Verso una società parassita di massa?

Da qualche tempo le spinte per l’abolizione o la modifica del reddito di cittadinanza si stanno moltiplicando. Contro il reddito di cittadinanza è da sempre schierata la destra, ma recentemente il reddito è stato attaccato anche dal partito di Renzi, che intende promuovere un referendum per la sua abolizione. Sulla necessità di modificarlo ormai convengono tutti (persino i Cinque Stelle), si tratterà solo di vedere come, quanto e quando.

Le critiche al reddito di cittadinanza sono numerosissime, e tutte vecchiotte: troppe truffe, specie da parte di beneficiari stranieri (che talora nemmeno abitano in Italia); flop dei navigator, incapaci di offrire occasioni di lavoro a un numero adeguato di richiedenti; mancata applicazione delle norme che prevedevano di impiegare i beneficiari in opere di pubblica utilità; ritiro dal mercato del lavoro dei percettori dell’assegno.

Quest’ultima è la critica più frequente, sistematicamente ripresa dai media e non solo. In una recente intervista, l’imprenditore Flavio Briatore è arrivato ad affermare che ormai “non c’è alcun giovane che ha voglia di lavorare durante la stagione estiva’’ e che ‘‘il governo doveva sospendere il reddito da maggio a ottobre” dando “la possibilità ai giovani di fare la stagione”.

E sono innumerevoli le testimonianze di imprenditori, esercenti, datori di lavoro in genere che, da tempo, denunciano la difficoltà di trovare camerieri, bagnini, cuochi, commessi, operai, informatici, meccanici, autisti, e ogni sorta di altri tipi di lavoratori, a causa del reddito di cittadinanza. Il meccanismo è chiaro: se l’assunzione è regolare, si perde automaticamente il reddito di cittadinanza, se è irregolare si rischia di perderlo in caso di controlli. Il risultato è il medesimo: una carenza di manodopera.

Sono sempre stato contrario al reddito di cittadinanza di marca grillina, e non proverò certo a difenderlo in questa sede. Voglio però sollevare un interrogativo: siamo sicuri che il grosso del problema della mancanza di manodopera stia nel reddito di cittadinanza?

Io temo di no. Guardiamo alla società italiana come era prima del reddito di cittadinanza e subito prima del Covid. Ebbene, già allora la società italiana era diventata una “società signorile di massa”, con un numero spropositato di persone – giovani e meno giovani – che si potevano permettere il lusso di consumare senza lavorare. Fra le società avanzate, già allora l’Italia (insieme alla Grecia) deteneva il record per numero di adulti inoccupati e per numero di Neet (sigla che indica i giovani che non lavorano, non studiano, né stanno seguendo un training). Già allora gli imprenditori denunciavano drammatiche carenze di manodopera specializzata e di tecnici. Già allora il tempo di lavoro era diventato, nella vita della maggior parte delle persone, una quota molto ridotta del tempo di vita, a tutto beneficio dello svago, della navigazione su internet, delle vacanze, della cura di sé, e più in generale delle attività del tempo libero. Già allora, grazie alle riforme del mercato del lavoro intervenute dopo la drammatica crisi del 2008-2011, era enormemente cresciuto il numero di percettori di sussidi. Già allora, anche nelle regioni del Nord, si erano affermati modelli di permanenza sul mercato del lavoro fondati su varie miscele di lavoro regolare, lavoro irregolare e sussidi vari. Già allora, in molte situazioni, i salari erano molto bassi, o erogati in nero, e i giovani dotati di più talento, intraprendenza e risorse familiari prendevano la via dell’emigrazione.

Insomma, rispetto a tutto questo, il Covid e il reddito di cittadinanza si sono limitati a esasperare fenomeni ampiamente presenti già prima. Durante il Covid sono stati distrutti 1 milione di posti di lavoro, ma a dispetto di ciò il numero di persone che cercano un lavoro anziché aumentare è diminuito, peraltro proseguendo un trend già in atto prima del Covid. In compenso, il numero di persone che usufruiscono di sussidi di vario tipo (disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, pensione di cittadinanza, eccetera) è letteralmente esploso. Di questa esplosione il reddito di cittadinanza è solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante.

