Mezzi di informazione e manifestazioni contro il self-id – Un inquietante silenzio

La notizia è che quasi nessuno, e meno che mai i grandi giornali e le grandi reti tv, ne ha parlato. Eppure è successo, un po’ dappertutto nel mondo (o più precisamente nei paesi democratici).

Parigi. Berlino. Milano. Madrid. Barcellona. Maiorca. Lisbona. Vienna. Praga. Berna. Copenhagen. Bruxelles. The Hague. Lussemburgo. Oslo. Londra. Manchester. Edimburgo. Dublino. Glasgow. Cardiff. Swansea. New York. Washington. Atlanta.
San Francisco. Chicago. Chennai, Tokyo. San Poalo, Buenos Aires, Rio de Janeiro. Taipei. Brisbane. Wellington. Montreal…

Sono decine e decine le grandi città in cui, il 1° novembre, si sono date appuntamento migliaia di donne per protestare davanti alle ambasciate e ai consolati della Germania. Perché tanto silenzio? Come mai ogni sera veniamo minuziosamente informati delle più banali, irrilevanti, o semplicemente ultra-localistiche manifestazioni di protesta, e nulla, invece, ci viene detto di quel che è appena capitato nelle principali città del mondo?

Per provare a capire, ricapitoliamo i fatti. Il 1° novembre, in Germania, è entrata in vigore una legge rivoluzionaria sul self-id, o autodeterminazione di genere. La nuova legge permette a chiunque di cambiare genere con un atto puramente amministrativo,
indipendentemente da qualsiasi valutazione di medici, psichiatri, psicologi, giudici. In particolare, permette a qualsiasi maschio di proclamarsi femmina, e così accedere a spazi e benefici riservati alle donne. Dove gli spazi invasi possono essere i reparti
femminili nelle carceri, i centri anti-violenza, le competizioni femminili nello sport. Mentre i benefici vanno dalle quote rosa in ambito economico o elettorale alle agevolazioni in materia di assunzioni e pensionamenti.

E non è tutto. Dopo aver cambiato genere una prima volta si può, dopo 12 mesi, tornare al sesso originario, e poi magari cambiare di nuovo, e così via per anni. In linea di principio, una persona può cambiare genere/sesso anche decine di volte, a seconda delle opportunità e dei rischi. Quanto ai minori, dall’età di 14 anni possono cambiare genere con il consenso dei genitori, e dai 14 ai 18 anni anche senza, purché un giudice dia l’ok.

Ma l’aspetto più paradossale della legge, fortemente voluta dalla cosiddetta coalizione semaforo (socialisti, liberali, verdi) è quel che implica per i neonati. Al momento di registrarli all’anagrafe, oltre al nome, ora i genitori potranno anche scegliere il genere fra quattro alternative: maschio; femmina; diverso; nessuno. Un bambino biologicamente maschio potrebbe trovarsi a dover fare i conti con una famiglia che lo tratta come una femmina, e viceversa (per non parlare dei bambini arbitrariamente considerati come di un genere “diverso”, o di nessun genere).

Infine, le sanzioni: chi trattasse un autopercepito lui come una lei (o viceversa), rischia una sanzione fino a 10 mila euro.

È contro tutto questo che si sono mobilitate le donne tedesche, ed è in loro aiuto che sono scese in piazza le donne in tante città di tutto il mondo.

Ed ora torniamo alla domanda iniziale: perché questo silenzio assordante dei mezzi di informazione sulle manifestazioni del 1° novembre a sostegno delle donne tedesche, vittime di una legge che ne comprometterà la sicurezza e ne eroderà le conquiste?

Sarò molto sincero: non mi è chiaro.

Una ragione potrebbe essere che il movimento di resistenza al self-id, pur avendo fra le sue promotrici Joanne Rowling e altre celebrità, è largamente minoritario (ma lo sono anche altri movimenti, di cui in realtà si parla parecchio). Un’altra ragione,
potrebbe essere che, a giudicare dalle immagini circolate nei giorni scorsi, l’età media delle femministe che protestano contro il self-id è abbastanza avanzata (qualcuno potrebbe dire che si tratta soprattutto di boomers, nate fra il 1946 e il 1964). Un’altra
ragione ancora potrebbe essere la forza e l’ubiquità del politicamente corretto, che privilegia nettamente la comunità trans, a scapito del mondo femminile.

