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L’Ucraina e le tre destre

6 Marzo 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Di effetti sul nostro paese, la guerra in Ucraina ne sta producendo parecchi, e molti altri e più grandi ne produrrà in futuro. C’è un effetto minore, però, cui non mi pare sia stato ancora assegnato il giusto rilievo: la ristrutturazione dell’immagine della destra.

Fino a ieri la percezione dei tre partiti di destra obbediva a due canovacci elementari. Il primo, congeniale agli osservatori più schierati: Berlusconi buono (perché moderato ed europeista), Salvini & Meloni cattivi (perché sovranisti e anti-immigrati). Il secondo, congeniale ai più convinti sostenitori del governo Draghi: Berlusconi & Salvini buoni (perché al governo), Meloni cattiva (perché all’opposizione).

Nel breve volgere di pochi giorni tutto questo è saltato. Giorgia Meloni ha preso risolutamente una posizione atlantista e pro-Ucraina, Salvini e Berlusconi lo hanno fatto obtorto collo, con l’imbarazzo di chi in passato si è sbilanciato innumerevoli volte a favore di Putin, lodandolo come politico, e sostenendone le scelte strategico-militari più discutibili, come l’annessione della Crimea nel 2014.

Così molti schemi traballano, e il tentativo di riproporre quelli vecchi si infrange contro la nuova realtà. Nel nuovo clima anti-russo, suona strano pensare Berlusconi e Salvini, fino a ieri i migliori alleati di Putin, come moderati e ragionevoli. Così come stona, nel momento in cui parliamo con ammirazione degli ucraini che corrono in patria a sostenere la resistenza, dileggiare Giorgia Meloni per il suo definisti una “patriota”.

Si potrebbe commentare tutto questo dicendo che la politica internazionale costringe a riconoscere che ci sono in Italia tre destre molto diverse fra loro, e che non è detto che la destra più accettabile sia quella che ci piace definire moderata, o di governo. Ma ci si potrebbe anche spingere più in là. Forse è venuto il tempo di guardare in modo più concreto al mondo della destra, deponendo lo schema estremisti/moderati non solo quando si ragiona di politica internazionale, ma anche quando si ragiona di politica interna. Perché, anche quando si parla di tasse, di politiche sociali, di sanità, le destre sono almeno tre, e non è affatto chiaro chi sono i moderati e chi sono gli estremisti. Prendiamo la politica fiscale, ad esempio. Forza Italia e la Lega sono per la flat tax, ma Berlusconi guarda soprattutto alle famiglie, Salvini alle partite Iva. Quanto a Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni è sostanzialmente contraria alla flat tax, e fin dal 2015 difende politiche che si potrebbero definire pseudo-keynesiane: premiare con meno tasse le imprese che creano nuovi posti di lavoro. Ha senso chiedersi chi è il moderato e chi è l’estremista? Se metti la flat tax sei moderato, ma se le tasse le abbassi solo a chi crea posti di lavoro sei estremista?

Fatico a seguire il ragionamento. A me sembrano solo tre modi, profondamente diversi, di ridurre la pressione fiscale.

Lo stesso discorso si può fare per la politica sanitaria. Anche qui la destra è stata, e resta, profondamente divisa. Forza Italia ha aderito senza riserve all’ortodossia vaccinale. La Lega e Fratelli d’Italia, sia pure con tempi e accenti diversi, hanno sempre sollevato riserve su vaccinazione di massa, green pass, chiusure.  Con una differenza, però: Fratelli d’Italia si è battuta (invano) per introdurre la ventilazione meccanica controllata (Vmc) nelle scuole, e lo ha fatto fin da un anno fa, ben prima che l’Oms riconoscesse la sua cruciale importanza per il contrasto del virus, specie nella stagione fredda.

Di nuovo, mi pare che distinguere fra una destra moderata e una destra estrema sia poco utile, se non fuorviante. La realtà è che né sulla politica internazionale, né sulla politica economica, né sulla gestione dell’epidemia i modi di vedere di Berlusconi, Salvini e Meloni collimano. Classificare tali modi di vedere come più o meno estremisti, più o meno moderati, più o meno europeisti può essere comodo per i conduttori di talk show (e per gli osservatori più ideologizzati), ma non è utile agli elettori. I quali avrebbero diritto, semmai, di capire le differenze che, quasi in ogni ambito, ormai intercorrono fra i tre principali partiti di destra.

