Follemente corretto (9) – Tempi duri per le opere d’arte

In un bell’articolo pubblicato su Linkiesta, Guia Soncini fa notare l’incredibile faziosità che contamina la campagna elettorale. L’ultimo esempio di doppio standard – o “due pesi e due misure” come si diceva una volta – sono gli insulti piovuti su Giorgia Meloni per aver postato il video di uno stupro, già pubblicato da “La Stampa” (sin dalla prima pubblicazione nessuno si era posto il problema del consenso della vittima di un reato) e le lodi ricevute da Pippo Civati per aver ripubblicato un video di cittadini milanesi in coda alla mensa dei poveri. Nel primo video il volto della donna stuprata era oscurato, nel secondo i volti dei poveri erano in chiaro. Perché insulti in un caso, lodi nell’altro? La risposta di Guia Soncini è che siamo accecati dalle nostre simpatie e antipatie, a loro volta guidate dalla tifoseria politica cui apparteniamo.

Temo che le cose stiano anche peggio. Ad essere colpiti dal doppio standard non sono solo i gesti politici, come quelli di una campagna elettorale, ma anche quelli artistici e culturali, persino quando i loro autori sono morti da un pezzo.

Un bell’esempio è fornito dalla pretesa di giudicare le opere del passato in base alla vita dei loro autori, setacciata ai raggi X in base agli standard etici del momento. Nel 2019, alla National Gallery di Londra, i dipinti di Gauguin sono stati contestati, e giudicati indegni di essere esposti, perché quando si era rifugiato a Tahiti, aveva convissuto con una ragazza del luogo quattordicenne, da cui aveva anche avuto un figlio. Qui il punto di vista che squalifica senza appello i dipinti di un artista è una sorta di femminismo retroattivo, ringalluzzito dal MeeToo, incapace di collocare le opere nel loro tempo (fine ’800) e nel luogo in cui sono state concepite (le isole della Polinesia).

Ma il caso di Gauguin è ancora fra i più innocenti, perché la politica c’entra molto alla lontana. Gauguin non era di destra o di sinistra, perché della politica non gli importava nulla.

I casi interessanti sono quelli in cui la tagliola che squalifica l’opera di un autore in base ai suoi costumi sessuali è regolata in base alle convinzioni politiche dell’autore stesso.

Per un motivo analogo a quello addotto nel caso di Gauguin (aver avuto una moglie minorenne), la statua di Indro Montanelli a Milano è stata fatta oggetto di ripetuti scempi, ed è tuttora bersaglio di polemiche politiche e pseudo-intellettuali. Come nel caso di Gauguin, le accuse si sono intensificate dopo lo scandalo Weinstein e il MeeToo (2017). Qui però la matrice degli attacchi non è solo femminista, ma è politica, perché Montanelli è stato fascista, è un grande giornalista, ma ha la colpa di essere un conservatore.

Si potrebbe pensare che, in materia di politicamente corretto applicato alle opere del passato, la faziosità sia una esclusiva della sinistra. Ma non è così. Un paio di anni prima del MeeToo, una polemica feroce investì l’opera del grande poeta cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, uscita postuma nel 1974 (a un anno dalla morte), qualcuno, a distanza di 40 anni, ebbe a notare un passaggio in cui il grande poeta raccontava uno stupro (o perlomeno un rapporto non consensuale), da lui consumato ai danni di una giovane donna Tamil, nera, povera, e della casta paria. In questo caso gli attacchi trovarono schierati sul medesimo fronte femministe cilene e politici di destra, ostili alla proposta di intitolare a Neruda l’aeroporto di Santiago del Cile.

A difesa del sommo poeta, comunista e perseguitato politico, si schierò invece la sinistra, esattamente come – nel caso degli attacchi a Montanelli – a difendere il nostro più grande giornalista, conservatore e a suo tempo gambizzato dalle Brigate Rosse, si era schierata la destra.

Morale della favola: nessuna opera del passato è al sicuro, meno che mai se il suo autore è classificabile come di destra o di sinistra.




La chimera della “congruità”

Se voleva attirare l’attenzione sull’esistenza del suo partito (“Noi moderati”, meno dell’1% dei consensi), forse Maurizio Lupi poteva scegliere una proposta migliore di quella che, per qualche ora, è circolata nei giorni scorsi. Dire, come in un primo tempo è stato detto, che un’offerta di lavoro deve essere accettata anche se “non congrua”, pena la perdita del sussidio, non è certo la via più saggia per riformare il reddito di cittadinanza.

Al di là del modo in cui si vorrà rimediare a questo ennesimo infortunio parlamentare, il problema della “congruità” resta. Che cosa è la congruità?

