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A proposito del caso Roccella – Sopraffazione

20 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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Non è la prima volta che, in un evento pubblico, a qualcuno viene impedito di parlare, come è successo la settimana scorsa al ministro Eugenia Roccella, in occasione degli Stati Generali della Natalità. Mai, però, avevo assistito a un così vasto fuoco di sbarramento per impedire che venisse detto, o ripetuto, ciò che solo il Presidente della Repubblica ha potuto dire senza essere irriso, e cioè che il gesto delle contestatrici era stato incivile e in contrasto con la Costituzione.

Impossibile ricapitolare, nello spazio di un articolo, il profluvio di argomenti scomodati per aggirare il severo giudizio del Capo dello Stato. Ne ricordo solo alcuni: la colpa è di Roccella che ha rinunciato a parlare, anziché rassegnarsi a farlo sotto un diluvio di fischi; quello delle contestatrici era solo dissenso, e il dissenso è il sale della democrazia; impedire di parlare a un ministro è giustificato dalla eccezionale gravità delle intenzioni del governo; la Roccella non ha subito nessuna censura, perché la censura procede da chi ha il potere verso chi non ne ha, e non viceversa; la Roccella ha infiniti mezzi per far conoscere le sue opinioni, le
contestatrici no; è questo governo che esercita la censura e intimidisce privati cittadini con le querele (casi di Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare).

Sarebbe facile, arrivati a questo punto, fare notare il doppio standard. Che cosa sarebbe successo se, in un evento pubblico, attiviste delle associazioni pro-vita avessero impedito a Elly Schlein di parlare? Che cosa fa sì che si possa lodare Laura Boldrini, Presidente della Camera, quando annuncia di volere denunciare i suoi odiatori, e deprecare Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, quando fa la stessa cosa? Perché lo squilibrio di potere viene invocato quando il denunciato è Roberto Saviano, che pure ha un vastissimo sistema mediatico pronto a difenderlo, e viene dimenticato quando i denunciati sono comuni cittadini, che insultano la Presidente della Camera ma non hanno (meno male…) alcuna rete protettiva?

Ma passiamo oltre. Qui vorrei solo far notare una circostanza, e sollevare un problema.
La circostanza è che nel nostro linguaggio sembra assente un termine per indicare quel che è successo al ministro Eugenia. Roccella, ma anche a tanti altri cui, specie negli ultimi tempi, è stato impedito di parlare. Su questo ha perfettamente ragione la sinistra a dire che non si tratta di censura, e ha torto la destra quando parla di violenza femminista. Ma allora di che cosa si tratta?

La sinistra risponde dissenso, contestazione. Ma anche questo è sbagliato, o meglio è riduttivo. Si può dissentire senza impedire agli altri di parlare, si può contestare ma accettare il dialogo. Lo specifico di quel che è successo con Roccella è che si è
contestato, ma lo si è fatto impedendo a un ministro di esercitare un diritto costituzionale, ovvero la libertà di manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21 della Carta: è questo che ha inquietato il Presidente della Repubblica.

Nello stesso tempo occorre dire con chiarezza che, a differenza di tante altre contestazioni, questa non è stata violenta. Fischiare, tamburellare, urlare, cantare, emettere suoni di disturbo sono atti che impediscono materialmente di parlare, ma non sono violenza. Tolgono la parola, ma non alzano le mani su nessuno.

È curioso che non esista una parola condivisa per descrivere questi atti, che producono le stesse conseguenze della censura e della violenza, ma non sono né censura né violenza. Eppure sono atti sempre più diffusi, specie nelle università straniere, dove a centinaia di professori e studiosi viene impedito di parlare dagli attivisti contrari alle loro idee (celebre il caso della professoressa britannica Cathleene Stock, addirittura costretta a dimettersi ed emigrare in America). Insomma, sarebbe bene che una parola la inventassimo, o la scegliessimo fra quelle che abbiamo.