Ma anche quest’ultima ragione non mi convince granché: tutta la stampa di destra è ostile alle rivendicazioni trans, eppure anch’essa è rimasta in silenzio. Insomma, il rebus sembra restare tale.

Forse, per capire, dobbiamo scavare in altra direzione. Il punto debole dei presidi davanti alle ambasciate germaniche potrebbe essere, semplicemente, la loro compostezza. Nessuna delle donne scese in piazza ha bloccato il traffico, o imbrattato monumenti, o scagliato molotov contro la polizia. Nessuna si è spogliata, nessuna ha lanciato sassi, nessuna ha gridato slogan offensivi.

Manifestare pacificamente non paga?

[articolo inviato alla Ragione il 3 novembre 2024]




Elezioni Usa – I silenzi di Harris e Trump

Se i sondaggi sulle elezioni americane non mentono, il risultato finale sarà vicino a un pareggio. E immancabilmente ascolteremo innumerevoli spiegazioni dell’esito del voto, che sarà agevole attribuire a specifici fattori (l’immigrazione, l’economia, la
sanità…) o a specifici gruppi sociali (i maschi bianchi, gli afro-americani, le donne…). Quando la vittoria è risicata, quasi tutto e tutti possono – con il senno di poi – apparire come decisivi, perché basta ipotizzare un piccolo spostamento di voti di una categoria o di uno Stato per immaginare un esito opposto a quello effettivo.

C’è un gruppo sociale, tuttavia, che sembra – in questa elezione – poter svolgere un ruolo particolarmente rilevante, anche a livello simbolico: quello delle donne. Questo non tanto perché le donne hanno un tasso di partecipazione elettorale più elevato di
quello degli uomini, ma perché mai come in questa occasione sono stati così centrali alcuni temi cruciali per la condizione femminile.

Sotto la voce onnicomprensiva “diritti riproduttivi”, negli Stati Uniti da anni si discute di almeno due questioni, che da noi (e più in generale in Europa), vengono trattate sotto due etichette distinte: diritti LGBT e diritto all’aborto. La cosa interessante è che le due questioni tendono a giocare un ruolo opposto nella dinamica elettorale. Detto brutalmente: parlare di diritti LGBT, tendenzialmente, favorisce Trump; parlare di diritto all’aborto, tendenzialmente, favorisce Harris.

Fra i diritti LGBT, più o meno estensivamente interpretati, rientrano rivendicazioni come l’autodeterminazione di genere o self-id (poter cambiare genere senza ostacoli o restrizioni), le transizioni di sesso/genere dei minorenni, l’accesso a tecniche riproduttive controverse, come la Pma (procreazione medicalmente assistita) e soprattutto la Gpa (gestazione per altri, o utero in affitto). Su questo terreno, i conservatori sono nettamente avvantaggiati, perché sono numerose le donne che non vedono di buon occhio l’invasione degli spazi femminili da parte di maschi transitati a femmine in luoghi come le carceri, i centri anti-violenza, le competizioni sportive (ricordate il caso Khelif?), più in generale nelle situazioni in cui le donne godono di speciali tutele e privilegi rispetto ai maschi (quote rosa, età della pensione, servizio militare ecc.).

Che questo sia un vantaggio dei conservatori e un punto debole dei democratici è del resto testimoniato dalle numerose e sempre più frequenti prese di posizione anti diritti LGBT o anti self-id da parte di donne di fede progressista, da Hillary Clinton (già due
anni fa), alle femministe americane (Kara Dansky, dirigente di Women’s Declaration International), e ora pure britanniche (Joanne Rowling e Julie Bindel pochi giorni fa). Prese di posizione che, in alcuni casi, hanno portato le protagoniste a porre la domanda scandalosa, fino a ieri impronunciabile: dobbiamo, in quanto femministe radicali, prendere in considerazione la possibilità di votare conservatore

Le cose cambiano radicalmente se, dai diritti riproduttivi in chiave LGBT, passiamo ai diritti riproduttivi in termini di contraccezione e aborto. Qui è Trump ad avere tutto da perdere, perché il recente (giugno 2022) annullamento della sentenza Roe vs Wade ha permesso a molti Stati a guida repubblicana di limitare fortemente (quando non di vietare del tutto) il ricorso all’aborto, con grave restrizione della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. È chiaro che, questa, è una carta preziosa in mano a Kamala Harris, che può presentarsi come colei che è in grado di ripristinare una fondamentale libertà perduta.

