Hume PageHume Page

Ci aspetta una guerra? – La stagione dell’incertezza

17 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Non sono un esperto di relazioni internazionali, né di questioni militari, né di geo-politica. Sulla guerra in Ucraina non sono intervenuto quasi mai, e quando l’ho fatto è stato più per porre domande ed esprimere dubbi che per suggerire condotte di azione. Ora però, con i venti di guerra che spirano in Europa, è difficile fare gli spettatori. L’Europa ha scelto la strada del riarmo, la gente scende in piazza per l’Europa, ma a quanto pare non per l’Europa che c’è, bensì per il fantasma dell’Europa ideale che ognuno coltiva dentro di sé.

In questo clima non mi stupisce affatto che esplodano le divisioni. Che la destra sia spaccata, e che lo sia pure la sinistra. E nemmeno mi stupiscono le fratture interne al Pd, il maggiore partito della sinistra, incapace di esprimere una posizione unitaria nel Parlamento Europeo. Quello che mi sorprende, invece, al punto da rendermi incredulo, sono le prese di posizione perentorie pro o contro il riarmo. E dicendo questo non mi riferisco ai posizionamenti categorici di alcuni partiti, come Fratelli d’Italia (pro-riarmo) e Cinque Stelle (anti-riarmo), che capisco benissimo, in quanto obbediscono all’imperativo di scegliere, o se preferite al rifiuto dell’ignavia del “né né”. Quello cui mi riferisco, piuttosto, sono le prese di posizione perentorie di analisti e osservatori indipendenti che, a differenza dei politici, non sarebbero tenuti a schierarsi.

Mi colpiscono, in particolare, le due posizioni speculari di chi appare certo che Putin sia intenzionato a invadere i paesi Baltici e altri paesi Nato confinanti con la Russia, e di chi – viceversa – ritiene che Putin si accontenterebbe di annettere i territori già conquistati e della neutralità dell’Ucraina. Mi colpisce, anche, la sicurezza con cui gli opposti “estremisti analitici” descrivono gli effetti del riarmo degli Stati europei, visto dagli uni come unica via per garantire la sicurezza dell’Unione, e dagli altri come mossa pericolosa, che allontana la pace in Ucraina e può rendere più e non meno aggressiva la politica della Russia. E mi colpisce, infine, la completa mancanza di accordo degli uni e degli altri nella ricostruzione della catena di eventi che, dal 2014 a oggi, hanno segnato la guerra civile in Ucraina.

Gli uni e gli altri si muovono in un delirio di onnipotenza cognitiva. Credono di sapere come sono andate davvero le cose. Credono di sapere che cosa passi per la mente di Putin e di Trump. Credono di saper valutare le forze in campo. Credono di poter prevedere le conseguenze delle loro azioni. Credono di conoscere i rischi delle due opzioni (riarmo sì, riarmo no), e quindi di essere in grado di individuare la mossa più utile per l’Europa. In breve: credono che esista una scelta razionale, e di sapere quale sia.

In breve: gli uni e gli altri si muovono come se fosse in corso un gioco di strategia, ed esistesse un metodo per individuare la strategia migliore. Eppure dovrebbero saperlo che, per individuare la strategia più razionale, la teoria dei giochi prevede condizioni precise, nessuna delle quali ricorre oggi. Non ricorre la condizione che i giocatori siano pochi e ben identificati (non sappiamo nemmeno quanti sono: due, tre, quattro, N?). Non ricorre la condizione che esistano regole del gioco e tutti i giocatori le rispettino. Non ricorre la condizione di conoscere le preferenze (funzioni di utilità, nel lessico della teoria dei giochi) dei vari giocatori. Non ricorre la condizione di conoscere, almeno probabilisticamente, le conseguenze delle proprie scelte. In breve: il gioco che si sta giocando è senza regole condivise, è a informazione limitata (incompleta e imperfetta), è affetto da incertezza generalizzata. Si deve scegliere, perché anche non scegliere è una scelta, ma nessuno è in condizione di fare scelte razionali, evidentemente superiori alle scelte alternative. Possiamo solo fare scommesse, basandoci sulle nostre intuizioni, e sui frammenti di conoscenza che riteniamo di possedere.

