Educazione sessuale e violenza di genere – Il paradosso nordico

Di educazione sessuale a scuola si parla da almeno cinquant’anni, ma la questione è tornata di attualità dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin (autunno 2023), una vicenda che molti hanno visto anche come conseguenza di un deficit di educazione sentimentale.

Per molti osservatori gli episodi di bullismo, violenza fisica e sessuale, aggressione, fino allo stupro e all’uccisione, potrebbero essere contenuti ove l’Italia seguisse la strada percorsa dalla maggior parte dei paesi europei, che da tempo hanno introdotto l’educazione sessuale nei programmi scolastici.

Anche su questo sinistra e destra tendono a dividersi. La sinistra non ha dubbi sull’utilità e l’efficacia dei programmi di educazione sessuale, specie se mettono in discussione gli stereotipi di genere e sono attenti alle problematiche LGBT. La destra, invece, di dubbi ne ha molti: è scettica sull’efficacia dell’educazione sessuale come mezzo di contrasto della violenza di genere, pensa che a occuparsene debba essere la famiglia, paventa rischi di indottrinamento woke.

Curiosamente, però, nessuno sembra porsi una semplice domanda: che cosa dicono i dati?

Eppure, se è vero che più di metà dei paesi europei prevede programmi più o meno avanzati di educazione sessuale, e molti di essi li hanno introdotti molto tempo fa (la Svezia nel 1955), non varrebbe la pena analizzare le loro esperienze? Più esattamente, se è fondata la fede progressista nella capacità dell’educazione sessuale di contrastare la violenza di genere, non dovremmo osservare risultati incoraggianti nei paesi che, a differenza dell’Italia, l’hanno già introdotta da tempo?

A prima vista i dati disponibili (fermi al 2022) deludono completamente le aspettative. I casi di violenza sessuale denunciati in Italia sono circa 9 ogni 100 mila abitanti, ma nella modernissima e civilissima Svezia sono 200, più di venti volte tanti. Se allarghiamo l’orizzonte, e distinguiamo fra i 16 paesi europei segnalati come virtuosi in base ai rapporti Unesco (Svezia inclusa) e i rimanenti paesi UE (Italia inclusa), il contrasto si attenua, ma non sparisce affatto: nei paesi con l’educazione sessuale a scuola le violenze sessuali sono 55 ogni 100 mila abitanti, negli altri paesi sono solo 11, ossia 5 volte di meno.

Dobbiamo concludere che l’educazione sessuale è dannosa?

Ovviamente no, perché i fattori che spiegano la violenza sessuale sono anche altri, e potrebbero agire a sfavore dei paesi avanzati. Inoltre, non si può escludere che, essendo i dati delle violenze sessuali basati sulle denunce, i tassi dei paesi avanzati riflettano tassi di denuncia più alti, e quelli dei paesi arretrati siano sgonfiati da tassi di denuncia più bassi.

Per evitare questa possibile fonte di distorsione, conviene rivolgere l’attenzione al numero di donne uccise per milione di abitanti, uno dei pochi reati sostanzialmente privi di “numero oscuro” (ossia di casi non denunciati). Se procediamo così il quadro si fa più complesso. L’Italia ha uno dei tassi di donne uccise più bassi dell’Unione Europea (solo Irlanda e Lussemburgo hanno valori inferiori ai nostri), la civilissima Svezia ne ha il 31% in più, la Danimarca il 69% in più, la Finlandia il 133% in più. È il cosiddetto “paradosso nordico”, che nessuno studio è finora riuscito a spiegare in modo soddisfacente.

Nello stesso tempo, è vero che se – come per le violenze sessuali – confrontiamo il blocco dei paesi virtuosi (nordici e non) con quello dei paesi restanti (mediterranei e non), i conti tornano più in linea con il senso comune: i paesi più avanzati in termini di educazione sessuale hanno meno donne uccise per abitante (anche se va detto che il risultato è fortemente influenzato dal dato della Lettonia, circa 10 volte più severo di quello dell’Italia).

Conclusioni?