Se non è né censura, né violenza, e tuttavia è la negazione di un diritto fondamentale, come possiamo chiamare l’atto di impedire la parola? Io suggerirei di usare il termine ‘sopraffazione’, che mi pare renda bene l’idea di una prepotenza efficace, ovvero riuscita nell’intento.

Resta aperto un problema, però: ci sono circostanze, al di là di quelle già previste dalla legge, in cui può essere ragionevole sospendere l’articolo 21, che tutela la libertà di parola?
Per molti di coloro che hanno attaccato Roccella e giustificato le sue contestatrici, la risposta pare essere positiva, come se la giustezza (vera o presunta) della causa per cui si combatte autorizzasse a togliere la parola a chi la pensa diversamente. Per
quanto mi riguarda, invece, la risposta è negativa: ci sono diritti che non possono essere sospesi neppure in circostanze eccezionali, perché il loro esercizio non limita la libertà e la sicurezza di nessuno. Il diritto a non essere sopraffatti da chi pretende di toglierci la parola è uno di tali diritti non comprimibili. Forse non l’unico, ma certo il più importante per chi ancora desidera vivere in una società libera.

[articolo trasmesso al Messaggero il 13 maggio 2024]

Come nel ’68? Riflessioni sulla competizione vittimaria

15 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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La nostalgia del passato è un sentimento potente, che si accentua con la vecchiaia.
Poco male, in fondo. Quando però si fa un lavoro intellettuale – come giornalista, studioso, scrittore – il cocktail nostalgia + vecchiaia può diventare pericoloso. Leggere la realtà di oggi con le lenti di ieri, può indebolire la nostra capacità di comprensione dell’oggi. È quel che, mi pare, sta capitando a tanti membri della mia generazione, estasiati dal dilagare – in tutto l’Occidente – delle proteste studentesche, specie nelle università.

Il vissuto dei cosiddetti baby boomers (nati nel periodo del boom demografico: 1946-1964) si può riassumere così: abbiamo passato anni a denigrare i giovani delle ultime generazioni descrivendoli come fragili, sdraiati, bamboccioni, pigri, disimpegnati ma ora – finalmente – le manifestazioni contro il “genocidio” che Israele sta perpetrando a Gaza mostrano che quella diagnosi è sbagliata. I giovani dell’occidente sono tornati a essere idealisti, proprio come lo eravamo noi sessantottini quando ci battevamo contro la guerra in Vietnam, lo sfruttamento in fabbrica, il baronato, l’autoritarismo, la repressione, eccetera: un caso da manuale di “proiezione”, direbbe forse uno psicanalista incaricato di esaminare la mente di noi ex sessantottini.

Il parallelo fra gioventù di oggi e gioventù di ieri, però, non regge a un’analisi disincantata.

Cominciamo dai numeri. Giornali e tv riportano con grande evidenza episodi di contestazione-dissenso-scontro, compresi casi del tutto marginali e minoritari come l’assalto alle transenne del Salone del libro di sabato scorso, ma quando si va a vedere chi e quanti erano i contestatori si scopre quasi sempre che si trattava di poche centinaia di persone, inclusi adulti infiltrati, o giovani chiamati a raccolta da altre regioni. In breve: siamo di due ordini di grandezza (ossia di un fattore 100) al di sotto delle mobilitazioni studentesche del decennio 1967-1977.

Quanto al consenso verso le proteste, i pochi sondaggi disponibili rivelano (specie negli Stati Uniti) che il sostegno alle occupazioni delle università è estremamente ridotto, e l’opinione pubblica è molto divisa nell’attribuzione delle responsabilità del
conflitto (in un recentissimo sondaggio americano la responsabilità è attribuita dal 34% ad Hamas, e solo dal 19% a Netanyahu). Stranamente i media, che fanno sondaggi su tutto, non sembrano nutrire il minimo interesse per quel che pensano i cittadini, e in particolare gli altri studenti, che non manifestano né partecipano a occupazioni (oltre il 99% degli studenti).

