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L’illusione fiscale

18 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo piano

C’è un ritornello, che sento da almeno trent’anni, più o meno da quando finì la prima Repubblica e l’Italia smise di crescere più della media delle economie avanzate. Il ritornello dice: se la (sacrosanta) lotta all’evasione fiscale avesse successo, e tutti pagassero le tasse dovute, l’Italia risolverebbe d’incanto tutti i suoi maggior problemi; con quei 100 miliardi di gettito addizionale, infatti, potremmo abbattere le liste d’attesa negli ospedali, costruire asili nido, pagare di più gli insegnanti, combattere la povertà.

Sembra un discorso ineccepibile, ma è del tutto sbagliato. Far pagare le tasse agli evasori è opportuno, oltreché giusto, ma le conseguenze di un fisco implacabile non sarebbero quelle attese, per vari motivi.

Intanto, perché una parte dell’evasione è “di sopravvivenza” (copyright: Stefano Fassina, economista e politico di sinistra). Ci sono operatori economici che semplicemente chiuderebbero, se dovessero pagare le tasse fino all’ultimo centesimo. Farli fallire è senz’altro una buona cosa in un’ottica liberista e schumpeteriana, per cui l’uscita dal mercato delle imprese inefficienti è il prezzo per alzare la produttività media (si chiama “distruzione creatrice”), ma si deve sapere che l’effetto immediato sarebbe la distruzione di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Ma c’è anche un altro motivo di riflessione. Anche ammesso che nessuna attività economica sia costretta a chiudere, l’effetto aggregato di un azzeramento dell’evasione sarebbe uno spaventoso aumento della pressione fiscale, già oggi una delle più alte fra le società avanzate. Oggi è circa il 43%, ma sfiorerebbe il 50% se al gettito attuale si dovesse aggiungere quello mancato a causa dell’evasione. Ma nessuna società avanzata raggiunge o sfiora il 50% di pressione fiscale, perché se ciò accadesse si arresterebbe completamente la crescita.

Dobbiamo dunque rinunciare a combattere l’evasione fiscale?

Assolutamente no. Quello cui dobbiamo rinunciare è l’illusione che la lotta all’evasione possa finanziare altra spesa pubblica. L’unica destinazione ragionevole delle maggiori entrate è l’abbassamento delle aliquote a chi già paga le tasse, a partire dalle imprese, che oggi hanno una tassazione globale (tasse + contributi sociali) che sfiora il 60%, superata solo da quella della Francia.

E i problemi del nostro stato sociale? Se il gettito recuperato non può essere destinato a rinforzare il welfare, come se ne esce?

Se vogliamo essere realisti, temo che dobbiamo rassegnarci ad alcune verità amare, presumibilmente indigeribili per qualsiasi leader politico. La prima è che la spesa pubblica corrente non può aumentare più del Pil, e quindi – falliti quasi tutti i tentativi di spending review – la via maestra per rafforzare lo stato sociale è tornare a crescere a un ritmo apprezzabile (cosa impensabile senza un drastico abbassamento della pressione fiscale sulle imprese). L’altra verità, documentata già un quarto di secolo fa dal rapporto Onofri (febbraio 1997), è che il male primario del nostro stato sociale è il suo squilibrio: la spesa previdenziale (pensioni) fa la parte del leone, soffocando tutto il resto. Se la spesa per le pensioni fosse allineata alla media europea, potremmo permetterci migliori ospedali, migliori scuole, migliori università, migliori servizi ai cittadini.

Ma questo è un altro, difficile, discorso: la demagogia in materia di pensioni, e la connessa rinuncia a puntare sulla previdenza complementare, è fra le colpe maggiori delle nostre classi dirigenti, fin dai tempi della prima Repubblica (ricordate gli insegnanti in pensione a 40 anni?). Un male aggravato dall’invecchiamento della popolazione, e da un tasso di occupazione che, nonostante i recenti progressi, resta il più basso dell’occidente.

Sarà un caso che, fra le società avanzate, siamo – contemporaneamente – quella con il tasso di occupazione più basso e quella che più si accanisce su chi produce?

L’esperimento – Accordo con l’Albania

15 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Alle volte gli economisti mi stupiscono per la loro ingenuità. L’ultima volta che mi è successo è stato sabato scorso, leggendo su Repubblica un articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti (due fra i miei economisti preferiti) sul progetto Meloni-Rama di delocalizzare in Albania 36 mila richieste di asilo l’anno, costruendo ex novo due appositi centri con una capacità totale di 3000 richiedenti asilo. Il nocciolo del ragionamento dei due illustri economisti è il seguente: il numero effettivo di domande smaltite sarà inferiore a 3000 all’anno perché il tempo medio di processamento delle richieste è 12 mesi, non 4 settimane.

