I giudici e l’Albania

E così anche i 12 migranti (maschi, maggiorenni, non fragili) trasferiti in Albania sono stati riportati in Italia, infliggendo un duro colpo – non sappiamo ancora se fatale – al progetto di (parziale) esternalizzazione delle frontiere del governo Meloni.

La base di questa decisione della magistratura è presto detta. I giudici hanno ritenuto che, per stabilire se i paesi di rimpatrio (Egitto e Bangladesh) potessero essere considerati sicuri, non bastasse la legislazione nazionale (che considera esplicitamente sicuri quei 2 paesi), ma si dovesse tenere conto di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (4 ottobre 2024), che ricalca la legislazione italiana, ma se ne discosta su un punto cruciale.

Partiamo dalla legislazione italiana, che si basa su un decreto legislativo del 2008 (e suoi successivi aggiornamenti). Secondo questa fonte un paese può essere considerato sicuro “se sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge
all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa
di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

Fin qui non ci sono radicali scostamenti con la Direttiva europea. Le differenze sorgono al momento di esplicitare se il requisito di sicurezza debba valere per tutto il territorio e per qualsiasi categoria di persone, o possa invece prevedere eccezioni (territori insicuri o categorie perseguitate).

La formulazione italiana afferma che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

La formulazione europea, invece, afferma che le condizioni di sicurezza “devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato”.

Come si vede, si tratta di due approcci decisamente diversi. Se ne potrebbe dedurre che, se deve prevalere l’approccio europeo, in quanto sovraordinato a quello nazionale, bene ha fatto il tribunale di Roma a considerare non sicuri Egitto e Bangladesh, ad esempio perché in entrambi i paesi l’omosessualità è reato, o per le torture inflitte a Giulio Regeni in Egitto.

Le cose, però, non sono così semplici. Una valutazione non faziosa della vicenda Albania dovrebbe prendere in considerazione alcuni aspetti problematici.

Il primo è che, se interpretata letteralmente, la sentenza europea dovrebbe condurre a considerare non sicuri la maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia: più di metà dei paesi del mondo non sono democratici; in più di metà degli stati africani
l’omosessualità è reato; anche nei paesi democratici vi sono porzioni di territorio insicure, controllate dalla criminalità, in cui nemmeno la polizia osa entrare; per non parlare degli abusi delle forze dell’ordine, dal caso Floyd negli Stati Uniti al caso
Cucchi in Italia.

Si potrebbe obiettare che la norma europea non va interpretata letteralmente. Giusto, ma allora salta fuori il secondo aspetto problematico: può essere un giudice, o un collegio giudicante, a decidere quando le eccezioni sono abbastanza lievi da
consentire di qualificare un dato paese come sicuro, e quando sono così gravi da obbligarci a qualificarlo come non sicuro?

Insomma, anche fossimo in presenza di una magistratura imparziale, equilibrata, non politicizzata, è sensato conferirle un potere così spropositato?

Che la risposta sia no si può dedurre da un parallelo e da una considerazione collaterale: ci sono innumerevoli situazioni in cui, nonostante le questioni da decidere siano meno complesse di quella della sicurezza di un intero paese, la legge prevede il
ricorso a periti, esperti, tecnici, specialisti di qualche materia, disciplina o ambito scientifico. Nel caso del problema dello “sicurezza” di un paese, la figura che viene immediatamente in mente è quella del sociologo, e subito dopo quelle degli esperti di
diritto internazionale e di scienza politica. Di qui la domanda: come mai per problemi molto più semplici e circoscritti, come le valutazioni psichiatriche su un imputato, appare ovvia le necessità di ricorrere a un esperto, possibilmente non prevenuto, e
invece, per un problema enormemente più complesso e multidimensionale come la valutazione complessiva della sicurezza di un paese straniero, si presume che possa essere un magistrato a emettere un parere vincolante, nonostante la questione su cui
deve decidere abbia ovvie connotazioni politico-ideologiche?