Possiamo riassumere dicendo: in Italia è crollato il numero di persone pronte a lavorare, e si sono moltiplicati gli strumenti che, come il reddito di cittadinanza, disincentivano la ricerca di lavoro. L’Italia sta diventando una società parassita di massa, in cui una minoranza iperattiva, e talora supersfruttata, assume su di sé il carico di produrre ricchezza, mentre la maggioranza consuma senza partecipare direttamente alla produzione del reddito, e dipende sempre più dall’assistenza pubblica e dalla benevolenza dei familiari occupati.

E’ un problema, o possiamo perseverare serenamente su questa strada come abbiamo fatto negli ultimi 20 anni?

Sì, è un problema, perché la mancanza di forza lavoro fa sì che l’economia cresca largamente al di sotto del suo potenziale, e questo, con la montagna di debiti che stiamo contraendo, non possiamo più permettercelo. Ma è precisamente questo che è successo quest’anno, e si è accentuato durante l’estate: a una domanda turistica strabordante, indotta dalla crescita del turismo interno e dal desiderio di auto-risarcimento degli italiani dopo il Covid, i datori di lavoro sono riusciti a far fronte solo in parte perché non ci sono abbastanza persone disposte a lavorare alle condizioni offerte dal mercato (non di rado umilianti) e in presenza di una selva di disincentivi al lavoro. Una strozzatura che si è aggiunta ai numerosi problemi storici del mercato del lavoro italiano: la quasi totale assenza delle politiche attive, l’ostilità dei giovani al lavoro manuale e alle professioni tecniche, il ridotto numero di laureati (specie fra i maschi), la diffusione del lavoro nero, il basso livello dei salari e della produttività.

In queste condizioni, anche l’eventuale soppressione o ridimensionamento del reddito di cittadinanza, pur auspicabile come misura elementare di buon senso, rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 settembre 2021




Verso la terza dose?

Nell’estate scorsa, in Italia, il Covid pareva quasi sconfitto. Conte faceva il pavone, il ministro Speranza scriveva il suo libro autocelebrativo (Perché guariremo), Zangrillo assicurava che il virus era “clinicamente morto”. Si è visto poi, appena riaperte le scuole, che quella estiva era stata solo una tregua, e il virus era tutt’altro che morto.

E oggi?

Oggi le cose sono profondamente cambiate, non solo in Italia. La variante delta, 2-3 volte più contagiosa del virus originario, ha reso la lotta alla pandemia molto più difficile. Nello stesso tempo, fortunatamente, la campagna di vaccinazione l’ha resa più facile.

Ma qual è il saldo finale?

Sfortunatamente è negativo: nella maggior parte dei paesi, la variante delta si rivela più forte del vaccino. Non già nel senso che il vaccino non funzioni contro di essa, ma nel senso che non basta. E’ un timore che avevo espresso diversi mesi fa, ma oggi quel timore è purtroppo divenuto una certezza: a dispetto del vaccino, i contagi, le ospedalizzazioni e i decessi di questa estate sono maggiori di quelli dell’estate scorsa non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate, con poche eccezioni. In breve: ci apprestiamo ad archiviare le vacanze estive in condizioni peggiori di quelle dell’anno scorso.

Come è stato possibile? Perché la vaccinazione di massa non è stata sufficiente a far arretrare l’epidemia?

Se diamo un’occhiata alla mappa del contagio nelle società avanzate, non è difficile rendersi conto che, in questa estate almeno, un fattore cruciale è stata la vocazione turistica di ogni paese. In questo momento l’epidemia galoppa nei paesi ad alto impatto turistico, come Spagna, Francia, Italia, Grecia, Croazia, mentre è ai minimi, talora addirittura al di sotto dei livelli dell’estate scorsa, nella maggior parte dei paesi (relativamente) meno attrattivi: non solo i paesi ex comunisti come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, ma anche i paesi scandinavi e dell’area germanica. Si conferma così una verità difficile da digerire, specie per un paese come il nostro: il turismo internazionale è un potente moltiplicatore della circolazione del virus.

Se guardiamo più attentamente le cose, però, non possiamo non notare alcune anomalie, talora piccole, altre volte macroscopiche. C’è il caso dell’Islanda, che ha vaccinato quasi tutti e ciononostante è alle prese con un’esplosione del contagio. Anche in questo caso la spiegazione, verosimilmente, è l’apertura al turismo: l’epidemia è esplosa solo quando (fine giugno), per sfruttare la stagione turistica, il paese ha deciso di abolire tutte le misure di distanziamento e di autoprotezione, fidando esclusivamente nella vaccinazione: nel giro di pochissime settimane i casi sono passati da meno di 10 al giorno a più di 300, ossia 1 ogni mille abitanti (è come se noi ne avessimo 60 mila al giorno).