Si capisce meglio, alla luce di queste asimmetrie, perché – sui temi che più interessano le donne – entrambi i candidati siano stati reticenti. Kamala Harris non ha mai voluto prendere le distanze, come le chiedevano alcune femministe, dalle politiche del suo vice Tim Walz che, come governatore del Minnesota, ha convintamente favorito le transizioni di sesso/genere precoci, a dispetto delle emergenti evidenze scientifiche contrarie. Analogamente, Trump non ha mai preso una posizione netta e chiara sul diritto all’aborto, preferendo – pilatescamente – rimandare tutto alle scelte elettorali dei cittadini nei singoli Stati.

Di qui, un vero rebus per le donne. Una elettrice che, come diverse femministe, considerasse l’aborto un diritto inalienabile, ma al tempo stesso fosse risolutamente contraria al self-id e ai cambi di sesso degli adolescenti, non saprebbe per chi votare.

Ecco un altro motivo per cui quel che succederà domani è terribilmente difficile da indovinare.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 novembre 2024]




Politica e morale

Ha suscitato un certo scalpore, a sinistra, la recente vicenda di Inigo Errejón, deputato progressista spagnolo, portavoce della coalizione SUMAR, un raggruppamento di una ventina di sigle di sinistra radicale che, con il loro 12% di consensi, hanno permesso al socialista Pedro Sanchez di formare il suo terzo governo, con vicepresidente Yolanda Diaz, storica dirigente di Unidas Podemos (unite possiamo), primo e unico partito europeo che usa il femminile sovraesteso.

I fatti, in breve. Pare che, qualche anno fa (era il 2021) il vispo quarantenne abbia aggredito sessualmente l’attrice Elisa Mouliaa, chiudendo a chiave la stanza in cui si trovava con lei e mostrandole il membro. Fin qui è una notizia orribile fra le tante, e non è
neppure certo che sia vera (sarà un processo a stabilirlo, o meglio a stabilire la verità giudiziaria sulla vicenda).

Quel che è interessante è lo sconcerto con cui la notizia è stata presa da molti. Ma come, una persona così per bene, così istruita, così progressista, così impegnata sulle battaglie a difesa delle donne, come è possibile che si comporti in questo modo? Da uno così “non ti aspetti che ti spinga sul letto, che chiuda la porta a chiave e che per quanto tu gli dica che cosa stai facendo sguaini la prova evidente del suo genere, in questo caso maschile, con la non benvenuta intenzione di condividerla” (Concita De Gregorio su Repubblica).

Lasciando da parte i giri di parole scelti per descrivere un’aggressione sessuale, concentriamoci sullo sconcerto, ben evidenziato anche dal titolo dell’articolo (“Il MeToo che non ti aspetti”). Ecco, a me quello che sconcerta è lo sconcerto. Notate bene: non il
dispiacere, la rabbia, l’indignazione, l’orrore, il disgusto, ma proprio lo sconcerto. Lo stupore. L’accadere di una cosa “che non ti aspetti”.

Ma perché mai dovremmo non solo sentire disgusto, ma pure stupirci? Qual è la matassa di pregiudizi da cui un simile stupore scaturisce? L’articolo citato lo spiega bene, quando snocciola la serie di antecedenti della vita di Errejon, antecedenti da cui sarebbe stato lecito aspettarsi un comportamento più civile: il ragazzo era “cresciuto negli scout”, “si è laureato alla Complutense di Madrid, la più prestigiosa e selettiva delle università”, nientemeno che “con tesi di critica alle egemonie e studio delle identità”. E poi, soprattutto, “ha fondato il primo partito che usa il femminile sovraesteso per definirsi” (Unidas Podemos), “a compensazione della millenaria sopraffazione lessicale”.

L’elenco delle fonti di stupore non potrebbe chiarire meglio qual è l’idea di fondo sottostante: le aggressioni sessuali non te le aspetti dai maschi istruiti, meno che mai se sono progressisti. Implicazione logica: suscitano meno stupore se provengono da maschi di ceto basso, specialmente se sono di destra.

Ma qual è la base empirica di simili credenze? Non sono a conoscenza di alcuno studio che permetta di affermare che le persone colte e di idee progressiste siano meno propense a commettere reati sessuali delle persone poco istruite e di destra.