E il bello è che, se a un sociologo serio si ricorresse, la prima obiezione che farebbe sarebbe la seguente: cari signori, la vostra definizione di “paese sicuro” è troppo vaga, per non dire confusa (noi diciamo fuzzy, ossia sfumata, mal definita) per consentirmi di formulare una risposta; siate molto più precisi, datemi una “definizione operativa”, e allora proverò, entro qualche mese, a fornirvi una valutazione.

Così parlerebbe il nostro ipotetico sociologo interpellato. E, nel caso dei migranti portati in Albania, non riuscirebbe a non chiedere: ma scusate, come avete fatto voi giudici, su una questione così complicata, a decidere in poche ore?

[articolo inviato alla Ragione il 20 ottobre 2024; battute: circa 5200]




La grande ipocrisia – Paesi sicuri?

Al momento, nessuno può sapere come la vicenda Albania andrà a finire. Può darsi che il governo italiano trovi una via per far valere la propria lista di paesi sicuri, come può essere che questa via non venga trovata, e in Albania possano finire solo una
piccolissima minoranza dei migranti irregolari intercettati. Vedremo.

In attesa degli eventi, può non essere inutile guardare la questione migratoria non in termini giuridici e formali, ma in termini concreti e sostanziali. A me pare che, alla base, quello cui stiamo assistendo sia lo scontro fra due visioni generali al momento
del tutto incompatibili.

Secondo la prima visione, uno Stato ha tutto il diritto di limitare gli ingressi sul proprio territorio, e l’esercizio del diritto di asilo non può essere assoluto e incondizionato. Ci sono circostanze nelle quali le modalità di ingresso e le norme a tutela di chi è già entrato possono confliggere con la domanda di sicurezza dei cittadini, e la politica ha non solo il diritto ma il dovere di fornire risposte a tale domanda.

Secondo la visione opposta i migranti, da qualsiasi paese provengano, hanno tutto il diritto di entrare in un paese per chiedere asilo o protezione, e le loro richieste devono essere processate nel rigoroso rispetto dei diritti umani (più o meno estensivamente
definiti), anche a costo di minare la sicurezza o altre legittime aspirazioni dei paesi ospitanti.

A chi appartengono queste due visioni?

Qui interviene una importante asimmetria. La prima visione, chiusurista, è fatta propria da quasi tutti i governi di destra, ma negli ultimi tempi ha cominciato a suscitare interesse anche da parte di alcuni governi progressisti o liberali, come quelli
di Danimarca e Polonia. La seconda visione, aperturista, è fatta propria da quasi tutti i governi progressisti ma è anche sostenuta e incoraggia dalla stragrande maggioranza degli organismi sovranazionali o transnazionali che si occupano di migrazioni e/o di
diritti umani: Corte Europea di Giustizia, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Amnesty International, giusto per fare alcuni esempi fra loro assai diversi. Questo significa che, in via generale, lo scontro fra destra e sinistra è complicato dal fatto che
alcuni governi di sinistra stanno con le destre anti-migranti, ma ancor più dal fatto – ben più incisivo – che le sinistre pro-migranti possono sempre contare sulla sponda dei giudici e degli organismi che si occupano di migranti, per loro natura favorevoli alle istanze di questi ultimi.

Ma come si risolve questo conflitto?

Finora è stato risolto con l’escamotage, vagamente ipocrita, del concetto di “paese sicuro”: i migranti che non hanno diritto all’asilo o ad altre forme di protezione possono essere rimpatriati, ma solo se provengono da un paese sicuro (e se esistono
accordi di rimpatrio). E qui scatta l’inghippo. Le definizioni di paese sicuro finora formulate nelle legislazioni nazionali ed europee sono così ambigue, confuse e farraginose da lasciare larghi margini di interpretazione ai giudici, siano essi nazionali o europei. Da questo punto di vista l’ira dei politici contro i giudici appare abbastanza fuori bersaglio: se scrivi leggi poco univoche, non puoi poi lamentarti se i giudici le interpretano secondo la loro visione del mondo, che è tendenzialmente (e intransigentemente) pro-diritti umani. Questa indeterminatezza non riguarda solo le leggi europee, ma anche quelle italiane. Prendiamo, a titolo di esempio, la definizione che di stato sicuro dà il decreto legislativo 25 del 2008: uno stato sarebbe da
considerare sicuro “se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione […] né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone” (sottolineature aggiunte).

