Covid, l’incognita di maggio

Resto dell’idea che, nella recente gestione della pandemia, l’errore capitale sia stato tenerci a bagno maria per 6 mesi (4 in conto al governo giallo-rosso, 2 in quello Draghi), con danni enormi all’economia e pochissimi benefici per la salute. E resto pure dell’idea che iniziare una vaccinazione di massa senza prima aver ridotto drasticamente la circolazione del virus sia stato un azzardo, nonché un errore non scusabile, posto che le voci che avvertivano del pericolo esistevano sia dentro il governo (Ricciardi) che fuori (Crisanti). Se ora siamo così esposti al rischio che qualche variante ci travolga non è solo perché non sappiamo né sequenziare adeguatamente, né limitare gli ingressi in Italia, ma perché la nascita di varianti resistenti ai vaccini è l’effetto statistico, e perfettamente prevedibile, della scelta di non abbattere la curva epidemica prima del decollo della campagna di vaccinazione.

Ma ormai il danno è fatto, le riaperture sono divenute politicamente e socialmente inevitabili, e ci tocca sperare che le cose non vadano troppo male. E’ fuori discussione, come avvertono i virologi meno autocensurati, che il “rischio ragionato” significa migliaia di morti in più rispetto a quelli che avremmo avuto prolungando il lockdown. Ed è pure indubbio, per quanto più difficile da far capire, che il danno economico complessivo all’industria turistica potrebbe essere molto maggiore aprendo adesso che aprendo a giugno, se aprire adesso dovesse regalarci una quarta ondata (con conseguente richiusura) in piena estate.

Quel che invece mi pare non scontato è che, nelle prossime settimane, si arrivi a 500-600 morti al giorno, come alcuni esperti hanno prospettato o lasciato intendere. Pur essendo fra quanti hanno più volte fatto previsioni catastrofiche (fin qui tutte avverate), questa volta mi trovo più in sintonia con quanti non solo si augurano, ma ritengono verosimile, un’evoluzione meno drammatica della mortalità.

Vediamo perché. Il numero medio di morti settimanali è un po’ inferiore a quello con cui sperimentammo le prime riaperture l’anno scorso, proprio ai primi di maggio come quest’anno. Inoltre esso è in lenta ma costante discesa da circa 20 giorni. Questo andamento è la risultante di quattro forze, due che sospingono la mortalità, due che la frenano.

La prima forza, che tende a tenere elevato il numero di decessi quotidiani, è l’altissimo numero di positivi e di ospedalizzati. Fatto 100 il numero di soggetti positivi del maggio scorso, ora siamo fra 300 e 500, a seconda dell’indicatore che si utilizza. Per una stima accurata del numero assoluto di soggetti positivi non ci sono dati sufficienti (o meglio: i dati che servirebbero non sono pubblici), ma l’ordine di grandezza si può calcolare: almeno 1 milione di positivi. Poiché il numero di soggetti positivi si riduce con estrema lentezza, e anzi tende a crescere non appena il governo allenta le misure restrittive, è verosimile che questa forza tenderà a tenere alto il numero dei decessi quotidiani.

La seconda forza è la mobilità delle persone, il fatto cioè che la gente tenda a stare in casa o a muoversi e incontrare altre persone. Qui le cose vanno male, e non potrebbe essere diversamente: il fatto stesso di reclamizzare le riaperture come un (sia pur graduale) ritorno alla normalità inevitabilmente comporta una crescita dei comportamenti rischiosi. In che misura ciò stia accadendo ce lo dicono i dati di mobilità di Google: fatta 100 la propensione a stare a casa di un anno fa, la medesima propensione era scesa intorno a 50 nel mese di aprile di quest’anno ed è intorno a 30 oggi. I nostri comportamenti stanno facendo di nuovo salire l’indice di riproduzione Rt, che sta di nuovo avvicinandosi pericolosamente a 1.

Fin qui le forze che supportano i ragionamenti dei pessimisti. Fortunatamente, ci sono però anche due potenti forze che spingono nella direzione opposta, ossia di una limitazione della mortalità. La prima è l’aumento della quota di tempo passata all’aperto, che tende a neutralizzare gli effetti dell’aumento della mobilità. La seconda è la campagna di vaccinazione, che – nella misura in cui privilegia le categorie più a rischio (vecchi e fragili) – abbassa drasticamente il tasso di letalità dell’infezione, ovvero la probabilità che una persona contagiata si ammali e muoia.