Ma ci sono anche tre anomalie macroscopiche: Israele, Regno Unito, Stati Uniti. Questi tre paesi sono stati i pionieri delle vaccinazioni, ma sono tutti e tre in grave difficoltà. Come mai?

La risposta che si sta facendo strada è: forse sono nei guai proprio perché sono partiti prima con le vaccinazioni. Il sospetto si è consolidato nelle ultime settimane quando diversi studi hanno mostrato che le persone vaccinate più precocemente (diciamo tra dicembre 2020 e febbraio-marzo 2021) presentavano un rischio di infezione sensibilmente più alto delle persone vaccinate più tardi. Questa osservazione, accoppiata con la scoperta di una rapida diminuzione degli anticorpi dopo il quarto mese dalla seconda dose, ha portato alla ribalta l’idea di procedere subito (fin da settembre) alla somministrazione di una terza dose di vaccino non solo ai soggetti più fragili o immunodepressi, ma anche a tutti gli altri, o perlomeno agli anziani.

E’ fondata l’ipotesi che sia opportuna una terza dose? E soprattutto: a partire da quando? E con quale vaccino?

La risposta spetta prevalentemente alle autorità sanitarie, che finora appaiono dubbiose e divise. E, stranamente, non hanno ancora risposto a una domanda fondamentale: come mai è evaporata la promessa di produrre vaccini a mRNA “riprogrammabili”, ossia rapidamente adattabili alle varianti che via via emergono? (a quel che si sa, solo ora Pfizer e Moderna stanno provando a sviluppare vaccini mirati sulla variante delta).

Quel che posso dire, come statistico, è solo che le evidenze empiriche provenienti dagli studi condotti in Israele, Regno Unito e Stati Uniti sono decisamente convincenti sul fatto che la protezione dal rischio di infettarsi diminuisca rapidamente (e non di poco) a partire da 4-5 mesi dalla seconda dose, ma sono ancora incerte per quanto riguarda l’entità precisa di tale diminuzione. Troppi, infatti, sono i fattori che possono distorcere le stime quando si lavora con dati osservativi (anziché sperimentali, come negli studi clinici randomizzati). I soggetti vaccinati per primi, ad esempio, sono diversi da quelli vaccinati successivamente non solo per le loro condizioni di salute e di esposizione al rischio, ma anche per il tipo di variante con cui hanno dovuto fare i conti (a gennaio dominava la alpha, da giugno domina la delta). Se non si vuole incorrere in clamorosi fraintendimenti dei dati (come è capitato di recente all’ingenuo Cacciari), occorre leggere con estrema cautela le stime sul crollo di efficacia dei vaccini dopo il quarto mese, e distinguere accuratamente l’efficacia rispetto all’infezione, il cui deterioramento è più marcato, e l’efficacia rispetto a malattia grave, ospedalizzazione e decesso, il cui deterioramento – fortunatamente – è molto meno ampio.

Quel che è certo, invece, è che la percentuale di copertura vaccinale (vaccinati con seconda dose rispetto alla popolazione vaccinabile), statistica spesso usata per dire quanto un paese è protetto, sta diventando una misura sempre più fuorviante. Un paese può aver vaccinato l’85% della sua popolazione vaccinabile (che sembra un’ottima percentuale), ma può essere gravemente scoperto perché la popolazione non vaccinabile è molto ampia, o perché troppi vaccinati stanno perdendo la protezione del vaccino, o per entrambi i motivi (è il caso di Israele, paese giovane, e che ha iniziato a vaccinare prima di altri). In altre parole: il tasso di protezione di un paese non è dato dalla quota di popolazione vaccinabile raggiunta con la seconda dose, ma dalla quota di popolazione totale (vaccinabile e non) che non solo è stata doppiamente vaccinata, ma non ha ancora gravemente compromesso il proprio grado di protezione.

Da questo punto di vista l’Italia è, per ora, in una posizione di vantaggio rispetto ad altri paesi: abbiamo pochissimi giovani, e abbiamo pochi vaccinati precoci (potremmo, ironicamente, chiamarlo “paradosso Arcuri”). E’ probabilmente questa la ragione per cui, rispetto agli altri paesi ad alto turismo, l’Italia ha oggi una situazione un po’ meno compromessa.