Ma non sono solo i numeri ad essere differenti rispetto a quelli degli anni della contestazione. La differenza cruciale, rispetto al ’68, è che allora non c’era competizione vittimaria, oggi sì. Anzi, oggi la competizione vittimaria è l’essenza dello scontro ideologico in atto.

Che cos’è la “competizione vittimaria”, un concetto da tempo all’attenzione di studiosi e filosofi? Fondamentalmente è quel che succede quando entrambe le parti del conflitto hanno ragioni solide, e perfettamente visibili, per autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi. E utilizzano questa loro condizione per negare l’analoga condizione vissuta dalla parte avversa. Questa doppia o speculare condizione di vittime, nel ’68 semplicemente non c’era. Oggi è il nucleo del conflitto, perché sia i palestinesi sia gli israeliani hanno robuste e incontestabili ragioni per sentirsi vittime. Di qui una conseguenza logica: chi scende in piazza a sostegno di una delle due parti, e lo fa ignorando completamente le ragioni dell’altra, si macchia di disumanità. Disumano è il silenzio senza pietas dei pro-Israele sulle sofferenze inflitte ai palestinesi con l’invasione di Gaza, disumano è il silenzio senza pietas dei pro-Palestina sulle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre.

Ecco perché vedere nella protesta di oggi pro-Gaza una riedizione del più o meno ingenuo (e più o meno fazioso) idealismo di ieri è sostanzialmente errato. Ai tempi del Vietnam non c’erano due “vittime assolute” in competizione fra loro per il sostegno delle opinioni pubbliche. C’era una guerra, e si poteva plausibilmente prendere posizione pro o contro l’intervento americano, così come si può, ai giorni nostri, prendere posizione pro o contro il sostegno all’Ucraina. Oggi è diverso. Il dramma di entrambi i popoli che si contendono la terra di Palestina è così vasto e profondo che diventa immorale difendere le ragioni dell’uno senza vedere quelle dell’altro. Non è l’idealismo, ma il venir meno di ogni senso di umanità, che pervade le manifestazioni che vedono solo vittime innocenti da una parte, e solo brutali oppressori dall’altra.

[articolo uscito su La Ragione il 14 maggio 2024]

Rifondazione democratica – La forza del passato

10 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato qualche sconcerto la notizia che, vincendo l’iniziale esitazione, la segretaria del Pd Elly Schlein si sia infine risolta a firmare il referendum contro il Jobs Act, promosso dalla Cgil. Prima di lei avevano già firmato i dioscuri Bonelli e Fratoianni, leader dell’Alleanza Verdi-Sinistra, e prima ancora l’astuto Giuseppe Conte, che con questa mossa ha segnato un punto nella corsa alla guida del centro-sinistra. Non si sa ancora quanti, fra gli innumerevoli esponenti del Pd che a suo tempo (2014-2016) avevano entusiasticamente appoggiato il Jobs Act e i suoi decreti legislativi, metteranno a loro volta la firma sul referendum di Landini.

La scelta di Elly Schlein è perfettamente comprensibile, viste le posizioni su cui si è candidata alla segreteria del Pd. E non mi stupirei che, in un impeto di coerenza, domani promuovesse una qualche iniziativa contro l’altra bestia nera del nuovo Pd,
ovvero la politica migratoria dell’era Renzi-Minniti. Come se, dopo gli anni di “Rifondazione comunista”, reazione nostalgica alla dissoluzione del PCI, agli eredi di quel partito toccasse ora promuovere una sorta di “Rifondazione democratica”, nel
segno di una sinistra più “vera” e della memoria di Enrico Berlinguer.

Difficile non vedere, tuttavia, le conseguenze che questa deriva politica inevitabilmente implacabilmente porta con sé. La prima è una sorta di rimodulazione radicale della geometria interna del centro sinistra: mai come oggi sono state grandi le distanze fra il Pd e il trio riformista Azione-Italia Viva-Più Europa, e mai come oggi sono state piccole, per non dire inesistenti, le distanze programmatiche fra Pd, Cinque Stelle, Verdi e Sinistra Italiana. Mai come oggi, soprattutto, è stata evidente la sudditanza del Pd al Movimento Cinque Stelle e a Giuseppe Conte, che non perde occasione per mettere in imbarazzo la leader del Pd, oggi sulla politica economico-sociale, con la tempestiva firma del referendum contro il Jobs Act, ieri sulla questione morale, lucrando sugli scandali che hanno coinvolto il Pd a Bari e Torino.