In effetti, è quel che si insegna in vari corsi universitari, innanzitutto quelli di ingegneria gestionale, quando si spiega la formuletta che collega le vendite annuali con lo stock di merci in magazzino e il loro tempo medio di giacenza: se devo vendere 36000 e il mio magazzino tiene 3000 allora devo rinnovare il magazzino 12 volte l’anno. Banale, e leggermente cinico, visto che stiamo parlando di essere umani.

Però la formula è ineccepibile, come tutte le identità contabili. Il punto è un altro: perché mai il tempo di smaltimento delle domande dovrebbe essere 12 mesi, o addirittura superiore?

La risposta di Boeri e Perotti è: perché in Veneto, dove le cose vanno meglio che altrove, gli “operatori del settore” ci hanno detto che ci vogliono almeno 12 mesi. E, se accettiamo questa stima e la infiliamo nella formula di magazzino, salta fuori che non potremo processare più di 3000 domane e anzi, tenuto conto di altri fattori rallentanti, ne finiremo per processare circa 2000, con costi pro capite enormi, visti i costi fissi che i due centri albanesi comporteranno.

Ma la vera domanda è perché mai, in una struttura nuova di zecca, e dedicata solo alla gestione dei migranti, i tempi di smaltimento delle domande dovrebbero essere quelli medi attuali sul territorio della penisola, dove le questure sono sovraccariche (come gli ospedali!), le procedure sono complicate e farraginose (anche per il coinvolgimento di enti del terzo settore), e alle carenze di personale nelle questure e nelle commissioni territoriali non si riesce a porre rimedio?

E se accadesse invece esattamente l’inverso, ossia che proprio in Albania – e solo in Albania – i migranti potessero esercitare il diritto di essere ascoltati in tempi ragionevoli, senza le umiliazioni, le peregrinazioni, le infinite attese cui da sempre sono costretti in Italia?

In breve: la capacità effettiva dei due centri albanesi (36000 domande, o solo 2000?) non è determinabile con una formula contabile, ma è un interessante problema di sociologia dell’organizzazione. Può darsi benissimo che le cose vadano come prevedono Boeri e Perotti, e persino che vadano peggio: se a oltre 20 anni dal varo della legge Bossi-Fini nessun governo è riuscito a oliare gli ingranaggi della burocrazia dell’accoglienza, è possibilissimo che non ci riesca nemmeno questo governo.

Ma perché non dargli una chance? O, perlomeno, augurarsi che in Albania le cose vadano meglio che sul suolo italiano? Perché scommettere sempre e solo sul fallimento dei tentativi italiani di gestire il problema degli sbarchi? Perché le menti più brillanti di questo paese, anche quando sono chiaramente collocate nel campo riformista, si ingegnano soltanto a profetizzare fallimenti, anziché a dare idee su come correggere quel che non va e far riuscire l’esperimento?

Forse, una vera sinistra riformista, liberale, empirista, deve ancora nascere in Italia. Perché, se ci fosse, la sua stella polare sarebbe l’interesse nazionale, non la speranza – neanche poi tanto segreta – che l’esperimento albanese si riveli l’ennesimo flop.

Il diritto alla paura – In margine al caso Bruck

13 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Hanno suscitato un certo scalpore le recenti parole di Edith Bruck, scrittrice ebrea progressista, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Dachau. In due distinte interviste, una rilasciata all’agenzia “LaPresse” (3 novembre), l’altra al Corriere della Sera (5 novembre), la scrittrice e poetessa confessa che, dopo il massacro dei bambini israeliani perpetrato da Hamas, ha cambiato idea sull’immigrazione, le politiche si accoglienza, l’antisemitismo arabo e palestinese.

E lo spiega con frasi molto chiare ed esplicite, sia sulla situazione in Francia, sia su quel che accade in Italia. Sulla Francia dice: “stiamo accogliendo i nostri stessi nemici in casa. Ma vediamo che cosa è accaduto in Francia? Quasi otto milioni di immigrati e sono loro i più antisemiti di tutti”. Quanto all’Italia: “Per anni abbiamo accolto tutti coloro che arrivavano dal mare. Io stesso dicevo: poveretti, dobbiamo aiutarli. Ma adesso è molto diverso”. E poi: “Io non avevo alcun pregiudizio, ho sempre difeso i più deboli (…). Però ora tutto è cambiato. Io stessa sono cambiata. Sì, sono cambiata. Quelle atroci immagini delle teste di bambini decapitati usate per giocare a calcio sono le stesse di Auschwitz. E ora, in mezzo a chi arriva, è facile immaginare che ci siano terroristi, militanti antisemiti. Davvero non so come si possa fare, difficile selezionare chi arriva. Ma far entrare tutti, ora, è assurdo”.

