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L’etica e le due sinistre

30 Marzo 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Uno dei fenomeni più interessanti che negli ultimi decenni mi è capitato di studiare è la nascita, nella sinistra italiana, del “complesso dei migliori”, ossia dell’attitudine a pensare sé stessa come la rappresentante della parte migliore del Paese. La data di nascita è abbastanza precisa: 1993-1994, sdoganamento del “fascista” Fini da parte di Berlusconi, vittoria del Cavaliere alle elezioni politiche, nascita della seconda Repubblica. Da allora l’autopercezione della sinistra come eticamente superiore alla destra non è mai venuta meno, ed anzi è dilagata, in Italia e non solo (Hillary Clinton contro Trump). A soffiare sul fuoco dell’autostima dei progressisti hanno contribuito non poco lo stile sgangherato e spesso volgare di Salvini, l’antieuropeismo di parte della destra, nonché, al di fuori dell’Italia, l’emergere di leader politici conservatori non proprio rassicuranti: Orbán, Trump, Marine Le Pen.

Ebbene, la guerra in Ucraina sta, secondo me, sgretolando le basi del complesso dei migliori. La credenza che la sinistra riformista, erede del Partito comunista, rappresenti il Bene, e la destra, berlusconiana o sovranista che sia, rappresenti il Male, sopravvive ancora, ma il problema è che non è più difendibile, nemmeno agli occhi dell’opinione pubblica progressista.

Per capire perché dobbiamo partire da una domanda: perché il Pd di Letta è diventato il partito più atlantista e militarista, pronto non solo a mandare armi all’Ucraina ma a partecipare al riarmo dell’Europa?

La risposta è semplice: se in gioco vi sono la libertà e la democrazia, può il partito che si sente custode del Bene non essere alla testa della difesa delle due supreme conquiste dell’Occidente?

Ovviamente la tentazione è forte, e il Pd è caduto in tentazione. L’ha fatto. Si è messo alla testa del partito del Bene contro il Male assoluto russo. Ci sono due piccoli guai, però, che minano alla radice il progetto della sinistra riformista.

Il primo guaio è lei, Giorgia Meloni. La posizione di Fratelli d’Italia, di appoggio alle scelte del Governo in nome dell’interesse nazionale, complica dannatamente le cose: d’ora in poi sarà più difficile accusare la destra di sovranismo, preso atto che il sovranismo di Fratelli d’Italia può plausibilmente essere letto in chiave patriottica, ma soprattutto sarà impossibile rivendicare il monopolio del Bene. Se libertà e democrazia sono il Bene, e se il sostegno all’Ucraina è la cartina di tornasole del proprio impegno, il Pd dovrà prendere atto, d’ora in poi, di essere in buona compagnia. E magari rassegnarsi a registrare che la scelta patriottica di stare risolutamente a fianco dell’Ucraina non è prerogativa di uno schieramento politico ma, semmai, è ciò che accomuna i due maggiori partiti italiani.

C’è un secondo guaio, però, forse ancora più grande, per la retorica della sinistra che si sente eticamente superiore. Ed è che, ahimè, il Bene ha molte facce. Specialmente in una guerra come quella che stiamo attraversando, il Bene si presenta anche nelle vesti multiformi del pacifismo: dal risoluto e sconcertante invito ad arrendersi rivolto da Piero Sansonetti alla resistenza ucraina, alla “vergogna” del Papa per i propositi di riarmo dell’Occidente, fino alle mille varianti dell’etica del dialogo, del negoziato e della prudenza. Eh già, perché accanto ai grandi valori universali dell’uguaglianza, della libertà e della democrazia, con grande lungimiranza Norberto Bobbio poneva anche il valore della pace, a dispetto di un’epoca che la dava per scontata (un po’ come i giovani danno per scontata la salute).

Ed ecco il problema: fiutando odore di identità (un bene di cui il partito di Grillo ha disperatamente bisogno), il leader dei Cinque Stelle Giuseppe Conte si è avventato, con un video scomposto che ricordava l’ultima infelice esternazione di Beppe Grillo, contro l’impegno dell’Italia ad aumentare il budget per la difesa. Enrico Letta ha reagito minimizzando, e assicurando che anche in questo caso – come in passato – si sarebbe trovata una quadra.

