Covid, perché questa Babele informativa?

Che ci sia un conflitto fra favorevoli e ostili alla vaccinazione sta nell’ordine delle cose. Nessuno, infatti, può prevedere completamente le conseguenze delle varie linee di condotta possibili. Inoltre, anche ammesso che tutte le conseguenze siano accuratamente prevedibili, non esiste alcun punto di equilibrio ovvio fra i “beni” che si vogliono tutelare: salute, diritto al lavoro, socialità, libertà di movimento, democrazia, eccetera. E infatti siamo divisi fra quanti ritengono che stiamo dando troppa importanza alla salute, e quanti ritengono che ne stiamo dando troppo poca. Può succedere così che, su certi punti (green pass), Giorgia Meloni sembri pensarla come il filosofo Cacciari, e su altri (obbligo di vaccinazione per i lavoratori) Salvini sembri pensarla come il capo della Cgil Landini.

Questo stato di anarchia del pensiero non deve sorprenderci troppo. Le società democratiche sono per loro natura iper-pluraliste e, quanto alla comprensione del virus e dell’epidemia, le scienze medico-sociali operano con margini di incertezza fortissimi.

E tuttavia c’è, nel modo confuso e cacofonico in cui parliamo di pandemia, vaccinazione, libertà, economia, qualcosa di non ovvio e non giustificato: la proliferazione di credenze false e di tesi tendenziose. Perché è vero che sono tantissime le cose che non sappiamo, ma sono anche parecchie – e importanti – le cose che sappiamo, o di cui siamo ragionevolmente sicuri. Quello cui assistiamo, invece, è la diffusione, anche da parte delle autorità politiche e dei mass media, di informazioni poco chiare, ambigue, fuorvianti, talora semplicemente false. Sicché oggi non esiste un minimo comune denominatore di informazioni condivise da tutti o, perlomeno, dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Vorrei fare tre esempi.

Primo: i completamente vaccinati possono infettarsi?

Molti credono di no. E c’è persino chi dice che, poiché sono protetti dalla vaccinazione, i vaccinati non possono imporre alcuna restrizione nei confronti dei non vaccinati (se sono vaccinato, non posso temere il contatto con un non vaccinato). Non solo: se sono immune in quanto completamente vaccinato, non ho alcun bisogno – per proteggermi – di usare la mascherina, né all’aperto né al chiuso.

Bene, questa è una credenza falsa, e lo sappiamo non da ieri, ma fin dall’inizio della campagna vaccinale. Perché è così diffusa? Perché così raramente viene detta la verità, e cioè che il vaccino protegge dall’infezione molto meno di quanto protegga dalla morte o dall’ospedalizzazione?

Fondamentalmente perché pensare di essere invulnerabili è rassicurante (per i vaccinati). E forse anche perché le autorità politico-sanitarie hanno ritenuto che esaltare le virtù del vaccino avrebbe favorito la campagna vaccinale e la ripresa dell’economia, e poco hanno badato alla ovvia obiezione: se non dici tutta la verità sui limiti dei vaccini, i vaccinati prenderanno la palla al balzo per abbassare la guardia.

Secondo: anche i completamente vaccinati, se positivi, possono contagiare gli altri?

Gli scienziati, in modo sostanzialmente unanime, rispondono di sì, aggiungendo che – fortunatamente – il contagio dovrebbe verificarsi con minore probabilità. Il premier Draghi, invece, dice di no, pensando di rassicurare tutti, vaccinati e no. Forse il retropensiero è che se si dicesse verità (anche i vaccinati possono contagiare) la distinzione fra i buoni (vaccinati) e i cattivi (non vaccinati) sarebbe meno netta, e la campagna vaccinale rischierebbe di perdere appeal.

Terzo: siamo a un passo dall’immunità di gregge?

Molti politici (ultimo in ordine di tempo: l’assessore alla sanità del Lazio) credono o fingono di credere di sì. Anche alcuni giornalisti, particolarmente solerti nel promuovere la campagna vaccinale, ne sembrano convinti.

Invece no. Per qualsiasi epidemiologo dotato di una calcolatrice da tavolo è evidente che, con la variante delta e i vaccini attuali (che non sono sterilizzanti) è praticamente impossibile. Se R0 è vicino a 7, si dovrebbe vaccinare con vaccini sterilizzanti (che non abbiamo) almeno l’85% della popolazione, obiettivo chiaramente irraggiungibile senza un vaccino per i bambini e senza obbligo vaccinale.

Che cosa hanno in comune queste tre false e assai diffuse credenze?

Essenzialmente una cosa: ci rassicurano, perché nascondono i lati più inquietanti dell’epidemia. Ma perché nasconderli?

Non lo so. Forse per non rattristare le nostre vacanze. Forse per prolungare il più a lungo possibile il periodo di apertura delle attività. Forse per darci una speranza nel futuro.

Io però vedo anche un’altra spiegazione, meno tranquillizzante. Forse il governo, sulla gestione dell’epidemia, si è già rassegnato a ripetere il film dell’anno scorso, quando il governo Conte scelse di non intervenire durante l’estate e di non preparare in alcun modo il rientro dalle vacanze. Il mix era ed è chiarissimo, ieri come oggi: tamponi insufficienti, nessuna messa in sicurezza delle scuole, nessun rafforzamento del trasporto locale, nessuna riorganizzazione dell’assistenza domiciliare, nessuna app (funzionante) per il tracciamento elettronico dei contatti. Tutte cose che richiedono molti mesi, e non possono certo essere realizzate all’ultimo momento, per di più in agosto.