Forse sarebbe meglio che cominciassimo a prendere in considerazione un’ipotesi più semplice e più basica: le aggressioni sessuali sono il precipitato di un mix, singolare e a suo modo unico, di esperienze, circostanze contingenti, vicende personali, pressioni
ambientali, condizionamenti culturali, disturbi della personalità, che possono – per un determinato individuo – condurlo a comportarsi in un determinato modo.

Pensare che la cultura o le credenze politiche possano esercitare un effetto sistematico su comportamenti così estremi e ripugnanti è ingenuo. Soprattutto, è ingenuo pensare che l’ideologia possa influenzare in modo apprezzabile i comportamenti, a sinistra come a destra. Se l’ideologia contasse davvero, i politici conservatori e pro-famiglia non sarebbero quasi tutti divorziati o conviventi, e i maschi che lavorano nel mondo dello spettacolo (quasi tutti progressisti) non incapperebbero così sovente in scandali sessuali.

E il principio vale anche per altri comportamenti. Pensate all’evasione fiscale: se l’ideologia contasse davvero, gli insegnanti che danno ripetizioni private (in maggioranza progressisti) non accetterebbero di farlo in nero, come quasi sempre fanno.

Ma, forse, non tutto il male vien per nuocere: lo scandalo Errejon è l’occasione, per la sinistra, di liberarsi del complesso di superiorità morale che da sempre l’affligge.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 ottobre 2024]




«A forza di includere tutti ci siamo esclusi noi» – Intervista di Maurizio Caverzan a Luca Ricolfi

Il politicamente corretto come isteria diffusa. Nel suo nuovo saggio il sociologo ne sfata le «follie», specialmente nella politica di una sinistra elitaria, con esempi tragicomici e paradossali. Dal banchetto Lgbtq+ alle Olimpiadi di Parigi agli abbagli del patriarcato, passando per i «sì» a prescindere con l’islam. Così un’ideologia a costo zero sostituisce persino la lotta per l’uguaglianza.

Maneggiando magistralmente il bisturi della ragione, nel suo nuovo saggio Il follemente corretto (La Nave di Teseo), Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, viviseziona la nuova patologia contemporanea: «L’inclusione che esclude» e ha portato all’«ascesa della nuova élite».

Professore, il «follemente» del titolo è sinonimo di eccentricità o di vero impazzimento, come se vivessimo in una distopia dolce?
È vero impazzimento, purtroppo, ma la distopia che ne è venuta fuori non è affatto dolce. Il follemente corretto ha le sue vittime:
la libertà di espressione, le donne, i ceti popolari.

Le propongo un gioco: dovendo comporre il podio delle «follie corrette» in cui si è imbattuto a chi assegnerebbe i primi tre posti?
Mi mette in imbarazzo, perché di follie clamorose ce ne sono almeno 10-15, su 42 episodi selezionati. L’eventuale graduatoria dipende dal criterio. Se ci interessa il grado di demenzialità, segnalerei (1) la proibizione di salutare con il «care signore e cari signori» (per non escludere chi non si sente né maschio né femmina), (2) la censura di espressioni come «elefante-nano» e «l’evoluzione è cieca» (per non offendere nani e ciechi), (3) il regolamento dell’Università di Trento che obbliga a declinare tutti i ruoli al femminile. Se invece ci interessa l’impatto sociale, ovvero la capacità di opprimere o discriminare, segnalerei (1) l’invasione degli spazi femminili nelle carceri e nello sport, (2) le persecuzioni delle donne «gender-critical», (3) le discriminazioni nei confronti dei bianchi eterosessuali nelle università e più in generale nelle politiche di assunzione.

Il follemente corretto è una fenomenologia o un’ideologia, aggiornamento del progressismo?
Il follemente corretto è tante cose, ma fondamentalmente è una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali. In un certo senso è un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando l’assessore alla cultura del Comune di Livorno, Simone Lenzi, è stato sottoposto alla gogna e costretto alle dimissioni per alcuni post ironici sugli aspetti più ridicoli della dottrina woke. Il sindaco che l’ha licenziato ha illustrato in modo mirabile che cos’è il bullismo etico: ti caccio e ti punisco per mostrare a tutti la mia superiore moralità.