C’è anche un’altra conseguenza, però. La scelta di rinnegare il passato del Pd, rende ancora più difficile un’alleanza strategica con la sinistra riformista, che ora – grazie all’involuzione massimalista e giustizialista del Pd – non include solo i partiti di Renzi e Calenda, ma anche quello di Emma Bonino. L’ultima super-media dei sondaggi rivela che Pd e alleati sono fermi al 40%, mentre i tre partitini riformisti sono vicini al 9%. Difficile pensare che, alle prossime elezioni, quel 40% del “campo giusto” possa miracolosamente tramutarsi in un 50%, necessario per competere vittoriosamente con il centro-destra.

Si potrebbe obiettare che la forza del fronte progressista (e anti-riformista) sta nella correttezza della sua analisi sociale, e che con il tempo l’elettorato capirà. In effetti ci sono parecchie cose che non vanno bene in Italia, dalla sanità alla scuola, dai bassi
salari alla precarietà di tanti contratti, dal ristagno della produttività all’immane peso del debito pubblico, dai morti sul lavoro ai suicidi in carcere. Il problema, però, è che molto di quel che non va ha radici nel passato, e in questo passato ci sono tutti:
governi politici e governi tecnici, governi di destra e governi di sinistra, governi con i Cinque Stelle e governi senza i Cinque Stelle.
Il debito pubblico è una voragine con cui nessun governo ha mai avuto la forza di fare davvero i conti. I bassi salari sono la conseguenza della stagnazione trentennale della produttività, frutto di decenni di riforme mancate. La distruzione della scuola è
un’impresa comune, cui hanno contribuito tutti, governanti e cittadini. L’indebolimento del sistema sanitario nazionale è iniziato una quindicina di anni fa, ben prima del Covid. Quanto allo stato penoso della finanza pubblica, che rende
difficilissimo fronteggiare le innumerevoli emergenze del paese, come non vedere che è anche il risultato del super-bonus, una misura voluta dagli stessi partiti che oggi denunciano la drammaticità di quelle emergenze?

In queste condizioni, una politica economico-sociale credibile non può cavarsela ripartendo le colpe fra il presunto liberismo dei governi riformisti passati e il presunto fascismo del governo in carica. È la forza del passato, con i suoi errori e le sue
avventatezze, il vero macigno che pesa su chiunque si proponga di cambiare l’Italia. Chi è al governo lo sa, perché lo sperimenta a proprie spese. Chi al governo spera di arrivarci con le prossime elezioni politiche, non può far finta di non saperlo, se vuole portare dalla propria parte la maggioranza dei cittadini.

Luca Ricolfi

[articolo uscito sul Messaggero il 10 maggio 2024]

Harakiri antifascista

4 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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C’è sempre stato un che di poco simpatico, nella richiesta perentoria di dichiararsi antifascisti. Chi la formulava, lo faceva nella presunzione di essere immacolatamente antifascista, e perciò stesso nella posizione di giudicare-assolvere-condannare l’interlocutore. Al di là di questo lato sgradevole, però, un tempo era del tutto naturale dichiararsi antifascisti, perché per la stragrande maggioranza degli italiani l’antifascismo era una sorta di ovvietà: rifiuto del fascismo, gratitudine verso i partigiani, fiducia nella democrazia. Il 25 aprile, è vero, era una festa egemonizzata dalla sinistra, ma non per questo cessava di essere una festa di tutti.