Con un’importante differenza, fra oggi e ieri. Oggi la politica può brandire l’arma del vaccino, e ha assoluto bisogno di farci credere che basterà a fermare l’epidemia (o a trasformarla in un incomodo con cui potremo convivere), e che se le cose andranno male sarà essenzialmente colpa nostra, che non ci saremo vaccinati in numero sufficiente.

Purtroppo, però, la differenza fra il rientro di quest’anno e quello dell’anno scorso non è solo il vaccino ma è la variante delta, molto più trasmissibile di quelle prevalenti un anno fa (R0 vicino a 7, anziché vicino a 3). E non è tutto: se compariamo il luglio di quest’anno con il luglio dell’anno scorso dobbiamo registrare che il numero di soggetti contagiati è circa 5 volte quello di un anno fa, e il valore di Rt è drammaticamente più alto (prossimo a 1.5, un valore catastrofico, mentre un anno fa fluttuava nei pressi di 1).

Insomma, tutti gli indicatori segnalano che la quarta ondata è in corso dai primi di luglio. La campagna vaccinale è, colpevolmente, l’unica vera arma messa in campo. Usiamola, ma per favore smettiamola di demonizzare i dubbiosi e diffondere incertezza con informazioni false, incomplete, distorte, ambigue. Potrebbe essere proprio una migliore informazione, che non nasconde le ombre e le incertezze della scienza, l’arma vincente per convincere non tanto i pochi Novax (che non sentono ragioni), ma il popolo degli indecisi, che vogliono capire e decidere per il meglio.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 luglio 2021




Vaccini, ultima carta

Fino a qualche settimana fa speravo ancora in un cambio di strategia nella lotta contro il virus. Oggi non più. Oggi è evidente che la politica, tutta la politica, ha gettato la spugna. I segnali sono chiarissimi.

Sul versante europeo, innanzitutto. L’accordo su green pass e voli internazionali, secondo cui le compagnie aeree avrebbero dovuto assicurare i controlli, è stato una perfetta presa in giro. La stragrande maggioranza dei passeggeri non vengono controllati né alla partenza né all’arrivo, il che può significare solo due cose: le regole stabilite dalle autorità europee non erano vincolanti, oppure lo erano ma non prevedevano sanzioni.

Le cose non vanno meglio sul versante italiano. I tamponi sono la metà di quelli che si facevano a marzo; da ben 3 settimane l’Rt galoppa al di sopra di 1; da qualche giorno il numero di casi giornalieri ha oltrepassato la soglia (circa 4000 al giorno) che consente il tracciamento. Per tutta risposta il governo sta cambiando i parametri di allarme, puntando sulle ospedalizzazioni (che sono ancora poche, per fortuna) anziché sull’indice di trasmissione Rt e sul numero di casi (incidenza settimanale), che invece stanno crescendo a un ritmo preoccupante e, con le vecchie regole, costringerebbero a far passare alcune regioni in zona gialla. Dunque lo scenario è chiaro: si cercherà di tirare a campare fino a Ferragosto per salvare il turismo, poi, quando saremo arrivati a 30 mila casi al giorno (così dicono le proiezioni), improvvisamente si scoprirà che dobbiamo chiudere tutto il chiudibile.

E a quel punto?

A quel punto, come l’anno scorso, avremo elezioni e ritorno a scuola. E poiché nel frattempo nulla è stato fatto né sul versante del trasporto locale, né su quello della messa in sicurezza delle scuole (per non parlare della riorganizzazione della medicina territoriale), sarà difficile evitare un’ulteriore esplosione dei contagi, anche agevolati dalla fine della bella stagione e della vita all’aperto.

Dunque, non nascondiamocelo: vaccini e green pass a parte, poco si sta facendo per arginare l’esplosione dei contagi. E la scuola non è affatto “una priorità assoluta”, come vorrebbe farci credere il ministro Speranza, ma è l’agnello sacrificale che, per il secondo anno consecutivo, immoliamo in nome del sacro diritto alle vacanze e alla ripartenza.

Detto questo, però, la domanda resta: che fare per limitare i danni?

Spiace essere tranchant, ma – dal momento che le autorità sanitarie hanno deciso, a dispetto della pericolosità della variante indiana, di lasciar correre il virus – non si può che concludere che siamo soli, completamente soli. E ci resta un’unica cosa da fare: provare a limitare i danni vaccinando noi stessi e convincendo gli altri a fare la stessa cosa. La possibilità di scegliere serenamente fra vaccinarsi e non vaccinarsi è un privilegio riservato ai cittadini dei paesi – quasi tutti non europei – in cui l’epidemia è sotto controllo.

Il vaccino, infatti, è l’unica vera arma che ci resta in una situazione in cui, per mille ragioni, si è deciso di rinunciare a usare altre armi, perché giudicate troppo costose o complicate.

Quali sono i vantaggi del vaccino?

Sono essenzialmente tre, uno di tipo altruistico, gli altri due di tipo egoistico.