Quindi la domanda diventa: vogliamo metterci rapidamente in condizione di mantenere e accrescere il nostro grado di protezione, o preferiamo cullarci nell’illusione che i vaccini mantengano a lungo la loro efficacia?

Nel primo caso, la strada è inevitabilmente quella di iniziare molto presto a somministrare terze dosi, come già stanno facendo o si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e vari altri paesi. Nel secondo caso la strada è quella su cui si sta orientando in questi giorni il Governo: somministrare le terze dosi solo ad una piccola parte della popolazione e, per gli altri, stabilire per legge che l’efficacia del vaccino dura 12 mesi (anziché 9 come si credeva, o 6 come suggeriscono le analisi più recenti).

Temo che, come quasi sempre abbiamo fatto in passato, anche questa volta troveremo più comodo cambiare le soglie di pericolo, piuttosto che limitare in modo effettivo i pericoli: cambiare la scadenza del Green Pass è più facile, e forse più popolare, che organizzare una campagna di rivaccinazione di massa.

 

Pubblicato su Il Messaggero del 28 agosto 2021




Rave party, perché le istituzioni stanno a guardare

Il rave party che, nel comune di Valentano, ha devastato un’azienda agricola, provocato un morto, danneggiato le attività turistiche, messo a repentaglio la salute pubblica, ha giustamente sollevato parecchi interrogativi. Perché il Ministero dell’interno non ne sapeva nulla? Perché, una volta occupata illegalmente l’area, le forze dell’ordine hanno atteso ben cinque giorni prima di intervenire? Perché in Francia (il paese a partire dal quale vengono organizzati la maggior parte dei rave) la legge punisce i rave, mentre in Italia la Corte Costituzionale (con sentenza del 21 luglio 2017) ha ribadito che l’articolo 17 della Costituzione li tutela in quanto manifestazioni della libertà di riunione?

Sono domande giuste e naturali, ma possono anche essere fuorvianti. Se ci facciamo solo questo genere di domande, rischiamo di non cogliere l’aspetto più inquietante di questa vicenda. Che non è che le autorità abbiano chiuso un occhio in questa particolare circostanza, ma che lo stiano facendo sistematicamente da almeno 15 mesi, ossia da quando – nel maggio dell’anno scorso – è terminato l’unico vero lockdown, quello di marzo e aprile 2020.

Da allora la linea è sempre stata la medesima: emettere ogni sorta di obbligo e divieto, e farne rispettare solo alcuni.

Quali?

Fondamentalmente quelli che gravano sul settore privato: bar, ristoranti, palestre, parchi, esercizi commerciali, aziende. Quanto agli altri, che competerebbero all’autorità pubblica, nada de nada: nessun intervento incisivo sull’edilizia scolastica, nessun intervento sul trasporto locale, nessuna sorveglianza sugli assembramenti da movida, festeggiamenti calcistici, discoteche abusive, affollamenti vari sui traghetti, nelle isole, nei luoghi di vacanza. In breve: si è scelto di chiudere un occhio.

Di qui alcune conseguenze, tutte prevedibili. La gente ha capito subito che alcune regole erano grida manzoniane, che si potevano tranquillamente ignorare visto che nessuna autorità si prendeva la briga di farle rispettare. Nel nostro paese, come ha notato Carlo Nordio nei giorni scorsi, è montato un sentimento di ingiustizia, una frattura fra quanti sono costretti all’osservanza scrupolosa delle norme e quanti le possono impunemente trasgredire. E infine, conseguenza capitale, l’inerzia delle autorità politico-sanitarie ha confezionato una bomba a orologeria ad alto potenziale, pronta a deflagrare in autunno.

Poiché non a tutti è chiaro come tale bomba sanitaria sia stata predisposta, mi soffermo brevemente sull’aritmetica dell’epidemia. In un anno, ossia fra l’estate scorsa e oggi, il tasso di letalità del Covid si è ridotto di un fattore 4, grazie all’efficacia dei vaccini nel prevenire ospedalizzazione e decesso; ma il numero di contagiati è aumentato di circa 12 volte, grazie alla scelta politica di puntare sul green pass e chiudere un occhio sul rispetto delle regole. Il combinato disposto di questi due input è la triplicazione del tasso di mortalità: se oggi i morti per abitante sono 3 volte quelli di un anno fa è perché il freno dei vaccini (1/4 di letalità) è stato annullato e sovrastato dall’acceleratore del contagio (cresciuti di 12 volte). Né le cose vanno meglio se ragioniamo sul numero dei ricoveri ospedalieri o sulle terapie intensive, che nel giro di un anno sono circa quadruplicati.