Ma riarmo e pacifismo non sono voci del bilancio pubblico, su cui si può agevolmente trovare un punto di equilibrio, presentandolo agli elettori come ragionevole compromesso. La scelta di sostenere militarmente la resistenza ucraina in nome di valori come libertà, democrazia, autodeterminazione dei popoli, è incompatibile con la scelta di non farlo per favorire il dialogo e la pace. Ragionevoli o irragionevoli che siano, prudenti o imprudenti che appaiano, agli occhi degli elettori queste due posizioni sono non solo incompatibili, ma anche entrambe eticamente fondate. Il militante di sinistra può ancora sentirsi dalla parte del Bene, ma oggi si trova a dover scegliere tra due posizioni ciascuna delle quali si presenta con una postura etica.

Di qui una conseguenza per la sinistra riformista, di cui il Pd è la maggiore espressione: d’ora in poi gli sarà impossibile rivendicare una superiorità etica rispetto ai propri avversari. Non solo perché i valori che il Pd proclama di difendere sono condivisi da una parte della destra, finora trattata con sufficienza, quando non con disprezzo. Ma perché la mossa di Conte crea le basi per la nascita di due sinistre, fieramente avvinghiate ai rispettivi valori, come tali non negoziabili. Che cosa sia il Bene in politica non lo sappiamo, e non lo sapremo mai, ma almeno abbiamo la certezza che – d’ora in poi – sarà difficile per chiunque proclamarsene il rappresentante esclusivo.

Ucraina, libere idee in libero dibattito

25 Marzo 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Su quale sia, di fronte all’invasione dell’Ucraina, la linea di condotta più adeguata, non ho convinzioni forti. E questo non solo perché sono del tutto incompetente in materia di geopolitica, ma perché constato che fra i competenti le opinioni divergono radicalmente. E le divergenze non riguardano solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: fermare Putin o punire Putin? trovare un compromesso o umiliare l’avversario? minimizzare il numero di morti di oggi o quello di domani?

C’è chi ritiene che limitarsi agli aiuti umanitari sia la condotta più saggia, anche questo dovesse comportare la resa dell’Ucraina. C’è chi ritiene che solo continuando ad armare la resistenza ucraina sarà possibile fermare Putin. C’è chi ritiene che istituire una no fly zone sull’Ucraina ci porterebbe dritti alla terza guerra mondiale (se non all’apocalisse nucleare), e c’è chi ritiene – tutto al contrario – che ancora più imprudente sarebbe non istituirla: la rinuncia Nato alla no fly zone sarebbe un segnale di debolezza, che potrebbe convincere Putin che noi occidentali non oseremo mai entrare in guerra con lui, anche dovesse invadere un altro paese europeo.

Quello su cui ho invece un’opinione è il destino delle nostre menti in tempo di guerra. Quel che mi colpisce, come studioso di scienze sociali, è il clima di illibertà che governa i nostri scambi di idee. Un clima in cui nessuno si sente completamente libero di dire come vede le cose, perché sa che, qualsiasi cosa dica, sarà aggredito da chi vede le cose in modo opposto, o anche semplicemente diverso.

L’indizio più rivelatore di questo clima è la “premessite”: prima di dire qualcosa di sostanziale, si passa un tempo notevole a fare premesse autodifensive per tutelarsi dal rischio di essere crocefissi per quel che si sta per dire. Mi impressiona molto ascoltare in tv autorevoli giornalisti e studiosi avvilupparsi in lunghissime serie di auto-certificazioni di anti-putinismo per sentirsi in diritto di dire quel che pensano, ad esempio che li ha colpiti l’ammissione di Biden di aver passato l’ultimo anno a rifornire l’Ucraina di armamenti.

E’ un meccanismo che avevamo già sperimentato nella pandemia, quando – se si aveva da dire qualcosa di non perfettamente ortodosso sui vaccini – si esordiva dicendosi plurivaccinati, sottoposti alla terza dose, equipaggiati con green pass, eccetera.

Si potrebbe pensare che è normale che tutto ciò accada quando è in gioco una questione importante, e inoltre sussiste un’ortodossia, ossia un pensiero prevalente e ritenuto più giusto.

In realtà non è così. O meglio non è solo così. Il meccanismo che non ci lascia discutere liberamente, senza accusarci reciprocamente di stare dalla parte sbagliata, è più universale e profondo. Fu scoperto e studiato nei primi anni ’50 dallo psicologo sociale americano Leon Festinger, viene chiamato “riduzione della dissonanza cognitiva”, e costituisce probabilmente la più importante scoperta delle scienze sociali del Novecento. Quel che Festinger scoperse è che non solo la mente umana non sopporta i conflitti interni, ma il suo bisogno di coerenza interna è così forte da generare meccanismi di correzione radicali, come l’autoinganno, l’adozione di credenze irrazionali, l’incapacità di prendere atto dei dati di realtà, anche di fronte a clamorose smentite delle proprie convinzioni.