Impossibile fare affermazioni perentorie senza prendere in considerazione molti più paesi e molte più variabili. Quel che possiamo dire è solo che, nell’Unione Europea, l’Italia è uno dei paesi meno pericolosi per le donne, almeno per quel che riguarda il rischio di venire uccise. E che, quanto all’impatto dell’educazione sessuale, l’entità (e il segno) dei suoi effetti sulla violenza di genere sono ancora tutti da verificare, come il “paradosso nordico” si incarica di ricordarci. Destra e sinistra dovrebbero farsene una ragione.

[articolo inviato alla Ragione il 23 febbraio]




Sul discorso di Vance – Tradimento dei valori occidentali?

Sulla condotta della guerra in Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti si possono avere le idee più disparate. Non è palesemente irragionevole la posizione di quanti paventano il pericolo che la Russia voglia annettersi altre porzioni dell’Europa, e dunque pensano che abbia fatto bene la Nato a fornire aiuto alla “resistenza” ucraina. Ma non è neppure palesemente irragionevole la posizione diquanti fanno notare che la precedente espansione a est della Nato, con l’obiettivo di includere l’Ucraina nel blocco occidentale. sia stata una mossa quantomeno azzardata.

Quello che invece, personalmente, ritengo sia stato irragionevole (e anti-democratico) è la chiusura a riccio che l’informazione main stream ha adottato dallo scoppio della guerra, silenziando quasi tutte le voci esplicitamente critiche. Sulla guerra, come pochi anni prima sul Covid, i grandi media hanno scelto di tappare la bocca alle voci dissenzienti con la linea ufficiale (vaccini + armi), costrette a rifugiarsi su testate minori o siti eterodossi, con conseguente perdita di ogni possibilità di incidere sul discorso pubblico articolando punti di vista alternativi o sollevando utilissimi dubbi.

È anche a causa di questa lunga stagione di conformismo e autocensura collettiva che l’Europa si trova oggi completamente spiazzata, quasi incredula di fronte al fatto che le cose non sono andate come aveva sperato, e come fino all’ultimo si è ostinata a credere che stessero andando. Eppure non ci voleva molto ad accorgersi che la guerra di Putin era solo il secondo tempo della guerra del Donbass, o che l’espansione della Nato ai confini della Russia poteva essere percepita come una minaccia, o che le sanzioni facevano più male a noi che alla Russia, o che la controffensiva ucraina era fallita da tempo. E non occorreva essere raffinati strateghi per capire che, trattando Zelensky come una star mediatica e un eroe (ricordate i parlamenti europei collegati e
plaudenti nei primi mesi di guerra?) e Putin come nient’altro che un criminale di guerra, diventava automaticamente impossibile ritagliarsi quel ruolo di mediatori e facilitatori di un compromesso da cui ora si viene brutalmente estromessi dall’attivismo del neo-eletto presidente degli Stati Uniti.

Alla luce di queste riflessioni, non vedo nulla di strano, o di sorprendente, nei toni e nella sostanza dei discorsi di Donald Trump e di James David Vance (suo vice) quando tendono a escludere l’Europa dalla trattativa con la Russia, stante il fatto che l’Europa stessa è rigidamente schierata dalla parte di uno dei due contendenti, non ha fatto tentativi credibili di fermare la guerra, e per di più è militarmente debolissima, se non irrilevante. Dove invece il discorso tenuto nei giorni scorsi da Vance mi appare paradossale, anzi spudorato, è quando accusa l’Europa di avere tradito i valori occidentali, e in particolare la difesa della libertà di parola, il principio del free speech. Ora, è vero che Vance ammette le responsabilità del suo Paese, ma il punto è che le scarica tutte sull’amministrazione Biden (2021-2024) e sul suo ricorso alla censura con il pretesto della lotta alla disinformazione e ai discorsi d’odio. Non si può sorvolare sul fatto che proprio negli Stati Uniti è nato il politicamente corretto, è negli Stati Uniti che, intorno al 2012-2013 (ben prima dell’era Biden), è avvenuta la sua mutazione in “follemente corretto”, è dagli Stati Uniti che l’Europa ha importato quel morbo. E l’aspetto più grave del fenomeno, i licenziamenti dei professori e l’intimidazione degli studenti non allineati al credo woke, non è certo venuto meno durante il primo mandato di Trump (2017-2020), che ne ha anzi visto una recrudescenza, sotto i colpi del MeToo e del movimento Black Lives Matter, esploso dopo l’uccisione di George Floyd.