Le interviste contengono anche altri passaggi assai duri, contro “certa sinistra” cieca di fronte al terrorismo di Hamas, o contro la scelta di boicottare Lucca Comics a causa del patrocinio di Israele. E prospettano pure una sorta di rivalutazione di Salvini e Meloni. Cito testualmente: “Noi prima ce l’avevamo con loro due per come la pensavano sull’immigrazione. Oggi per me non è più così”.

Le parole di Edith Bruck sono importanti. Anzi, direi che sono cruciali, perché ci costringono a riflettere a fondo su concetti come razzismo, xenofobia, islamofobia. Il pensiero dominante sui media (e fra le élite) è che si tratti di atteggiamenti di ostilità, talora di odio, verso determinati gruppi o etnie, e che tali atteggiamenti siano basati su ignoranza, pregiudizi, false credenze. Di qui la necessità, anzi l’imperativo categorico, di correggere, istruire, rieducare a una corretta percezione della realtà.

Ma qualcuno può pensare di dover rieducare Edith Bruck? Qualcuno può pensare che le sue riserve sulle politiche di accoglienza, o sul potenziale antisemita degli immigrati musulmani, siano frutto di pregiudizi razziali?

No, credo che Edith Bruck sia stata semplicemente sincera. E che sia venuto il momento di riconoscere qual è il meccanismo che, spesso, fa scattare la diffidenza verso determinati gruppi e, simmetricamente, qual è il meccanismo che la disattiva. Ebbene il meccanismo-base è l’esposizione differenziale al rischio. Ci sono gruppi sociali più esposti al rischio di interazioni sociali pericolose, e gruppi sociali meno esposti. È questo che differenzia i “ceti medi riflessivi” dai ceti popolari. È questo che, nelle grandi città, distingue chi vive nella Ztl da chi abita nelle periferie. Non è perché sono rozzi e incolti che i ceti popolari sono più inclini dei ceti alti a diffidare degli immigrati, ma semplicemente perché – per i luoghi in cui vivono, e per gli strumenti di autodifesa di cui (non) dispongono – sono più soggetti a vari tipi di rischio: aggressioni, furti, rapine, ma anche concorrenza sul mercato del lavoro e nell’accesso al welfare. Simmetricamente, non è perché sono dotati di una superiore moralità che i ceti privilegiati sono aperti e tolleranti, ma perché corrono obiettivamente meno rischi, e talora riescono pure a usare le loro doti civiche come simboli di status (un meccanismo che ha condotto lo psicologo Rob Henderson a coniare l’espressione luxury beliefs, convinzioni di lusso).

Il caso della Bruck illustra in modo perfetto il meccanismo: per l’élite culturale l’apertura è un comodo segno di distinzione e di superiorità morale fino a quando non si corre il rischio di diventare bersagli, ma diventa improvvisamente una postura irrazionale allorché ci si rende conto di essere personalmente vulnerabili, in questo caso in quanto ebrei.

Di qui una semplice lezione. Quel che viene sbrigativamente etichettato come razzismo, xenofobia, islamofobia, talora è effettivamente odio e disprezzo immotivato per determinati gruppi o minoranze, ma non di rado è semplicemente paura, timore, preoccupazione, avversione al rischio. Fra i tanti diritti che ci piace esaltare e tutelare, forse dovremmo includere anche il diritto a provare paura. Un sentimento che troppo spesso rimproveriamo agli altri, salvo riscoprirne la legittimità quando, improvvisamente, irrompe nella nostra vita.

P.S. Nei giorni scorsi Edith Bruck ha sentito il bisogno di ritrattare le affermazioni rilasciate nelle due interviste, accusando il “Corriere della Sera” di aver omesso un punto interrogativo, e la stampa in generale di “estrapolare e fraintendere”. Forse avrebbe fatto meglio a rivendicare la propria sincerità, magari rievocando quella famosa, indimenticabile, vignetta di Altan, in cui il vecchio operaio rivela: “alle volte mi vengono in testa idee che non condivido”.

Il non detto – Sulla soluzione dei due stati

8 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Non esiste giustificazione alcuna per quel che Hamas ha fatto il 7 ottobre. Lo stato di Israele ha il diritto di esistere. I palestinesi hanno diritto a un loro stato.

