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Salvate il soldato Elena – Israele e la guerra delle parole

18 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

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C’è una seconda guerra, che scorre parallela a quella vera fra Israele e Hamas. È la guerra delle parole fra le fazioni politiche che se le dànno di santa ragione nei talk show, nei programmi radiofonici, sui social, sui quotidiani grandi e piccoli. E’ una guerra che, come la guerra vera, fa ampio uso di armi improprie, talora di armi proibite, o scorrette, o immorali.

Non possiamo fare quasi nulla per fermare la guerra vera, ma forse quel poco,  pochissimo, che possiamo fare è di rinunciare alle armi improprie, innanzitutto nel mondo dell’informazione.

Quali sono le armi improprie?

Io ne vedo essenzialmente due. La prima è nascondere, dissimulare o manipolare i fatti quando appaiono sfavorevoli alla causa che si intende difendere. Non si può, perché si solidarizza con Israele, sorvolare – come molti grandi media hanno fatto nei giorni scorsi – sui bambini morti a Gaza a causa dell’intervento militare. Si può benissimo ritenere che Israele abbia tutto il diritto di difendersi, che non abbia alternative, e che i morti civili – come in tutte le guerre – siano effetti collaterali inevitabili (la storia del Novecento è piena di esempi). Questo però non autorizza a non raccontare il dramma di Gaza per quel che è. Fino in fondo. Con la dovuta spietatezza, come da quasi due anni si fa ogni volta che un villaggio ucraino viene devastato dalle bombe di Putin. Il problema, semmai, è che – nella quasi totale assenza di giornalisti sul campo – il dovere di raccontare si scontra con il fatto che le fonti sono inquinate dalla propaganda. Il giornalista scrupoloso è sempre di meno un testimone, e sempre più un decodificatore di informazioni che non è in grado di verificare.

La seconda arma impropria è la criminalizzazione del dissenso, che di solito assume una di queste tre forme: togliere o ostacolare la parola (interruzioni), offendere l’interlocutore, usare la tecnica dello straw man (fraintendere volutamente l’opinione altrui). Anche qui c’è un salto logico: si pensa che, se una opinione ci appare del tutto inaccettabile, sia nostro diritto (o addirittura dovere) zittire, denigrare, deformare.

Ne abbiamo avuto un perfetto esempio qualche giorno fa a Otto e mezzo, dove la dottoressa Elena Basile, diplomatica in pensione, è stata sottoposta al trattamento completo. Aveva espresso una opinione, paradossale e discutibile quanto si vuole, ma più che legittima, ossia che il fatto che gli ostaggi americani fossero pochi era una brutta notizia perché riduceva l’incentivo degli Stati Uniti a esercitare un ruolo di moderazione. A quel punto sono cominciate le interruzioni e la lapidazione in diretta della malcapitata, più volte interrotta, invitata a vergognarsi, e del tutto fraintesa, come se avesse auspicato più ostaggi americani, anziché esporre un ragionamento politico sul possibile ruolo di mediazione degli Stati Uniti. E il processo è continuato sulla carta stampata e su internet, dove la Basile è stata dipinta come “algida”, “macchietta”, “mitomane”, “frustrata”, “usurpatrice di titoli” (perché nel programma è stata presentata come “ambasciatrice”), per lo più rinunciando a qualsiasi tentativo di smontarne razionalmente le argomentazioni.

E dire che di argomenti ve ne sarebbero stati, e ve ne sono. Le si sarebbe potuto dire, ad esempio, che è vero, la vita dei bambini ha il medesimo valore a Gaza e in Israele, ma nessun israeliano ucciderebbe mai un bambino in quanto palestinese, mentre i miliziani di Hamas i bambini israeliani li hanno uccisi in quanto israeliani. Le si sarebbe potuto ricordare la differenza capitale fra le regole di ingaggio dei soldati israeliani, e quelle dei terroristi di Hamas, per cui gli obiettivi civili – se israeliani – sono perfettamente legittimi.  Le si sarebbe potuto chiedere se si sentiva di appoggiare le manifestazioni studentesche pro-Palestima anche quando non pronunciano una sola parola di condanna per gli eccidi di civili israeliani, né manifestano il minimo moto di pietà per le vittime di tali eccidi.

Invece no. Alcuni difensori dell’ortodossia pro-Israele preferiscono impedire ai dissenzienti di esprimersi. Come se non avessero contro-argomenti, o non credessero abbastanza nelle proprie buone ragioni. È uno spettacolo triste: perché gli ospiti eterodossi si possono anche non invitare, ma – una volta che sono stati invitati – devono poter dire quello che pensano, senza subire linciaggi e processi sommari. La tanto invocata democrazia è anche questo.