Poi le cose cominciarono a cambiare. Il primo cambiamento mi si palesò in Consiglio di Facoltà nella primavera del 1994, esattamente 30 anni fa. Il nostro preside, eminente studioso della Resistenza, si presentò in Aula Magna con il viso scuro, annunciandoci – con l’aria di chi aveva per le mani una notizia sconvolgente – che in Italia stava tornando il fascismo. In effetti Berlusconi aveva vinto le elezioni. Passarono pochi mesi e Umberto Eco, dagli Stati Uniti, ritenne di dover rincarare la dose: il fascismo non era mai scomparso, anzi era eterno perché i suoi 14 (quattordici) tratti fondamentali si ripresentavano e combinavano in varie configurazioni anche dopo la sconfitta del fascismo storico. Da allora gli allarmi si sono ripetuti migliaia di volte, con particolare frequenza quando al governo c’era la destra, e con ossessiva solerzia da quando Giorgia Meloni ha avuto l’ardire di vincere le elezioni. Da quel momento qualsiasi atto del nuovo governo, dalla politica migratoria al premierato, viene interpretato dagli antifascisti-doc o come manifestazione di tendenze autoritarie e illiberali, o come prodromico alla rinascita del fascismo, ovviamente in una edizione nuova e più consona ai tempi.

Questo modo di vedere le cose si presenta in due forme principali, una teorica e l’altra

pratica. Della forma teorica, il massimo esponente è il prof. Luciano Canfora, per il quale il “nòcciolo” del fascismo è il “suprematismo razzistico”, che starebbe alla base delle politiche migratorie del governo. Della forma pratica, sono da molti anni espressione i gruppi che, per lo più in nome dell’antifascismo, tolgono la parola a chi ha idee diverse dalle loro. Ne sono ricorrente testimonianza le contro-manifestazioni e contestazioni che, puntualmente, provano a impedire fisicamente le manifestazioni altrui, che siano cortei o altri eventi sgraditi, quali presentazioni di libri, convegni, dibattitti: i 18 mesi del governo Meloni ne hanno visto un campionario impressionante.

In breve, l’antifascismo ha poco per volta cessato di essere quel che era – un rito della memoria che celebra la Resistenza e riafferma il valore supremo della democrazia – per trasformarsi in un’arma impropria che una parte politica agita contro la parte avversa, talora accusandola di preparare il fascismo che verrà, talora accusandola di essere essa stessa, già ora, quel fascismo che credevamo di aver debellato per sempre.

Ecco perché oggi, oltre ad essere poco simpatica, la richiesta di dichiararsi antifascisti sta diventando irricevibile per ragioni logiche. Se un governo democraticamente eletto viene considerato compromesso con il fascismo, come potranno gli italiani che lo hanno votato proclamarsi antifascisti? E se così spesso, in nome dell’antifascismo, si usa la forza per togliere la parola agli avversari politici, come potranno proclamarsi antifascisti i liberali e più in generale quanti credono nella libertà di espressione e nel pluralismo delle idee?

Insomma, a me pare che, specie con le ultime manifestazioni dell’8 marzo e del 25 aprile, così piene di odio e intolleranza, l’antifascismo abbia fatto harakiri. D’ora in poi nessuno potrà chiedere a noi antifascisti normali se siamo antifascisti. Saremmo noi, semmai, a dover chiedere ai custodi dell’antifascismo storico che cosa aspettano a prendere le distanze dal nuovo antifascismo, violento e intimidatorio, e a restituire un po’ di rispetto a quella parte del paese che ha più fiducia nella destra che nella sinistra.

Ma non lo faremo. Perché a noi antifascisti normali le abiure non piacciono. Ognuno è responsabile delle sue idee, ma nessuno è titolato a ergersi a giudice delle idee altrui. La democrazia è anche questo, qualsiasi cosa ne pensino le autonominate vestali dell’ortodossia antifascista.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 maggio 2024]

Sul futuro di Medicina

1 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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È strano. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul monologo di Scurati. Altri se ne sprecano quotidianamente per denunciare imminenti innumerevoli pericoli di ritorno del fascismo. Le frasi del generale Vannacci infiammano gli animi di tifosi e detrattori. Non passa giorno senza che si denuncino, non senza ragione, gli inaccettabili tempi di attesa del nostro sistema sanitario nazionale. Altre decine di temi, sempre quelli, occupano ripetutamente le pagine dei quotidiani.