Com’è capitato che l’eguaglianza, stella polare della sinistra, sia stata sostituita dall’inclusione?
La storia di questa metamorfosi non è mai stata ricostruita accuratamente. Se guardiamo alla teoria, direi che un contributo importante l’ha dato Alessandro Pizzorno, uno dei più illustri sociologi italiani, che a metà anni Novanta ha esplicitamente proposto la sostituzione della coppia uguaglianza/ disuguaglianza con la coppia inclusione/esclusione. La sua idea, energicamente e saggiamente contrastata da Norberto Bobbio, era che – con la nuova coppia – sarebbe diventato più facile per la sinistra presentarsi come paladina del bene, perché pro-inclusione, e bollare la destra come incarnazione del male, perché pro-esclusione.

È l’unica molla di questa metamorfosi?
No, se guardiamo ai meccanismi sociali, la spiegazione più convincente è di natura economica: le battaglie sui diritti delle
minoranze sessuali hanno costi bassissimi perché – a differenza di quelle per l’eguaglianza – non richiedono di cambiare la
distribuzione del reddito, e in compenso permettono di reclutare chiunque, perché a tutti piace sentirsi dalla parte del bene. Tutto
questo è diventato tanto più vero dopo il 2010, quando l’esplosione dei social ha permesso davvero a tutti di partecipare al concorso di bontà e ai riti di lapidazione del dissenso con cui i buoni rafforzano la propria autostima.

Perché, in un certo senso, la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi è stata un momento di svolta nell’espressione del follemente corretto?
Per almeno due ragioni. Primo, perché ha sancito il disprezzo delle élite che controllano le istituzioni per i sentimenti del pubblico, che ovviamente non poteva essere tutto pro-woke e pro- gender. Secondo, perché ha portato anche dentro lo sport una tendenza da anni presente nell’arte, ovvero l’ambizione di indottrinare il pubblico. Con la scusa della «sensibilizzazione», da anni la letteratura sta facendo prevalere i messaggi etico-pedagogici sulla qualità artistica. Dopo Parigi sappiamo che analoga opera di snaturamento è destinata a colpire lo sport.

Chi maneggia la neolingua sono docenti, magistrati, operatori dell’industria culturale, giornalisti: in forza di cosa un’élite vuole pilotare il linguaggio comune?
In forza del suo potere e, soprattutto, della propria autoriproduzione. Esattamente come succede con la burocrazia, che proprio attraverso l’uso di una lingua specializzata e esoterica riproduce sé stessa e si immunizza rispetto a qualsiasi potere esterno. Ne sanno qualcosa i politici, i cui piani sono spesso vanificati o deviati dal controllo che i burocrati esercitano sulle procedure.

Perché siamo così preoccupati che le comunità musulmane si offendano se a scuola si fa il presepio a Natale?
Perché siamo malati di eccesso di zelo e sottovalutiamo il buon senso di tanti musulmani.

Che cosa ha causato l’inimicizia che si è instaurata fra i rappresentanti del mondo transessuale e il femminismo storico?
La prepotenza del mondo trans, o meglio delle lobby che lo hanno monopolizzato.

I casi del ministro Eugenia Roccella e dei giornalisti Maurizio Molinari e David Parenzo ai quali, in occasioni diverse, è stato impedito di presentare un libro o di parlare in università, mostrano che certi custodi del correttismo scarseggiano di basi democratiche?
Il vizietto di non lasciar parlare gli altri è, da sempre, la tentazione dell’estrema sinistra, anche quando non era woke.

Nella Carmen di Leo Muscato al Maggio fiorentino del 2018 la gitana addirittura ammazza don José perché non si perpetri un altro femminicidio. Il maschicidio è meno grave?
Agli occhi dei cultori del follemente corretto sì, a quanto pare.

Perché, come evidenziato dal silenzio sul caso di Saman Abbas, la ragazza uccisa per aver rifiutato di sposare il prescelto dal padre, le femministe tacciono sulla grave subalternità delle donne arabe?
Perché le femministe hanno riflessi condizionati di sinistra, e la sinistra –  almeno dai tempi di Bettino Craxi – ha un occhio di
riguardo per il mondo islamico.

Come si spiega il silenzio delle sigle femministe sulla pugile intersessuale Imane Khelif nel torneo femminile di boxe delle ultime Olimpiadi?
Veramente qualche femminista, per esempio Marina Terragni e il suo gruppo, non è stata in silenzio. Ma la realtà è che il femminismo classico boccheggia, sopraffatto dal cosiddetto femminismo intersezionale.