Questi sono, per me, gli unici punti fermi di una posizione ragionevole sulla questione palestinese. Su tutto il resto è lecito discutere. Ma discutere come?

Possibilmente, non come si è fatto fin qui, da entrambe le parti. C’è un tratto, infatti, che accomuna la maggior parte delle prese di posizione pro-Israele e pro-Palestina: l’accurata omissione di elementi cruciali (e scomodi per una delle due parti) della questione palestinese. Vediamone alcuni.

Chi parteggia per i palestinesi quasi sempre dimentica almeno quattro fatti. Primo, che la soluzione salomonica dell’ONU nel 1947, con la creazione di uno stato ebraico e uno stato arabo, fu accettata (a larghissima maggioranza) dalla comunità ebraica e respinta dai palestinesi e dagli altri stati arabi circostanti. Secondo, che la guerra del 1948 che ne seguì fu il primo tentativo di cancellare lo stato di Israele dalla Palestina. Terzo, che lo statuto di Hamas del 1988, di fatto, prevede tale cancellazione. Quarto, che i palestinesi non hanno una rappresentanza politica unitaria, perché – dopo le elezioni del 2006 a Gaza (vinte da Hamas) e la guerra civile che ne è seguita – le due principali organizzazioni (Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen) sono in feroce competizione fra loro, e rifiutano di sottoporsi a libere elezioni.

Ma anche i difensori di Israele hanno le loro dimenticanze. Il primo “non detto” è che, di guerra in guerra, i territori occupati da Israele si sono enormemente ampliati: nella partizione dell’Onu del 1947 la quota di Israele era del 56%, oggi sfiora il 90% del territorio complessivo che ospita israeliani e palestinesi. Il secondo non detto è che, di fatto, la striscia di Gaza (governata da Hamas) non è affatto un territorio autonomo, perché tutte le uscite e gli ingressi (tranne quella verso l’Egitto) sono rigidamente controllate da Israele. Il terzo non detto è che gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania sono così diffusi e capillari da rendere praticamente impossibile la costruzione di uno stato palestinese di dimensioni accettabili.

Allo stato attuale l’unico embrione di stato palestinese è l’area A della Cisgiordania, che è sotto il controllo dell’autorità palestinese (Abu Mazen) ma copre appena il 3.6% dell’intera Palestina (Israele + Gaza + Cisgiordania), e inoltre è priva di continuità territoriale, in quanto sistematicamente punteggiata da insediamenti israeliani.

Conclusione. È vero che, in astratto, la soluzione “due popoli, due stati” è l’unica ragionevole. Ma è ipocrita parlarne come se bastasse un atto di buona volontà politica per realizzarla. Anche se Hamas sparisse dalla faccia della terra, il mondo arabo riconoscesse il diritto di Israele di esistere, e l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen prendesse il controllo della striscia di Gaza (come da qualche giorno si favoleggia), resterebbe il problema della Cisgiordania, dove ci sono 500 mila coloni israeliani, che sarà quasi impossibile convincere a ritirarsi. Per non parlare dello status di Gerusalemme, dal 1980 annessa a Israele, in cui risiedono circa 200 mila ebrei e altrettanti arabi. Anche se Israele dovesse cedere ai palestinesi, oltre a Gaza, Geruslemme Est, l’intera area A e l’intera area B della Cisgiordania, e tutti i coloni dovessero ritirarsi da questi territori, allo stato palestinese spetterebbe poco più del 10% della Palestina.  Come dire: a Israele la Lombardia, ai palestinesi la Valle d’Aosta.

In queste condizioni, il massimo che è realisticamente concepibile è una soluzione a due stati asimmetrica: uno stato a Israele, uno staterello ai Palestinesi. Basterà a portare la pace?

Perché non possiamo stupirci – Il ritorno dell’antisemitismo

6 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Le piazze occidentali, prima ancora che scattasse la reazione israeliana all’eccidio del 7 ottobre, si sono riempite di manifestanti solidali con la causa palestinese, ferocemente ostili ad Israele, per niente critici con Hamas. Contemporaneamente, nei quartieri delle grandi città, intorno alle sinagoghe, nei cimiteri si sono moltiplicati i gesti esplicitamente antisemiti. Mai, dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla chiusura dei campi di sterminio hitleriani, si era sentito tanto odio verso gli ebrei, i loro simboli, le loro istituzioni.