Però c’è una questione di cui, stranamente, parliamo pochissimo, pur essendo cruciale per il futuro di tutti noi: la riforma dei criteri di ingresso a Medicina (e facoltà collegate). Se ne discute da tempo. In Commissione istruzione del Senato c’è un testo base, da cui presto dovrebbe scaturire un disegno di legge. I principali partiti hanno idee diverse. L’Associazione Nazionale Docenti Universitari (ANDU) non sposa nessuna delle proposte partitiche in campo, ed è estremamente critica con l’impostazione del testo base.

L’idea di fondo del testo base è di NON abolire il numero chiuso, che attualmente esclude circa il 70% degli aspiranti, e di sostituirlo con un sistema giudicato più equo (e da tempo usato in Francia con risultati assai controversi): tutti possono iscriversi al primo semestre del primo anno, ma proseguano solo quelli che – in quel primo semestre – hanno conseguito i risultati migliori.

Ma che significa risultati migliori?

Non è chiarissimo. Nel testo base si parla di raggiungere un determinato numero di CFU (crediti formativi universitari) nelle materie obbligatorie e caratterizzanti del primo semestre, cui però possono aggiungersi crediti acquisiti durante l’ultimo anno di scuola secondaria superiore. Se il numero di studenti a “pieni crediti” supera il numero di posti disponibili, la selezione dovrà avvenire in base a una “graduatoria di merito nazionale”, di cui tuttavia non si sa ancora come verrà costruita.

Le idee del testo base hanno sollevato diverse critiche e dubbi. C’è chi ritiene che il vero problema non sia l’accesso a medicina, ma l’accesso alle specialità post-laurea, e in particolare lo squilibrio fra struttura della domanda e dell’offerta di posti. C’è chi osserva che le università non hanno le strutture (aule e personale docente) per reggere l’urto di tutti gli aspiranti medico nel primo semestre. C’è chi ritiene che l’unico sistema di selezione equo sarebbe il sorteggio. E c’è chi, al contrario, vorrebbe eliminare il numero chiuso, come se il problema delle strutture insufficienti non esistesse. C’è chi si preoccupa del destino dei non ammessi al secondo semestre, e dell’impiego dei crediti comunque acquisti. C’è chi fa notare che, al momento, non sono previsti adeguati stanziamenti per sostenere la transizione dal vecchio al nuovo sistema. E l’elenco delle criticità potrebbe continuare a lungo.

Per quanto mi riguarda, ho letto i documenti principali prodotti dalla Commissione e dall’ANDU e l’impressione che ne ho ricavato è che l’iter della legge sarà lungo e accidentato, e difficilmente ne verrà fuori qualcosa di funzionante. A giudicare dal resoconto dei lavori, sembra che si vada avanti concedendo qualcosa a ogni forza politica coinvolta, rinunciando a un disegno organico e coerente, perché qualsiasi disegno di questo tipo scontenterebbe troppi soggetti coinvolti. Un po’ come accadde tanti anni fa (2009), quando la Lega rinunciò al suo progetto di federalismo fiscale (discutibile ma coerente) per incassare la benevolenza della sinistra, senza rendersi conto che la ricerca ossessiva del compromesso avrebbe spento ogni spinta riformatrice.

Non so come andrà a finire, ma penso che delegare completamente il tema della riforma di Medicina alle manovre dei partiti non favorirà la nascita di una legge funzionante. È vero che è un tema molto tecnico, che non consente di prendere posizione sull’asse fascismo-antifascismo che tanto appassiona gli intellettuali, ma resto dell’idea che, sulle cose che contano – ad esempio la soglia del numero chiuso e i criteri di accesso – sia meglio che anche l’opinione pubblica abbia modo di dire la sua. La libera stampa serve anche a questo.

[articolo uscito su La Ragione il 30 aprile 2024]

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