Per questo sono stupito che tanti ci offrano le loro certezze, come se oggi ne potessero esistere. E non mi scandalizzano né le incertezze del Pd, né le divisioni della piazza, anzi delle piazze della giornata di ieri. È giusto che ognuno manifesti le sue paure e le sue speranze. Ma sarebbe bello che lo facessimo tutti con umiltà, perché nessuno sa che cosa ci riserva il domani, e qual è il modo più ragionevole per assicurarci che un domani ci sia.

[articolo uscito sul Messaggero il 16 marzo 2025]

8 marzo e dintorni – Femminismi

12 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Ormai è chiaro: il concetto di femminismo – sostantivo maschile singolare – è obsoleto. Me ne sono reso conto, da tempo, sentendo donne che la pensano diversamente fra loro su tutto rivendicare orgogliosamente il loro essere femministe.  Ma ne ho avuto la certezza sabato scorso – 8 marzo, festa della donna – partecipando a un convegno femminista presso la fondazione Einaudi di Roma, significativamente intitolato: “I femminismi di fronte alla cultura woke”. Avete letto bene: “i femminismi”, plurale, non le correnti, o le tendenze, o le tradizioni del “femminismo”, singolare.

Insieme a Edoardo Albinati, ero l’unico relatore maschio, ed ero lì – credo – per il mio essermi occupato di cultura woke in alcuni libri recenti (ultimo Il follemente corretto). Ho ascoltato con interesse tutte le relazioni, tenute da relatrici diverse per età, orientamento politico, sensibilità, ma tutte accomunate – mi sembra – soprattutto da due cose: un profondo rispetto delle rispettive posizioni, e il rifiuto del settarismo del cosiddetto transfemminismo, o femminismo intersezionale.

Introdotto e concluso rispettivamente da Lucetta Scaraffia e Paola Concia, il convegno  ha offerto spunti di grande interesse, ma la relazione che più mi ha colpito è quella tenuta da Claudia Mancina. Il titolo era: “Il sette ottobre e le donne ebree: il femminismo che si volta dall’altra parte”. Il riferimento era, chiaramente, alla manifestazione, di oltre un anno fa, in cui le femministe di Non Una Di Meno non solo – nella piattaforma politica – si erano guardate dal menzionare le donne vittima dell’eccidio di Hamas, ma avevano impedito di manifestare a una ragazza che provava a ricordare quello scempio.

Ne è venuta fuori la migliore spiegazione che mi sia capitato di ascoltare di come funzioni il femminismo intersezionale. Nato nel 1989 da un’idea semplice e del tutto condivisibile della giurista Kimberlé Crenshaw, il femminismo intersezionale (o transfemminismo) ne ha fortemente tradito l’ispirazione originaria, e oggi si caratterizza per tre tratti fondamentali. Primo, privilegia i diritti delle persone transessuali rispetto a quelli delle persone omosessuali (gay e lesbiche). Secondo, conduce una polemica durissima nei confronti delle femministe radicali, o femministe della differenza, accusate di omofobia e bollate con l’etichetta TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist) per la loro difesa dei diritti basati sul sesso biologico. Terzo, pretende di definire la condizione di chiunque, e in particolare delle donne, specificando quale intersezione di condizioni di oppressione lo caratterizza. Al top la donna nera, lesbica o transessuale, povera, nata in un paese del terzo mondo, meglio se sfruttato e colonizzato. Al fondo la donna bianca, eterosessuale, benestante, nata in un paese occidentale colonialista, o con un passato di potenza coloniale.

È chiaro che, in questo schema, una volta identificato Israele come il paese che sfrutta i palestinesi e ha colonizzato le loro terre, la maggior parte delle ragazze rapite al rave party del 7 ottobre non si trovano all’intersezione di un numero sufficiente di condizioni di oppressione. Anzi, a parte il loro essere donne, non possono vantarne nemmeno una.

Qui però Claudia Mancina ha fatto una mossa cruciale, suggerendo una lettura dell’intersezionalismo secondo me assolutamente rigorosa ma mai messa pienamente a fuoco, nemmeno dai suoi critici più severi. Quando si dice che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana non ha abbastanza condizioni di oppressione per meritare una tutela, si omette il vero retro-pensiero tipico delle dottrine woke, e cioè che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana è essa stessa, in qualche modo, colpevole di oppressione, in quanto co-responsabile dei misfatti di cui bianchi, occidentali, ricchi, ebrei sono o sono stati autori.