La formulazione sembra presupporre che per essere sicuro il paese debba essere democratico (più di metà dei paesi del mondo non lo sono), ma anche che certe violazioni dei diritti umani possano essere tollerate se limitate a certe porzioni del territorio o dirette verso specifiche categorie di persone (in più della metà dei paesi africani l’omosessualità è un crimine). Ma chi stabilisce se un paese è sufficientemente democratico? Chi stabilisce quanto piccole devono essere le porzioni di territorio insicure, o quanto irrilevanti debbano essere le categorie perseguitate per poter concedere a un paese lo status di paese “sicuro nonostante…”? Sulla base della medesima formulazione, si può stiracchiare il concetto di paese sicuro fono a considerare insicuri tutti i paesi non democratici, o viceversa a considerare sicuri paesi che si macchiano di orrendi crimini, ma limitati a certe porzioni di territorio o a certe categorie di persone.

Insomma, voglio dire che, se si vuole limitare i rimpatri legittimi ai paesi sicuri, quello di cui avremmo bisogno non è una definizione astratta, che inevitabilmente ogni corte e ogni giudice interpreterà secondo la propria visione del mondo, ma che i
governanti europei partoriscano una lista esplicita dei paesi sicuri o, se non hanno il coraggio di compilare tale lista, che autorizzino ogni paese a compilare la propria.

Quello che non possiamo permetterci è di non cercare un compromesso fra le due opposte visioni del problema migratorio. Perché la visione chiusurista non può che condurre a gravi violazioni dei diritti umani dei migranti, ma quella aperturista non può non portare ad altrettanto gravi violazioni dei diritti dei cittadini europei, primo
fra tutti il diritto alla sicurezza.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 ottobre 2024]




Il bullismo etico

E così alla fine Simone Lenzi – artista, scrittore, musicista, e pure assessore alla cultura del comune di Livorno – è stato costretto a dimettersi dall’incarico. Anche se il punto di partenza di tutta la vicenda è stata una aspra polemica con il Fatto Quotidiano per una striscia del fumettista Natangelo, la ragione vera del siluramento dell’assessore sono stati alcuni post del passato, riesumati per l’occasione e considerati omofobi.

In uno Lenzi metteva in dubbio il valore artistico di una statua (una donna con il pene) esposta alla Biennale di Venezia, e prendeva posizione contro “l’arte didascalica”, che pretende di insegnarci come vivere. In un altro Lenzi faceva dell’autoironia, definendosi gender ironic, in polemica con la ridicola proliferazione delle identità di genere (28, compreso skoliosexual e lithsexual). Di qui una durissima presa di posizione dell’Arcigay, la severa reprimenda del sindaco progressista (?) Luca Salvetti, e infine le dimissioni dell’assessore.

La vicenda è illuminante perché, in un colpo solo, ci mette sotto gli occhi una moltitudine di aberrazioni di cui, troppo sovente, nemmeno ci accorgiamo.

Prima aberrazione: lo strapotere delle lobby LGBT+. Qualche tempo fa Federico Rampini, in una trasmissione tv, scandalizzò la conduttrice Marianna Aprile con l’affermazione: “in America le lobby LGBT sono cattivissime e potentissime”. Ebbene, dobbiamo correggere Rampini: purtroppo vale anche per l’Italia, non solo per gli Stati Uniti.

Seconda aberrazione: l’assessore è stato rimosso per le sue idee, peraltro espresse in chiave ironica e al di fuori del suo ruolo.

Terza aberrazione: la censura è venuta da un esponente della sinistra, che non perde occasione per inneggiare alla libertà di espressione e al diritto al dissenso.