In tutte le formulazioni della legge, ossia quella originaria (2019) e quella del governo Draghi (2022), il concetto di congruità è piuttosto pasticciato, e in parte mal definito. Per congruità, infatti, si intende da un lato la coerenza dell’offerta con le esperienze e competenze maturate dal percettore del reddito di cittadinanza, dall’altra la sua adeguatezza in termini di sicurezza, reddito, distanza da casa, il tutto tenendo conto della durata dello stato di disoccupazione e del numero di offerte già ricevute. Nella versione Draghi, ad esempio, la distanza da casa massima è di 80 km da casa se il posto offerto è a tempo pieno e indeterminato, e inoltre costituisce la prima offerta, mentre, se costituisce la seconda offerta, la distanza da casa può essere qualsiasi (purché entro il territorio italiano). La definizione di congruità si complica poi ulteriormente se il lavoro offerto è a tempo parziale o determinato, o se il percettore di reddito di cittadinanza è al secondo utilizzo. Per non parlare delle regole che intervengono al momento di definire il livello minimo di reddito che il posto di lavoro offerto deve garantire.

Ma è ragionevole il modo in cui la legge vigente nel 2022 definisce un’offerta come congrua?

A mio parere no, per due distinti motivi. Il primo è che l’obbligo di accettare un’offerta in qualsiasi parte d’Italia, che scatta già alla seconda offerta, dovrebbe essere accompagnato da garanzie reddituali differenti a seconda che l’offerta obblighi oppure no a trasferire il domicilio, e a seconda del costo della vita nel nuovo domicilio. Manca, in altre parole, un meccanismo che permetta di misurare il valore economico dell’offerta, e su questa base fissi la soglia che obbliga ad accettarla. Credo che, se questo meccanismo venisse messo a punto in modo ragionevole, molte offerte che ora appaiono congrue cesserebbero di esserlo. E penso che la ragione per cui, finora, il problema delle offerte formalmente congrue, ma in realtà impossibili, non è ancora esploso, sia solo che la macchina che dovrebbe mettere in contatto domanda e offerta di lavoro non è mai stata messa in condizione di funzionare a dovere.

Il secondo motivo per cui la normativa attuale mi pare poco ragionevole è la pretesa che l’offerta sia coerente con “le esperienze e competenze maturate”. Questo è un tipico requisito fuzzy, sfumato, o mal definito, che come tale si presta a controversie e interpretazioni soggettive. Rendere obiettiva e impersonale la valutazione del grado di coerenza è praticamente impossibile, anche perché i titoli di studio sono spesso ben lungi dal certificare le capacità, conoscenze e capacità effettive dei loro possessori. Qui le strade mi paiono solo due: o si fornisce una definizione operativa plausibile della coerenza (vasto programma), oppure si taglia la testa al toro e si sopprime questo requisito, almeno nei casi in cui il posto offerto è a tempo pieno e indeterminato, e il salario è al di sopra di una determinata soglia.

L’unica alternativa da evitare mi pare quella di aggrapparsi al reddito di cittadinanza com’è, ossia nella versione severa ma tutto sommato iniqua attuale. Non solo il Pd e il Terzo Polo, ma anche i Cinque Stele farebbero bene a prendere atto che quella legge, sia nella versione originaria, sia in quella modificata dal governo Draghi, è piena di limiti, difetti e ambiguità. Prima fra tutte la chimera della “congruità”.




Follemente corretto (8) – Presunto colpevole

Supponete che il Parlamento italiano approvasse una legge controversa, ad esempio una norma che regola le adozioni dei bambini da parte delle coppie di fatto (non importa qui che tipo di norma). Credo che nessuno si stupirebbe se varie associazioni di genitori, educatori o altre categorie scendessero in campo, a favore o contro la legge. Nemmeno ci stupiremmo troppo se scrittori, studiosi, docenti, giornalisti, artisti e celebrità varie dicessero la loro, sui quotidiani o in tv. Così come considereremmo normale, in un mondo infestato dai social, che migliaia di utenti di internet fornissero il loro parere non richiesto sulla nuova norma.

Quello che invece ci apparirebbe strano, per non dire assurdo, è che l’amministratore delegato di un’azienda che non ha nulla a che fare con le adozioni – per esempio la catena di supermercati Esselunga – si scusasse con le proprie commesse e i propri impiegati per non aver preso immediatamente posizione contro la legge. Se lo facesse, lo considereremmo fuori luogo. Che cosa c’entra la Esselunga con le adozioni?  E poi, visto che la questione è controversa, perché mai l’amministratore delegato di una catena di supermercati dovrebbe prendere posizione contro? Perché non a favore?