Nella visione paranoica della cultura woke, e segnatamente nella cosiddetta Critical Race Theory, la responsabilità non è semplicemente personale, ma anche collettiva. E non è limitata al presente, ma si allarga pure al passato. Una donna può trovarsi così a dover rendere conto non solo di ciò che fa personalmente, ma di quello che fanno gli appartenenti alla categoria cui lei appartiene, e addirittura di quello che hanno fatto in passato. È precisamente per questo motivo che le donne israeliane vittime di Hamas agli occhi delle femministe di Non Una Di Meno non meritano neanche un briciolo di solidarietà: il loro essere donne oppresse è sovrastato dalle colpe delle categorie di cui si trovano all’intersezione.

Ecco perché dicevo all’inizio che il concetto di “femminismo” è obsoleto. Mentre noi discutevamo con curiosità reciproca i vari femminismi possibili, nelle strade di Roma (e di altre città italiane) le transfemministe di Non Una Di Meno, le stesse che dopo il 7 ottobre non avevano voluto ricordare le donne israeliane violentate da Hamas, bruciavano immagini di Giorgia Meloni e Von der Leyen, esibivano impronte di vernice rossa sulle immagini di ministri e politici (compresa Elly Schlein), attaccavano il disegno di legge sul femminicidio, rifiutavano ogni dialogo con le istituzioni. A conferma del fatto, ben evocato dal titolo del nostro incontro, che ormai il femminismo come tale non esiste più: al massimo esistono i femminismi. E di almeno uno è il caso di chiedersi: ma è ancora femminismo se alle donne israeliane uccise e violentate da Hamas si nega ogni compassione, rispetto, e persino memoria?

[articolo uscito sulla Ragione l’11 marzo 2025]

A proposito dell’agguato mediatico a Zelensky – La politica come spettacolo

5 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Fra le accuse che più frequentemente, e più impietosamente, vengono rivolte ai leader europei, vi è quella di non aver mai preso un’iniziativa diplomatica per fare cessare la guerra fra Ucraina e Federazione Russa. Dal primo giorno della guerra, l’unica preoccupazione dell’Europa è stata di respingere l’invasione russa, ristabilendo la legalità internazionale (ossia i confini precedenti allo scoppio della guerra). Di qui l’assoluta latitanza della diplomazia: l’obiettivo di punire Putin ha sempre sovrastato quello di fermarlo.

Ora l’agguato teso da Trump a Zelensky, con il plateale litigio davanti alla stampa e alle tv, ha fatto ulteriormente precipitare le cose, mettendo fuori gioco ogni possibile diplomazia e ricerca di un ragionevole compromesso.

Ok, questo è successo, e si capisce perfettamente che tutti i maggiori editorialisti esternino il loro sgomento per questa rottura, per il cattivo gusto di Trump e Vance, per la violazione plateale delle regole minime dell’ospitalità, dell’educazione, del rispetto reciproco. Insomma, quella che è andata in onda nello Studio Ovale sarebbe una inaccettabile, orribile, disgustosa spettacolarizzazione della politica, che rompe – per la prima volta nella storia – convenzioni e preziose ipocrisie da tempo vigenti nei rapporti internazionali, tanto più quando coinvolgono questioni militari e strategiche. Non a caso le espressioni più usate per descrivere quel che è successo sono “senza precedenti” e “storico”. Come a dire: è inaudito, non era mai successo, è un punto di non ritorno.

In un certo senso è proprio così. Mentre leggevo questi commenti, però, in me è riaffiorato un ricordo. Il ricordo di quel che pensavo e provavo nei primi mesi della guerra. Ebbene, io ricordo che ero semplicemente sbalordito. E, non intendendomi di questioni di guerra, ho sempre pensato che fossi io a non capire.

Che cosa mi sbalordiva?

Mi sbalordiva, innanzitutto, che nel giro di pochi giorni un normale capo di stato fosse stato trasformato dalle autorità europee in una autentica star mediatica. Collegamenti in diretta con i parlamenti, ovazioni delle assemblee collegate, partecipazioni ad incontri che normalmente si svolgono a parte chiuse fra pochi potenti, persino un surreale dibattitto sulla necessità che Zelensky leggesse un messaggio al Festival di Sanremo. Tutto ciò mi sembrava folle, e incompatibile con l’eventuale aspirazione dell’Europa a svolgere un ruolo di mediazione e moderazione. Come era possibile, mi chiedevo, che la politica europea sulla guerra si formasse non nelle segrete stanze della diplomazia, ma attraverso eventi mediatici e spettacolari? Come avrebbero mai potuto, i parlamenti e i governi europei, dibattere serenamente e prendere decisioni ponderate, se tutto veniva discusso enfaticamente, in presenza di una parte in causa, e con toni da comizio?