Di fronte a tutto questo, la reazione di tanti liberali, più che di indignazione, è stata di incredulità. A molti è parso semplicemente inconcepibile che, dopo tanti anni passati a denunciare gli orrori della Shoah, le nostre avanzatissime società democratiche dovessero scoprire, improvvisamente, di non avere gli anticorpi per arginare l’antisemitismo. Ed è parso sconvolgente che i primi a non avere quegli anticorpi fossero proprio i più giovani e istruiti, a partire dagli studenti delle grandi università americane.

Ma è davvero stupefacente la marea antisemita che è montata in queste settimane? È davvero sconvolgente che, a tanti settori della sinistra, risulti impossibile denunciare la natura terroristica di Hamas? È davvero strano che, dopo decenni di politicamente corretto e di antirazzismo, il mondo progressista non senta il bisogno di scendere in piazza contro il moltiplicarsi degli episodi di antisemitismo?

Ebbene no. Non è affatto strano. Una ragione c’è, anzi ce ne sono parecchie. La più importante è che, in questi quasi 80 anni che ci separano dalla liberazione dal nazi-fascismo, la persecuzione degli ebrei è stata raccontata in modo storicamente fuorviante e ideologicamente strumentale.

Storicamente fuorviante perché è stata completamente omessa la storia delle innumerevoli persecuzioni degli ebrei nell’antichità, nel medioevo, nell’era moderna, prima e soprattutto dopo le leggi razziali e i campi di concentramento. Che cosa sanno i ragazzi, per stare solo agli ultimi due secoli, dei pogrom (stermini di massa) contro gli ebrei in Ucraina, in Bielorussia, in Unione sovietica, con e senza Stalin? Che cosa è stato loro raccontato dell’antisemitismo dei giorni nostri, in Europa come in Nordamerica?

Fondamentalmente, nulla. L’antisemitismo è stato raccontato come una follia del regime nazista, cui malauguratamente e colpevolmente aderì anche il fascismo. Dunque come un unicum, un colpo di testa della storia universale, per scongiurare il cui ripetersi era doveroso (e sufficiente) l’impegno antifascista e antinazista, la vigilanza permanente dei sinceri democratici contro i rigurgiti del regime. Come se l’antisemitismo fosse un’esclusiva del nazi-fascismo, e non un atteggiamento ad ampio spettro, che ha profondamente coinvolto anche altri paesi e altre ideologie, a partire dal comunismo, dal fanatismo islamico, dallo stesso cristianesimo. Il “dovere della memoria” rispetto alla tragedia di Auschwitz è stato ridotto e sminuito, strumentalmente, ad arma di lotta politica, senza preoccuparsi di trasmettere conoscenza e costruire consapevolezza sul dramma degli ebrei. Possiamo stupirci che, con queste premesse, l’occidente oggi si trovi senza anticorpi?

Si potrebbe obiettare che, almeno un aspetto delle vicende di questi giorni sia stupefacente, e cioè lo scambio di ruoli fra destra e sinistra, con la destra (presunta erede del fascismo) che difende Israele e si indigna per gli episodi di antisemitismo, e la sinistra che non ce la fa a condannare Hamas senza tentennamenti, precisazioni, distinguo. Ma anche questo non è strano, a pensarci bene. Non solo perché c’è, in una parte della sinistra, una lunga tradizione di ambiguità sulla legittimità della violenza, della lotta armata, del terrorismo, allorquando sono al servizio di una causa percepita come giusta; ma anche perché c’è – nella mentalità progressista – una fondamentale incapacità di vedere gli attori delle vicende umane come responsabili delle loro azioni.

L’uccisione di civili inermi, gli stupri, le decapitazioni, non vengono giudicate per quello che sono, ossia scelte di chi le compie, ma giustificate come reazioni –  inevitabili, quasi meccaniche – dei più deboli di fronte a una condizione insostenibile dovuta alla prepotenza dei più forti. I terroristi non sono visti come esseri umani, cui chiedere conto delle proprie azioni, ma come macchine irresponsabili del loro operato,

deterministicamente mosse dalla situazione oggettiva in cui si trovano.

Ma non funziona così. Ce lo ha ricordato qualche giorno fa dalle colonne della Stampa il teologo Vito Mancuso, riprendendo la testimonianza dello psicologo viennese Victor Frankl (un sopravvissuto ad Auschwitz) sulle condizioni nel campo di sterminio: “per fortuna o sfortuna che sia, la libertà esiste davvero”; e “tutto ciò che accade all’anima dell’uomo è frutto di una decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da gravissime condizioni esterne, può in qualche modo decidere che cosa sarà di sé”.

I terroristi di Hamas, che cosa essere, lo hanno deciso: non esiste alcuna “situazione oggettiva” che può averli costretti a fare quel che hanno fatto.

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