Ed ecco la ragione del mio non eccessivo pessimismo. Nessuno ha abbastanza dati (e modelli matematici collaudati) per prevedere quale potrà essere l’effetto congiunto delle due forze “cattive” (tanti positivi, più mobilità) e delle due forze “buone” (vita all’aperto e campagna vaccinale). E’ possibile che le prime abbiano il sopravvento, e il numero di morti torni a salire in modo apprezzabile (specialmente a Milano, dove i tifosi interisti tifano anche per il virus). Ma è anche possibile che la curva epidemica rallenti, e che le vaccinazioni determinino un drastico abbassamento del tasso di letalità, con la conseguenza di impedire un rialzo della mortalità, o addirittura di sospingere ulteriormente verso il basso il numero di morti quotidiano.

Il rischio maggiore che vedo, per i prossimi mesi, è che si scambi un’eventuale, non impossibile, riduzione del numero di decessi per un arretramento del virus, senza comprendere che – con il procedere della vaccinazione – il numero di morti sarà sempre meno un buon indicatore della diffusione del contagio. Sarebbe un errore di valutazione grave, perché ci condurrebbe – ancora una volta – a sottostimare i pericoli che ci attenderanno quest’autunno, quando il rientro a scuola e il ritorno della stagione fredda potrebbero riservarci, ancora una volta, delle brutte sorprese. Che questo rischio di sottovalutazione dei pericoli che ci attendono in autunno sia reale, e non puramente ipotetico, lo suggerisce del resto una constatazione amara: ancora una volta poco o nulla si sta facendo per mettere in sicurezza gli ambienti chiusi (aule scolastiche e universitarie) e semi-chiusi (trasporti pubblici). E’ probabile che questa distrazione sia dovuta alla credenza che la vaccinazione di massa risolverà tutto. Ma giova ricordare che si tratta, per l’appunto, di una credenza, non di una solida certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 maggio 2021




L’incapacità di imparare dagli errori

La battaglia fra aperturisti e chiusuristi dilaga ovunque: sui giornali, nei talk show, fra i virologi, nel Governo, persino nel Comitato tecnico-scientifico.

Ma la gente, i cittadini normali, che non hanno agganci, vie privilegiate, conoscenze preziose, o semplicemente hanno la sfortuna di essere nati nella regione sbagliata, o la disgrazia di avere un medico di base che non visita a domicilio, o non vaccina, o rimanda ogni decisione alla ASL, questi cittadini – dicevo – non si appassionano alla disputa sull’orario di inizio del coprifuoco.

Per chi si ammala, o teme di ammalarsi, o vorrebbe vaccinarsi, i problemi sono altri.

Il problema numero 1 è che, ancora oggi, a 15 mesi dall’inizio della pandemia, non solo il medico di base non ti viene a visitare, ma non esiste un protocollo ufficiale di cure domiciliari nelle prime fasi della malattia se non il beffardo protocollo ministeriale “paracetamolo & vigile attesa”. Cioè: predi una tachipirina e prega…

Questo nonostante di protocolli di cure domiciliari articolati ed efficaci ne siano stati sperimentati con successo parecchi, e l’evidenza empirica che li supporta sia considerevole. Il colmo è accaduto qualche giorno fa, quando il TAR del Lazio ha dato ragione al Comitato Cura Domiciliare Covid 19, che aveva invocato il diritto/dovere dei medici di andare oltre le scarne indicazioni ministeriali, e per tutta risposta il Ministero della Salute – anziché adoperarsi per colmare i propri ritardi – non ha trovato di meglio che ricorrere al Consiglio di Stato per sconfessare il Tar e bloccare l’iniziativa dei medici. Eppure è ben noto che l’intasamento degli ospedali e delle terapie intensive è dovuto anche alla mancata riorganizzazione della medicina territoriale, che tuttora non è in grado di gestire a casa (e precocemente) un numero adeguato di pazienti.

Un discorso analogo vale per le cure mediante anticorpi monoclonali, che richiedono solo un breve passaggio in ospedale, e se usati diffusamente potrebbero evitare le molte ospedalizzazioni: con 150 mila dosi disponibili, le carenze organizzative (e l’intasamento degli ospedali) hanno fatto sì che alla fine di marzo i pazienti trattati fossero poco più di un migliaio.

Così per i vaccini. Siamo arrivati al punto che, per potersi vaccinare senza attendere tempi biblici, decine di migliaia di persone stanno cambiando domicilio per poter usufruire dei servizi delle (poche) Regioni efficienti, guidate dal Lazio; o cercano di cambiare medico di base (molti medici di base non vaccinano); o volano in Serbia, dove vaccinarsi è facile; o scrutano internet per scoprire se in qualche Regione è previsto un “open day” in cui ci si può vaccinare con il solo requisito dell’età. Insomma, la campagna vaccinale sta alimentando un senso generale di ingiustizia, di soggezione alla sorte e all’arbitrio dei poteri pubblici.