Insomma, la prima cosa che voglio dire è che la spettacolarizzazione delle questioni internazionali l’abbiamo iniziata noi europei, non certo gli Stati Uniti di Trump.

Ma c’è anche una seconda cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, anche qui non capendo se ci fosse qualcosa che mi sfuggiva. Come mai il tema della guerra è sempre stato affrontato, in Europa ma anche negli Stati Uniti di Biden, come un tema etico? Ovvero come un episodio dell’eterna lotta del Bene contro il Male? Come mai questa ossessiva, martellante e acritica retorica dell’aggressore e dell’aggredito? È vero che la eticizzazione del conflitto era il presupposto logico che rendeva possibile inscenare lo spettacolo della santificazione dell’eroe Zelensky, ma come non vedere che nel conflitto ucraino, come in innumerevoli altri conflitti condotti in nome del Bene, nessuna delle parti in conflitto era esente da responsabilità e colpe (nel caso di Zelensky,  per fare un solo esempio, il mancato rispetto degli accordi di Minsk)?

Sul conflitto ucraino, come su quello israeliano, si possono avere, ovviamente, le opinioni più diverse. Nessuno, fra noi comuni cittadini, è adeguatamente informato, e alla fine a guidarci sono l’istinto politico e le nostre passioni. Ma, tornando all’Europa, quel che mi resta incomprensibile è come l’Europa possa dolersi di non avere un ruolo al tavolo della pace, avendo sempre e senza esitazioni parteggiato per una delle parti in campo, e avendolo fatto nel modo più plateale e spettacolare possibile. Se vuoi fare l’arbitro, non puoi giocare tutta la partita con una delle due squadre in campo. Quello che a noi europei appare solo come un tradimento (il brusco voltafaccia di Trump) è anche un modo di indossare la maglietta dell’arbitro. Una maglietta che, se tre anni fa non avessimo sconsideratamente inaugurato la politica-spettacolo con la star Zelensky, oggi potremmo provare a indossare noi stessi.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 marzo]

Dopo il discorso di J.D. Vance – Valori occidentali?

3 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Nella sua breve visita in Europa il vicepresidente americano J.D.Vance ha attaccato duramente i politici europei, accusandoli di aver tradito i “valori occidentali”. Ma che cosa sono i valori occidentali?

Nel suo discorso, o meglio nella sua requisitoria, Vance si riferiva chiaramente a due valori in particolare: la libertà di parola, o free speach, e la democrazia, ovvero la scelta del governo mediante libere elezioni. Gli europei avrebbero tradito la prima con un ricorso eccessivo alla censura (caccia a presunte fake news) e la seconda con l’annullamento delle elezioni in Romania, ufficialmente per interferenze russe, in realtà (secondo Vance) perché gli elettori avevano premiato un candidato sgradito a Bruxelles.

Ma che cosa sono i valori occidentali?

Una possibile risposta è che, dopo la rivoluzione francese e la progressiva introduzione del suffragio universale, i valori che si sono affermati in occidente sono fondamentalmente tre: la libertà, l’eguaglianza, la democrazia.

Su questi tre valori c’è un larghissimo consenso non solo fra la gente, ma pure fra le forze politiche. E allora perché se ne discute tanto animatamente, e ci si divide così spesso, come è successo pochi giorni fa in occasione del discorso di Vance a Monaco?

La ragione è semplice: i grandi valori non vengono solo sottoscritti, ma anche interpretati. E l’interpretazione è il passo più importante, perché da essa dipende fino a che punto si è disposti a difenderli. E da che punto in poi si è disposti ad abbandonarli, o annacquarli, o modificarli. Ogni valore, prima o poi, incontra un limite. Ed è su questo limite, dove si trovi e quando non lo si possa attraversare, che le nostre opinioni divergono.