Adesso spostiamoci negli Stati Uniti: lì invece può succedere. Anzi, è già successo. La questione controversa è a che età si può cominciare, nella scuola, a parlare di scelta di genere e orientamento sessuale. Come noto, le associazioni LGBT+ premono perché la scuola ne parli il più presto possibile. Diverse associazioni di genitori, invece, chiedono che venga rispettato l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che al comma 3 recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

Insomma, un caso perfetto di questione controversa. Su di essa, qualche mese fa, il Governatore (repubblicano) della Florida ha varato una legge che fissa il confine fra la 3° e la 4° elementare: nell’asilo e fino alla terza elementare non si può parlare di temi LGBT+, dopo invece sì può.

Risultato: Bob Chapek, amministratore delegato della Disney (un’azienda che ha una forte presenza in Florida), si è scusato con i propri dipendenti per non aver preso posizione tempestivamente contro la legge. E lo ha fatto con parole patetiche, per non dire piagnucolose: “Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace”.

Perché è intervenuto, lui che fa film e cartoni animati? Perché si è sentito in dovere, su una questione altamente controversa, di prendere posizione contro, anziché a favore?

La risposta non è semplice, perché è fatta di due tasselli logici distinti. Il primo è che l’establishment americano (di cui Chapek è parte) è progressista, e per i progressisti americani quella questione non è politica ma etica. Dunque ammette un’unica soluzione, esattamente come – per i fanatici religiosi – la sacralità della vita del feto chiude ogni possibilità di discussione sull’aborto.

Fin qui siamo di fronte a un problema di intolleranza laica, variante illuminista dell’intolleranza clericale. Ma questo spiega solo perché il Ceo di Disney abbia preso posizione contro la legge, anziché a favore. Non spiega come mai si sia sentito in dovere di assumere pubblicamente una posizione, anziché occuparsi del prossimo cartone animato.

Già, come mai?

E qui veniamo al secondo tassello. La ragione per cui, a differenza di quel che accadrebbe in Italia, in America un amministratore delegato si sente tenuto a prendere posizione, è che lì il politicamente corretto è riuscito a imporre una sorta di (folle) presunzione di colpevolezza: dato che discriminazione e razzismo sono ubiqui e “sistemici”, siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. E prendere posizione nel modo giusto è l’unica chance che abbiamo per provare la nostra innocenza.




Follemente corretto (7) – Nero di seppia

Supponete di aver invitato a cena per venerdì Angela, una vostra amica afroamericana di passaggio per l’Italia. Qualche giorno prima, diciamo martedì, cenate – sempre a casa vostra – con un’altra amica, Anna, bianca ed europea come voi. Anziché farle il solito risotto al parmigiano, vi lanciate in uno spettacolare risotto al nero di seppia.

La cosa viene alle orecchie di Angela, l’amica nera d’oltre oceano, che dagli Stati Uniti vi fa sapere che no, lei a casa vostra non intende più mettere piede. Ha saputo della vostra cena con Anna e del risotto al nero di seppia, “una pratica razzista e arcaica, che non ha diritto di cittadinanza nella società moderna”. Lei da voi a cena non verrà più, per rappresaglia.

Se vi capitasse, che cosa fareste?

Personalmente penserei che la mia amica Angela ha perso la testa, o ha un esaurimento, o sta scherzando.

Invece no. La Fondazione Arena di Verona, che organizza gli spettacoli nel meraviglioso anfiteatro di quella città si è trovata in una situazione simile, ma ha preso molto sul serio la faccenda.

I fatti. Nel mese di luglio il soprano Anna Netrebko interpreta il ruolo di Aida, principessa etiope, nella celebre opera di Verdi. Come di consueto, dovendo mettere in scena un personaggio nero, ed essendo Anna Netrebko bianca, si ricorre al blackface, la pratica di scurire il volto. Un artifizio scenico quali ve ne sono innumerevoli nel teatro, come la gobba di Rigoletto messa indosso a baritoni con la schiena normale.

Pochi giorni dopo, dovrebbe andare in scena la Traviata, con il soprano Angel Blue, afroamericana nel ruolo di Violetta. Ma lei, come la vostra amica   invitata a cena per venerdì, disdice sdegnosamente l’invito, perché qualche giorno prima l’Arena di Verona, in altra opera (Aida) e con altra interprete (Anna Netrebko) è ricorsa al blackface, come peraltro si è sempre fatto in casi simili.

La ragione? Secondo Angel blue la pratica del blackface è razzista:

“L’uso del blackface in qualsiasi circostanza, artistica o meno, è una pratica basata su tradizioni teatrali arcaiche che non hanno posto nella società moderna”.