Eppure si poteva non arrivare a questo punto. Per mettere i medici di base in condizione di visitare, dotandoli di dispostivi di protezione individuale e di un protocollo di cure domiciliari efficace, c’era tutto il tempo. Quanto alla campagna vaccinale, non si capisce perché le autorità sanitarie non siano state in grado né di gestire centralmente la campagna (come sembra suggerire l’articolo 117 della Costituzione) né di imporre alle Regioni regole comuni non derogabili. Per non parlare del coinvolgimento delle farmacie nelle vaccinazioni, per cui praticamente nulla si è fatto fino ad aprile.

Perché le cose sono andate così? Perché, ancora oggi come un anno fa, il terrore di tutti non è il Covid in sé, ma la coscienza che, se ci ammaliamo, potremmo trovarci soli, appesi a un numero verde, e abbandonati da chi dovrebbe proteggerci? Perché, oggi come ieri, centinaia di migliaia di malati non-Covid sono costretti a rinunciare a una cura, a un ricovero, a un intervento, a causa degli ospedali sopraffatti dall’onda dei malati Covid? Perché, ancora una volta, le autorità sanitarie hanno tergiversato prima di intervenire? Perché quasi nulla è stato fatto per riorganizzare il trasporto pubblico, o per mettere in sicurezza le scuole?

Se devo essere sincero, la mia risposta è: non lo so. O meglio: non lo so più. Fino a un certo punto ho creduto che la superbia e la sordità dei governanti, incapaci di ascoltare ogni voce indipendente, spiegassero molte cose.

Oggi non più. Oggi mi pare che ci sia qualcosa di più sottile e al tempo stesso più devastante: l’incapacità di imparare dai propri errori, in modo da correggerli. Un comportamento che, a chi come me appartiene a una comunità scientifica, risulta  semplicemente incomprensibile.

Ma mi rendo conto che sono io fuori strada. Nella comunità scientifica gli errori, prima o poi, si scoprono. E chi ha sbagliato li riconosce. Se non lo facesse perderebbe la sua reputazione. Per questo la scienza va avanti.

Nella politica è diverso, almeno in Italia. Basta leggere l’accorata lettera-appello a difesa del ministro Speranza (“Io sto con Roberto”) circolata nei giorni scorsi per rendersene conto. Qualsiasi errore sia stato commesso, c’è qualcuno pronto a negare che sia stato commesso, o che sia stato un errore. L’intelligenza non viene usata al servizio della ricerca della verità, ma al servizio di una causa politica ritenuta giusta, e in nome della quale si può calpestare ogni evidenza empirica (e ogni tragedia). Gli errori non sono errori, ma questioni di “punto di vista”. Ideologico.

Per questo, alla politica diversamente che alla scienza, è concesso di non imparare dai propri errori. Peccato che, di quel privilegio della politica, le vittime siano noi: la terza ondata, e il buio esistenziale che si è impadronito delle nostre vite, sono anche una conseguenza di quel privilegio.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 aprile 2021




Il governo non ha scelta

Discutiamo, discutiamo pure. Dividiamoci fra “aperturisti” e “chiusisti”. Ripetiamo il mantra secondo cui la salvezza sono i vaccini. Continuiamo a invocare una “data certa” per le riaperture. Però la realtà è che il governo non ha alternative. Verosimilmente sa benissimo che cosa dovremmo fare, ma altrettanto verosimilmente sa che – arrivati al punto cui siamo arrivati – l’unica cosa che può fare è quella sbagliata: aprire appena si libera qualche centinaio di posti nelle terapie intensive, pregando Iddio che l’Italia non ripercorra la triste parabola della Sardegna, precocemente promossa a “regione bianca” per essere immediatamente retrocessa a “regione rossa”.

Verso questo scenario ci conducono due fattori estremamente potenti. Il primo è la composizione politica del governo, che per la prima volta dall’inizio della pandemia deve tenere conto sia della spinta della sinistra ad aprire le scuole e le attività culturali, sia di quella della destra ad aprire gli esercizi commerciali. Da questo punto di vista, l’allargamento della maggioranza ha rafforzato le spinte aperturiste, e indebolito il già minoritario partito della prudenza: ora sinistra e destra non si confrontano sulle ragioni della salute e su quelle dell’economia, ma semplicemente competono per intestarsi il merito delle riaperture che (presto) verranno.

Ma c’è un altro fattore, ben più potente, che sta riducendo al silenzio il partito della prudenza, ed è che la strada percorsa dai paesi che, per lo più senza vaccini, hanno domato l’epidemia, per noi è divenuta semplicemente impercorribile.

Che cosa hanno fatto paesi come l’Irlanda, la Danimarca, il Portogallo, la Svizzera, il Canada, il Sud Africa?

Hanno fatto quello che noi stessi abbiamo fatto un anno fa, nella prima fase  dell’epidemia: un lockdown tempestivo e serio. Grazie ai dati di mobilità di Google è facile misurare il grado di rispetto del confinamento in casa dei vari paesi, e il risultato è chiarissimo: fatta 100 la forza del nostro lockdown di un anno fa (aprile 2020) il nostro ultimo lockdown è stato inferiore a 50 (e addirittura a 30 nel febbraio scorso), mentre quello dei paesi che ce l’hanno fatta è stato prossimo a 100, cioè eguale al nostro durante la prima ondata. Insomma, loro il lockdown l’hanno fatto davvero, noi ci siamo baloccati per ben 6 mesi con il geniale algoritmo dei colori. E lo abbiamo fatto perché non abbiamo mai cambiato la filosofia che ha guidato il governo dell’epidemia: chiudere solo quando si intravede il collasso del sistema sanitario, e le file di ambulanze che non riescono a entrare in ospedale mettono a tacere il partito del Pil; riaprire non appena gli ospedali accennano a svuotarsi e il valore di Rt scende sotto 1. Una filosofia, peraltro, cui si è sempre accompagnato un comandamento non scritto: “non avrai altro Dio all’infuori del lockdown” (e ora del vaccino…). Un comandamento non sorprendente, perché gli dei minori si chiamano: tamponi di massa, tracciamento, sorveglianza delle quarantene, medicina territoriale, ricambio dell’aria nei locali chiusi, rafforzamento del trasporto pubblico locale, solo per citarne alcuni; e costano molta più fatica di un decreto che ci chiude tutti in casa.

Se questo a grandi linee è quel che è successo, verrebbe da dire: perché, visto che siamo indietrissimo sulle vaccinazioni, non possiamo fare oggi quel che il partito della prudenza (Crisanti, Galli, Ricciardi) non si è mai stancato di raccomandare negli ultimi 6 mesi?

La risposta è drammatica: perché abbiamo esaurito tutte le riserve, a tutti i livelli. E quando le riserve sono esaurite, un governo non può che provare a ricostituirle, anche se questo costerà altre migliaia di morti.

Ma riserve di che cosa?

Riserve di pazienza, innanzitutto: su 14 mesi, ne abbiamo avuti appena 4 di libertà, o meglio di libertà vigilata: giugno, luglio, agosto, settembre. La gente è esasperata, e ha perfettamente ragione. Non si può stare mesi e mesi nell’attesa messianica che “i dati migliorino”, facendo sacrifici che sono certamente minori di quelli di un anno fa, ma a differenza di quelli sono risultati perfettamente inutili: i morti di oggi sono più o meno quelli di novembre, così le ospedalizzazioni, così i ricoveri in terapia intensiva.

Non sono però solo i nostri nervi ad essere messi a dura prova. Per circa metà del paese, ad essere esaurite sono anche le fonti materiali di sostentamento. Noi oggi vediamo scorrere in tv le immagini degli esercenti, degli artigiani, delle partite IVA che ogni giorno protestano in piazza perché 6 mesi consecutivi di chiusure e limitazioni hanno ridotto allo stremo milioni di famiglie. Ma sembriamo non renderci conto che il mondo che essi rappresentano non è un piccolo (sia pur importante) settore della società italiana, ma ne costituisce circa la metà, forse persino qualcosa di più della metà: dietro a 5 milioni di lavoratori autonomi non ci sono solo loro, e le rispettive famiglie, ma c’è la sterminata realtà dei dipendenti delle piccole imprese, dimenticate dalla legge e dalle organizzazioni sindacali. Una società del rischio, esposta alle turbolenze del mercato, che nulla ha a che fare con l’altra metà della società italiana, costituita dal vasto mondo dei garantiti: pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle imprese grandi e medie, tutti soggetti che durante la pandemia non hanno sofferto perdite di reddito, e anzi spesso, grazie al rallentamento dei consumi, hanno aumentato i depositi in banca.

La frattura fra questi due mondi, quello dei tutelati dalla mano pubblica e quello degli esposti ai rischi del mercato, è sempre esistita nella società italiana, ma durante la pandemia si è enormemente approfondita, non solo per ragioni ovvie (le chiusure colpiscono di più il lavoro autonomo), ma perché fino a 2 mesi fa la politica ha nettamente privilegiato i membri della società delle garanzie, incanalando il grosso delle risorse al mantenimento delle tutele dei già garantiti, e lasciando solo le briciole all’altrettanto vasto mondo dei non garantiti. La politica, in altre parole, anziché cercare di attenuare la voragine che si stava allargando fra garantiti e non garantiti, ha parteggiato nettamente per i primi, fino al punto di incrementarne alcune tutele, come nel caso dell’aumento agli statali concesso in piena pandemia non solo a medici e infermieri (come era giusto) ma a tutti, compresi i molti dipendenti in smart working, cui dobbiamo la spettacolare caduta di efficienza della Pubblica Amministrazione.

Perché è successo?

E’ semplice, perché il governo era giallo-rosso, e da decenni la sinistra preferisce rappresentare gli interessi e le aspirazioni della società delle garanzie, lasciando la società del rischio alla destra. Con un risultato paradossale: di fronte alla più grave diseguaglianza prodottasi nella storia repubblicana, la sinistra al governo – da sempre, a parole, paladina della lotta alle diseguaglianze – non solo ha latitato, ma ha fatto quel che era in suo potere per accentuarla, e così garantire i propri ceti di riferimento; mentre la destra, che da decenni i propri ceti di riferimento li ha nel mondo dei produttori, si trova oggi ad essere uno dei pochi argini contro l’aumento delle diseguaglianze.

Ma, da un paio di mesi a questa parte, la destra non è più all’opposizione (Fratelli d’Italia a parte), e partecipa pienamente al governo. E si trova di fronte a un problema che, arrivati a questo punto, ha un’unica soluzione. Il problema è quello di ridare ossigeno ai lavoratori autonomi, stremati da un anno di politiche pro-garantiti. La soluzione, arrivati all’ennesimo (e insufficiente) scostamento di bilancio, non può che essere quella di riaprire, e consentire agli operatori economici di sfruttare le opportunità della stagione turistica.

Ecco perché, dicevo all’inizio, il governo non ha alternative: deve aprire, anche se sa che non ci sono le condizioni per farlo in sicurezza. E’ l’amaro lascito di un anno di inerzia sulle misure alternative al lockdown. C’è almeno da augurarsi che tale inerzia, che già ci è costata la seconda ondata e la terza, non si perpetui nei prossimi mesi, alimentata dalla speranza che il combinato disposto dei vaccini e della bella stagione basti a evitarci la quarta ondata, e ci levi le castagne dal fuoco per sempre.

Perché quella speranza sussiste, ma è ben lontana dal costituire una certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 aprile 2021




Qui ci vuole un “piano B”

Anche se abbiamo 450 morti al giorno, anche se nessun paese occidentale ha un tasso di mortalità alto come il nostro, anche se la curva epidemica migliora solo nella mente di qualche autorevole esperto governativo, il sentimento prevalente fra gli italiani non sembra né la pietà per i morti, né la preoccupazione per il futuro, bensì l’esasperazione per il presente. Uno stato d’animo che apre un ampio varco al messaggio centrale della politica: resistete ancora un po’, siamo all’ultimo miglio, la campagna vaccinale vi permetterà presto di tornare alla agognata “normalità”.

Ma presto quanto?

Qui le posizioni si dividono. Draghi non si sbilancia, e in sostanza dice: riapriremo appena i dati lo consentiranno. Ma si guarda bene dal precisare qual è la soglia sotto la quale i dati saranno giudicati rassicuranti: “solo” 50 morti al giorno? o ci basterà scendere sotto i 150, che dopotutto sono un terzo dei 450 attuali? O il criterio sono i posti in terapia intensiva, per cui riapriamo appena ci sono abbastanza posti per accogliere nuovi malati, e inevitabilmente contare nuovi morti?

Il partito delle riaperture, che dà voce alle proteste di esercenti e partite Iva, ha le idee più chiare: riaprire subito, o appena ci sono segni – non importa quanto flebili – di arretramento dell’epidemia.

Questa seconda posizione è spesso accompagnata da un argomento al tempo stesso demenziale e interessante: riapriamo perché chiudere non è servito a nulla, o meglio è servito solo a ridurre alla fame gli esercenti.

L’argomento è demenziale perché in realtà sappiamo perfettamente che cosa succede se si riapre. Il governo, infatti, ha già fatto un esperimento sulla Sardegna, e ha potuto constatare che, se a un territorio con il contagio in ritirata si concedono le libertà di una “zona bianca” (quasi tutto aperto), nel giro di poche settimane quel medesimo territorio si ritrova in “zona rossa”. E’ questo che vogliono i fautori delle riaperture “appena la situazione migliora”?

Ma l’argomento dei paladini delle riaperture non è solo demenziale, è anche interessante. Perché attira l’attenzione su un punto cruciale, e cioè che 6 mesi di sacrifici (da metà ottobre ad oggi), in fin dei conti non sono serviti a nulla. Non ci hanno evitato il picco di fine novembre, con 3800 ricoverati in terapia intensiva, e non ci hanno risparmiato, a quattro mesi di distanza, il picco attuale, con il medesimo numero di ricoverati in terapia intensiva. Dunque, su questo, il partito delle riaperture ha ragioni da vendere: bisognerà pure, a un certo punto, prendere atto che le misure messe in campo non hanno funzionato, e che la pretesa delle autorità scientifico-sanitarie di farci ballare ancora per mesi e mesi la danza dei 4 colori è forse un po’ eccessiva. Su questo l’inquietudine del partito delle riaperture è perfettamente giustificata.

E allora veniamo al punto: perché le misure non hanno funzionato? Perché i morti anziché diminuire stanno crescendo?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente tre. La prima è che la campagna di vaccinazione, essendo stata condotta in modo scriteriato, ha dato un contributo molto modesto al contenimento della mortalità. Fa una certa impressione, leggendo le cifre ufficiali del Governo, scoprire che ancor oggi, a 100 giorni dall’inizio della campagna vaccinale, meno del 40% degli over-80 (e meno del 3% della fascia 70-79) sia completamente vaccinato. O scoprire che, a fronte di circa 800 mila medici e infermieri, 3.1 milioni di dosi siano state riservate al “personale socio-sanitario”. Per non parlare degli 1.1 milioni di dosi andate al personale scolastico (con le scuole quasi sempre chiuse), o del milione di vaccinazioni di cui non è possibile individuare la ratio, e che vengono più o meno semplicisticamente ascritte ai “furbetti del vaccino” (come se ad ogni furbetto non corrispondesse un’autorità pubblica che gli consente di comportarsi in quel modo). E’ difficile elaborare stime precise, ma sembra inevitabile concludere che se fin dall’inizio, oltre medici e infermieri, si fossero vaccinati la maggior parte degli over-80, oggi avremmo almeno 200 morti al giorno in meno.

La seconda ragione è che il lockdown attuato in Italia, specie a gennaio-febbraio, è stato molto più blando di quello adottato nei paesi che stanno uscendo dall’epidemia. Basta scaricare i dati di Google sul grado di confinamento a casa dei cittadini dei vari paesi, per accorgersi che i paesi che hanno abbattuto drasticamente il numero dei morti hanno tutti praticato un lockdown molto più severo del nostro. E non sto parlando di paesi molto avanti con le vaccinazioni (come Regno Unito e Israele), ma di paesi che, come Irlanda, Portogallo, Sud Africa, Svizzera hanno vaccinato come noi o meno di noi. Questo dato dà torto agli aperturisti, e fornisce invece un supporto alla linea – lockdown breve e durissimo – da tempo sostenuta da Walter Ricciardi, il consulente inascoltato (e ora a quanto pare pure silenziato) del ministro della salute Roberto Speranza.

Ma c’è un terzo motivo per cui le cose non vanno bene. E questo dà invece ragione ai critici della giostra dei 4 colori. Sono ormai in molti, fra gli studiosi indipendenti (ma non nel Comitato tecnico-scientifico), a sostenere che le indicazioni fornite fin qui dalle autorità sanitarie sono basate su evidenze scientifiche dubbie o datate, e talora sono addirittura in contrasto con quel che ormai si sa sui meccanismi di trasmissione del virus.

Che cosa si sa?

Si sanno parecchie cose che prima non si sapevano, o si sapevano ma non venivano credute dall’OMS e dalle autorità sanitarie (per una breve storia di queste cose sapute ma non credute, vedi gli articoli del prof. Giorgio Buonanno sul sito della Fondazione Hume). La prima è che, all’aria aperta, la trasmissione del virus è estremamente difficile, molto più difficile di quanto si è a lungo ritenuto. La seconda, speculare alla precedente, è che la trasmissione al chiuso è piuttosto agevole, molto più di quanto si supponesse. La ragione, ridotta all’osso, è che la trasmissione del virus non avviene solo con le goccioline più grandi (droplets), che tendono a cadere a terra, ma anche con quelle più piccole (aerosol), che invece – negli ambienti al chiuso – possono restare in sospensione e diffondersi in modo analogo al fumo, mentre all’aperto vengono rapidamente disperse.

Semplificando e forzando un po’ a scopo comunicativo, si potrebbe riassumere così: le mascherine chirurgiche (che non filtrano l’aerosol) all’aperto non sono necessarie e al chiuso non sono sufficienti.

In pratica. Se sei all’aperto, il rischio che corri non portando la mascherina o usando solo la chirurgica esiste, ma è minimo. Se invece sei al chiuso (in un negozio, a scuola, in un ufficio, su un treno), è essenziale indossare le mascherine più filtranti (ffp2 e simili), e/o garantire la qualità dell’aria (mediante filtri HEPA, o mediante ventilazione meccanica controllata).