Prendiamo la libertà. Siamo tutti per la difesa delle libertà fondamentali, ad esempio la libertà di parola e la libertà di movimento.
Ma durante il covid questo nostro accordo di fondo è stato messo a dura prova dalla campagna vaccinale e dalla battaglia sulle fake news. Per alcuni la libertà di movimento andava limitata in nome della sicurezza collettiva (da cui: lockdown, obbligo vaccinale, green pass), per altri quella limitazione era un abuso, un’ingiustificata compressione di diritti fondamentali. Idem per le fake news: per alcuni la circolazione delle opinioni andava severamente limitata sui social, sulla stampa, in tv, per altri quelle limitazioni costituivano un grave attacco alla libertà di opinione e al free speach. Il medesimo discorso si ripropone per la lotta ai discorsi d’odio: c’è chi pensa che certe opinione siano inammissibili e vadano punite, c’è chi pensa che la libertà di parola o è totale o non è.

Prendiamo l’ideale dell’eguaglianza. Pochi lo contestano come idea regolativa, come principio generale. Ma è sul modo di interpretarlo che si combattono le battaglie più aspre fra chi lo intende come eguaglianza delle opportunità, e chi pensa che l’eguaglianza possa essere imposta con le quote riservate per le categorie protette. C’è chi privilegia l’inclusione (le atlete trans devono poter gareggiare con le atlete donna), e chi privilegia il principio di equità (nessuno può partire con vantaggi o handicap). C’è chi interpreta l’eguaglianza come estensione illimitata dei diritti umani, e chi pensa esistano anche i diritti dei popoli, che a quella estensione possono porre un limite.

E la democrazia? Almeno su quella sembrerebbe che siamo tutti d’accordo. Ma non è così. Alcuni pensano che le regole elettorali vadano sempre applicate, e il risultato del voto accettato. Senza eccezioni. Altri, invece, pensano che alcuni partiti, considerati non democratici o nemici della democrazia, vadano esclusi dalla competizione elettorale, o quantomeno esclusi dal governo, se non si riesce a scioglierli prima.

Ed eccoci di ritorno al discorso di Vance. Chi ha tradito i valori occidentali? Chi li difende veramente?

La risposta è che nessuno, né Trump né von der Leyen, è il vero paladino dei valori della nostra civiltà. Perché quei valori li interpretiamo in modi diversi. Per Trump la libertà di opinione è un assoluto, nessuna forza politica può essere esclusa dal voto (di qui i buoni rapporti con l’AfD), l’equità è più importante dell’inclusione. Per l’establishment europeo (ma anche per quello americano prima di Trump) la lotta alle fake news e ai discorsi d’odio giustifica la censura, certi partiti vanno tenuti fuori dal governo (dottrina del “cordone sanitario”), l’inclusione deve prevalere sull’equità.

L’unica cosa che, forse, accomuna le due culture atlantiche, è l’incapacità di prendere atto che, nella società moderna, il “politeismo dei valori” – ovvero la coesistenza, così ben descritta da Max Weber, fra valori contrastanti nessuno dei quali può pretendere di sovrastare gli altri – è un tratto per così dire costitutivo. Nessuno ha veramente tradito i valori occidentali, perché quei valori devono essere interpretati. E nessuno degli attori in campo è nella posizione di fissarne l’interpretazione autentica.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 marzo 2025]

Elezioni in Germania – Grosse Koalition alla prova

26 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Apparentemente le elezioni in Germania non hanno riservato sorprese.

Le previsioni dei sondaggi sono state sostanzialmente rispettate, i popolari della CDU/CSU del futuro cancelliere Friedrich Merz hanno vinto, i socialdemocratici dell’SPD e i liberali della FDP sono crollati, il temuto partito di estrema destra AfD ha superato il 20%, miglior risultato dalla sua fondazione nel 2013. I popolari della CDU/CSU e i socialdemocratici della SPD (partito del cancelliere uscente Olaf Scholz) si apprestano ad avviare le trattative per formare un governo di Grosse Koalition.

A guardar bene, però, di risultati non scontati ve ne sono parecchi. Non era scontato, ad esempio, che i liberali e il nuovo partito di Sahra Wagenknecht (BSW) sarebbero rimasti fuori del parlamento, non raggiungendo la soglia del 5%. Se la BSW avesse raggiunto il 5% (vi è andata vicinissima, con il 4.97%), il neo-cancelliere sarebbe stato costretto ad allearsi anche con i Verdi (o con la BSW stessa), varando un governo più eterogeneo e quindi più instabile: con i Verdi al governo, ad esempio, la promessa marcia indietro sulle politiche green sarebbe stata meno facile da attuare, e più foriera di tensioni entro il nuovo esecutivo.