Le elezioni politiche si terranno fra un anno, se non prima. La destra ha il dovere di non nascondere le sue divisioni e, se ne è capace, di ricomporle prima del voto. Possibilmente senza indulgere in vecchie e astratte contrapposizioni, figlie di un’epoca che sta tramontando.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

27 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

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La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?

Se 400 morti vi sembran pochi

10 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

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Archiviata l’ingloriosa contesa sul Quirinale, nel giro di pochissimi giorni un nuovo clima sembra essersi installato in Italia. Un clima fatto di riaperture, soprattutto riservate ai vaccinati, e di progressiva smobilitazione dell’apparato di gestione della pandemia. In questo clima di quasi-euforia, si ipotizza la fine dello stato di emergenza (era ora), ma anche lo scioglimento del Comitato tecnico-scientifico (Cts). E questo non già per i troppi errori commessi, ma perché staremmo rapidissimamente uscendo dalla pandemia. Fra gli esperti-sempre-in tv c’è chi trova che 1500 pazienti Covid in terapia intensiva non siano un’emergenza (con buona pace delle migliaia di malati cui è stato rimandato un intervento chirurgico). Quanto al Cts, un suo membro si spinge ad affermare: “Le condizioni per guardare lontano ci sono tutte. Aspettiamo ancora qualche settimana per essere certi di poter saltare di gioia”.

Ieri, a suggellare la realtà di questo cambio di fase, l’intervista rilasciata a “Repubblica” dal generale Figliuolo mette gli ultimi puntini sulle i: i ricoveri stanno diminuendo, gli ospedali possono ricominciare a occuparsi dei malati normali, la campagna vaccinale è molto avanti, difficilmente dovremo sottoporre tutta la popolazione a una quarta dose, in ogni caso il sistema è flessibile, all’occorrenza la rete degli hub è in condizione di riattivarsi rapidamente.

In effetti i dati gli dànno ragione. La percentuale di vaccinati è molto alta, sopra la media europea. I casi giornalieri stanno diminuendo, e così i ricoveri, sia in medicina generale sia in terapia intensiva. Inoltre, è molto confortante il fatto che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, il tasso di letalità del Covid mostri chiarissimi segni di declino.

C’è solo un’ombra: il numero di morti, circa 400 al giorno. E’ vero che i decessi riflettono l’andamento dell’epidemia un paio di settimane prima, e che – con la diminuzione dei casi attualmente in corso – anch’essi sono destinati a ridursi nelle prossime settimane. Ma il problema resta.

A farcelo notare è Guido Rasi (ex direttore dell’EMA e consigliere del generale Figliuolo), una delle poche voci che, pur sottolineando i miglioramenti in corso, ha ritenuto doveroso porre un piccolo freno ai nostri entusiasmi.  Il consigliere del generale fa notare che “400 decessi al giorno sono veramente tanti”, e che il fatto che siamo un paese anziano “non basta a giustificarli”.

Anche lui ha ragione. Se guardiamo ai paesi europei, sono pochissimi quelli che, in questo momento, hanno più morti per abitante di noi. Tutti i grandi paesi, Regno Unito Germania, Francia, Spagna, Polonia, ne hanno di meno, qualche volta molti di meno (in Germania, un paese anziano come l’Italia, i decessi sono meno di 1/3 dei nostri).

Il prof. Rasi suggerisce cautamente che qualcosa non abbia funzionato, e continui a non funzionare, nell’assistenza sanitaria: cure domiciliari, tempi di ricovero e di trasferimento in terapia intensiva, uso degli anticorpi monoclonali e dei nuovi farmaci antivirali.

E’ verosimile che sia così, ma – quale che sia la ragione per cui abbiamo tanti morti – resterebbe un’altra domanda: come mai ce ne importa così poco? come mai un anno fa 100 morti al giorno ci sembravano tantissimi, e oggi 400 morti non ci turbano più di tanto? Come abbiamo fatto ad abituarci?

Facendo questa domanda non mi riferisco tanto ai politici, quanto a noi cittadini. Perché se, negli ultimi 3 mesi, la politica ha potuto ignorare i segnali di allarme che venivano dai bollettini quotidiani dell’epidemia, e ha potuto permettere che i decessi salissero ininterrottamente dai 40 al giorno di ottobre ai 400 di oggi, è innanzitutto perché in noi qualcosa è cambiato.