La mente umana, si potrebbe dire riprendendo una lucida considerazione di Walter Siti, funziona in modo opposto a come funziona la grande letteratura. La nostra mente ha bisogno di coerenza, la grande letteratura si nutre delle contraddizioni, dei drammi e delle ambiguità della vita reale. Soprattutto, la nostra mente è incapace di passare da un piano all’altro del discorso senza esigere che fra i vari piani vi sia coerenza. Se l’empatia ti porta da una parte, non ce la fai ad accettare che qualche notizia, o ragionamento, o fatto storico ti possa portare dall’altra. E se il ragionamento ti porta dalla parte opposta, la tua empatia ne risente, o gli altri ti percepiscono come privo di empatia.

Vale oggi per la guerra in Ucraina, ma valeva anche ieri per le “guerre umanitarie”, o per quelle contro il terrorismo. Noi, per come funziona la nostra mente, non siamo capaci di sopportare quel che invece nutre la grande letteratura, ossia l’imperfezione del bene e la complessità del male. Abbiamo bisogno di pensare che il mondo delle vittime sia senza ombre, e quello dei carnefici sia del tutto privo di umanità. Ogni spiegazione del male ci appare un’offesa al bene, e il bisogno di sentirci dalla parte del bene ci impedisce di vedere i nostri limiti.

E’ un vero peccato, anche se – dopo Festinger – sappiamo che è connaturato al modo di funzionare del nostro cervello.  E’ un peccato perché, se può essere vero, come scrisse Primo Levi, che “comprendere è quasi giustificare”, è altrettanto vero che spiegare il male (che è cosa ben diversa dal comprenderlo) è essenziale per evitare il suo ripetersi, ed è ancora più essenziale adesso, quando una maggiore lucidità potrebbe guidarci a prendere le decisioni giuste.

La pietà e la solidarietà per le vittime non dovrebbero mai essere scalfite dalla ricostruzione dei torti e delle ragioni delle parti in gioco, che – nella storia – sono sempre entità collettive, ovvero partiti, nazioni, imperi, potenze che agiscono sopra le teste della gente comune.

 

L’Ucraina e le tre destre

6 Marzo 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Di effetti sul nostro paese, la guerra in Ucraina ne sta producendo parecchi, e molti altri e più grandi ne produrrà in futuro. C’è un effetto minore, però, cui non mi pare sia stato ancora assegnato il giusto rilievo: la ristrutturazione dell’immagine della destra.

Fino a ieri la percezione dei tre partiti di destra obbediva a due canovacci elementari. Il primo, congeniale agli osservatori più schierati: Berlusconi buono (perché moderato ed europeista), Salvini & Meloni cattivi (perché sovranisti e anti-immigrati). Il secondo, congeniale ai più convinti sostenitori del governo Draghi: Berlusconi & Salvini buoni (perché al governo), Meloni cattiva (perché all’opposizione).

Nel breve volgere di pochi giorni tutto questo è saltato. Giorgia Meloni ha preso risolutamente una posizione atlantista e pro-Ucraina, Salvini e Berlusconi lo hanno fatto obtorto collo, con l’imbarazzo di chi in passato si è sbilanciato innumerevoli volte a favore di Putin, lodandolo come politico, e sostenendone le scelte strategico-militari più discutibili, come l’annessione della Crimea nel 2014.

Così molti schemi traballano, e il tentativo di riproporre quelli vecchi si infrange contro la nuova realtà. Nel nuovo clima anti-russo, suona strano pensare Berlusconi e Salvini, fino a ieri i migliori alleati di Putin, come moderati e ragionevoli. Così come stona, nel momento in cui parliamo con ammirazione degli ucraini che corrono in patria a sostenere la resistenza, dileggiare Giorgia Meloni per il suo definisti una “patriota”.

Si potrebbe commentare tutto questo dicendo che la politica internazionale costringe a riconoscere che ci sono in Italia tre destre molto diverse fra loro, e che non è detto che la destra più accettabile sia quella che ci piace definire moderata, o di governo. Ma ci si potrebbe anche spingere più in là. Forse è venuto il tempo di guardare in modo più concreto al mondo della destra, deponendo lo schema estremisti/moderati non solo quando si ragiona di politica internazionale, ma anche quando si ragiona di politica interna. Perché, anche quando si parla di tasse, di politiche sociali, di sanità, le destre sono almeno tre, e non è affatto chiaro chi sono i moderati e chi sono gli estremisti. Prendiamo la politica fiscale, ad esempio. Forza Italia e la Lega sono per la flat tax, ma Berlusconi guarda soprattutto alle famiglie, Salvini alle partite Iva. Quanto a Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni è sostanzialmente contraria alla flat tax, e fin dal 2015 difende politiche che si potrebbero definire pseudo-keynesiane: premiare con meno tasse le imprese che creano nuovi posti di lavoro. Ha senso chiedersi chi è il moderato e chi è l’estremista? Se metti la flat tax sei moderato, ma se le tasse le abbassi solo a chi crea posti di lavoro sei estremista?