Perché si attribuiscono al patriarcato tante violenze contro le donne se il principio d’autorità e la figura del padre sono da anni realtà in via d’estinzione?
Perché uno dei tratti distintivi di larghe porzioni del femminismo è la pigrizia intellettuale, in parte dovuta alla mancanza di strumenti sociologici di tipo analitico.

Individuare la causa sbagliata della violenza sulle donne implica che tante energie per la loro la difesa sono sprecate?
In realtà, una spiegazione non fumosa e non ideologica della violenza sulle donne non esiste ancora.

Che cosa pensa della «lotta agli stereotipi» espressa dal pullulare di «mammi» negli spot pubblicitari?
Mi diverte molto, ma è un segnale che mette a nudo il conformismo dei creativi.

Perché chi va a vivere in un paesino di montagna rinuncia alla spiaggia vicina, ma molti omosessuali maschi vorrebbero piegare la legge al loro presunto diritto di avere figli?
Perché il rifiuto di ogni limite, quello che i greci chiamavano hybris, è il tratto fondamentale del nostro tempo. Un tratto che, combinato con la cultura dei diritti, genera rivendicazioni surreali; penso alla coppia gay che si sente discriminata perché
nata senza utero.

Il diffondersi della cultura woke negli Stati Uniti assomiglia a una nuova forma di maccartismo?
Sono simili, ma è come paragonare una tigre a un gatto: il wokismo è un maccartismo al cubo.

Perché la destra fatica a organizzare una resistenza efficace al follemente corretto?
La destra è minoranza nelle istituzioni fondamentali: magistratura, quotidiani, università, scuole, case editrici, associazioni e
fondazioni più o meno benefiche.

Il follemente corretto ha punti deboli che ne causeranno il declino o diventerà la religione del futuro?
Il follemente corretto dà già segni di declino, specie negli Stati Uniti. I suoi punti deboli sono l’incoerenza logica e il fatto che toglie voti alla sinistra. Kamala Harris l’ha capito, Elly Schlein no. O non ancora?




Perché agli italiani non è piaciuto l’esperimento Albania?

Nei giorni infuocati dei trasferimenti di migranti in Albania mi domandavo: ma come la pensano gli italiani? la maggioranza degli elettori sta con Giorgia Meloni, o condivide invece le severe critiche dell’opposizione? l’operazione Albania sta spostando consensi elettorali verso destra o verso sinistra?

Ora, grazie a un buon numero di sondaggi usciti negli ultimi giorni, possiamo azzardare qualche risposta. A prima vista, si direbbe proprio che gli italiani non abbiano gradito. Se, usando le domande dei vari questionari, dividiamo grossolanamente le risposte fra favorevoli e contrarie alla politica migratoria del governo, invariabilmente dobbiamo constatare che le critiche sono maggiori dei consensi. Secondo un sondaggio di Euromedia Research, le proporzioni fra sfavorevoli e favorevoli sono, a seconda del quesito, 54 a 37, oppure 53 a 28, oppure 49 a 34 (trascuro sempre gli indecisi). Secondo un sondaggio di YouTrend la proporzione è 55 a 45. Secondo un recentissimo sondaggio Swg la proporzione è 48 a 39. Insomma: secondo tutti i sondaggi, gli italiani bocciano l’operazione Albania.

Potremmo fermarci qui, se non fosse per due complicazioni. La prima è che, nello stesso momento in cui i sondaggi sull’opinione pubblica certificano che la gente non apprezza il modello Albania, i sondaggi elettorali non confermano il trend: il consenso ai partiti di centro-destra non cala, anzi ci sono segnali di un ulteriore rafforzamento, con Fratelli d’Italia ormai stabilmente prossimo al 30% dei consensi. Ma c’è anche una seconda complicazione: i sondaggi di questi giorni, a esaminarli attentamente, forniscono una serie di indizi che attenuano l’immagine di un’opinione pubblica risolutamente ostile all’esperimento albanese. Per leggerli, dobbiamo cambiare la domanda: anziché chiederci se gli italiani sono pro o contro quell’esperimento, dobbiamo chiederci quali sono le ragioni per cui sono contro. Ebbene, se spostiamo l’attenzione sulle ragioni, scopriamo diverse cose interessanti. Ad esempio, che sono relativamente pochi i cittadini che osteggiano l’esperimento albanese per ragioni di principio, umanitarie, o di diritto: nel sondaggio YouTrend, sono solo il 23% coloro che si dicono contrari perché l’accordo “viola i diritti umani”; nel sondaggio Swg i contrari in quanto l’accordo “viola il diritto internazionale” scendono addirittura al 15%, appena 1 italiano su 7.