Dunque, che cosa è cambiato, e perché?

Credo che i cambiamenti più importanti siano due. Il primo è che, grazie alla progressiva sostituzione della variante delta con la variante omicron (molto meno letale), l’esplosione del numero di contagi non ha comportato un intasamento degli ospedali comparabile a quello delle prime tre ondate. La pressione sugli ospedali registrata allora ci ha convolti tutti, perché arrivava tutte le sere sulle nostre tv, in modo continuativo e martellante, mentre negli ultimi mesi il messaggio fisso, altrettanto martellante, è stato un altro: le terapie intensive sono piene di non vaccinati, i vaccinati ci arrivano molto di rado.

Il secondo cambiamento è stato il mero trascorrere del tempo: ieri eravamo disposti a fare imponenti sacrifici per salvare vite umane, oggi non lo siamo più semplicemente perché sono passati due anni, e troviamo intollerabile l’idea che i nostri sacrifici siano a tempo indeterminato, senza una luce in fondo al tunnel. A un certo punto, noi abbiamo deciso che la pandemia stava finendo. E’ questo che ha permesso a Draghi di gestire le cose con molta meno prudenza del suo predecessore, fino al punto di considerare 400 morti al giorno come un tributo accettabile. E’ questo che oggi ci rende indulgenti, se non indifferenti, di fronte ai numeri che scorrono ogni sera davanti ai nostri occhi.

Ma perché siamo diventati così?

Credo sia tempo di prendere atto che, nella nostra cultura (e probabilmente in tutte le culture), i morti assumono significati differenti a seconda della carica simbolica di cui sono circonfusi. Per suscitare la nostra pietà o la nostra indignazione non basta che siano tanti. Devono connettersi a qualche porzione del nostro inconscio, o del nostro immaginario, in cui assumano un significato forte. Se devono turbarci, non possono essere prosaici, devono avere una carica emotiva. E, requisito fondamentale, occorre che siano pensabili come qualcosa contro cui possiamo combattere, riducendone drasticamente la portata.

E’ per questo che 3 morti al giorno sul lavoro ci colpiscono, e 9 morti al giorno di incidente stradale no. E’ per questo che 100 femminicidi l’anno ci fanno impressione, e 5000 donne morte in incidenti domestici no. Ed è di nuovo per il medesimo motivo che, nella primavera del 2020, 600 morti di Covid al giorno ci parevano un’enormità, e 600 morti per malattie cardiache no: quei morti di Covid pensavamo di poterli ridurre drasticamente anche mediante i nostri comportamenti (come in effetti abbiamo fatto), mentre per i morti di cuore sapevamo di poter fare ben poco.

Ora i 400 morti di Covid al giorno abbiamo imparato a considerarli come i morti di infarto, di ictus, di cancro. Come numeri, insomma. Forse è logico, e persino giusto. Ma lascia un retrogusto amaro, che getta un’ombra sui proclami che annunciano le riaperture e sul fiume di retorica che accompagna il “ritorno alla normalità”.

Le magnifiche 7

3 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

(a proposito di donne e politica)

Che, in tantissimi campi, le donne siano numerose ma le posizioni apicali siano tuttora occupate prevalentemente da uomini è verissimo. E’ vero nell’università, ad esempio, dove solo 7 rettori su 84 sono donne. E pure in politica, almeno in Italia: non abbiamo mai eletto un presidente della repubblica donna, né un presidente del consiglio donna. Perciò non stupisce che, periodicamente, circolino appelli più o meno ben argomentati (di solito pessimamente argomentati) per correggere questa stortura.

Da che cosa dipende la sotto-rappresentazione delle donne?

Dalla sopravvivenza del patriarcato, rispondono non di rado le paladine della causa femminile.  Può darsi, anche se – come sociologo – non posso non osservare che è una pseudo-spiegazione, che si limita a dare un nome a un fenomeno di cui non è in grado di ricostruire i meccanismi.

Se vogliamo capirne di più, è meglio circoscrivere gli ambiti e delimitare il campo. Potremmo, ad esempio, ragionare sulla leadership politica, e chiederci come mai, nei grandi paesi occidentali, negli ultimi 50 anni le donne hanno contato così poco.

Ebbene, se questa è la domanda, è difficile sfuggire a un paio di osservazioni. La prima è che l’accesso delle donne al potere politico è stata assai scarsa fino al 2018, ma a partire dalla metà del 2019 la vera domanda è un’altra: come hanno fatto le donne, nel giro di 3 anni, ad occupare praticamente tutte le posizioni apicali del potere politico-economico in Europa, sbaragliando i concorrenti maschi?