Perché dico che quella che ci hanno preparato è una bomba a orologeria?

La ragione è semplice. Nell’autunno scorso, il disastro è stato innescato dal triplice impulso del rientro dalle vacanze, della ripresa del lavoro, del ritorno a scuola (e verosimilmente pure dall’appuntamento elettorale). Oggi siamo più preparati di allora a fronteggiare il disastro perché 1 italiano su 3 è vaccinato, ma in compenso l’onda che ci travolgerà è molto più alta (circa 12 volte più alta!) perché il virus circola molto di più. E’ come se allora fossimo stati sorpresi da una mareggiata, e oggi ci sentissimo più sicuri perché ci hanno dato un salvagente, e non volessimo capire che quel che è in arrivo è uno tsunami, non una mareggiata.

E qui torniamo alla domanda delle domande: perché non lo vogliamo capire? O meglio: perché chi ci governa ha scelto di non dircelo, e di lasciar correre il virus?

Temo che la risposta sia la stessa che si deve dare alla domanda sul rave di Valentano e sulle innumerevoli altre violazioni su cui, specie in questi mesi estivi, si è scientemente preferito lasciar correre. Ed è una risposta di natura sociologica o, se preferite, di natura storico-antropologica.

Nelle nostre società, ricche e arrivate, il divertimento, la vacanza, l’evasione, il rito dell’aperitivo sono assurti – nella coscienza dei cittadini, non meno che in quella dei governanti – a diritti fondamentali e inviolabili della persona. Nel caso dei giovani, categoria che ormai si prolunga ben oltre il traguardo della maggiore età, questo diritto fondamentale si arricchisce dell’ulteriore diritto a consumare il divertimento in massa, in forme più o meno sfrenate, di cui il ballo e i suoi annessi (alcol e sostanze) sono le manifestazioni più tipiche. Può succedere così che, in tv, una ragazzina milanese di 10 anni affermi, seriamente e senza un filo di ironia, che non andare al ristorante per ben due mesi “è stato terribile”, come se avesse subito un’aggressione o uno stupro. E che decine e decine di giovani intervistati sfilino ogni sera in tv a spiegarci che sì, lo sanno perfettamente che ballare è pericoloso e proibito, ma che loro no, proprio non possono farne a meno, dopo mesi di chiusure, limitazioni, sofferenze inenarrabili.

Eppure dovrebbero sapere che, nella storia dell’umanità e delle civiltà, non è mai esistita una generazione di giovani con tanti privilegi come quelli goduti da quella attuale. Buona parte dei loro padri, nonni e bisnonni dovevano andare in guerra, o iniziavano a lavorare a 14 anni,  non avevano alcuna “paghetta”, né le innumerevoli protezioni, esenzioni e facilitazioni che genitori e insegnanti di oggi riservano a ragazzi e ragazze. In un mondo normale, gli adulti glielo ricorderebbero, e la classe dirigente non spenderebbe il suo tempo a compatirli e a descriverne le indicibili sofferenze. Qualcuno troverebbe il coraggio di spiegare che sì, per tutti è stato ed è difficile, ma certi comportamenti, di cui il rave di Valentano è solo l’esempio più eclatante, hanno un costo tragico in termini di vite umane sacrificate. E che è esistito un tempo, neanche poi così remoto, in cui la maggioranza dei giovani era in grado di divertirsi e corteggiare senza sballarsi.