Resta il fatto, comunque, che il discorso di Vance – al di là della grande questione del modo di terminare la guerra in Ucraina – ha posto sul tappeto un tema vero: quali siano, oggi, i “valori condivisi” dell’occidente, ammesso che ne esistano. Non solo il free speech, su cui è difficile dargli torto, ma anche la democrazia stessa, messa in forse – secondo Vance – dall’annullamento delle elezioni in Romania, ma anche dal mancato rispetto della volontà popolare in materia di politiche migratorie. E, aggiungerei io, dal mancato rispetto della medesima volontà popolare in America, ai tempi dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill.

Ma questo, evidentemente, Vance non poteva dirlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 18 febbraio]




Europa spaventata – Il partito dei rimpatri

Fra una settimana si vota in Germania. Travolto dai dissidi interni e da una drammatica crisi di consenso, il governo Scholz affronta la prova elettorale nelle condizioni peggiori possibili: divisioni fra gli alleati della uscente “coalizione semaforo” (Spd, Verdi, Liberali), incertezze sulla guerra in Ucraina e i rapporti con Trump, polemiche per l’attentato dei giorni scorsi a Monaco di Baviera, lacerazioni sulla questione dei rimpatri forzati.

Secondo i sondaggi i socialdemocratici hanno perso 10 punti rispetto alle ultime elezioni (2021), Liberali e Verdi ne hanno persi quasi altri 10, il tutto a beneficio di tre formazioni fortemente ostili all’immigrazione irregolare: i popolari della CDU-CSU, in salita di circa 5 punti, il nuovo partito di sinistra anti-migranti di Sahra Wagenknecht (BSW), dato vicino al 5%, e soprattutto la temutissima AFD (Alternative für Deutschland) di Alice Weidel, che dovrebbe passare dal 10 al 21% dei consensi.

In queste condizioni prevedere che governo si formerà è impossibile per tre ordini di ragioni. Primo, la composizione del parlamento dipenderà in modo cruciale da quali partiti non passeranno la soglia di sbarramento del 5% (tre partiti piccoli ma importanti, ossia Liberali, Linke e BSW, rischiano di non farcela). Secondo, se la composizione riflettesse abbastanza fedelmente le risultanze dei sondaggi, il partito maggiore (la CDU-CSU) potrebbe, almeno sulla carta, dar luogo a tre diversi tipi di coalizioni, differenti tra loro innanzitutto per il grado di adesione alla politica dei rimpatri (remigration). In ordine di severità, dalla coalizione più blanda alla più ostile: alleanza con verdi e socialdemocratici, alleanza con socialdemocratici e BSW, alleanza con la sola Afd, In quest’ultimo caso cadrebbe il “muro spartifuoco” (brandmauer) che dalla fine della seconda guerra mondiale – non solo in Germania – ha sempre tenuto fuori del governo le formazioni di estrema destra, più o meno arbitrariamente tacciate di simpatie naziste.

Difficile pensare che l’attentato di Monaco (auto che piomba sulla folla, 28 feriti e un bimbo in fin di vita) non sospinga ulteriormente verso destra gli equilibri parlamentari. Nessun paese più della Germania, negli ultimi 12 mesi, è stato scosso da tanti attentati e aggressioni: un attentato analogo, ma ancora più grave (6 morti e 200 feriti) era avvenuto poco più di un anno fa a Magdeburgo. Da allora si sono susseguiti, con impressionante progressione, gli episodi di accoltellamento: Aschaffenberg (gennaio), Mannheim (maggio e giugno), Stoccarda (giugno), Wolmirstedt (giugno), Solingen (agosto). E, cosa fondamentale per comprendere lo stato d’animo dell’opinione pubblica, in tutti i casi precedenti l’attentatore era straniero, e talora più o meno connesso a terrorismo e islam. Di qui la stretta connessione, nella mente di in una parte cospicua dell’opinione pubblica, fra immigrazione irregolare, sicurezza, terrorismo, divenuti poco per volta fili di una matassa indistricabile.