L’incertezza del diritto

13 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.

La sinistra securitaria – Verso le elezioni europee

9 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Il trend del consenso elettorale in Europa è piuttosto chiaro: elezioni e sondaggi, da qualche anno, segnalano uno spostamento del baricentro dell’opinione pubblica verso destra. I segnali più recenti in questo senso vengono, oltre che dall’Italia, da Francia, Germania, Svezia, Finlandia, Grecia e, per certi versi, pure dalla Spagna e dalla Danimarca, due paesi dove la destra ha perso le elezioni ma il complesso delle forze di centro-destra ha, sia pure di poco, aumentato i consensi.

È ragionevole pensare che, alla base di tali spostamenti, vi sia l’aggravarsi del problema dei migranti. Un tema che noi italiani traduciamo automaticamente in “sbarchi”, ma che nella maggior parte dei paesi significa attraversamenti (terrestri) delle frontiere esterne dell’Europa e movimenti secondari fra Stati dell’Unione Europea, due fenomeni che allarmano sempre di più governi e opinioni pubbliche. Si può molto disquisire sulla gravità effettiva della situazione, dividendosi fra quanti vedono un’invasione in atto, e quanti preferiscono parlare di “invasione percepita”. Ma è del tutto inutile. Grave o no che sia la situazione, è inevitabile che il tema dei migranti sia al centro della imminente campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. Tanto più che il voto è previsto per il prossimo mese di giugno, in una stagione che è la più favorevole agli attraversamenti del Mediterraneo.

A prima vista, l’irrompere del tema dei migranti favorisce la destra, che da decenni ne ha fatto un cavallo di battaglia. Ma non è scontato. Molto dipende dalla linea politica con cui le forze di sinistra, prima fra tutte il Pd, si rivolgeranno all’elettorato. Ove Elly Schlein dovesse insistere con la linea attuale, che minimizza la gravità del problema degli sbarchi, effettivamente l’esito più probabile sarebbe un rafforzamento dei partiti più ostili ai migranti, ossia Lega e Fratelli d’Italia. E forse pure una redistribuzione di voti interna della sinistra a vantaggio dei Cinque Stelle, che da sempre rappresentano la componente più critica sugli sbarchi e sulle Ong (ricordate i “taxi del mare” di Luigi Di Maio?).

Ma se Elly Schlein correggesse la rotta, prendendo sul serio il problema dei flussi migratori? Se il Pd ammettesse che la moltiplicazione dei salvataggi in mare e il rafforzamento delle strutture dell’accoglienza non possono essere la soluzione, e proponesse delle misure realistiche e praticabili?

In quel caso, l’accusa a Giorgia Meloni di non aver mantenuto le promesse di bloccare gli sbarchi, un’accusa ossessivamente ripetuta da tutti i media progressisti da quando è in carica il nuovo governo, potrebbe diventare credibile (ed elettoralmente remunerativa per la sinistra). Una parte degli italiani, delusi dall’impotenza dell’esecutivo, potrebbe convincersi che – in materia di controllo dei flussi migratori – la sinistra ha soluzioni più efficaci di quelle della destra.

Fantascienza?

Probabilmente sì, perché il Pd è saldamente in mano a un manipolo di fedeli della segretaria. Ma non perché sinistra e sicurezza siano due parole che non possono stare insieme. Una sinistra non sorda alla domanda di sicurezza proveniente dai ceti popolari esiste da tempo negli Stati Uniti (con i Blue dogsdel partito democratico) e nel Regno Unito (il cosiddetto Blue Labour), ma anche in Europa, dove le recenti affermazioni elettorali dei partiti socialisti in paesi come la Danimarca e la Slovacchia sono avvenute su severi programmi di controllo dell’immigrazione.

E in Italia?

In Italia basterebbe non dimenticare la nostra storia. Su posizioni nettamente securitarie si sono trovati in passato diversi sindaci di sinistra, come Flavio Zanonato a Padova, Sergio Cofferati a Bologna, lo “sceriffo” Vincenzo De Luca a Salerno. Ultra-securitari sono stati i comportamenti del ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) ai tempi del governo Gentiloni, così come i suoi recenti interventi a sostegno della linea Meloni-von der Leyen in Africa. E posizioni securitarie sono state assunte da intellettuali di sicura fede progressista, come lo psicanalista Massimo Recalcati o l’economista Carlo Cottarelli. Quest’ultimo, in un’intervista di poche settimane fa, è arrivato ad elogiare il “modello australiano”, proponendo di concentrare in Algeria i migranti salvati in mare “in attesa che siano sbrigate le pratiche burocratiche”.