Luglio 2019: Christine Lagarde viene designata a succedere a Mario Draghi al vertice della Banca Centrale Europea; nello stesso mese, Ursula von der Leyen viene eletta Presidente della Commissione europea.

Ottobre 2019: Kristalina Georgieva, economista e politica bulgara, viene nominata direttrice del Fondo Monetario Internazionale.

Gennaio 2022: in seguito alla scomparsa di David Sassoli, la politica maltese Roberta Matsola viene eletta presidente del Parlamento Europeo.

A oggi, nelle grandi istituzioni politico-finanziarie, il potere maschile pare sopravvivere solo al di là dell’Atlantico, dove Donald Trump ha imposto David Malpass a capo della Banca Mondiale e Jerome Powell alla Fed (dove peraltro, fino al 2018, comandava una donna, Janet Yellen).

Ma c’è una seconda osservazione, ancora più interessante per gli studiosi di discriminazione e parità di genere. Se ci chiediamo quante e quali siano le donne che, negli ultimi 50 anni, siano state capaci di diventare leader politici di peso nei principali paesi occidentali scopriamo che sono solo 7, e che c’è un unico tratto che le accomuna.

Le elenco per paese: Margaret Thatcher e Theresa May nel Regno Unito; Marine e Marion Le Pen in Francia; Angela Merkel e Ursula von der Leyen in Germania; Giorgia Meloni in Italia.

Che cosa le accomuna?

Semplice: vengono tutte da destra, come da destra, peraltro, vengono le altre tre donne che negli ultimissimi anni hanno raggiunto posizioni apicali nella Bce, nel Fondo Monetario e al Parlamento europeo (e, sempre da destra, veniva Simone Veil, prima presidente del Parlamento Europeo) .

Dunque, cari amici studiosi di discriminazione ai danni delle donne, la domanda più interessante non è perché così spesso le donne non ce la fanno ma, semmai, perché per farcela devono essere di destra.

Una risposta possibile è che, nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia. Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi (lo ha appena fatto Valérie Pécresse in Francia, che ha battuto il rivale maschio Eric Ciotti), mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo.

Non è forse un caso che, al di qua come al di là dell’Atlantico, le uniche donne di sinistra arrivate a sfiorare ruoli di comando nazionali – Ségolene Royal e Hillary Clinton – siano state in partita anche in virtù del loro essere “mogli di”, rispettivamente di un segretario di lungo corso del Partito Socialista francese e di un ex presidente egli Stati Uniti.

Quanto al nostro paese, come non notare che il Pd, a parole paladino della parità uomo-donna, non ha indicato alcuna donna come ministro del Governo Draghi? O come non osservare che, per avere due donne capogruppo in Senato e alla Camera, si sia dovuto scomodare il segretario del partito, che le ha imposte dall’alto ai suoi deputati e senatori?

Insomma, visto come sono andate le cose, è difficile sfuggire al dubbio: non sarà che l’esclusione delle donne dal potere è, innanzitutto e non solo in Italia, un problema della cultura progressista?

Liberismo sanitario

12 Gennaio 2022 - di Luca Ricolfi

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Ero già stupito a fine ottobre, quando i primi chiari segnali di ripartenza dell’epidemia (incidenza e Rt) vennero ignorati dalle nostre autorità politiche e sanitarie. Da allora non ho fatto che ristupirmi, perché né la scoperta di omicron e della sua trasmissibilità, né i rischi connessi alle vacanze natalizie hanno condotto al varo di misure tempestive e incisive. Ma ieri il mio stupore si è trasformato in incredulità. Nel giorno in cui i contagi hanno superato la cifra record di 200 mila casi al giorno, il Consiglio dei ministri ha deciso che entro lunedì 10 gennaio tutti gli ordini di scuole riapriranno, e che solo nelle scuole materne lo faranno con la cautela minima necessaria, ossia con la regola: se c’è anche un solo positivo in classe la frequenza si interrompe per tutti. Non me lo aspettavo, non tanto perché lo giudico molto imprudente (a decisioni che considero incaute sono abituato da due anni, ma può essere che sia io a essere troppo cauto), ma perché sui rischi di apertura si erano espressi chiaramente molti presidenti di regione e molti dirigenti scolastici. I primi invocando il via libera preventivo del Comitato tecnico-scientifico, i secondi spiegando dettagliatamente perché le scuole e le Asl non erano in condizione di garantire un rientro “in sicurezza”.