Il vantaggio altruistico è che le persone vaccinate, pur potendo trasmettere il virus, lo fanno in misura considerevolmente minore. Una persona vaccinata è meno pericolosa per gli altri di una persona non vaccinata. Questo significa che, più persone si vaccinano, più lentamente circola il virus. Il rallentamento indotto dal vaccino, dunque, può controbilanciare (anche se solo in parte) l’accelerazione indotta dalla variante delta.

E veniamo ai due vantaggi egoistici. Il primo è che chi è vaccinato ha minori probabilità di contrarre il virus. Il secondo è che, anche se lo contrae, di norma sviluppa sintomi meno gravi di chi non è vaccinato, e raramente viene ospedalizzato o muore. Sono due vantaggi enormi, che fanno la differenza – esistenzialmente cruciale – fra vivere nell’angoscia e vivere nella consapevolezza di un piccolo rischio.

Questo non significa che la vaccinazione piena (con 2 dosi, o con 1 di Johnson & Johnson) azzeri il rischio di infezione, ospedalizzazione, morte, come alcuni credono. Significa però, ed è decisivo, che i rischi si riducono in modo drastico.

In concreto tutto ciò implica che, ove la quota di pienamente vaccinati si avvicinasse all’80 o al 90%, almeno il numero di ospedalizzati e di decessi potrebbe essere fortemente limitato. E’ a questo che dobbiamo puntare, raggiungendo chi non si può muovere e ragionando con i dubbiosi. Vaccinarci è l’unica arma che ci è stata lasciata in mano, e quindi sarebbe stolto non usarla.

La vaccinazione di massa risolverà ogni problema?

Lo speriamo. Ma pensare che basti, e da sola ci garantisca anni di convivenza pacifica con il virus, potrebbe essere un tantino azzardato. Di per sé, la vaccinazione di massa non esclude due eventualità che dobbiamo sempre tenere presenti. Da un lato, è possibile che, proprio perché si è lasciato circolare il virus, si formino varianti che “bucano” la barriera dei vaccini, o che sono ancora più trasmissibili di quella indiana. Dall’altro, se il virus dovesse infettare quasi tutti, il rischio è che – oltre a scontare un numero di morti non trascurabile – si debba fare i conti con milioni di persone alle prese con il cosiddetto Long Covid, ossia con i postumi più o meno irreversibili della malattia (attualmente si stima che ne siano affetti il 10% dei guariti).

Da questo punto di vista la scelta di cambiare i parametri, abbandonando Rt e l’incidenza settimanale, appare un tantino imprudente. Se la gravità dell’epidemia viene valutata solo o prevalentemente con le ospedalizzazioni, il rischio è che – ancora una volta – ci si accorga del pericolo solo quando l’epidemia galoppa, e i costi economici e sociali per frenarla sono diventati proibitivi.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 luglio 2021




Ddl Zan, perché Renzi non dice la verità?

Credo che la stragrande maggioranza dei cittadini non abbiano letto un solo rigo del Ddl Zan sull’omotransfobia. Cionondimeno, i sondaggisti parlano degli orientamenti dell’opinione pubblica nei confronti della nuova legge, già approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, come se tali orientamenti avessero qualcosa di reale.

E’ un grosso equivoco. Non perché – in generale – la gente non possa avere un’idea su una legge se non ne ha letto il testo, ma perché c’è legge e legge. Ci sono leggi su cui si può avere un’opinione fondata anche senza averle lette (le chiamerò leggi “sondaggiabili”), e leggi su cui non è possibile avere un’opinione fondata finché non se ne sono compresi bene i meccanismi interni (leggi “non sondaggiabili”).

Perché?

Perché ci sono leggi che, nel loro titolo, indicano anche i mezzi usati per raggiungere un dato fine, e ci sono leggi che indicano solo il fine, senza chiarire i mezzi usati per raggiungerlo. Una eventuale legge di semplificazione del sistema fiscale che introducesse una flat tax al 25%, ad esempio, è una legge sostanzialmente sondaggiabile, perché permette a ciascuno di farsi un’idea di quel che succederebbe se dovesse passare. La legge Zan per la “prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” è invece una legge sostanzialmente “non sondaggiabile”, perché i fini sono chiari (e difficilmente contestabili) ma nulla lasciano indovinare sui mezzi impiegati per raggiungerli.

La discussione sulla legge Zan è complicata per questo. Tutti ne conosciamo le finalità, quasi tutti le approviamo, ma non tutti siamo informati adeguatamente sui mezzi che la legge mette in campo per raggiungere i suoi fini. Su alcuni di questi mezzi (inasprimento delle pene per i crimini d’odio) c’è sostanziale accordo fra tutte le forze politiche, di destra, di centro e di sinistra. Ma su altri mezzi, invece, non tutti sono d’accordo. Le critiche più frequenti si appuntano su tre articoli.

L’articolo 1, che pretende di fissare il significato di termini come sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale, sancendo per legge la possibilità di scegliere il proprio genere in base alla percezione che ognuno ha di sé.

L’articolo 7, che – tra le altre cose – introduce una giornata nazionale “contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, senza prevedere alcuna esenzione per le scuole elementari, le scuole cattoliche, e più in generale gli allievi minorenni.

L’articolo 4, che limita la libertà di manifestazione del pensiero se le idee espresse appaiono (a un giudice) “idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti”.