Quarta aberrazione: né Elly Schlein, né la segreteria del Pd, né i maggiori esponenti di quel partito hanno sentito il bisogno di difendere l’assessore.

Quinta aberrazione: anche nel mondo della cultura e del giornalismo sono stati pochissimi a manifestargli solidarietà (fra di loro: la giornalista Concita De Gregorio e il regista Paolo Virzì, che con Lenzi aveva collaborato).

Perché, tutto questo?

Nella sua lettera di addio, l’assessore accenna a una possibile ragione dell’isolamento in cui si è venuto a trovare.

“mi dimetto perché alla sinistra, che avevo visto sin qui come la roccaforte di ogni libertà, la libertà più autentica non interessa affatto. Essendo piuttosto il narcisismo etico l’unica molla ormai capace di muoverne i riflessi condizionati, capisco bene che l’unica cosa importante davvero per tutti voi sia adesso posizionarsi, quanto più in fretta possibile, dalla parte dei giusti e dei buoni”.

La sinistra, insomma, sarebbe affetta da “narcisismo etico”.

Mi permetto di dissentire. Il narcisismo è una forma di ripiegamento su di sé, un auto-innamoramento, un coccolare sé stessi. Non è questo il peggiore male della sinistra di oggi. Fosse solo questo, non farebbe troppi danni. Quando l’assessore dice che la
cosa importante per le persone di sinistra è “posizionarsi dalla parte dei giusti e dei buoni”, quello di cui parla non è un moto interno dell’animo, ma un comportamento esterno: un mostrare agli altri quel che si è, o si pretende di essere. La parola giusta è
esibizionismo, non narcisismo. Il bisogno ossessivo di posizionarsi, sui social come nella realtà offline, è una forma di esibizionismo etico. Una continua pretesa di ostentare la propria superiore moralità.

Il guaio è che, qualche volta, l’esibizione della propria moralità richiede una vittima, un capro espiatorio, un nemico da umiliare, sopraffare, o aggredire. E questo non si chiama narcisismo, né esibizionismo: si chiama bullismo. Il ragazzo che ammira i
propri muscoli davanti a uno specchio è un narcisista. Se li mostra alla classe diventa un esibizionista. Ma se li usa per pestare un compagno è un bullo. È il bullismo etico, non il semplice narcisismo, la cifra della vicenda Lenzi. Per apprezzarne tutta la drammaticità e gravità, dobbiamo imparare a usare le parole giuste. Parole precise, esatte. Perché “le parole sono importanti”, per dirla con Nanni Moretti.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 ottobre 2024]




I sacrifici nascosti

È sempre stato difficile entusiasmarsi per i contenuti della legge finanziaria, un istituto che cambia spesso nome (adesso si chiama Legge di Bilancio) ma resta più o meno lo stesso da parecchi decenni. La ragione è che, da quando ci siamo accorti che
non possiamo esagerare con la spesa pubblica in deficit, trovare la quadra è diventato maledettamente complicato, per qualsiasi governo. Ogni esecutivo si presenta all’appuntamento con l’obiettivo di esibire alcuni provvedimenti positivi, tipicamente
più spesa sociale e meno tasse, ma si trova di fronte il problema di trovare le “risorse” per finanziarli. E dato che tali risorse sono invariabilmente tagli di spesa più o meno virtuosi e incrementi di entrate più o meno dolorosi, non è facilissimo convincere gli
elettori che il gioco valga la candela.

Quello che non è sempre evidente, però, è che i cambiamenti che la Legge di Bilancio produce sono, quasi sempre, abbastanza modesti. Tanto più quando, come accade quest’anno, il Patto di stabilità europeo torna a pesare sulle scelte delle classi
dirigenti nazionali: il Piano strutturale di bilancio appena approvato dal Parlamento disegna, di qui al 2029, un cammino molto stretto.