Faccenda solo tedesca, che non ci riguarda?

In parte è così, per almeno due motivi. In primo luogo, il numero totale degli immigrati in Germania, dopo il “wir schaffen das” della Merkel nel 2015, ha assunto dimensioni abnormi, non eguagliate da nessun grande paese europeo (circa il 20%, il doppio che da noi). In secondo luogo, in Italia non esiste, anzi non è mai esistito, un partito di massa ostile all’immigrazione e confinato all’opposizione dalla conventio ad excludendum da parte di tutti gli altri partiti.

Per certi versi, invece, quel che accade in Germania non è una faccenda solo tedesca. La richiesta che gli immigrati irregolari, specie se commettono reati violenti, vengano prontamente rimpatriati come sta cercando di fare Trump negli Stati Uniti, attraversa l’intera Europa, ed è tutt’altro che marginale in Italia. Anzi, ho l’impressione che, specie nel mondo progressista, non ci si renda conto appieno di quanto quella richiesta sia estesa, intensa e trasversale. Per farcene un’idea, basta consultare i risultati di un recentissimo sondaggio Eumetra condotto da Renato Mannheimer. Fatto 100 il numero di persone che hanno preso posizione pro o contro i rimpatri, la percentuale di favorevoli alle espulsioni è del 65% in generale (quasi 2 italiani su 3), sale intorno all’80% fra gli operai e le persone con un basso titolo di studio, sfiora il 90% fra gli elettori di destra, ma è oltre il 50% persino in alcune forze di opposizione (Cinquestelle e Terzo polo). Quanto agli elettori del Pd, sono quasi 1 su 3 i favorevoli alle espulsioni di massa.

Di qui, per la sinistra, un’amara (quanto ovvia) verità: se vuole governare, in Italia come in Germania, non può continuare a eludere o minimizzare il problema dei migranti irregolari. Quel che le è riuscito in passato, vincere le elezioni senza prendere di petto il problema migratorio, non sembra più possibile nell’Europa spaventata di oggi.

[articolo uscito sul Messaggero il 16 febbraio 2025]




Un tabù dei nostri tempi – Mutilazioni genitali femminili

Non tutti lo sanno, ma di giornate mondiali (o internazionali) di qualcosa, o per qualcosa, o contro qualcosa, ce ne sono più di 150. Praticamente una ogni due giorni. A deciderle, su proposta dei vari Stati, provvede l’ONU, ma non solo. Ci sono anche giornate mondiali che nascono così, perché a un’associazione, a un gruppo, a un singolo viene in mente di proclamarle. È il caso, per fare un esempio, della giornata internazionale della Nutella (6 febbraio), ideata e proclamata quasi vent’anni fa dalla blogger americana Sara Rosso. E poi ci sono giornate in cui si celebrano più temi simultaneamente, come il 15 febbraio che ufficialmente è giornata mondiale contro il cancro infantile, ma per altri è giornata dell’ippopotamo, per altri della gioventù ortodossa, per altri ancora della sindrome di Angelman.

Si potrebbe pensare che il caso della giornata mondiale della Nutella sia un’eccezione, ma in realtà le giornate bizzarre sono decisamente numerose. Fra le tematiche per cui si chiede l’attenzione di tutto il mondo si annoverano: la neve, la pizza, il gatto, i legumi, le zone umide, la migrazione dei pesci, la salvaguardia delle rane…

Quanto alle giornate mondiali serie, per cause unanimemente considerate importanti, la più nota è probabilmente il 27 gennaio, “Giorno della memoria”, in ricordo delle vittime dell’Olocausto, e recentemente anche la “Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne” (25 novembre).

Meno attenzione riceve, e anche quest’anno (non) ha ricevuto, la “Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili” (o MGF), istituita dalle Nazioni Unite nel 2012, e collocata il 6 febbraio, pochi giorni fa.