Se questa ricostruzione, basata essenzialmente su studi degli ingegneri, ha fondamento, allora siamo decisamente fuori strada. Ci accaniamo contro assembramenti, pic-nic, movida, vita di spiaggia, tutte attività che avvengono all’aperto, e non facciamo nulla per mettere in sicurezza gli ambienti al chiuso, o quasi al chiuso: uffici, negozi, ristoranti, scuole, università, teatri, musei, aule parlamentari, ma anche bus, tram, metropolitane, treni.

E’ la linea Sgarbi, che da mesi si batte contro la mascherina all’aperto e per dotare gli ambienti chiusi di sanificatori?

Un po’ sì. O perlomeno non è né la linea degli aperturisti selvaggi (apriamo tutto, e buonanotte), né quella delle vestali del lockdown, che non vedono altra strada che quella di rinchiuderci tutti.

In conclusione: è vero che, poiché quasi nulla si è fatto di quel che andava fatto, nel brevissimo periodo ci restano solo mascherine ffp2 e lockdown. Ma forse è anche vero che, a fronte di una campagna vaccinale mal impostata, e ora messa a repentaglio dalla mancanza di dosi, ci vuole un “piano B”. Più che dividerci fra fautori delle riaperture e difensori delle chiusure, dovremmo cominciare a pensare a un nuovo e diverso mix fra le misure da adottare: sanificatori in tutti gli ambienti chiusi; distanziamento, ricambio d’aria e controlli rigorosi sui mezzi pubblici; più libertà per le attività che si svolgono all’aperto; lockdown, brevi e durissimi, solo intorno ai focolai (non più a livello regionale o provinciale, ma a livello comunale, se non di quartiere).

Perché la realtà, è doloroso doverlo registrare, è che non siamo ancora all’ultimo miglio. E il rischio, tanto più concreto se arriveranno poche dosi di vaccino, è che la macchina infernale delle regioni a colori ci accompagni per tutta l’estate.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 aprile 2021




Campagna vaccinale: salvare vite o riaccendere l’economia?

Il primo problema dell’Italia, sul versante sanitario, è che nonostante i notevoli progressi delle ultime settimane la campagna di vaccinazione arranca. E la notizia di ieri, secondo cui Johnson & Johnson dovrà buttare alle ortiche 15 milioni di dosi (per un incredibile errore commesso negli Stati Uniti), non fa che aggravare il quadro. L’ottimismo della volontà ci fa sperare che nei mesi prossimi tutto si aggiusti, ma i dati della campagna vaccinale suggeriscono che, quest’estate, il numero di vaccinati si aggirerà intorno al 50% della popolazione italiana, e non al 70 o 80% come tutti auspichiamo.

Che succederà, a quel punto? Possiamo sperare che, almeno, il numero di morti, che oggi sono circa 450 al giorno, non dico si azzeri, ma scenda a un livello molto più basso? Stiamo facendo tutto il possibile per arrivare a questo risultato minimale?

No, non stiamo facendo tutto il possibile, né nell’immediato, né in prospettiva.

Nell’immediato, stiamo commettendo l’errore più grosso che si può concepire: lasciare indietro gli anziani, che contribuiscono al 90% della mortalità. Sembra incredibile, ma ancora oggi – dopo la somministrazione di circa 11 milioni di dosi – quasi la metà degli over-75 (che sono circa 7 milioni) non è ancora vaccinata, e solo 1 su 5 ha ricevuto entrambe le dosi. In compenso sono stati vaccinati (oltre a medici, infermieri e persone fragili, com’era giusto) ogni sorta di categorie: professori, magistrati, avvocati, giornalisti, personale amministrativo degli ospedali, insieme a legioni di parenti, infiltrati, passanti. E, come spesso accade in Italia, l’indignazione si è scaricata sui singoli “furbetti del vaccino” anziché sulle Regioni che hanno gestito arbitrariamente le dosi, e sul Governo che avrebbe dovuto imporre linee guida tassative e vincolanti: se le istituzioni facessero il loro dovere, con ordine e con serietà, a nessun furbetto sarebbe possibile approfittare della confusione per saltare la fila. Né le cose sono destinate a migliorare a breve, visto che la vaccinazione sui luoghi di lavoro (che pure ha una sua logica, se non altro organizzativa), finché le dosi scarseggeranno non potrà che ritardare ulteriormente la copertura completa dei segmenti vulnerabili della popolazione.

Con questo non voglio certo dire che il continuo aumento dei morti osservato nelle ultime 5 settimane sia colpa delle follie della campagna vaccinale. Se ai primi di marzo avevamo 270 morti al giorno e oggi ne abbiamo 450 è perché per mesi e mesi abbiamo giocato ai 4 colori, baloccandoci nell’ingenua illusione che lo stop and go ci avrebbe permesso di convivere con il virus. Ma è proprio perché quasi nulla di incisivo si è fatto per fermare la circolazione del virus che la carta di una vaccinazione ultra-tempestiva e ultra-selettiva degli anziani non doveva essere sprecata.

Né le cose appaiono più confortanti in prospettiva. La corsa all’accaparramento del vaccino, cui partecipa con entusiasmo la popolazione non anziana, punta dritto alla nobile meta delle “vacanze serene”, non certo al prosaico obiettivo di fermare l’ecatombe di anziani. Di qui l’attesa messianica del passaporto vaccinale, italiano o europeo che sia: l’idea è che, una volta vaccinati, si possa tornare a una vita quasi normale, con conseguente allentamento di restrizioni e limitazioni che metterebbero a repentaglio le lunghe (peraltro meritatissime) vacanze estive. Vista da un marziano, che giudicasse solo dai fatti e non dalle intenzioni, la campagna vaccinale italiana – con la sua dimenticanza per gli anziani e la sua attenzione ad assicurare la mobilità di produttori e consumatori – non somiglia a uno sforzo titanico per ridurre i decessi, ma a una macchina per riaccendere l’economia.

Ma c’è un equivoco: per ora nulla assicura che i vaccinati, oltre ad assicurare a sé stessi una protezione dalla malattia, non contagino gli altri. Detto in termini un po’ tecnici, un vaccino può benissimo essere molto ‘efficace’ (nel proteggere dal virus) e al tempo stesso poco ‘efficiente’ (nel bloccare la trasmissione). Se questo fosse il caso, potremmo persino assistere, nei prossimi mesi, a un ulteriore aumento (o mancata riduzione) dei morti in quanto sarebbero i vaccinati stessi, grazie al falso senso di sicurezza indotto dalla vaccinazione, a favorire la circolazione del virus. E molto mi sorprende che questo interrogativo (i vaccini bloccano la trasmissione oppure no?), sia quasi del tutto espunto dal dibattito pubblico, come se si trattasse di un’eventualità che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione.

E non è tutto. Come hanno talora, più o meno cripticamente, avvertito diversi esperti, l’eventualità che i vaccini non siano sterilizzanti (ossia capaci di bloccare la replicazione e la trasmissione) rende particolarmente insidioso il rischio che la vaccinazione di massa, attuata senza aver prima abbattuto la circolazione del virus, favorisca la formazione di nuove varianti, più trasmissibili e/o più resistenti ai vaccini.

Ed eccoci a un’altra cosa che non stiamo ancora facendo in misura adeguata: potenziare la capacità di sequenziamento dei laboratori italiani. Avere una elevata (e tempestiva) capacità di sequenziamento, infatti, potrebbe diventare il nostro principale strumento di difesa se, il prossimo autunno, dovessero emergere varianti ancora più trasmissibili di quelle attualmente più diffuse in Italia (inglese, brasiliana, sudafricana). A quel punto, non potendo bloccare per l’ennesima volta un intero paese, la nostra unica arma di difesa (a parte nuovi vaccini, che richiedono tempo) diventerebbe l’isolamento tempestivo e totale delle zone in cui emergono le varianti più pericolose.

Viste da questa angolatura, le discussioni attuali sulle riaperture, che qualcuno vorrebbe rimandare a maggio, altri anticipare ad aprile “se i dati miglioreranno”, appaiono completamente fuori strada. Se una cosa è certa, perché ce la insegna l’esperienza degli altri paesi, è che i dati non potranno migliorare in modo apprezzabile prima di un mese o due, e che anche solo l’obiettivo minimale di avere meno di 100 morti al giorno richiede parecchio tempo, o sacrifici che quasi nessuno è disposto a fare, meno che mai con la bella stagione alle porte. Raggiunto il picco dei contagi, nessun paese è riuscito a dimezzarli in meno di un mese. Ma, al tempo stesso, non mancano i paesi che, intervenendo al momento giusto con la necessaria energia, sono riusciti ad abbattere il numero dei casi di oltre il 90% in meno di 2 mesi, a dispetto delle varianti e senza l’aiuto della vaccinazione di massa (in Europa, ad esempio, Irlanda, Portogallo, Danimarca, Islanda).

Ecco perché, a mio parere, la domanda se i dati siano in miglioramento o meno è futile e fuorviante. La vera domanda è: abbiamo quasi 500 morti al giorno, di quanto li vogliamo ridurre prima di riaprire tutto o quasi?

Ma a questa domanda nessuno ha voglia di rispondere.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 aprile 2021