Insomma, in Italia una sinistra securitaria esiste, anche nel Pd. Se non la vediamo, è perché la comunicazione del partito è monopolizzata dal cerchio magico della segretaria. E la minoranza, il coraggio di uscire allo scoperto non lo ha ancora trovato.

Ritorno a Carosello? – A proposito dello spot Esselunga

3 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

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Per chi si occupa di comunicazione i prossimi mesi si annunciano interessanti. Lo spot Esselunga, quello della pesca e di Emma bambina triste figlia di genitori separati, quello che è piaciuto a Giorgia Meloni (“bello e toccante”), e di conseguenza non può piacere a un buon progressista, ha infatti aperto una serie di interrogativi sull’evoluzione futura dei messaggi pubblicitari.

Lo “spot della pesca”, infatti, è al tempo stesso nuovissimo e vecchissimo, quasi antico. Nuovissimo perché rarissimamente, negli ultimi decenni, abbiamo avuto occasione di vedere spot così lunghi. Soprattutto, molto raramente abbiamo visto degli spot che raccontassero una storia, una vicenda, anziché limitarsi a mostrare una situazione, una performance, un’immagine in movimento. La brevità degli spot è strutturalmente incompatibile con il respiro di un racconto, che richiede un tempo almeno triplo o quadruplo rispetto alla durata media degli spot attuali.

Ma lo spot Esselunga è anche antico, perché ci riporta al ventennio di “Carosello” (1957-1977), quando la pubblicità era rarissima in tv, e si concentrava nei 10 minuti che precedono le 21, subito prima di mandare i bambini “a nanna”. In quel tempo solo 36 grandi marche avevano le risorse per permettersi Carosello, uno spazio che occupavano ogni 9 giorni, ma il punto interessante è che lo facevano con dei filmati (sketch, cartoni animati, intermezzi musicali) ogni volta nuovi, e tuttavia sempre fedeli a sé stessi. Lo spettatore riconosceva personaggi e situazioni (alcune indimenticabili: Calimero pulcino nero, Olivella e Maria Rosa, Caio Gregorio “er guardiano der Pretorio”, eccetera), ma aveva una garanzia: il prossimo spot, la settimana successiva, sarebbe stato diverso. E c’erano regole precise, ad esempio lo spettacolo o la storia dovevano occupare molto più tempo di quello dedicato all’esaltazione del prodotto.

E ora?

Ora si aprono molti bivii e molte domande. Non è chiaro, ad esempio, se la scelta di Esselunga verrà imitata da altri marchi. E, nel caso lo dovesse essere, se assisteremo a oppure no a una riduzione della frequenza (attualmente ossessiva) con cui i medesimi spot ci bombardano, spesso contemporaneamente da più di un canale. Vi siete mai accorti che, quando facciamo zapping perché il programma che stiamo seguendo va in pubblicità, non solo caschiamo dentro un altro incubo pubblicitario, ma incocciamo nelle medesime pubblicità del canale che abbiamo appena abbandonato? Ci sono pubblicità che letteralmente ci perseguitano, con la loro frequenza e la loro ubiquità. Ebbene, è possibile che l’adozione del modello Esselunga porti anche, per ovvie ragioni di costi, a una riduzione del tasso di bombardamento attuale: spot più lunghi, ma sensibilmente meno frequenti.

Ma qui incontriamo un altro bivio. Se una o più marche dovessero adottare il modello Esselunga, si aprirebbero due possibilità: riproporre la stessa identica storia per mesi e mesi, oppure rinnovarla, variarla (o farla evolvere in una stoia più lunga? E se i genitori di Emma tornassero insieme?) con una frequenza comparabile a quella delle pubblicità di Carosello, diciamo almeno una volta ogni due settimane. I costi di produzione degli spot salirebbero vertiginosamente, ma anche questo – insieme alla maggiore durata dello spot – potrebbe indurre una (forse auspicabile) riduzione del tasso di ripetizione del medesimo spot.

Vedremo. Ma se il caso Esselunga, scemate le demenziali polemiche politiche di questi giorni, innescasse una riflessione sul senso e l’efficacia delle strategie di bombardamento pubblicitario, sarebbe un fatto positivo. Almeno per chi, dell’attuale selva di spot tanto brevi quanto (sovente) brutti, ha fatto indigestione.

La pesca della discordia – A proposito dello spot di Esselunga

30 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Antefatto. Lunedì 25 settembre va in onda uno spot della Esselunga in cui Emma, una bambina figlia di genitori che non vivono più insieme, ruba una pesca al supermercato per poi donarla al padre, facendogli credere che il dono provenga dalla madre. Il messaggio è limpido e semplice: la bambina è triste perché i genitori sono divisi, e ricorre a un piccolo sotterfugio nella speranza di farli tornare uniti.

Passano poche ore, e fioccano le critiche, ma anche gli elogi. C’è chi dice che lo spot strumentalizza il dolore dei bambini per fini commerciali (Bersani). C’è chi invita a riflettere sul carrello degli italiani, per molti dei quali “anche una pesca rischia di diventare un lusso” (Fratoianni). C’è chi legge lo spot come un attacco alla legge sul divorzio e chi, viceversa, vi vede un omaggio alla famiglia tradizionale. C’è chi, insorge a difesa dei genitori che divorziano, e ci spiega che non tutti i figli di genitori divorziati sono infelici, così come non tutti i figli di genitori sposati sono felici.

In generale, gli esponenti della destra apprezzano lo spot, a partire da Giorgia Meloni che lo trova “bello e toccante”. Mentre quelli della sinistra lo criticano, anche se non tutti (con la consueta franchezza, Antonio Padellaro confessa di pensarla come Giorgia Meloni).

Quanto ai social non è affatto vero che la gente sia divisa. La stragrande maggioranza dei commenti è favorevole, spesso addirittura entusiasta.

Ma perché lo spot della Esselunga ha suscitato tanto interesse e tanto consenso?

Una ragione, probabilmente, è che è uno dei pochissimi spot che non trasmette un’idea stereotipata, banale e sostanzialmente falsa della realtà. Con lo spot di Esselunga, la realtà irrompe mostrando la normalità del dolore. Perché, forse non tutti lo sanno, ma la normalità, oggi in Italia, non è la famiglia Mulino Bianco, bucolica e felice, ma la famiglia che si è spezzata o si sta spezzando. La durata media delle unioni è crollata rispetto a quella del passato. Ci si sposa più tardi, e ci si divide più presto (già a 40-45 anni). Il numero di separazioni e divorzi ha ormai raggiunto il numero di matrimoni e, nelle cause di separazione o divorzio, la norma è che bambine e bambini siano affidati a entrambi i coniugi, come pare essere nel caso dello spot. Ed è curioso che, nel vortice dei temi quotidianamente affrontati sui giornali, sui siti, nei talkshow, trovino quotidianamente spazio una miriade di argomenti marginali, di fatti contingenti, di problematiche di nicchia, ma che del dolore delle famiglie in disgregazione si preferisca parlare pochissimo. Da un certo punto di vista, il massiccio consenso allo spot è parallelo e affine a quello che ha accompagnato il libro-bestseller del generale Vannacci: la normalità e la sua rappresentazione suscitano scandalo nelle élite intellettuali e politiche, ma riscuotono l’approvazione, non di rado entusiastica, di tanti cittadini comuni, che riconoscono più verità e umanità nello spot della pesca che in tante contese mediatiche, spesso lontane mille miglia dalle sofferenze quotidiane di tanti.

C’è però, forse, anche una seconda ragione alla base del successo dello spot. Una ragione che, stranamente, non mi pare di aver sentito evocare da nessuno. Questa ragione è il completo cambiamento del formato dello spot, che è diventato molto più lungo e, soprattutto, racconta una storia. Non più messaggi brevi e pretenziosi, non più situazioni improbabili o demenziali, non più lusinghe del consumatore e poco credibili gratificazioni dell’ego, bensì una storia semplice, comprensibilissima, e capace di andare dritta al cuore. Senza sottintesi ideologici, senza ipocriti messaggi umanitari, senza pretese di educare nessuno o di salvare il mondo. In breve: un racconto, non una predica.

Insomma: forse Esselunga, a 46 anni di distanza, ha riscoperto e rilanciato la formula di “Carosello”, quel quarto d’ora di messaggi pubblicitari che, intorno alle 21, segnalavano in modo irrevocabile che, per i bambini, era l’ora di “andare a nanna”. In quegli spot l’elemento essenziale, quello che affezionava l’ascoltatore, era il brio e l’originalità delle storie, delle scenette, spesso cartoni animati, sempre quelle ma ogni volta diverse. Il messaggio pubblicitario era secondario, quasi marginale. Allora, come nello spot Esselunga, l’elemento cruciale era la capacità dei pubblicitari di inventare  storie efficaci, una capacità che – a dispetto della proliferazione dei “creativi” – non appare oggi copiosa come allora.

La reazione del pubblico alla storia di Emma e della pesca fa pensare che, forse, fra la pubblicità-messaggi e la pubblicità-storie, la gente preferisca la pubblicità-storie. E questo non solo perché le storie hanno una loro grazia e una loro semplicità, ma perché la pubblicità-messaggi è martellante, fintamente benevola, e in definitiva rozza e semplicistica. Che la mossa di Esselunga preluda a un ritorno all’antico?

[uscito sul Messaggero, 29 settembre 2023]

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