In questi giorni è in corso una discussione, talora molto accesa, sulla riduzione delle tasse. Il governo pretende di averle ridotte, e promette di continuare a farlo nei prossimi anni, l’opposizione nega che la pressione fiscale sia in discesa, e minaccia – per quando vincerà le elezioni – nuove tasse per i ricchi. La realtà è che, per ora, mancano i dati per fare affermazioni perentorie. È vero che, dal 23 settembre scorso, disponiamo di dati di contabilità nazionale rivisti e aggiornati dall’Istat, ma in
compenso mancano ancora stime aggiornate sull’economia sommersa e non è stato ancora presentato il Dpb (Documento programmatico di bilancio), che dovrebbe essere trasmesso alla Commissione Europea nei prossimi giorni. Inoltre, i documenti
finora resi pubblici sono assai meno analitici e informativi di quelli presentati in passato con la Nadef (Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza).

Prendendo atto dei pochissimi dati finora comunicati dai vari soggetti che si occupano di conti pubblici, quel che si può dire è che la pressione fiscale nominale, dopo essere leggermente diminuita nel 2023 rispetto al 2022 (-0.2%), è prevista in aumento sia quest’anno (+0.8) sia l’anno prossimo (+0.2). Questi dati, tuttavia, sono del tutto insufficienti a rispondere all’interrogativo che più interessa: come è andata e come andrà la pressione fiscale reale, che tiene conto del peso dell’economia sommersa? Un aumento della pressione fiscale nominale, infatti, può anche essere il risultato di un maggiore recupero di gettito evaso, e può coesistere con una diminuzione della pressione fiscale effettiva, che è quella che si esercita sulle attività regolari. Purtroppo, non essendo ancora stato pubblicato il Documento programmatico di bilancio (Dpb), e mancando dati aggiornati sull’economia
sommersa, non siamo in grado di trarre alcuna conclusione solida.

Quello che però mi sembra di poter dire è che, comunque, gli onerosi impegni presi con le autorità europee di qui al 2029 limitano e continueranno a limitare enormemente gli spazi di manovra di questo governo (che scadrà nel 2027), ma anche di quello successivo: chiunque governerà e vorrà mantenere delle promesse elettorali, non potrà farlo senza chiedere sacrifici più o meno espliciti e più o meno diretti a segmenti dell’elettorato. Quindi la vera domanda, per entrambi, non è che cosa farete, ma è a spese di chi.

Questo è ovviamente vero per l’attuale governo, che dopo aver alleggerito la pressione fiscale sui ceti bassi e medio-bassi, ora si accinge a fare qualcosa per i ceti medi. Sarebbe importante capire se a pagare il conto saranno chiamati gli evasori, le grandi imprese (tassa sugli extraprofitti?), o i bilanci dei ministeri, con inevitabili ricadute sulla spesa sociale.

Ma il principio dovrebbe valere, per certi versi ancora di più, per l’opposizione. Perché l’opposizione ha un privilegio indebito: quello di poter delineare la sua finanziaria senza un vero vincolo di bilancio, dal momento che tutte le sue misure sono “sulla carta”, ovvero non soggette alle severe regole del bilancio pubblico. Oggi il governo in carica si affanna per trovare 10 miliardi (0.5% del Pil) che mancano alla sua manovra, ma anche solo portare la spesa sanitaria al 7.5% del Pil e rifinanziare il comparto scuola (due delle priorità dell’opposizione) avrebbero costi ben maggiori.

Quanto al salario minimo legale, un’altra misura bandiera dell’opposizione, nessuno ha ancora calcolato quanto costerebbe in termini di chiusure di micro-attività e conseguente riduzione dei posti di lavoro.

Insomma, il problema è fare le domande giuste. Tagli di spesa pubblica e aumenti di gettito fiscale sono la norma in qualsiasi finanziaria, comprese quelle passate dei governi di centro-sinistra. In tempi di vincoli europei i margini sono sempre stretti, e i
sacrifici inevitabili. Nasconderli è inutile. Perché la domanda giusta non è se si possano o no chiedere sacrifici agli elettori, ma se ciò per cui vengono richiesti li renda accettabili.