Quel tempo è finito, ma con esso è finito anche il tempo della solidarietà, una parola vuota che ha perso ogni concretezza e riferimento al mondo reale. Se solidarietà e spirito civico avessero ancora un posto nelle nostre vite, il rispetto delle elementari regole di prudenza sarebbe la norma, i nostri governanti e i media la smetterebbero di adularci (“durante il Covid gli italiani si sono comportati molto bene”), le violazioni delle regole sarebbero sanzionate con prontezza e severità. E forse, in questi giorni, anziché assistere a surreali dibattiti sulla crudeltà del Green pass e l’inaccettabile chiusura delle discoteche, vedremmo fiumi di ragazzi e ragazze, legioni di femministe, cortei di militanti LGBT, sfilare uniti a sostegno delle vittime delle violenze islamiche in Afghanistan. Una tragedia troppo lontana e vera per suscitare qualche emozione in una società arrivata.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 agosto 2021




La prova di autunno

L’evoluzione dell’epidemia nelle ultime settimane riserva molte buone notizie, e altrettante cattive. E’ una situazione ideale per il cosiddetto cherry picking, che consiste nel selezionare solo i dati che supportano la posizione che si intende difendere: se vuoi rassicurare, selezioni solo le buone notizie, se vuoi terrorizzare solo quelle cattive.

Proviamo invece a non fare cherry picking, e a riferire sia le buone sia le cattive notizie, cominciando dalle buone.

La notizia più importante è che, fra le società avanzate (e in particolare nell’Unione Europea),  l’Italia è in questo momento uno dei paesi in cui il tasso di mortalità è più basso. Fra i grandi paesi con istituzioni occidentali fanno meglio dell’Italia solo Giappone, Australia e Canada, la Germania è pressappoco alla pari, mentre fanno decisamente peggio Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Israele. La circostanza interessante è che Israele, Regno Unito e Spagna hanno vaccinato più di noi, e cionondimeno hanno un tasso di mortalità più alto, nonché una dinamica della mortalità più preoccupante. Difficile spiegare perché, ma il minimo che si possa dire è che, evidentemente, vaccinare a tappeto può non essere sufficiente. Una conclusione supportata anche da un altro caso, piccolo ma significativo: l’Islanda ha vaccinato quasi tutta la popolazione vaccinabile (più ancora di Israele), ma questo non le ha impedito di registrare un’impennata dei nuovi casi non appena – a fine giugno –  ha deciso di riaprire le frontiere al turismo.

C’è anche un’altra buona notizia: il tasso di letalità del Covid (rischio di morire se contagiati) è diminuito sensibilmente rispetto all’anno scorso. Impossibile, con i dati disponibili, stabilire esattamente di quanto, ma è verosimile che la diminuzione sia almeno in parte imputabile ai vaccini (una parte della diminuzione è invece dovuta, banalmente, all’abbassamento dell’età mediana dei contagiati).

Le buone notizie importanti, però, si fermano qui, mentre quelle cattive abbondano.

La prima è che in questa estate la percentuale di persone contagiate, anche tenendo conto del diverso numero di tamponi, risulta molto più alta di quella dell’estate scorsa. Ciò è dovuto, innanzitutto, alle condizioni di riapertura: quando, a maggio, abbiamo riaperto le attività, il numero di contagiati era almeno 5 volte più alto che nel maggio 2020. Di qui una curva epidemica 2021 costantemente più alta di quella del 2020. In concreto ciò ha comportato una sorta di lotta fra le due forze fondamentali che governano l’epidemia: la probabilità di contrarre il virus, molto più elevata che l’anno scorso, e la probabilità di morire una volta contratto il virus (letalità), in discesa grazie ai vaccini.

Ma chi ha vinto?

Purtroppo ha vinto la probabilità di contrarre il virus, che è aumentata più di quanto sia diminuito il tasso di letalità. Noi oggi abbiamo un numero di morti giornaliero che è il triplo di quello di un anno fa, e un numero di ricoverati in terapia intensiva che è addirittura il sestuplo. Certo, qualcuno può provare a rassicurarci dicendo che a morire o finire in terapia intensiva sono prevalentemente i non vaccinati, ma resta il fatto che oggi – a dispetto dei vaccini – si muore molto di più che un anno fa.

La ragione di fondo è che il vaccino, pur efficace nel mitigare il decorso della malattia, non lo è a sufficienza nel limitare il contagio in presenza di una variante ad alta trasmissibilità come la variante indiana (o delta), massicciamente presente in Italia. E, se il numero di contagiati aumenta a ritmi insostenibili come quelli delle ultime settimane (Rt=1.5), anche il numero di decessi è destinato a riprendere la sua corsa, come del resto già si vede dai dati degli ultimi giorni.

Che succederà?