La maggior parte delle proposte alternative al Ddl Zan, compresi gli emendamenti dei renziani, si concentrano su questi tre articoli, per sopprimerli o riformularli. Sull’articolo 1 si osserva, anche da parte di autorevoli esponenti del mondo femminista, che lasciare al singolo la libertà di definire il proprio genere può determinare conseguenze inique o pericolose per le donne, come quando detenuti maschi pretendono di trasferirsi nei reparti femminili asserendo di sentirsi femmine, o come quando, con la medesima motivazione soggettiva, atleti maschi pretendono di gareggiare con le donne. Per non parlare dell’accaparramento da parte dei maschi dei benefici del welfare riservati alle donne.

Sull’articolo 7 si osserva che, stante che le credenze del mondo LGBT in materia di stereotipi di genere riflettono solo una delle tante possibili visioni del mondo, nulla assicura che la giornata contro l’omotransfobia non si tramuti, in parte o in tutto, in un tentativo di diffondere tali idee, in aperto contrasto con il comma 3 dell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (“I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”.).

Sull’articolo 4, infine, si osserva che l’articolo 21 della Costituzione prevede che l’unico limite alla libertà di espressione sia la contrarietà “al buon costume”, e che è estremamente pericoloso delegare a un giudice la valutazione della pericolosità di un’idea.

Conclusione. Tutte le principali proposte alternative al Ddl Zan, comprese alcune precedentemente formulate da Ivan Scalfarotto e dallo stesso on. Zan, sono altrettanto incisive nella loro capacità di reprimere i crimini d’odio, e molto superiori nella tutela della libertà di espressione e di insegnamento (oltreché nella protezione del mondo femminile).

Non capisco quindi come Renzi e gli esponenti di Italia Viva possano presentare le proposte alternative come “un compromesso” fra la perfezione immacolata del Ddl Zan e la rinuncia ad avere una legge contro l’omotransfobia. No, la realtà è che le proposte alternative, nella misura in cui meglio tutelano la libertà, sono migliori del ddl Zan da qualsiasi punto di vista ci si ponga, eccetto il particolarissimo punto di vista del mondo LGBT, che ha tutto il diritto di difendere e promuovere le sue idee e la sua visione del mondo, ma non ha alcun titolo per imporla a tutti.

Ecco perché mi auguro che, quando proporrà i suoi emendamenti, Renzi la smetta di nascondersi dietro i rischi del voto segreto, che potrebbe affossare “la migliore delle leggi possibili”, e trovi il coraggio per dire forte e chiaro che quel che Italia viva ed altre forze politiche propongono non è un compromesso al ribasso, ma un miglioramento sostanziale del Ddl Zan.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 luglio 2021




Cultura e salute, interessano solo all’opposizione?

Circa un anno fa, era la fine di giugno, mi presi la briga di scrivere che, per salvare il turismo, stavamo facendo ripartire l’epidemia. Il timore che questo sarebbe potuto accadere mi aveva accompagnato fin dai primi di maggio, ossia da quando il governo Conte aveva dato il via alla stagione delle riaperture. Ma per azzardare quella previsione, poi rivelatasi purtroppo esatta, aspettai che i dati indicassero in modo inequivocabile che la curva epidemica stava svoltando.

Oggi la storia si ripete. Come altri studiosi sono stato perplesso di fronte alle riaperture di aprile, ma fino a non molto tempo fa ho continuato a sperare che avessero torto i profeti di sventura, e che il “rischio ragionato” di Draghi, alla fine, si sarebbe rivelato una scelta lungimirante, o quantomeno una scelta non troppo costosa in termini di salute. Arrivati a questo punto, invece, devo purtroppo gettare la spugna, e ripetere il discorso di un anno fa: per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia.

Che cosa mi ha convinto che le cose si stiano mettendo per il verso storto?

Innanzitutto i dati degli altri paesi. Per molti mesi siamo stati rassicurati sull’efficacia dei vaccini, sulla loro capacità di proteggere dalle varianti e di frenare la trasmissione. Ma ormai l’evidenza che mostra che la campagna di vaccinazione non ferma la diffusione del virus è schiacciante: Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna, Portogallo, Danimarca sono tutti più avanti di noi nella campagna vaccinale, ma cionondimeno stanno tutti subendo un’impennata dei casi, con il valore di Rt che supera 1 (e in 5 casi su 6 è già su valori catastrofici). La ragione di questa inversione di tendenza è presto spiegata: tutti questi paesi sono sì ad alta vaccinazione, ma sono anche sopraffatti dalla variante indiana (o delta), che in tutti ha una penetrazione superiore al 40%, e in due casi (presso i primi della classe delle vaccinazioni: Israele e Regno Unito) sfiora il 100%.

Questi dati indicano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche la vaccinazione di massa – pur necessarissima e più che mai auspicabile – non è sufficiente a fermare l’epidemia se si permette alla variante indiana di diffondersi oltre una certa soglia, verosimilmente intorno al 30-35%. L’Italia a quella soglia è piuttosto vicina (secondo l’ultima stima siamo al 28.4%), e infatti accusa i primi segni di cedimento.  Da alcuni giorni il quoziente di positività tende a  salire, mentre il valore di Rt è in crescita da un paio di settimane, e si sta avvicinando pericolosamente al valore soglia 1, che separa la regione di sicurezza (Rt<1) da quella di pericolo (Rt>1).

E non è tutto. Nella prima settimana di luglio gli indicatori di diffusione dell’epidemia (numero di positivi, quoziente di positività) suggeriscono che il numero di persone contagiate sia circa il triplo di un anno fa. Detto altrimenti: non solo l’epidemia è in ripresa, ma la base su cui il contagio si espande è sensibilmente più ampia di quella del luglio scorso.