Quando succede una cosa che non ti aspetti, la domanda da farsi non è “perché sbagliano?” ma “che cosa gli fa pensare di fare la cosa giusta?” Perché se l’esecutivo agisce come agisce, e il Comitato tecnico-scientifico avalla tacendo, una logica ci deve pur essere. Ma quale può essere questa logica?

A me pare che la logica che guida la filosofia di “apertura a oltranza” poggi su una scelta di fondo, maturata e ribadita innumerevoli volte in questi mesi: lasciamo pure correre i contagi, tanto – grazie ai vaccini – si muore poco e si va poco in ospedale. Questa scelta di “liberismo sanitario”, paradossalmente, è stata rafforzata e non indebolita dalla comparsa della variante omicron, di cui si è preferito sottolineare la mitezza condizionale (“poco più di un raffreddore, se si è vaccinati”) che l’estrema contagiosità. Di qui l’idea che il vero problema sia la resistenza del popolo novax, e che obbligando tutti a vaccinarsi usciremo dall’incubo.

Ma regge questo ragionamento?

Sfortunatamente no. La scommessa liberista è incompatibile con i dati su quattro punti fondamentali.

Primo, l’esperienza degli altri paesi mostra che la vaccinazione di massa è necessaria ma non sufficiente a fermare il contagio. Lo mostra senza ombra di dubbio il fatto che Rt è sopra la soglia critica di 1 in tutte le società avanzate, compresi i paesi che hanno vaccinato tutti i vaccinabili  (Portogallo) o sono molto avanti con le terze dosi (Israele, Regno Unito).

Secondo, noi discutiamo come se il nostro problema fossero i 5 milioni di maggiorenni non vaccinati, o i 2 milioni di ultra-cinquantenni non vaccinati (che sarebbero tenuti a vaccinarsi entro metà febbraio), ma i non vaccinati sono ben 11 milioni, di cui circa 3 non vaccinabili in assoluto (bambini fino a 4 anni), e altri 3 (bambini da 5 a 11 anni) vaccinabili solo nei casi in cui i genitori superassero i loro dubbi, peraltro condivisi da una parte della comunità scientifica e delle istituzioni sanitarie (nel Regno Unito la vaccinazione dei più piccoli non è ammessa). Tutto questo significa che l’obbligo per gli ultra 50-enni, ove venisse rispettato integralmente, coprirebbe circa il 20% della popolazione non vaccinata, mentre più del 50% del problema sta precisamente negli allievi delle scuole materne, elementari e medie, che ci apprestiamo a riaprire da lunedì.

Terzo, oggi il problema principale non è che 5 milioni di adulti non si vogliono vaccinare, ma che 15 milioni di adulti non riescono a farlo, perché gli hub vaccinali non sono in grado di coprire la richiesta di terze dosi per coloro che hanno perso la protezione.

Quarto, il calcolo secondo cui possiamo permetterci di lasciar correre il contagio perché la probabilità di ammalarsi gravemente è bassa, si scontra con l’aritmetica dell’epidemia: se la letalità si dimezza, ma i contagi quadruplicano (cosa per cui bastano 2 settimane), il numero di morti e di ospedalizzati raddoppia, rendendo catastrofica una situazione che negli ospedali di molte regioni è già oggi drammatica.

Ecco perché dicevo che la scommessa liberista di lasciar correre i contagi è incompatibile con i dati, ovvero con quel che si sa dei meccanismi che governano questa epidemia. Qualsiasi cosa si pensi del perché siamo arrivati fin qui, è difficile non prendere atto che lasciar (ancora) correre il virus è un azzardo che non ha alcun supporto nei dati.

Possiamo dolerci della chiusura delle scuole e del ritorno alla Dad, ma se siamo lucidi dovremmo riconoscere che è prima che avremmo dovuto tutelarle, le nostre amate scuole, con le tante cose che sono state invano proposte, dall’aumento delle aule alla ventilazione meccanica controllata. Ora ci resta solo da prendere atto che rimandarne l’apertura, come per primo ha proposto il governatore della Campania, non è certo la soluzione, ma è il minimo sindacale per provare a rallentare l’epidemia.

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