La cosa curiosa, in tutta questa storia, è la reazione della Fondazione Arena di Verona. Anziché rivendicare l’autonomia artistica della regia (peraltro firmata da Zeffirelli), e il pieno diritto delle istituzioni di operare entro una tradizione culturale, arcaica o meno che essa risulti agli occhi di qualcuno, i responsabili della Fondazione hanno ritenuto di doversi giustificare, con argomenti invero penosi: non avevamo intenzione di offendere (come se una persona sana di mente potesse offendersi), l’allestimento è di 20 anni fa (e allora?), se vieni a Verona “potremo dialogare in modo costruttivo partendo proprio dalle tue riflessioni”.

Ma giustificarsi equivale ad ammettere che aver fatto il risotto con il nero di seppia a Anna possa essere offensivo per Angela. Mentre la vicenda dimostra solo due cose molto semplici.

Primo, che il politicamente corretto riesce a “scalare impensabili vette di stupidità”, come giustamente ha osservato Cesare Cavalleri su “Avvenire”.

Secondo, che l’accusa di razzismo, per quanto pretestuosa, campata per aria, priva di sostanza o stupida sia, ha uno straordinario potere intimidatorio. Chiunque la subisca, si sente tenuto a fornire giustificazioni, se non a confessare la sua colpa, come accadeva nei processi staliniani.

Brutta faccenda. Non poter ridere del ridicolo è un segnale inquietante, e inequivocabile, di una civiltà che sta smarrendo sé stessa.




Follemente corretto (6) – Guai dire grasso

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro, e per di più cambiano idea nel tempo. È già successo con la parola ‘cieco’, un tempo squalificatissima e sostituita con ‘non vedente’, ma ora riabilitata perché, a differenza di quest’ultima, indicherebbe una caratteristica della persona, anziché una mancanza, un difetto, un’assenza, una negatività, come è automatico se si usa il ‘non’. Lo stesso per ‘disabile’, che andrebbe sostituito con ‘persona con una disabilità’. Eccetera eccetera.

Così può succedere che negli anni ’70 io possa dire tranquillamente cieco; negli anni ’90 venga sgridato e rieducato a dire non vedente; negli anni 2000 venga rimbrottato perché sì, ho imparato a dire ‘non vedente’, ma non mi sono accorto che, nel frattempo, i molestatori della lingua hanno cambiato le regole e preferiscono tornare a cieco.

Né si pensi che la loro invadenza riguardi solo le parole che designano disabilità fisiche o mentali. Anche un aggettivo un tempo innocente come ‘grasso’ suscita discussioni. E la condizione esistenziale di essere grassi è addirittura oggetto di libri, riviste accademiche, ricerche, studi (i cosiddetti Fat Studies).

Come chiamare le persone grasse senza offenderle? Qual è il modo politicamente corretto di parlarne?

Neppure su questo c’è accordo fra gli aspiranti riformatori della lingua. Già una dozzina di anni fa The Times passava in rassegna 50 modi di dire “sei grasso”, alcuni politicamente corretti, altri no. Fra quelli accettabili, o addirittura PC, suggeriva ‘prosperoso’, ‘orizzontalmente svantaggiato’, ‘mangiatore entusiasta’.

Oggi il sito inglese di supporto grammaticale grammarhow, consiglia 12 soluzioni, con netta preferenza per ‘curvy’ (formosa) per le donne, e ‘jolly’ (gioioso, letteralmente) per gli uomini. Ma, ahimè, conclude con la solita raccomandazione: prima di usare ‘curvy’ e ‘jolly’ nei confronti di qualcuno, assicurarti che a quel qualcuno piaccia essere descritto con quel termine. Come se andare da una donna e dirle ‘posso chiamarti curvy?’ fosse un gesto gentile…

I veri problemi, però, sorgono in ambito medico. Alcuni considerano offensivi i termini ‘obeso’ o ‘sovrappeso’ (perché mai?), ma sono incerti su come sostituirli. Uno studio condotto una decina di anni fa dalla Yale School of Medicine concludeva che il termine meno sgradito dai pazienti era “unhealthy weight” (peso non salutare), e che 1 paziente su 5 era intenzionato a cambiare medico nel caso si fosse sentito stigmatizzato per il proprio peso.

Da decenni esiste un movimento per l’accettazione della condizione di essere grassi, che organizza manifestazioni e fat pride. Ma, negli ultimi tempi, sempre più di frequente accade che la condizione di essere grassi sia addirittura esaltata dai fan degli artisti e delle artiste grasse (“sei bellissima”), al punto che, per alcuni, essere grassi diventa motivo di orgoglio. Di qui un dilemma irrisolvibile per medici, dietologi, nutrizionisti: dire ai propri pazienti la verità (essere sovrappeso è dannoso per la salute), con il rischio di essere accusati di fat shaming o body shaming, o minimizzare il problema per non perdere pazienti?