Difficile sfuggire alla conclusione che se, finora, le cose sono andate abbastanza bene non è solo grazie alla campagna di vaccinazione, che sicuramente ha dato una mano, ma è soprattutto a causa della stagione (vita all’aperto e caldo) e a causa del ritardo con cui la variante delta è penetrata in Italia. Quest’ultimo fattore sta già venendo meno, come mostrano le statistiche sulla penetrazione della variante delta. Quanto alla bella stagione, la situazione resterà stazionaria fino ad agosto, ma invertirà il suo corso a partire da settembre. Pensare che la prosecuzione della campagna di vaccinazione basti ad arginare questi processi è un tantino azzardato. Fatta 100 la popolazione vaccinabile (over 15) Israele è all’85% di persone pienamente vaccinate (e già si vede che non basta), noi siamo appena al 40%, con l’aggravante che nella popolazione vaccinabile il peso degli anziani è in Italia molto maggiore che in Israele.

Rispetto a tutto questo, come si stanno muovendo le nostre autorità politiche e sanitarie? Spiace doverlo dire, ma – vaccini a parte – io vedo un solo elemento di reale discontinuità rispetto alla sciagurata gestione dell’epidemia nell’estate scorsa: Draghi ammette che l’epidemia è tutt’altro che vinta, e il ministro Speranza – per quel che è dato sapere – non sta scrivendo un nuovo libro per lodare il proprio operato.

Per il resto non si può non osservare che stiamo ripetendo esattamente gli errori dell’anno scorso sia nella gestione dell’estate, sia nella preparazione dell’autunno.

Sulla gestione dell’estate impera la leggerezza: porte spalancate al turismo internazionale, forze dell’ordine latitanti, riduzione del numero di test (quasi dimezzato rispetto a marzo), imminente riapertura delle discoteche.

Quanto alla preparazione per l’autunno, dall’agenda del governo paiono sparite, ammesso che vi avessero mai trovato posto, le tre mosse fondamentali che potrebbero rallentare e mitigare la corsa del virus nella stagione fredda: rafforzamento del trasporto locale, messa in sicurezza delle aule scolastiche e universitarie, riorganizzazione della medicina territoriale. E fa una certa impressione constatare che il “governo dei competenti” di tutto questo poco si curi, e che a richiamarlo sui pericoli di una ripresa dell’epidemia in autunno debba essere la “estremista” Giorgia Meloni, a quanto pare – su questo – equipaggiata di maggiore senso di responsabilità, o forse semplicemente di maggiore concretezza.

Perché siamo di nuovo a questo punto? Perché la lezione dell’anno scorso non è stata imparata? Perché le autorità si cullano nell’illusione che i vaccini basteranno a fermare l’epidemia, o a renderne sopportabili le conseguenze?

La risposta credo stia, innanzitutto, in ciò che come italiani (e, in buona parte, come europei) abbiamo dimostrato in questo anno e mezzo di Covid: per noi il turismo, le vacanze, il divertimento, la possibilità di spostarci liberamente e senza controlli sono vitali, irrinunciabili. Per queste cose siamo disposti a pagare un prezzo molto alto in termini di salute, di cultura, di istruzione. Diversamente da altri popoli che – come i giapponesi, i coreani, gli australiani, i neozelandesi –  hanno accettato pesanti limitazioni e sacrifici per combattere la pandemia, noi non siamo disposti a rinunciare alle cose che per noi contano. Certo speriamo che in autunno pochi anziani perdano la vita, e che i nostri ragazzi tornino a scuola in presenza, senza la stramaledetta Dad. Ma se questo risultato, che tutti auspichiamo, ha un costo troppo elevato, allora pazienza: ogni lasciato è perso, quindi cominciamo a prenderci le vacanze (dopotutto ce le meritiamo), poi quando arriverà l’autunno si vedrà. Non possiamo certo fare vacanze di serie B per salvare qualche migliaio di vite umane e per restaurare la scuola di ieri.

Io tutto questo l’anno scorso non l’avevo capito, per questo ingenuamente auspicavo che imitassimo i paesi che l’epidemia l’hanno vinta e, accettando sacrifici tempestivi e temporanei, hanno reso meno drammatico sia il bilancio finale dei morti sia quello delle perdite economiche. Per questo ragionavo come se della salute, della cultura e della scuola importasse davvero molto a tutti, politici e cittadini. Per questo ero incredulo di fronte alla nostra incauta estate, e non mi davo pace di fronte all’inerzia delle autorità politiche e sanitarie.

Invece quest’anno mi è chiaro: salute e scuola sono priorità solo a parole, se ci tenessimo davvero ce ne preoccuperemmo adesso, e gestiremmo l’estate in tutt’altro altro modo. E, poiché questa è la realtà, nessun politico, oggi, può chiedere agli italiani di sopportare dei sacrifici, come ebbe il coraggio di fare Berlinguer nel 1977 per salvare il paese dalla bancarotta economica. Oggi è il tempo del debito (debito “buono”, naturalmente), oggi è il tempo della spesa, oggi è il tempo della ripartenza dell’economia, oggi è il tempo del pass vaccinale, oggi è il tempo del campionato europeo di calcio. Per questo è inutile chiedere che per viaggiare si debba essere pienamente vaccinati, per questo è inutile chiedere di fare controlli veri agli aeroporti, per questo è inutile chiedere di contenere gli assembramenti in strada, allo stadio, in discoteca. E’ inutile perché non siamo pronti, non siamo disposti, abbiamo troppo sofferto, sentiamo di aver diritto a un risarcimento.