[articolo uscito sul Messaggero il 13 ottobre 2024]




La Ley Trans contro le imprese

Quando si parla di diritti LGBT+, di norma lo si fa in termini sociali, giuridici o culturali. Per quanto riguarda, in particolare, il diritto a cambiare genere a piacimento, divenuto effettivo in Spagna dal marzo dell’anno scorso con la cosiddetta Ley Trans, le questioni di cui si discute sono del tipo: è giusto che i minorenni (over 16) possano cambiare genere senza il consenso dei genitori? è giusto che gli atleti maschi transitati a femmina gareggino nelle competizioni femminili? è accettabile che i carcerati biologicamente maschi accedano ai reparti femminili? è ammissibile cambiare genere per evitare il carcere in un processo per stupro? è giusto che le quote rosa siano occupate da maschi che si percepiscono come femmine?

Molta meno attenzione ha ricevuto il lato economico della faccenda. Che non consiste solo nel fatto che i passaggi da maschio a femmina possono essere sfruttati opportunisticamente per usufruire di benefici riservati alle donne, ma riguarda direttamente i conti delle imprese. È di questi giorni la notizia che a breve entreranno in vigore varie norme che comporteranno nuovi e pesanti obblighi per le imprese sopra i 50 addetti. Ad esempio: istituire iniziative di formazione e sensibilizzazione ai diritti LGBT+, redigere report annuali sulle politiche aziendali in materia, concedere speciali permessi retribuiti, promuovere la “eterogeneità della forza lavoro”, ovvero garantire una adeguata rappresentanza a determinate minoranze sessuali.

Si potrebbe pensare che, in questo, la Spagna sia particolarmente avanti rispetto agli altri paesi occidentali. In realtà è semmai vero il contrario. Linee guida pro-inclusione analoghe a quelle spagnole sono state adottate da moltissime imprese americane
soprattutto dopo il 2020 (anno dell’uccisione di George Floyd, e conseguente decollo del movimento Black Lives Matter), ma sono entrate in crisi nel 2023 e sono ora in precipitosa ritirata. La Spagna, in altre parole, sta facendo con 4 anni di ritardo un
esperimento – quello delle politiche DEI: Diversity, Equity, Inclusion – che è già ampiamente fallito negli Stati Uniti.

Perché è fallito?

È molto semplice: perché danneggia pesantemente la competitività delle imprese. Quando le politiche DEI sono prese sul serio, e non si riducono a qualche banale misura di facciata, il loro impatto sui conti economici aziendali può risultare molto severo.

Tre sono i meccanismi fondamentali che minano la salute e la vitalità delle imprese.

Il primo è l’aumento dei costi fissi, perché le politiche DEI possono essere molto dispendiose: assumere personale dedicato, pagare esperti e consulenti, fare indagini interne, attuare misure di sorveglianza, istituire corsi di sensibilizzazione, comporta
sia cospicui costi diretti, sia non trascurabili costi indiretti, sotto forma di tempo sottratto ad attività aziendali vere e proprie.

Il secondo meccanismo riguarda le politiche di assunzione. Il fatto di avere vincoli o obiettivi di rispetto di quote (tot posti per minoranze di vario tipo), nella misura in cui impedisce all’impresa di assumere i dipendenti valutandoli solo per l’adeguatezza a
ricoprire determinate mansioni, impatta inevitabilmente sulla produttività del lavoro, ovvero sul valore aggiunto per addetto.

Il terzo meccanismo è la comparsa di un disincentivo a superare i 50 addetti se l’impresa è di poco sotto la soglia, e – simmetricamente – la comparsa di un incentivo a ridurre l’occupazione se è appena al di sopra dei 50 addetti.

Non a caso, da tempo le imprese spagnole e i loro rappresentati manifestano dubbi e preoccupazioni in vista dell’entrata in vigore delle norme della Ley Trans che impattano sui bilanci aziendali. I due tempi dell’esperienza americana – prima adesione entusiastica, poi precipitosa retromarcia – suggeriscono che quei dubbi e quelle preoccupazioni non siano campate per aria.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 ottobre 2024]