Al riguardo non si può certo dire che l’Italia sia stata con le mani in mano. Una legge apposita (la legge 9 gennaio 2006, n. 7), che istituisce il reato di mutilazione genitale, fu promulgata quasi 20 anni fa per iniziativa del senatore Giuseppe Consolo (Alleanza Nazionale), sotto il governo Berlusconi. E non mancano le associazioni, le organizzazioni, gli enti pubblici e privati, compreso il Ministero della Sanità, che si occupano attivamente del problema. Esiste persino un apposito numero verde governativo (800300558), gestito della Polizia di Stato e dal Dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio.

Sono semmai i mondi dell’informazione, della cultura e dell’editoria che paiono del tutto indifferenti al problema, come si è potuto constatare – anche quest’anno – con il totale silenzio di tutti i maggiori media in prossimità del 6 febbraio, una data schiacciata fra le celebrazioni della giornata della Memoria (27 gennaio) e quelle del giorno del Ricordo (10 febbraio), che rievoca le vittime delle foibe.

Una delle conseguenze (o delle cause?) di questa disattenzione generale per il dramma delle mutilazioni genitali femminili è che del fenomeno e delle sue dimensioni si sa pochissimo. Le scarne cifre che circolano sono del tutto congetturali, e mai sostenute da indagini estese e approfondite. L’OMS parla di oltre 200 milioni di bambine, ragazze e adulte vittime di questa pratica nel mondo (di cui 600 mila vivono in Europa). L’Italia, a causa dell’immigrazione, parteciperebbe con circa 80 mila donne, di cui 7-8 mila minorenni. Alcune stime indicano come paesi più colpit (oltre l’85% della popolazione) Somalia, Guinea, Gibuti, Mali, Egitto e Sudan. Ogni anno, nel mondo, le bambine e le donne a rischio sarebbero circa 3 milioni, di cui una quota non trascurabile destinata a subire effettivamente tale pratica.

Perché così pochi dati e tanto silenzio? Come mai fiumi di attenzione si riversano sui problemi psicologici ed esistenziali che affliggono le comunità LGBTQIAPK+, mentre il dramma fisico e sanitario delle vittime delle MGF non riesce a sfondare il muro del conformismo mediatico?

Difficile rispondere. Però, leggendo quel che scrivono l’OMS e le rare organizzazioni che si occupano del problema, forse possiamo trovare un indizio, se non proprio la risposta. Colpisce il fatto che, fra le scarnissime informazioni fornite, ricorra l’ammonimento: la religione e l’Islam non c’entrano. Come se la preoccupazione regina non fosse di studiare e combattere un fenomeno poco conosciuto, ma di tutelare – anche in questo campo, e anche a contatto con un dramma come quello delle MGF – l’ortodossia del politicamente corretto.

[articolo uscito sulla Ragione l’11 febbraio]




Sull’avanzata delle destre – Quattro donne alla conquista dell’Europa

Non so se sia giustificata la disattenzione con cui quasi tutti i media hanno trattato l’incontro che, tra ieri e oggi, si è svolto a Madrid fra i leader del maggiore gruppo di opposizione del parlamento europeo, quello dei Patrioti per l’Europa. All’incontro, presieduto dallo spagnolo Santiago Abascal leader di Vox, erano presenti – fra gli altri – Marine Le Pen, Matteo Salvini, Herbert Kickl (Austria), Viktor Orbán (Ungheria), Geert Wilders (Olanda), Andrej Babis (Repubblica Ceca).

Galvanizzati dallo slogan MEGA (Make Europe Great Again) di Elon Musk, i leader dei Patrioti per l’Europa sono accomunati da almeno tre battaglie: contro il politicamente corretto e la cultura woke, contro le politiche green, contro l’immigrazione irregolare. Delle tre, la più importante (almeno elettoralmente) è senz’altro quella conto gli ingressi irregolari in Europa. È battendo su questo tasto che, nell’ultimo decennio, le formazioni di destra hanno conquistato frazioni sempre più ampie di elettorato. Ma attenzione: quando parliamo della destra che avanza in Europa non dobbiamo dimenticare che il raduno di Madrid rappresenta solo un pezzo della destra ostile all’immigrazione.

Nel Parlamento europeo i Patrioti per l’Europa pesano per circa il 12%, ma se aggiungiamo le altre due formazioni – l’ECR di Giorgia Meloni e la ESN di Alice Weidel, presidente di Alternative für Deutshland (Afd) – si arriva in prossimità del 27%. Non solo: i sondaggi degli ultimi mesi rivelano che quasi ovunque la destra radicale è in crescita in Europa: in Germania l’Afd supera il 22%, in Francia, il Rassemblement National si attesta intorno al 37% (5 punti in più rispetto alle elezioni politiche 2024), nel Regno Unito Reform UK, il partito di Nigel Farage, sfiora il 30% e supera i laburisti di Keir Starmer, al governo da pochi mesi. Per non parlare di quel che è accaduto nel partito conservatore inglese, che pochi mesi fa ha scelto come leader Kemi Badenoch, una politica nera su posizioni ben più radicali i quelle dei suoi predecessori.

Insomma, voglio dire che il raduno di Madrid ci fornisce una idea molto parziale e imperfetta dello stato di salute della destra nel continente Europeo. Se guardiamo le cose in prospettiva, ovvero ci chiediamo che cosa potrebbe succedere di qui alla fine del decennio, uno degli scenari più verosimili è quello di un’ Europa in cui i quattro maggiori paesi sono governati dalla destra, o più precisamente sono sotto l’influenza decisiva di quattro donne di destra. In Germania, già fra due settimane (si vota il 23 febbraio) potrebbe accadere che i voti del partito di Alice Weidel (presidente di Afd) risultino decisivi per far passare leggi anti-immigrati care ai Popolari di Friedrich Merz, leader dei popolari e probabile nuovo cancelliere. Nel 2027, in Francia Marine Le Pen potrebbe diventare presidente della Repubblica, mentre in Italia Giorgia Meloni potrebbe rivincere le elezioni. Quanto al Regno Unito, è tutt’altro che improbabile che il prossimo premier sia Kemi Badenoch, prima donna nera a Downing Street.

È ovviamente solo uno fra gli scenari possibili, ma serve a darci l’idea di quanto le cose siano in movimento, quale sia la direzione del movimento, e quanto ampie possano essere le conseguenze: la questione migratoria polarizza l’attenzione degli elettorati europei, e accade che – nei quattro maggiori paesi del continente – siano altrettante leader donna a guidare la deriva delle opinioni pubbliche.

Ma quanto è probabile un simile scenario?

Molto dipende dalle forze progressiste. Se la linea restasse quella attuale, di completa chiusura verso i partiti radicali di destra e di sordità verso le istanze anti-migranti dell’opinione pubblica, i soli governi possibili diventerebbero quelli di grosse koalition (partiti moderati contro tutti gli altri), e l’avanzata delle destre potrebbe risultare travolgente. Lo scontro fra forze anti-sistema (di destra) e partiti di governo (di varia matrice politica) diventerebbe tossico. Le manifestazioni anti-fasciste e anti-naziste, che già ora cercano di impedire raduni, riunioni ed eventi pubblici di destra, finirebbero per moltiplicarsi, mettendo a dura prova la convivenza civile.

Se invece la linea attuale di chiusura venisse abbandonata, e la sinistra si risolvesse a prendere sul serio il nodo migratorio (ingressi irregolari, criminalità, comunità islamiche, eccetera) la situazione sarebbe più aperta, e decisamente meno inquietante. In alcuni paesi il problema migratorio potrebbe essere affrontato associando al governo partiti finora esclusi, in altri paesi potrebbe succedere quel che è accaduto in Danimarca, dove i socialisti governano proprio perché hanno preso sul serio il dossier migratorio. In entrambi i casi l’onda che sospinge il consenso elettorale verso le formazioni di destra più estremiste perderebbe lo slancio che ha acquisito negli ultimi anni, e probabilmente regredirebbe pure un po’.

Ma è uno scenario improbabile, per ora. Le forze progressiste, almeno nel nostro paese, vedono l’avanzata delle destre come un’onda nera, un pericoloso ritorno di pulsioni razziste, fasciste, neonaziste. Pensano che il problema dell’immigrazione sia un artefatto ideologico delle destre, e che prenderlo sul serio non porterebbe voti alla sinistra. Le quattro donne che stanno conquistando l’Europa sentitamente ringraziano.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 febbraio 2025]