E allora?

Allora capisco che i governanti non si suicidino, e non ci chiedano di fare ciò che toglierebbe loro popolarità e consenso. Però una cosa penso che potrebbero farla motu proprio, o sotto la spinta di un’opposizione curiosamente più responsabile dell’esecutivo: porci in condizione di limitare i danni quando l’epidemia riprenderà a correre, e nuove varianti metteranno a dura prova i vaccini.

Perché se, ancora una volta, non si faranno le cose che studiosi e opposizione chiedono di fare sui trasporti, sulla scuola, sui tamponi, sul sequenziamento, sulla medicina di base, l’autunno sarà molto duro. Molto più duro di quel che sarebbe se ci preparassimo in tempo.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 luglio 2021




L’autunno dipende dalla partita varianti-vaccini. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, l’anno scorso di questi tempi ci chiedevamo se il mondo dopo il Covid sarebbe stato lo stesso. Lei che risposta si è dato?
Come molti altri, mi ero augurato che il mondo, ferito dalla pandemia, avrebbe saputo riflettere e imparare qualcosa da una esperienza così drammatica. Nel caso dell’Italia, in particolare, mi ero chiesto se, dopo la pandemia, saremmo rimasti una “società signorile di massa” (il mio libro era uscito pochi mesi prima dello scoppio della pandemia).
A un anno e mezzo dall’inizio della crisi constato invece che questo tipo di riflessione, almeno in Occidente, non ha avuto minimamente luogo, e che anzi siamo impegnatissimi a riportare le lancette dell’orologio esattamente al punto in cui – 18 mesi fa – la festa è improvvisamente finita. Prima del Covid eravamo diventati una società signorile di massa, un anno e mezzo dopo lo siamo ancora di più. Come l’estate scorsa, su tutto domina la volontà di rilanciare il modello di vita precedente, basato sul turismo, le vacanze, i divertimenti di massa, il consumo di tempo libero ovunque divenuto sovrabbondante. Vogliamo essere come prima. Anzi più di prima. Le attività legate alla ristorazione si sono moltiplicate, come possiamo vedere a occhio nudo nelle nostre città con la proliferazione di tavolini e dehor che offrono colazioni, aperitivi, pasti, merende, pizze, focacce, panini, kebab. Nei luoghi di vacanza non si trova più posto, e gli operatori turistici non riescono più a fronteggiare la domanda, anche perché non si trovano abbastanza persone disposte a lavorare.
La ripartenza è diventato il nostro mantra collettivo, che ci ripetiamo e ci sentiamo ripetere.

Questa frenesia da ripartenza non potrebbe essere un fenomeno temporaneo? Un rimbalzo, come direbbero gli economisti. Oppure è qualcosa di strutturale?
Secondo me è strutturale, almeno in Italia e in buona parte dell’Occidente. Nel pre-covid mi chiedevo quali altre società avanzate si sarebbero, poco per volta, trasformate in società signorili di massa. Pensavo alla Francia, alla Spagna, alla Grecia, forse anche al Belgio. Oggi vedo il problema in modo completamente diverso: quasi tutto l’Occidente pare avviato a diventare un immenso lunapark, più o meno contornato da importanti arcipelaghi di duro lavoro, spesso affidato agli immigrati.

Tutte società signorili di massa, dunque?
Io intravedo solo due tipi di eccezioni, fra le società avanzate. Una prima eccezione è costituita dai paesi del Pacifico, sia nell’emisfero settentrionale (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong), sia in quello meridionale (Australia e Nuova Zelanda). Lì la lezione del Covid ha lasciato tracce importanti, in parte durature: chiusura delle frontiere, riduzione della mobilità interna, limitazioni della privacy. Sono società capaci di imparare dall’esperienza, non completamente abbarbicate al proprio modello di sviluppo e ai propri stili di vita.

E la seconda eccezione?
Di questa sono meno sicuro, è solo una congettura. A giudicare però dal modo in cui hanno gestito la pandemia, e da come le cose stanno andando anche adesso, non escludo che i paesi scandinavi, fra i quali includo anche l’Islanda e la Danimarca, possano non evolvere verso il modello iper-consumistico e turismo-centrico dell’Europa e del Nord America. Forse anche aiutate, in questo, dalla tradizione luterana e da una cultura del lavoro ancora forte.

Il lato oscuro di questo iperconsumismo è che si basa sulla leva del debito, privato ma in larga parte pubblico. Ergo sull’assistenzialismo. S’avvera quindi la sua previsione sulla società parassita di massa. Non è preoccupante?
E’ estremamente preoccupante, anche perché nemmeno Draghi ha avuto il coraggio di dire agli italiani la verità: noi il lusso di “seppellire la civiltà del lavoro” (secondo l’efficace formula di Dahrendorf) non possiamo permettercelo. Quando i mercati finanziari rialzeranno la testa, nemmeno super-Mario basterà a evitarci una nuova crisi. Io temo che, alla fine, il ruolo di Draghi non sarà quello di riformare radicalmente il paese, ma semplicemente di assicurare che i soldi che l’Europa ci presta siano spesi in modo dignitoso, e il loro flusso non si interrompa per le nostre negligenze e sciatterie.