E allora da dove viene la contrarietà?

Leggendo le risposte ai sondaggi, non è difficile capirlo. Una parte dei rispondenti si dice contrario non perché il modello sia iniquo, sbagliato, o disumano, ma semplicemente perché pensa che non funzionerà: questa quota, che potremmo definire di scettici, è pari al 30% nel campione di Euromedia, e al 33% nel campione Swg.

Ma il segmento più interessante è quello di coloro che giudicano negativamente l’esperimento albanese per i suoi costi. Nel campione YouTrend gli spaventati dai costi sono il 32%, nel campione Euromedia sono il 34%. In breve 1 cittadino su 3 disapprova l’accordo perché costerebbe troppo. Combinando le varie risposte, si può concludere che la maggior parte dei contrari lo sono non per ragioni di principio, ma per scetticismo sulla riuscita, o per via dei costi troppo elevati.

La sensazione che si buttassero via i soldi è stata sicuramente aiutata da due cifre ampiamente circolate sui media: l’operazione Albania sarebbe costata 1 miliardo di euro, che sarebbe potuto essere meglio impiegato rafforzando il disastrato comparto
sanitario; le trasferte dei 16 migranti sarebbero costate, da sole, 250 mila euro (15 mila euro a migrante), insomma una vera follia. Di qui la perplessità dei cittadini, l’indignazione delle opposizioni, le denunce per danno erariale, eccetera.

Molto si potrebbe controbattere ad entrambe le cifre e le argomentazioni, in primis la totale assenza di qualsiasi tentativo di condurre una seria analisi costi-benefici del progetto Albania. Qui mi accontento di osservare che la stragrande maggioranza dei
cittadini (compresi alcuni giornalisti e commentatori) non ha la minima percezione degli ordini di grandezza in gioco, al punto che non è raro sentire anche illustri opinionisti confondere i milioni con i miliardi. A molti sembra sfuggire, ad esempio,
che una cifra che può apparire enorme in un contesto familiare (1 milione di euro), ha un peso completamente diverso in contabilità nazionale.

Nel nostro caso è spesso successo che i 650 milioni di euro in 5 anni (costo ufficiale dell’esperimento) venissero presentati come se l’ammontare fosse di 1 miliardo e in 1 solo anno, e come se quella cifra, percepita come enorme, potesse alterare significativamente il bilancio annuale della sanità (in realtà lo altererebbe dello 0.09%). Per capire quanto possa essere distorsivo e forviante ragionare sulle cifre dimenticando che stiamo parlando di voci di contabilità nazionale, vorrei fornire qualche termine di paragone fra voci di spesa riportando tutto a una dimensione familiare, ossia traducendo tutto in spesa per abitante.

Ebbene, negli ultimi anni le cifre medie sono approssimativamente queste. Il valore annuo della spesa sanitaria è di circa 2300 euro per abitante (compresi bambini e i neonati). Il costo annuo del superbonus è stato di circa 500 euro per abitante. La spesa totale per l’accoglienza è dell’ordine di 50 euro all’anno per ogni abitante.

E il costo – ingente, mostruoso, vergognoso – dell’esperimento Albania?

Tenetevi forte: 2.2 euro per abitante all’anno (il costo d 2 caffè). E il costo dell’intera operazione Albania, spalmato su 5 anni? ben 11 euro per abitante.

Di qui un dubbio: siamo sicuri che gli intervistati che si sono dichiarati contrari all’operazione Albania perché troppo dispendiosa avessero idea che il costo per abitante era di 2 euro l’anno? O sapessero di averne sborsati 500 (ossia 250 volte tanti) per permettere a 1 famiglia su 20 di ristrutturare case e ville?

Se la risposta fosse che non ne erano consapevoli (perché per tutti è molto difficile ragionare sulle grandezze di contabilità nazionale), ne scaturirebbe un’altra domanda: come ha potuto, l’esecutivo, non rendersi conto che – in casi come questo – le
intuizioni della gente sono fallaci, e quindi le istituzioni hanno il compito di informare correttamente sulle vere cifre in gioco?

[articolo uscito sul Messaggero il 24 ottobre 2024]