezioni anticipate e possibile rinuncia di Scholz a ripresentarsi l’anno prossimo come candidato alla cancelleria.

Da questo punto di vista, i partiti di governo della “coalizione semaforo” nazionale (Spd, Verdi, Liberali) hanno ogni motivo per tirare un respiro di sollievo: lo spettro di un successo dell’AfD, alimentato da alcuni sondaggi che consideravano possibile il
sorpasso sulla Spd, ha convinto molti potenziali astensionisti a recarsi al voto, in un clima che in parte ricorda la mobilitazione anti-Marine Le Pen di qualche mese fa in Francia: ancora una volta, il “cordone sanitario” dei partiti democratici sembra aver
funzionato.

Ho detto “sembra” perché il racconto fatto fin qui non è completo. Anzi, per certi versi è fuorviante.

Non è completo perché manca il dato del numero di seggi. In Brandeburgo il numero totale di seggi è 88, quindi ce ne vogliono almeno 44+1=45 per governare. Ma la coalizione di unità nazionale (Spd+Cdu+Verdi) fin qui al potere di seggi ne avrà solo
44, mentre prima ne aveva 50 (i 7 seggi in più ottenuti dai vittoriosi socialdemocratici sono stati più che compensati dai 3 seggi persi dai Cristiano democratici e dai 10 seggi persi dai Verdi, completamente esclusi dal nuovo parlamento locale). Morale:
se vuole restare al potere, che detiene da ben 11 anni, il leader socialdemocratico Dietmar Woidke dovrà venire a patti con Sahra Wagenknecht, leader di un partito che è la vera novità dell’ultimo anno in Germania. La BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht) è un partito estremista anti-immigrati e anti-guerra in Ucraina, che ha ottenuto oltre il 6% alle elezioni europee, il 13.5% in Brandeburgo e – secondo alcuni sondaggi – potrebbe tranquillamente aspirare al 10% alle prossime elezioni generali 2 tedesche, previste per il 2025. Insomma, il vincitore Dietmar è nelle mani di Sahra e del suo nuovo partito.

Ma il racconto ottimistico dei vertici Spd oltreché incompleto è pure fuorviante, in quanto nasconde le tendenze in atto in Brandeburgo, e verosimilmente anche a livello nazionale. Possiamo riassumerle così: in Brandeburgo i quattro partiti “democratici” di sinistra (Spd), di destra (Cdu-Csu) e di centro (Liberali e Verdi) raccoglievano il 70% dei consensi 25 anni fa, erano scesi al 62% 5 anni fa, sono crollati al 48% oggi. Ovvero: nemmeno mettendosi tutti insieme i partiti democratici, europeisti e atlantisti, riescono a raggiungere il 50% dei consensi.

E a livello nazionale?

Se guardiamo al risultato europeo di qualche mese fa le cose sono un po’ migliori che in Brandeburgo oggi, perché tutti i partiti democratici messi insieme raccolgono ancora il 61% dei consensi. Il problema, però, è che né la coalizione di centro-sinistra
attualmente al governo, né una eventuale coalizione che aspirasse a subentrarle (con la Cdu-Csu al posto della Spd), avrebbero i numeri per governare: la coalizione-semaforo attualmente al governo ha ottenuto il 31% dei consensi alle Europee, l’ipotetica coalizione di centro-destra il 47% (Verdi inclusi!), meno della maggioranza necessaria per formare un governo.

Come se ne esce?

Ferma restando la Linea Maginot contro Alternative für Deutschland (AfD), restano solo due possibilità: un governo di unità nazionale (o Grosse Koalition, o “coalizione Kenya”), che esclude solo le estreme (Afd, Linke, Bsw), oppure l’alleanza con la
nuova formazione di Sahra Wagenknecht (BSW), che essendo “sia di destra sia di sinistra”, ha la possibilità di allearsi sia con la Spd (sulle politiche sociali) sia con la Cdu (sul contrasto all’immigrazione).

Insomma, ancora una volta nelle mani di Sahra.

[articolo uscito sulla Ragione il 24 settembre 2024]