Passiamo al lato sanitario dell’epidemia. Continuiamo con l’analogia rispetto all’anno scorso. Il professore Tremonti sostiene che se andiamo a guardare i dati di morti e ospedalizzati, siamo più o meno ai livelli dello scorso anno. Lei che monitora i dati ogni giorno da 16 mesi a questa parte conferma?
Anche se Tremonti ne conclude – pessimisticamente – che stiamo messi come l’anno scorso, e quindi come l’anno scorso avremo delle sorprese in autunno, io penso che Tremonti resti, tutto sommato, ancor troppo ottimista. E’ vero che, se guardiamo i contagi e i decessi, non sembra esservi alcuna differenza apprezzabile fra la situazione di oggi e quella dell’anno scorso.
Ma è ingenuo guardare i contagi, perché il numero di casi diagnosticati è fortemente influenzato dal numero di persone testate, e il numero di persone testate, anziché aumentare (come sarebbe auspicabile), è in costante diminuzione dalla metà di marzo: in 3 mesi e mezzo si è quasi dimezzato.
Ed è ancora più ingenuo guardare il numero di decessi, che sono drasticamente diminuiti essenzialmente grazie alla campagna di vaccinazione, non certo perché il virus circoli di meno che un anno fa. Se vogliamo avere un’idea più realistica della situazione dobbiamo guardare tutti gli indicatori, compresi i ricoverati in terapia intensiva e il quoziente di positività (nuovi casi diagnosticati su 100 persone testate). Ebbene i ricoverati in terapia intensiva del mese di giugno 2021 sono stati il doppio di quelli di giugno 2020. E il quoziente di positività, oggi, è il quadruplo di quello di un anno fa.

Cosa sta facendo il ministero della Salute e il governo per contrastare questa situazione?
Poco, direi, campagna vaccinale a parte. L’unica novità significativa mi pare il tentativo, lodevole ma tardivo, di aumentare i sequenziamenti del virus, ma i risultati per ora sono imbarazzanti. Da un paio di settimane si parla di variante indiana (o variante delta), ma per accorgersi che la variante stava penetrando rapidamente in Italia c’è voluta un’analisi del Financial Times, di cui le nostre autorità sanitarie (e i nostri giornali) si sono accorti con imperdonabile ritardo: negli stessi giorni in cui il FT avvertiva che la variante indiana era ormai sopra il 20% i virologi italiani continuavano a ripetere stancamente le rassicurazioni dell’Istituito Superiore di Sanità, secondo cui la variante era sotto l’1%.

Quali differenze e similitudini fra Draghi e Conte?
Sul piano dell’economia non c’è partita: il governo Conte ha guidato con destrezza e coerenza la trasformazione dell’Italia in una società parassita di massa, con pochi lavoratori veri e un esercito di sussidiati; il governo Draghi sta tentando, timidamente e quando è ormai troppo tardi, di rimuovere alcuni dei tasselli dell’edificio assistenziale eretto del suo predecessore (su tutti: reddito di cittadinanza e blocco dei licenziamenti).
Sul piano sanitario, la differenza fondamentale è che il messaggio estivo di Conte era “stiamo vincendo la guerra contro il virus, siamo i migliori al mondo”, mentre il messaggio di Draghi è “l’epidemia non è finita, ci diamo da fare come gli altri paesi europei”. Ma, al di là di questo, vedo tantissima continuità: discoteche aperte, vacanze a tutto spiano, porti e aeroporti spalancati al turismo internazionale, forze dell’ordine in sordina. E in più: il campionato europeo di calcio.
Ma quel che mi preoccupa di più non è il fatto che Draghi stia facendo le stesse cose di Conte, ma il fatto che, esattamente come Conte, non stia facendo nulla, o quasi nulla, di ciò che andrebbe fatto se vogliamo evitare che la stagione fredda ci trovi ancora una volta impreparati.

Che cosa andrebbe fatto?
Tante cose, su cui la maggior parte della stampa tace, e solo l’opposizione prova a dire qualcosa. Indico solo le più importanti: triplicare il numero di soggetti testati con i tamponi molecolari; impianti di purificazione dell’aria in tutte le aule (a scuola e all’università); sostanziale rafforzamento del sistema dei trasporti urbani; riorganizzazione della medicina territoriale, anche in vista della campagna di rivaccinazione.

Insomma, Draghi immobile come Conte?
Sul piano sanitario sì, vaccini a parte. Quel che è diverso è soltanto che Conte stava fermo perché credeva che l’epidemia fosse in ritirata, mentre Draghi sta fermo perché crede che i vaccini gli toglieranno le castagne dal fuoco.