Quello che possiamo dire con ragionevole certezza è che, di qui all’inizio dell’autunno, le principali condizioni che determinano la dinamica dell’epidemia saranno in peggioramento. Il rientro dalle ferie infatti comporta, in successione: minore tempo trascorso all’aperto, trasmissione del virus dai giovani (per lo più asintomatici) agli adulti e agli anziani, maggiori possibilità di contagio a scuola e sui mezzi pubblici, per tacere dei rischi dell’appuntamento elettorale (3-4 ottobre). In breve: l’unica forza in contro-tendenza sarà il completamento della campagna vaccinale.

Così stando le cose è facile prevedere che, ancora una volta, la politica si troverà costretta a ricorrere a chiusure delle attività economiche, limitazioni della mobilità, didattica a distanza. In altre parole: l’ennesimo sacrificio sarà richiesto ai cittadini, e in particolare al settore privato.

Si sarebbe potuto evitare?

Forse sì, ma solo con una politica radicalmente diversa. La politica attuata da entrambi i governi che hanno gestito l’epidemia è stata basata su due pilastri: lasciar correre il virus finché gli ospedali sono vicini al collasso, scaricare sul settore privato i costi dell’aggiustamento. Ma con questi pilastri, domare l’epidemia è semplicemente impossibile, e salvare l’economia diventa difficile.

Il vero problema, infatti, è che cosa succede nella stagione fredda, quando la circolazione del virus non è più frenata dalla vita all’aperto. Non è detto che basterebbe, ma stupisce che quasi nulla si sia fatto per garantire la purificazione dell’aria nelle scuole, per diminuire gli assembramenti sui mezzi pubblici, per coinvolgere i medici di base nella gestione dei malati Covid. Eppure qualcosa si poteva fare, sia l’anno scorso che quest’anno, pensandoci in tempo. Se si fosse fatto qualcosa, i sacrifici richiesti ai lavoratori autonomi e al mondo della scuola sarebbero stati molto minori, e ora potremmo affrontare il rientro dalle vacanze con maggiore tranquillità.

Come mai quasi nulla è stato fatto, nonostante le proposte cruciali su scuola, trasporti e cure domiciliari siano state ripetutamente avanzate sia dagli studiosi, sia dall’opposizione parlamentare?

E’ una domanda alla quale non so fornire una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 agosto 2021




Green Pass, la discriminazione non c’entra

Negli Stati Uniti, da qualche anno, l’accusa di “discriminazione” è divenuta ricorrente, onnipresente, ma soprattutto pervasiva. Di discriminazione si parla ormai sempre più sovente non solo per denunciare trattamenti differenziati in funzione di razza e genere, ma per segnalare qualsiasi disuguaglianza, indipendentemente dai meccanismi che l’hanno prodotta. Quanto all’Europa, la parola discriminazione è improvvisamente venuta alla ribalta nelle settimane scorse in relazione all’obbligo vaccinale (per determinate categorie, come medici e docenti) e al green pass come condizione di accesso a determinati servizi e attività fondamentali (come spostarsi o assistere a una lezione).

Ma che cosa è un atto discriminatorio? E che cosa non può essere ragionevolmente considerato un atto discriminatorio?

Nella tradizione delle scienze sociali il prototipo della discriminazione è l’esclusione, o la penalizzazione, di qualcuno in base a un carattere ascritto, come l’essere di un certo genere o di una certa etnia (non ti assumo perché sei nero, non ti promuovo perché sei donna, eccetera).

Per estensione, si parla di discriminazione quando l’esclusione o la penalizzazione sono semplicemente arbitrarie, ossia non giustificate dal gioco che si sta giocando. In questa accezione più ampia, non occorre che a determinare la esclusione o la penalizzazione sia un carattere ascritto, che il soggetto non può cambiare (genere, etnia, luogo di nascita, eccetera), ma basta che la base della discriminazione sia non pertinente: in un esame di stato da avvocato conta la preparazione, non può contare il fatto che il candidato sia vestito in modo casual o classico, sia gay o eterosessuale, sia bello o sia brutto.

Analogamente, non si può parlare di discriminazione se chi non ha la patente non può guidare un’auto, se un atleta maschio non può gareggiare con una atleta femmina, se un laureato in legge non può aprire uno studio da dentista. In tutti questi casi ci sono delle (ovvie) ragioni di sicurezza, equità, salute, che impongono determinate esclusioni: escludere, di per sé, non implica discriminare.

