Politicamente corretto: 5 mutazioni pericolose

Quando, esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio. Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio.

Questa posizione, profondamente idealistica e anti-marxista, condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare.

In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse.

Ebbene, questa storia a noi può sembrare ancora attuale, ma è una storia del secolo scorso.  Chi crede che, oggi, il politicamente corretto sia usare una parola giusta al posto di una sbagliata si è perso la parte più interessante del film. Un film che in Italia è ancora alle prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di effetti speciali.

Oggi il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Il politicamente corretto di oggi sta al politicamente corretto delle origini come le varianti più recenti del virus stanno al virus originario (quello di Wuhan).

Per capire perché dobbiamo individuare le mutazioni che, nel giro di un ventennio, lo hanno completamente trasformato.

La prima mutazione (da cui la variante alpha) è intervenuta all’inizio del XXI secolo, con internet e la creazione del nuovo spazio pubblico dei social. Fino a ieri, per risentirti se uno ti chiama spazzino dovevi incontrare una persona in carne e ossa, e accorgerti della sua eventuale intenzione di offenderti. Oggi, se navighi su internet o stai sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso. L’arena dei social, dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, è un perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali. Lo ha descritto benissimo Guia Soncini nel suo ultimo libro (L’era della suscettibilità, Marsilio). La variante alpha è la più trasmissibile.

La seconda mutazione (da cui la variante beta) è l’espansione della dottrina del “misgendering” in tutti gli ambiti. Che cos’è il misgendering? E’ chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera.  Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l’asterisco * (cari collegh*), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (ə) (benvenutə in Italia) per essere più “inclusivi”, ovvero non escludere o offendere nessuno.

La nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci.

Fra i più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell’industria delle comunicazioni audio e in ambito informatico. D’ora in poi un operaio, se non vuole essere accusato di sessimo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa. Quanto agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il dramma della schiavitù. E guai pure a parlare di quantum supremacy (supremazia dei calcolatori quantistici su quelli tradizionali): la parola supremacy è proibita, perché rischia di evocare il suprematismo bianco.

La terza mutazione (da cui la variante gamma) è la cosiddetta cancel culture, secondo cui tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno. Le case editrici si dottano di sensitivity readers, che passano al setaccio i manoscritti non per valutare il loro valore artistico, ma per vedere se contengono anche la minima traccia di idee che potrebbero urtare qualcuno. Le statue dei grandi personaggi del passato vengono distrutte o imbrattate. I dipinti di Paul Gaugin vengono censurati perché il pittore aveva sposato una minorenne. Il finale della Carmen di Bizet viene capovolto, perché nel finale la protagonista viene uccisa da don Josè, e noi non ce la sentiamo di mettere in scena un femminicidio (ma un omicidio messo in atto da una donna sì).

La quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti dei non allineati. Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante. Non solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica dominante.

La quinta mutazione (da cui la variante epsilon) è forse la più preoccupante. E’ la cosiddetta identity politics. Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per palare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di “appropriazione culturale”,

Ma da qui deriva, soprattutto, l’idea che nell’accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante. Perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati.

All’ideale dell’eguaglianza, generosamente perseguito da Martin Luther King, che pensava che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti, perché a contare dovevano essere solo le altre differenze (quelle che fanno di ogni individuo quel che è, con i suoi pregi e i suoi difetti), subentra l’idea opposta che solo le differenze di razza, etnia, genere contino. Lo scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive, che privilegiano determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette, prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo.

Così la parabola della cultura liberal si compie. L’ideale di Martin Luther King e di tanti leader illuminati del passato (compreso Barack Obama), sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l’eguaglianza attraverso le discriminazioni.

Il risultato finale è il razzismo al contrario: la più reazionaria e aggressiva fra le ideologie contemporanee.

 

 Pubblicato su Repubblica del 1° novembre 2021


 

BIBLIOGRAFIA MINIMA

Beatrice L.
2020   Arte è libertà?, Roma, Giubilei Regnani.

Bruckner P.,
2020   Un coupable presque pafait, Paris, Grasset (trad. it. Un colpevole quasi perfetto), Milano, Guanda 2021.

Siti W.
2021   Contro l’impegno, Milano, Rizzoli.

Soncini G.
2021   L’era della suscettibilità, Venezia, Marsilio.




La sinistra che non segue Letta

Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell’estate, ogni compromesso sul Ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull’elezione del presidente della Repubblica?

Chissà.

Ora che la frittata è fatta, e che l’approvazione di una legge conto l’omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd – esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica – si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul Ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista?

Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul Ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge.

No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del Ddl Zan. Chi sono?

Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women’s Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori.

Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo Governo Prodi.

Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l’integralismo LGBT di Letta e del Pd è quello dell’estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie LGBT, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa”, che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbe per spostare l’attenzione dal vero problema, ossia l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”) o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti LGBT e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere sé stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore senso sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini).

E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge.

Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a LEU. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del Ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per “il suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1” (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). Quell’articolo, infatti, introduce “norme che si configurano come visione antropologica – legittima ma di parte”. Una visione che “non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”.

Che dire?

Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica.

 Pubblicato su Il Messaggero del 29 ottobre 2021




Troisi, quanto ci manchi!

Ho passato buona parte della mia vita professionale all’università, insegnando materie come sociologia e analisi dei dati. E negli ultimi decenni, in innumerevoli occasioni, mi è capitato di osservare, non senza rammarico, e qualche volta con rabbia, certe differenze fra studenti e studentesse. Differenze medie, naturalmente, perché le eccezioni per fortuna non mancano.

In breve: le ragazze si sottovalutano, i ragazzi si sopravvalutano; le ragazze sono poco sicure di sé, i ragazzi spesso lo sono senza averne motivo; le ragazze sono più ligie alle regole, i ragazzi sono più propensi a trasgredirle; le ragazze sono decisamente più affidabili, i ragazzi hanno meno paura di allontanarsi dagli schemi; le ragazze studiano di più e ottengono voti più alti, i ragazzi studiano di meno, ottengono voti più bassi, e più raramente riescono a laurearsi. Se non si è accecati dall’ideologia, queste e analoghe differenze si vedono a occhio nudo (e in diversi casi sono comprovate dalla ricerca empirica).

Avendole osservate per anni, non mi sono minimamente stupito delle affermazioni del prof. Alessandro Barbero, collega del mio medesimo ateneo, che in una intervista ha parlato di “differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi”. Barbero, più esattamente, ha timidamente avanzato l’ipotesi secondo cui alle donne mancherebbero quella “aggressività, spavalderia, e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi”. Ipotesi più che plausibile, e testabile empiricamente (in parte è già stato fatto).

In un mondo normale nessuno si sarebbe scomposto, e l’intervista del prof. Barbero sarebbe stata rapidamente dimenticata, avendo egli espresso un concetto di senso comune.

Da ieri ho la certezza che non viviamo in un mondo normale. Le affermazioni del prof. Barbero, anziché essere considerate sensate ma un po’ banali, sono divenute il bersaglio dei social, di una parte della grande stampa, e persino della Commissione di Vigilanza Rai, che con il suo segretario ha sollecitato la presidentessa della Rai a togliere ogni collaborazione presente e futura al prof. Barbero.

Stendo un velo pietoso sugli esercizi di retorica femminista che hanno imperversato nei giorni scorsi e mi concentro su un punto: che cosa ha scatenato cotanta ira?

Come sociologo, mi sento di avanzare due spiegazioni. La prima è che negli ultimi 10-15 anni la comunicazione pubblica ha abbandonato il principio di Massimo Troisi: “io sono responsabile di quello che dico, non di quel che capisci tu”. La gente reagisce agli stimoli in modo associativo, come il cane di Pavlov di fronte al cibo, o il toro di fronte al drappo rosso. Non si chiede che cosa ha veramente detto un autore, e meno che mai se quel che ha detto è vero. Prende un pezzo del discorso, una parola, una frase, la stacca dal contesto, e su quel brandello proietta i suoi fantasmi, senza alcun rispetto per l’autore che ha espresso un dato pensiero. I pensieri di Barbero non interessano nessuno, se non come micce utili per scatenare la catena dell’indignazione collettiva, che viaggia allegramente su internet, sulla carta stampata e in tv.

Ma c’è anche un secondo motivo per cui le innocenti, e in alcuni passaggi assai femministe, affermazioni di Barbero hanno scatenato l’iradiddio. Oscuramente e confusamente, in esse gli indignati e le indignate hanno visto il rischio di una incrinatura, di una sottile crepa, nel racconto ufficiale e politicamente corretto sulla condizione della donna.

Se noti che per fare carriera è utile un alto grado di fiducia in sé stessi, e al tempo stesso che molte donne ne difettano, può sorgere il sospetto che le carriere delle donne non siano minacciate solo da arbitri e discriminazioni perpetrate dai maschi, ma anche da caratteristiche psicologiche delle donne stesse. In breve: il racconto ufficiale, per lo più costruito nel registro vittimistico, perde una parte della sua forza, perché indica anche un lavoro che le donne devono fare su sé stesse, e non solo un lavoro che devono fare contro i maschi.

Così, se ti azzardi a dire che fra maschi e femmine ci sono “differenze strutturali” (qualsiasi cosa questa oscura espressione significhi), indignati ed indignate vedranno in questa affermazione una minaccia a un altro caposaldo del racconto vittimistico, quello per cui tutte o la maggior parte delle differenze fra maschi e femmine sarebbero socialmente costruite, frutto di stereotipi imposti da una millenaria cultura patriarcale, e dunque da sradicare, con le buone o con le cattive.

E’ questo, di tutta la vicenda, il lato più inquietante, nel caso Barbero come in tanti casi simili: i depositari del Bene si sentono in diritto, in nome della loro concezione del bene stesso, di punire, emarginare, licenziare qualcuno non solo per quel che dice, ma per quel che loro hanno capito di quel che ha detto.

Caro Troisi, quanto ci manchi!

 Pubblicato su Il Messaggero del 23 ottobre 2021




Il vuoto antifascista

Estromessi dalle decisioni che contano, ora i partiti (e le tv) ci faranno assistere a una lunga sceneggiata sullo scioglimento di Forza Nuova. Qualcuno dirà che in Italia c’è un pericoloso ritorno (anzi “rigurgito”) di impulsi fascisti, e che la Repubblica è in pericolo. Dunque, visto che la Magistratura non ha mai ritenuto di intervenire, si muova il Governo, e il Parlamento approvi la sacrosanta messa al bando di questo sciagurato partito. Il tutto sarà accompagnato, fin da stamattina, da chiassose adunate antifasciste, in difesa della Cgil, della Repubblica, della democrazia. Immancabilmente, assisteremo anche, sulla carta stampata, a una sfilata di riflessioni di pensatori, studiosi, intellettuali, che – con fare pensoso – si diranno “molto preoccupati” del pericolo fascista.

A me tutto ciò ricorda, irresistibilmente, la figura di Hiroo Onoda e dei suoi commilitoni nipponici, inviati nelle Filippine nel 1944 per ostacolare l’avanzata degli americani. Istruiti a non arrendersi, a costo della propria vita, si rifugiarono nella giungla e non vollero mai credere che la seconda guerra mondiale fosse finita. L’ultimo dei tre si arrese (all’evidenza, non al nemico), solo nel 1974, ovvero quando la guerra era finita da 29 anni.

I nostri guerriglieri antifascisti, che peraltro la loro guerra – a differenza dei giapponesi – l’hanno vinta (sia pure per interposta persona, ossia grazie ai partigiani loro padri e nonni) sono ancora più lenti: a loro di anni non ne sono bastati 76 (dal 1945 al 2021) per accorgersi che il fascismo è stato sconfitto, seppellito dalla storia, e oggi non ha nessuna possibilità di tornare né nella forma classica, né in forme più moderne.

Ma allora perché, quando li si avverte che la guerra è finita, non ci vogliono credere?

Potrei rispondere, sbrigativamente: perché non hanno idee, ed è più comodo accanirsi contro un bersaglio fantomatico (e indifendibile) come il fascismo, che sostenere un confronto ad armi pari. Lo ha segnalato lucidamente il filosofo Alain Finkielkraut qualche anno fa, quando notava che le ideologie anti-qualcosa (come anti-razzismo e anti-fascismo) truccano il gioco politico: se ti autodefinisci anti-razzista, implicitamente dai del razzista al tuo avversario politico. La stessa cosa accade con l’anti-fascismo: autodefinirsi antifascisti equivale a dare del fascista a chi non la pensa come te.

C’è però anche un altro meccanismo che presiede all’ammucchiata antifascista, e intorbida non solo la competizione politica ma la stessa vita sociale. Questo meccanismo, codificato da Umberto Eco in una celebre conferenza del 1995 (Il fascismo eterno), è quello di ridefinire il concetto di fascismo in modo così lato da renderne eterna (e aggiungo io, ubiqua) la presenza sulla scena del mondo. Diventano così segni e manifestazione del fascismo anche tratti come il tradizionalismo, la critica della modernità (ma Marinetti non esaltava la macchina e la velocità?), la paura del diverso, le frustrazioni delle classi medie, l’esaltazione della volontà popolare, il patriottismo, e persino l’uso di una lingua elementare e semplificante.

Ed è interessante che a questo meccanismo di allargamento (e annacquamento) del concetto di fascismo, molto diffuso fra gli intellettuali, si sia accompagnato – specialmente dopo il ‘68 – un analogo meccanismo nell’uso del linguaggio comune, per cui l’epiteto ‘fascista’ è appioppato a qualsiasi discorso, atteggiamento o comportamento considerato sbagliato, inaccettabile, o semplicemente molto negativo.

Ecco perché, nell’anno di grazia 2021, l’antifascismo è diventato una categoria vuota, o tutt’al più pericolosa.

Vuota perché la guerra è finita, il fascismo è stato sconfitto, e non c’è nessuna possibilità che risorga, quali che siano le decisioni che verranno prese nei confronti dei numerosi gruppuscoli di destra e di sinistra che, con la complice indulgenza dello Stato democratico, da anni ricorrono sistematicamente alla violenza.

Pericolosa perché, quando qualsiasi manifestazione del pensiero che si allontani dall’ortodossia progressista viene bollata come fascismo, di fatto si esercita una indebita prepotenza verso chi la pensa diversamente. Con tanti saluti al pluralismo e alla libertà, di cui ci si proclama paladini.

 Pubblicato su Il Messaggero del 16 ottobre 2021




Epidemia, il paradosso novax

La sensazione che, sul fronte dell’epidemia, le cose stiano andando piuttosto bene si sta facendo sempre più strada un po’ a tutti i livelli: i media rassicurano, il Comitato tecnico-scientifico autorizza un allentamento delle restrizioni, i politici fanno a gara per intestarsi il merito del ritorno alla normalità, la gente spera.

È fondato questo clima di cauto ottimismo?

Per molti versi sì. A certificarlo nel modo più chiaro sono i dati della mortalità per abitante, che in Italia è minore che in Spagna, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Israele. In Europa, fra i grandi paesi, solo la Germania è riuscita ad abbattere la mortalità quanto l’Italia, e solo la Polonia ha fatto meglio di noi. E fra i paesi europei di medie dimensioni, colpiscono i drammi della Bulgaria e della Romania, in cui la mortalità per abitante è quasi 20 volte quella dell’Italia (è come se noi, oggi, avessimo 1000 morti al giorno, anziché 50).

Perché in Italia, questa volta, le cose vanno meglio che nella maggior parte degli altri paesi?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due.

La prima – la chiamerò “effetto Figliuolo” – è che l’Italia, anche grazie allo scarso peso della popolazione under 12, è riuscita a vaccinare una quota molto elevata della popolazione. Come sarebbero andate le cose senza la vaccinazione di massa, lo rivelano indirettamente i due paesi più disastrati d’Europa, ossia Bulgaria e Romania, che hanno vaccinato pochissimo (20-30%) e sono alle prese con una mortalità spaventosa.

La seconda ragione – la chiamerò sarcasticamente “effetto Arcuri” – è che l’Italia ha vaccinato tardi, e quindi non fa ancora i conti con il problema che affligge i paesi virtuosi come Israele, Stati Uniti, Regno Unito, che proprio per aver vaccinato massicciamente fin da dicembre sono ora alle prese con la riduzione dell’efficacia dei vaccini, e sono costretti a ricorrere affannosamente alla terza dose.

Fin qui tutto bene. Purtroppo non è tutto, però. Ci sono anche ombre, che sarebbe rischioso nascondere o ignorare.

Molti credono che, grazie al vaccino, ora non abbiamo più 800 morti al giorno, ma ne abbiamo poche decine; oggi non abbiamo 4000 persone in terapia intensiva ma “solo” 400. Questo ragionamento, però, è farlocco. Il fatto che sia ripetuto centinaia di volte al giorno in quasi tutti i giornali e in quasi tutte le tv non cambia la sua erroneità. I confronti nel tempo si devono fare a parità di stagione, perché le condizioni climatiche e le connesse abitudini di vita (al chiuso o all’aperto) hanno un enorme impatto sull’epidemia. Per dire se oggi stiamo meglio o peggio di ieri dobbiamo confrontare gli stessi periodi dell’anno.

Ebbene, facciamolo. Come stanno andando le cose, in questo scorcio di inizio d’autunno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso? La risposta è, purtroppo, che le cose vanno un pochino peggio, perché – rispetto a 12 mesi fa – abbiamo circa il doppio dei morti e dei contagiati. E questo nonostante il vaccino, nonostante il Green Pass.

Come è possibile?

Semplice: la variante delta, che ha un tasso di riproduzione (R0) molto più alto di quello della variante prevalente all’esordio dell’epidemia, ha un impatto sulla diffusione del virus che controbilancia l’impatto del vaccino sulla letalità. Un anno fa non avevamo il vaccino, ma avevamo una variante relativamente mite (simile a quella di Wuhan), oggi abbiamo il vaccino ma abbiamo la variante delta. Queste due forze tendono ad elidersi, facendo sì che la situazione attuale non sia radicalmente migliore di quella di un anno fa. E l’approssimarsi della stagione fredda, con temperature più basse e ritorno alla vita al chiuso, annuncia un ulteriore aumento dei rischi di contagio.

Siamo nei guai, dunque?

Non è detto, perché rispetto a un anno fa c’è una differenza importante: per ora il valore di Rt resta al di sotto di 1 (il valore critico, al di sopra del quale l’epidemia riparte), mentre 12 mesi fa era circa 1.5, un valore catastrofico che per circa 4 mesi (da metà luglio a metà novembre 2020) non è mai rientrato al di sotto del livello di guardia. E’ verosimile che questa differenza abbia a che fare con il Green Pass, che costringe milioni di non vaccinati a un continuo, asfissiante (ma utile) automonitoraggio mediante i tamponi.

Da questo punto di vista, è preoccupante la tempistica della rivolta contro il Green Pass in atto in questi giorni, in particolare a Roma e Milano. Quella rivolta è certamente stata aizzata e strumentalizzata da forze eversive, ma trova alimento in una preoccupazione molto concreta dei lavoratori che non intendono vaccinarsi: dal 15 ottobre, se non mi vaccino perdo lo stipendio, o sono costretto a tamponarmi (a spese mie) per 2-3 volte la settimana. Il problema è che non stiamo parlando di una piccola minoranza di irriducibili ma di qualche milione di persone, la cui assenza dal lavoro può avere effetti economici devastanti, specie nelle piccole imprese. E questo proprio nel momento in cui, per evitare che l’autunno riaccenda l’epidemia, avremmo bisogno di un rigoroso rispetto delle misure di contenimento del contagio.

Che farà il governo?

Non avendo fatto quel che, da mesi, avrebbe dovuto fare, ossia (almeno) mettere in sicurezza gli ambienti chiusi mediante dispositivi di ricambio dell’aria, temo che finirà per navigare a vista. La prima mossa è stata disattendere le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico sulle capienze massime di stadi, cinema, teatri, discoteche eccetera, con l’obiettivo di fornire un ulteriore stimolo all’economia. La seconda potrebbe essere il varo di qualche concessione a chi non vuole vaccinarsi, tipo allungare da 48 a 72 ore la validità dei tamponi, o renderli gratuiti, o introdurre deroghe ai protocolli aziendali, che già ora stanno creando seri inconvenienti burocratici alle imprese, con tanti saluti alle promesse di semplificazione e di alleggerimento del carico degli adempimenti.

E la terza mossa?

Dipenderà dall’andamento dell’epidemia. Se l’epidemia non dovesse rialzare la testa, o lo facesse senza intasare gli ospedali, lo scenario più probabile è quello di una conferma della linea aperturista attuale. Se invece il numero di morti dovesse tornare a livelli preoccupanti, dovrà affrontare il dilemma: chiudere di nuovo, o usare l’emergenza sanitaria per imporre l’obbligo vaccinale.

E’ il paradosso delle manifestazioni di questi giorni: più, in nome della libertà, si rafforza l’opposizione ai vaccini e al Green Pass, più è probabile che, con il varo dell’obbligo, la nostra libertà si restringa ancora di più.

 Pubblicato su Il Messaggero dell’11 ottobre 2021