La vaccinazione non è uno scudo che ci protegge adeguatamente? L’Ema sostiene che tutti e 4 i vaccini, dopo la seconda dose, ci proteggono dalla variante Delta.
Supponiamo per un attimo che sia vero, e che chi si vaccina in modo completo non contragga il virus, non si ammali e non muoia (in realtà è falso, uno studio inglese recente ha dimostrato che, fra i morti con la variante delta, circa il 30% avevano ricevuto la seconda dose da almeno 14 giorni). Resta il fatto che difficilmente la percentuale di persone vaccinate supererà il 70% (in Israele, campione di vaccinazioni, è ferma in prossimità del 60% da ben due mesi). E nel gruppo dei non vaccinati, o dei vaccinati con una sola dose, non vi sono solo bambini, ragazzi, giovani adulti, ma anche anziani che non vogliono o non possono vaccinarsi.
Senza contare il problema delle rivaccinazioni: nel suo ultimo libro (Caccia al virus, Donzelli Editore) Andrea Crisanti solleva dubbi sulla capacità del sistema sanitario nazionale di assicurare, senza ridurre drasticamente la sua operatività, 50 milioni di vaccinazioni all’anno.

Sono tanti i virologi che sostengono che con i vaccini anche la più contagiosa variante Delta alla fine provocherà sintomi simili al raffreddore o all’influenza. Questa tesi non la convince?
Non sono un medico, né un virologo, né un microbiologo, né un infettivologo, quindi non ho gli strumenti per sostenere una tesi diversa. Però so distinguere fra una speranza e un risultato scientifico, basato su un un’evidenza empirica: e quella della riduzione a mero raffreddore o influenza è solo una speranza, nessuno sa quanto realistica.

Quindi le ragioni dell’economia e del turismo faranno ripartire il virus, come lei ha purtroppo previsto l’anno scorso a giugno proprio in un’intervista all’HuffPost?
L’anno scorso ero piuttosto sicuro della mia previsione, perché c’erano dati sufficienti per effettuare calcoli attendibili. Oggi fare una previsione robusta è impossibile…

Come mai ieri si poteva e oggi no?
L’estate scorsa non erano ancora comparse le due incognite fondamentali che rendono incerta qualsiasi profezia oggi: la nascita di nuove varianti, molto più contagiose e/o virulente, e il successo della campagna vaccinale. Se non vi fossero queste due incognite, e stante l’inerzia del governo sulla preparazione alla stagione fredda, mi sentirei di ripetere la profezia dell’anno scorso: per salvare il turismo, stiamo rilanciando l’epidemia.
Ma le due incognite ci sono, e giocano a braccio di ferro tra loro. La campagna vaccinale frena la circolazione del virus, la nascita di nuove varianti la accelera. Chi possa risultare vincitore in questo braccio di ferro nessuno può saperlo. Quel che sappiamo, però, è che se la sfida fra vaccini e varianti dovesse finire in un pareggio, ovvero se le due forze si dovessero elidere a vicenda, allora saremmo fritti.

Perché mai?
E’ molto semplice. Oggi, superficialmente, la situazione è simile a quella di un anno fa, salvo i vaccini e le varianti. Stesso numero di casi, stesso numero di morti. Dunque, se vaccini e varianti si elidono, e nulla si fa per preparare il rientro dalle vacanze, quel che ci potrebbe aspettare è uno scenario non troppo dissimile da quello dell’anno scorso, anche se – verosimilmente – con un mix diverso: più infetti, a causa delle varianti, meno morti, grazie ai vaccini (secondo Mario Menichella, che ha provato a fare i conti: non più di 60 mila morti).
Questo significa che la scommessa del governo è un po’ azzardata: l’autunno e l’inverno potranno essere sensibilmente migliori di quelli scorsi solo se il braccio di ferro fra vaccini e varianti fosse vinto dai vaccini. Il che è possibile, ma tutt’altro che certo.

Ma non si può proprio capire chi è più forte fra la variante delta e i vaccini?
No, non si può capire con i dati che abbiamo al momento. Però una cosa possiamo farla, e certamente la faremo nei prossimi mesi come Fondazione Hume: studiare come evolve l’epidemia nei paesi in cui la variante delta è divenuta dominate, come il Regno Unito, il Portogallo, Israele, gli Stati Uniti. Quel che possiamo dire fin d’ora è che in tali paesi il contagio ha preso a galoppare, con valori di Rt sempre maggiori di 1, ma il numero dei decessi giornalieri – fortunatamente – non presenta ancora una dinamica preoccupante. In breve: la variante delta pare in grado di accelerare la circolazione del virus, anche a dispetto dei vaccini (in tutti e 4 i paesi considerati la campagna di vaccinazione è più avanti che in Italia), ma per ora non sembra produrre effetti apprezzabili sulla mortalità.

La politica è condannata a essere impotente? O qualcosa ancora si può fare? Ci si può mettere contro la spinta della società signorile di massa?
Diciamolo chiaramente: la società italiana è diventata una società signorile di massa e, dopo un anno di Covid, ha mostrato nel modo più chiaro possibile che intende restarlo, a costo di trasformarsi – più o meno lentamente – in una società parassita di massa, meno ricca e spensierata di quello che oggi riesce ancora ad essere.
Rispetto a tutto questo la politica, qualunque politica, e chiunque ci governi, non può nulla. Non perché non si possa gestire diversamente un’epidemia – altrove è stato fatto – ma perché, nelle democrazie, la politica fa ciò che la società le consente di fare. Può fare più o meno bene, massimizzare i danni o minimizzarli, ma sempre entro i limiti che la cultura e la mentalità di un determinato popolo le consentono.
E, anche questo converrà ammetterlo, i limiti che la cultura e la mentalità degli italiani pongono all’azione della politica sono piuttosto stretti. Draghi o non Draghi.

Intervista rilasciata a Gianni Del Vecchio, HuffPost, il 3 luglio 2021