Fatico a seguire il ragionamento. A me sembrano solo tre modi, profondamente diversi, di ridurre la pressione fiscale.

Lo stesso discorso si può fare per la politica sanitaria. Anche qui la destra è stata, e resta, profondamente divisa. Forza Italia ha aderito senza riserve all’ortodossia vaccinale. La Lega e Fratelli d’Italia, sia pure con tempi e accenti diversi, hanno sempre sollevato riserve su vaccinazione di massa, green pass, chiusure.  Con una differenza, però: Fratelli d’Italia si è battuta (invano) per introdurre la ventilazione meccanica controllata (Vmc) nelle scuole, e lo ha fatto fin da un anno fa, ben prima che l’Oms riconoscesse la sua cruciale importanza per il contrasto del virus, specie nella stagione fredda.

Di nuovo, mi pare che distinguere fra una destra moderata e una destra estrema sia poco utile, se non fuorviante. La realtà è che né sulla politica internazionale, né sulla politica economica, né sulla gestione dell’epidemia i modi di vedere di Berlusconi, Salvini e Meloni collimano. Classificare tali modi di vedere come più o meno estremisti, più o meno moderati, più o meno europeisti può essere comodo per i conduttori di talk show (e per gli osservatori più ideologizzati), ma non è utile agli elettori. I quali avrebbero diritto, semmai, di capire le differenze che, quasi in ogni ambito, ormai intercorrono fra i tre principali partiti di destra.

Le elezioni politiche si terranno fra un anno, se non prima. La destra ha il dovere di non nascondere le sue divisioni e, se ne è capace, di ricomporle prima del voto. Possibilmente senza indulgere in vecchie e astratte contrapposizioni, figlie di un’epoca che sta tramontando.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

27 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?

Se 400 morti vi sembran pochi

10 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Archiviata l’ingloriosa contesa sul Quirinale, nel giro di pochissimi giorni un nuovo clima sembra essersi installato in Italia. Un clima fatto di riaperture, soprattutto riservate ai vaccinati, e di progressiva smobilitazione dell’apparato di gestione della pandemia. In questo clima di quasi-euforia, si ipotizza la fine dello stato di emergenza (era ora), ma anche lo scioglimento del Comitato tecnico-scientifico (Cts). E questo non già per i troppi errori commessi, ma perché staremmo rapidissimamente uscendo dalla pandemia. Fra gli esperti-sempre-in tv c’è chi trova che 1500 pazienti Covid in terapia intensiva non siano un’emergenza (con buona pace delle migliaia di malati cui è stato rimandato un intervento chirurgico). Quanto al Cts, un suo membro si spinge ad affermare: “Le condizioni per guardare lontano ci sono tutte. Aspettiamo ancora qualche settimana per essere certi di poter saltare di gioia”.

Ieri, a suggellare la realtà di questo cambio di fase, l’intervista rilasciata a “Repubblica” dal generale Figliuolo mette gli ultimi puntini sulle i: i ricoveri stanno diminuendo, gli ospedali possono ricominciare a occuparsi dei malati normali, la campagna vaccinale è molto avanti, difficilmente dovremo sottoporre tutta la popolazione a una quarta dose, in ogni caso il sistema è flessibile, all’occorrenza la rete degli hub è in condizione di riattivarsi rapidamente.

In effetti i dati gli dànno ragione. La percentuale di vaccinati è molto alta, sopra la media europea. I casi giornalieri stanno diminuendo, e così i ricoveri, sia in medicina generale sia in terapia intensiva. Inoltre, è molto confortante il fatto che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, il tasso di letalità del Covid mostri chiarissimi segni di declino.

C’è solo un’ombra: il numero di morti, circa 400 al giorno. E’ vero che i decessi riflettono l’andamento dell’epidemia un paio di settimane prima, e che – con la diminuzione dei casi attualmente in corso – anch’essi sono destinati a ridursi nelle prossime settimane. Ma il problema resta.

A farcelo notare è Guido Rasi (ex direttore dell’EMA e consigliere del generale Figliuolo), una delle poche voci che, pur sottolineando i miglioramenti in corso, ha ritenuto doveroso porre un piccolo freno ai nostri entusiasmi.  Il consigliere del generale fa notare che “400 decessi al giorno sono veramente tanti”, e che il fatto che siamo un paese anziano “non basta a giustificarli”.