Anche le percentuali dei vincitori, pur abbastanza vicine a quelle previste dai sondaggi, non erano così scontate. Il nuovo cancelliere aveva chiesto agli elettori di dargli forza contrattuale (verso la SPD) conferendogli almeno il 30% dei voti, ma si è dovuto accontentare del 28.5%. Quando alla AfD di Alice Weidel, non erano in pochi – dopo gli ultimi attentati in Germania e in Europa – a scommettere su uno sfondamento più ampio della barriera del 20% (ha ottenuto “solo” il 20.8%).

Ancora meno scontata era la resurrezione della Linke, il partito di estrema sinistra guidato da Heidi Reichinnek, che ha preso l’8.8% (i sondaggi gli davano solo il 7%), quasi raddoppiando i consensi delle precedenti elezioni politiche. Un successo che, verosimilmente, ha determinato l’esclusone dal parlamento della BSW di Sahra Wagenknecht e la disfatta dei Verdi, che hanno ottenuto ancora meno voti di quanti gliene assegnassero i sondaggi.

Ma la vera sorpresa, che nessuno aveva previsto nelle dimensioni in cui si è manifestata, è l’exploit della partecipazione elettorale, passata dal 76.4% delle ultime elezioni politiche all’82.5%, il valore più alto dai tempi dell’unificazione tedesca. Tutto lascia pensare che, alla radice del boom dei votanti, vi sia il timore per l’avanzata della AfD, un timore che ha richiamato alle urne elettori che normalmente non votano, ma che sono sensibili ai richiami anti-fascisti e anti-nazisti. Sono questi quasi 4 milioni di elettori in più che hanno conferito ai risultati la loro specifica curvatura, non sempre evidente nei commenti delle ultime ore. Se Afd non è andata molto oltre il 20% e l’estrema sinistra (linke + BSW) ha triplicato il suo peso elettorale rispetto alle ultime elezioni è perché la matrice del surplus di mobilitazione è stata prevalentemente progressista.

Il risultato complessivo di questi sommovimenti è che, nel giro di meno di 4 anni (dal settembre 2021 a oggi), l’elettorato tedesco si è enormemente radicalizzato e polarizzato. I partiti anti-sistema (Afd, Linke, BSW), tutti guidati da donne carismatiche e fortemente sostenuti dall’elettorato giovanile, raccolgono oggi quasi il 35% dei voti, contro il 15% di 4 anni fa. Specularmente, i due partiti cardine del sistema (SPD e CDU/CSU), che si apprestano a formare il governo, raccolgono appena il 45% dei consensi, ancora meno di quanti (il 50% scarso) ne raccogliessero nel 2021.

Vista da questa angolatura la vicenda tedesca è singolare, anche se non unica (qualcosa di simile è in corso in Francia). Il sistema politico si polarizza, i partiti di sistema implodono, scendendo al di sotto del 50% dei consensi, ma al governo riescono ad andarci lo stesso perché si coalizzano tra loro e perché la legge elettorale li premia. In Germania CDU/CSU e SPD controllano il 52% dei seggi con appena il 45% dei voti.

In Francia centristi e forze moderate governano, ma il consenso popolare premia le ali estreme (Marine Le Pen e Mélanchon). In entrambi i casi, il governo delle forze pro-sistema è il frutto della dottrina del “cordone sanitario” (in tedesco: Brandmauer, muro tagliafuoco), che sbarra la strada del governo all’estrema destra, ma al tempo stesso non riesce a stabilire solide alleanze con l’estrema sinistra.

In queste condizioni, è arduo profetizzare al governo tedesco un cammino sereno. Se vorrà mantenere le promesse elettorali sui migranti e sulle politiche green, il cancelliere Merz potrà essere costretto ad accettare i voti dell’estrema destra. Ma se farà marcia indietro su entrambi i versanti per compiacere l’alleato di governo, difficilmente potrà evitare, alle prossime elezioni, un’ulteriore avanzata dell’Afd.

Non è una novità, bensì il solito, irrisolto, dilemma dell’antifascismo: provare a normalizzare le destre radicali associandole al governo, o tenerle lontane a costo di rafforzarle?

Germania e Francia sembrano aver imboccato quest’ultima strada, quella dell’arroccamento dei partiti moderati. Quanto all’Italia, il diritto di governare le destre se lo sono conquistato con il voto. E, per ora, nulla di drammatico pare esserne seguito.

[articolo uscito sul Messaggero il 25 febbraio 2025]

image_print
1 2 3 4 5 108
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy