Sulla giornata in memoria delle vittime della giustizia – La battaglia di Gaia Tortora

Non sta suscitando l’attenzione che meriterebbe la proposta, avanzata da diverse forze politiche, di istituire una “giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”, fissando come giorno di celebrazione il 17 giugno, anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, avvenuto quel giorno del 1983. Come molti ricorderanno o sapranno, il celebre e amatissimo conduttore fu rinchiuso in carcere per 7 mesi (più vari mesi di arresti domiciliari), e infine condannato a 10 anni di carcere sulla base di accuse che, solo a 4 anni dall’arresto, vennero definitivamente riconosciute come del tutto false. Enzo Tortora morì poco dopo, all’età di soli 59 anni, forse anche per la terribile ferita che la sua vicenda giudiziaria inflisse a lui a alla sua famiglia.

La proposta è arrivata in Commissione Giustizia alla Camera, e avrebbe avuto via libera per un rapido approdo e approvazione in Aula se a mettersi di traverso, oltre al voto contrario dei Cinque Stelle a all’astensione dell’Alleanza Verdi-Sinistra, non vi fosse stata l’astensione dei rappresentanti del Pd.

Le motivazioni dei rappresentanti del Pd sono state così cervellotiche e capziose da suscitare la reazione sdegnata di Gaia Tortora, figlia di Enzo, che ha accusato il Partito democratico di mancanza di coraggio e di subalternità a “certa magistratura”.

Ancora peggio le motivazioni contrarie dell’Associazione nazionale magistrati che, per bocca del suo presidente Giuseppe Santalucia, si chiede come mai non venga istituita una giornata nazionale per le vittime degli errori sanitari, come se non sapesse che, a differenza di quel che capita ai magistrati, i medici quasi sempre pagano i loro errori dal punto di vista disciplinare, penale e civile, e proprio per questo sono spesso costretti a sottoscrivere costose polizze assicurative.

L’unica obiezione convincente che mi è capitato di leggere contro la proposta di ricordare gli errori giudiziari è quella del prof. Dino Cofrancesco, eminente studioso e liberale a tutto tondo, che ha fatto notare (feste-civili-e-giornate-della-memoria-che-dividono ) che, a differenza di quel che capita in altri paesi, in Italia le giornate della memoria non sono quasi mai un fattore di ricomposizione e di unità nazionale, ma finiscono per riaccendere le divisioni che lacerano la nostra democrazia. E in effetti il caso dell’Anniversario della Liberazione (25 aprile), mal digerito dalla destra, e il caso del giorno del ricordo delle vittime delle Foibe (10 febbraio), mal digerito dalla sinistra, sembrano dargli ragione. A ulteriore sostegno di questo argomento si può aggiungere l’ovvia ma non irrilevante considerazione che la giornata in memoria delle vittime della giustizia rischia di minare il prestigio della magistratura, riducendo ulteriormente la già bassa fiducia dei cittadini nella macchina giudiziaria.

Per quanto mi riguarda, mentre trovo ridicola e succube della magistratura la posizione del Pd, capisco perfettamente le ragioni del prof. Cofrancesco, ma mi sento più vicino al grido di dolore di Gaia Tortora e delle migliaia di vittime della superficialità, arroganza e impunità di tanti magistrati. Certo può darsi che una giornata in memoria delle vittime della giustizia aggiunga una nuova fonte di divisione alle molte che già ci dilaniano, ma vorrei attirare l’attenzione su un paio di punti. Primo, non tutte le giornate rievocative ci dividono (si pensi al 2 giugno, Festa della Repubblica), molto dipende da come si arriva a scegliere una data, e non è detto che, al momento del voto finale, il Partito democratico ignori gli accorati appelli di vari suoi membri o ex membri a rivedere la posizione pilatesca assunta fin qui.

Secondo, proprio un accordo sul gesto simbolico di istituire una giornata della memoria delle vittime della giustizia potrebbe contribuire ad avviare quel processo di profonda riforma e autoriforma della giustizia di cui, invano, si parla da decenni.

Ma è proprio questo, si obietterà, quello che magistrati e Pd non vogliono. Può darsi, ma allora bisognerà rispondere alla domanda: se l’unico modo per evitare le divisioni è lasciare le cose come stanno, non vale forse la pena accettarle, quelle divisioni, e provare a combatterla a viso aperto, questa essenziale battaglia di civiltà?

[articolo uscito sulla Ragione il 24 dicembre 2024]




Sui limiti della libertà di espressione – Le parole sono importanti

Non ricordo un periodo in cui si sia parlato così tanto, e così costantemente, di libertà di espressione. Il caso di Tony Effe, di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, è infatti solo l’ultimo episodio di una serie di controversie che, in un modo o nell’altro, hanno coinvolto ogni sorta di soggetti: politici, ministri, scrittori, docenti, giornalisti, comuni cittadini. Giusto per fare alcuni esempi: la presidente della Camera Laura Boldrini che denuncia i suoi detrattori in rete; l’università di Milano che sospende il prof. Marco Bassani per aver condiviso (su Facebook) una vignetta sarcastica su Kamala Harris; Giorgia Meloni che querela il prof. Canfora per averla definita “neo-nazista nell’animo”; gli scrittori sgraditi silenziati dai contestatori al Salone del Libro di Torino; lo scrittore Saviano disinvitato da un programma Rai per i contenuti anti-governativi di un suo discorso sul 25 aprile. Eccetera.