Anche lui ha ragione. Se guardiamo ai paesi europei, sono pochissimi quelli che, in questo momento, hanno più morti per abitante di noi. Tutti i grandi paesi, Regno Unito Germania, Francia, Spagna, Polonia, ne hanno di meno, qualche volta molti di meno (in Germania, un paese anziano come l’Italia, i decessi sono meno di 1/3 dei nostri).

Il prof. Rasi suggerisce cautamente che qualcosa non abbia funzionato, e continui a non funzionare, nell’assistenza sanitaria: cure domiciliari, tempi di ricovero e di trasferimento in terapia intensiva, uso degli anticorpi monoclonali e dei nuovi farmaci antivirali.

E’ verosimile che sia così, ma – quale che sia la ragione per cui abbiamo tanti morti – resterebbe un’altra domanda: come mai ce ne importa così poco? come mai un anno fa 100 morti al giorno ci sembravano tantissimi, e oggi 400 morti non ci turbano più di tanto? Come abbiamo fatto ad abituarci?

Facendo questa domanda non mi riferisco tanto ai politici, quanto a noi cittadini. Perché se, negli ultimi 3 mesi, la politica ha potuto ignorare i segnali di allarme che venivano dai bollettini quotidiani dell’epidemia, e ha potuto permettere che i decessi salissero ininterrottamente dai 40 al giorno di ottobre ai 400 di oggi, è innanzitutto perché in noi qualcosa è cambiato.

Dunque, che cosa è cambiato, e perché?

Credo che i cambiamenti più importanti siano due. Il primo è che, grazie alla progressiva sostituzione della variante delta con la variante omicron (molto meno letale), l’esplosione del numero di contagi non ha comportato un intasamento degli ospedali comparabile a quello delle prime tre ondate. La pressione sugli ospedali registrata allora ci ha convolti tutti, perché arrivava tutte le sere sulle nostre tv, in modo continuativo e martellante, mentre negli ultimi mesi il messaggio fisso, altrettanto martellante, è stato un altro: le terapie intensive sono piene di non vaccinati, i vaccinati ci arrivano molto di rado.

Il secondo cambiamento è stato il mero trascorrere del tempo: ieri eravamo disposti a fare imponenti sacrifici per salvare vite umane, oggi non lo siamo più semplicemente perché sono passati due anni, e troviamo intollerabile l’idea che i nostri sacrifici siano a tempo indeterminato, senza una luce in fondo al tunnel. A un certo punto, noi abbiamo deciso che la pandemia stava finendo. E’ questo che ha permesso a Draghi di gestire le cose con molta meno prudenza del suo predecessore, fino al punto di considerare 400 morti al giorno come un tributo accettabile. E’ questo che oggi ci rende indulgenti, se non indifferenti, di fronte ai numeri che scorrono ogni sera davanti ai nostri occhi.

Ma perché siamo diventati così?

Credo sia tempo di prendere atto che, nella nostra cultura (e probabilmente in tutte le culture), i morti assumono significati differenti a seconda della carica simbolica di cui sono circonfusi. Per suscitare la nostra pietà o la nostra indignazione non basta che siano tanti. Devono connettersi a qualche porzione del nostro inconscio, o del nostro immaginario, in cui assumano un significato forte. Se devono turbarci, non possono essere prosaici, devono avere una carica emotiva. E, requisito fondamentale, occorre che siano pensabili come qualcosa contro cui possiamo combattere, riducendone drasticamente la portata.

E’ per questo che 3 morti al giorno sul lavoro ci colpiscono, e 9 morti al giorno di incidente stradale no. E’ per questo che 100 femminicidi l’anno ci fanno impressione, e 5000 donne morte in incidenti domestici no. Ed è di nuovo per il medesimo motivo che, nella primavera del 2020, 600 morti di Covid al giorno ci parevano un’enormità, e 600 morti per malattie cardiache no: quei morti di Covid pensavamo di poterli ridurre drasticamente anche mediante i nostri comportamenti (come in effetti abbiamo fatto), mentre per i morti di cuore sapevamo di poter fare ben poco.

Ora i 400 morti di Covid al giorno abbiamo imparato a considerarli come i morti di infarto, di ictus, di cancro. Come numeri, insomma. Forse è logico, e persino giusto. Ma lascia un retrogusto amaro, che getta un’ombra sui proclami che annunciano le riaperture e sul fiume di retorica che accompagna il “ritorno alla normalità”.

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