Ma nemmeno, a rigore, si può parlare di discriminazione per il solo fatto che una categoria è sottorappresentata in determinate posizioni più o meno ambite. Per parlare in modo non ideologico di discriminazione occorre provare che la sotto-rappresentazione sia frutto di abusi o usi distorti delle regole del gioco. Se determinate asimmetrie sono il frutto della divisione del lavoro, delle preferenze individuali, o della logica di determinate attività economiche, parlare di discriminazione è un abuso di linguaggio. Quindi, in questi casi, l’esistenza di una discriminazione è una eventualità da stabilire sulla base di evidenze empiriche, non certo sulla base della sotto o sovra-rappresentazione di determinate categorie.

Può accadere, quindi, che determinati squilibri siano (anche) frutto di discriminazione, e altri non lo siano. Non credo sia difficile dimostrare che vi è un po’ di discriminazione anti-femminile nell’accademia; credo sia difficile dimostrare che vi sia discriminazione antifemminile in ambito politico; credo sia impossibile dimostrare che vi sia discriminazione anti-femminile nell’assegnazione delle medaglie Fields (equivalenti al Nobel) della matematica.

E’ anche per queste ragioni che nelle società liberal-democratiche che ancora credono  nell’eguaglianza delle opportunità, la politica delle “quote” a favore di specifiche categorie come le donne, i neri, o altre etnie e gruppi può legittimamente essere considerata contro-discriminatoria, nella misura in cui impone un handicap ingiustificato a chi non fa parte delle categorie protette.

E il green pass? E’ discriminatorio pretendere la vaccinazione (o il tampone negativo) per esercitare diritti fondamentali come spostarsi, assistere a una lezione, e persino lavorare? E’ giusto che chi non vuole vaccinarsi, o non può permettersi tamponi ad ogni piè sospinto, sia fortemente limitato nelle sue libertà?

La mia riposta è che forse è ingiusto, ma non è “discriminatorio”. La discriminazione è una esclusione (o penalizzazione) arbitraria di una specifica categoria di persone pre-esistente. Se dico che chi non vuole prendere la patente non può guidare un’auto non sto discriminando la categoria dei “renitenti alla patente”, sto solo dicendo che per accedere a certi diritti (guidare un’auto) ci vogliono certi requisiti, più o meno sensati. I presunti discriminati sono semplicemente coloro che non intendono prendere la patente.

Il fatto che sia alquanto improprio parlare di discriminazione, però, non implica affatto che la richiesta di una patente (il green pass) per restare normali cittadini sia giustificata. Una norma può essere sbagliata, o eccessiva, senza essere discriminatoria. E’ il caso delle norme che non sono proporzionate rispetto agli scopi che si prefiggono.

Facciamo un esempio innocente: il limite di velocità in autostrada. A nessuno viene in mente che il limite di 130 sia discriminatorio verso gli italiani (parecchi milioni) che si sentono Niki Lauda e vorrebbero correre più forte. Però, se le nostre autorità ponessero il limite a 90 km all’ora adducendo l’argomento che così si risparmierebbero un sacco di morti sarebbe lecito chiedere loro se il costo per l’economia e per la qualità della nostra vita non sarebbe eccessivo. E, viceversa, se alzassero il limite a 180 km l’ora per lasciarci più liberi di scorrazzare sarebbe lecito chiedere loro se il costo in morti e feriti per incidenti stradali non sarebbe eccessivo.

La questione del green pass è molto più complessa e complicata, ma dal punto di vista logico è analoga a quella dei limiti di velocità: è un problema di bilanciamento fra salute e diritti individuali. Dove la complessità risiede in tre nodi inestricabili.

Primo, l’importanza relativa che ciascuno di noi dà alla protezione della salute e alla difesa dei diritti individuali varia da persona a persona, anche a seconda della sua condizione oggettiva (essere percettori di reddito fisso oppure no).

Secondo, l’entità del rischio che corriamo (varianti future ed efficacia delle misure di contenimento) è sconosciuta, e nessuno scienziato è in grado di valutarla con ragionevole approssimazione.

Terzo, allo stato attuale delle conoscenze, l’efficacia delle restrizioni connesse al green pass è impossibile da calcolare in modo affidabile.

E’ facile rendersi conto che, con un tale spettro di incertezze, la tenzone fra favorevoli e sfavorevoli al green pass non è razionalmente decidibile. Una cosa però la possiamo dire: la discriminazione non c’entra.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 agosto 2021