Apparentemente, in molti di questi casi, ci troviamo di fronte a un dilemma: da una parte la libertà di espressione, dall’altra qualche principio altrettanto alto (la dignità umana, l’anti-fascismo, ecc.), che però confligge con la prima. È questo il motivo per cui, in ultima analisi, è praticamente impossibile stabilire in modo chiaro, univoco e condiviso i limiti della libertà di espressione.

E tuttavia…

Tuttavia c’è almeno una cosa che potremmo fare per regolare in modo ragionevole queste controversie: non forzare il senso delle parole. Morettianamente, ricordarci sempre che “le parole sono importanti”. Usarle a sproposito porta a fraintendimenti e inutili conflitti.

La parola censura, ad esempio. Censura è quando un’autorità vieta la circolazione di un testo, o impedisce a un cittadino di esprimere le sui opinioni, non quando un autore o un artista (o persona che tale si sente), non viene invitato a un evento, o a una trasmissione, o a esprimersi su una piattaforma. Il potere culturale, editoriale, letterario esiste, talora favorisce gli autori di destra, talora (più di frequente) quelli di sinistra, ma quella non è censura. È esercizio, più o meno partigiano, più o meno illuminato, di un potere costitutivamente arbitrario. San Remo non è un concorso universitario, e il direttore artistico ha tutto il diritto di invitare chi vuole, perché a lui è staro delegato quel potere. Possiamo criticare Carlo Conti se esclude Patty Pravo o Al Bano, ma non gridare alla censura. Lo stesso vale per i tanti che si sentono esclusi dalla programmazione Rai, o da un talk show, o da un concorso letterario. Possiamo parlare di “amichettismo”, circuiti privilegiati, cerchie che escludono e cerchi magici che includono. Ma di censura no, se non altro per rispetto verso i veri censurati sotto le dittature e i regimi dittatoriali.

Un altro esempio è la parola pensiero. Gli insulti, le offese, le ingiurie, non sono manifestazioni della libertà di pensiero, anche quando usate nell’ambito di un ragionamento politico. Si può discutere, caso per caso, dell’opportunità di querelare per diffamazione (un reato che è stato rilanciato dalla depenalizzazione dell’ingiuria), ma non si può invocare la libertà di pensiero per giustificare un’offesa, o teorizzare che le querele vanno ritirate se c’è squilibrio di potere fra querelante e querelato.

Soprattutto non si possono usare due pesi e due misure: se Laura Boldrini faceva bene a denunciare i suoi odiatori (per lo più anonimi), altrettanto bene fa Giorgia Meloni con i propri detrattori (per lo più ben protetti dall’establishment culturale).

Un altro esempio ancora sono le parole dissenso, contestazione, critica usate per giustificare chi impedisce materialmente lo svolgimento di una manifestazione, di un incontro, di un convegno, di un evento culturale. Qui gli esempi – in parte già richiamati – sono tantissimi e molto diversi fra loro. Studenti che, in diverse università, impediscono di parlare a Maurizio Molinari e David Parenzo in quanto ebrei. Contestatori che impediscono a Eugenia Roccella di parlare al Salone del libro e agli Stati generali della natalità. Attivisti che impediscono il volantinaggio ad attivisti di diverso credo politico. Manifestazioni di piazza per impedire altre manifestazioni. Presentazioni di libri soppresse per l’argomento del libro (l’ebrea Golda Meir). Sempre ogni volta in nome del sacrosanto diritto al dissenso e alla manifestazione del pensiero, tutelati dagli articoli 17 e 21 della Costituzione. È il caso di notare che quel che questi esempi hanno in comune non è l’uso della violenza, perché in diversi casi si tratta di manifestazioni pacifiche, che ottengono il risultato voluto (il silenzio altrui) senza ricorrere all’uso della forza, talora anzi adoperando mezzi creativi: liberare decine di migliaia di grilli in una sala per impedire un evento culturale sgradito (è successo anche questo) può essere più efficace di un picchettaggio o di un’irruzione di massa.

Ebbene, anche in questi casi le parole sono usate a sproposito. Impedire a qualcuno di parlare non è né dissenso, né contestazione, né critica. Semmai è privare qualcuno di un suo diritto, quello di manifestare il proprio pensiero in pubblico. Ma come si chiama questa cosa?

Ed ecco il problema: per questa cosa, in particolare quando non è violenta, non solo non abbiamo un reato, ma nemmeno una parola. Anzi, forse non abbiamo il reato precisamente perché ci manca la parola per dire la cosa. Usiamo la parola dissenso, ma il dissenso è il motivo dell’azione, non l’azione stessa. Per quest’ultima abbiamo solo concetti approssimativi: silenziare, zittire, oscurare, sopraffare (grillare?).

Peccato, perché “le parole sono importanti”.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 dicembre 2024]




Sui nuovi dati del Ministero dell’Interno – Criminalità e immigrazione irregolare

Stanno suscitando un discreto sconcerto i dati sulla criminalità che, da alcuni giorni, filtrano dal Ministero dell’Interno. Da essi, infatti, si deduce che la percentuale di reati presumibilmente commessi (persone denunciate o arrestate) da stranieri irregolari (circa il 28%), è enormemente superiore al peso degli irregolari stessi (meno dell’1% della popolazione presente in Italia). Ancora più sconcerto suscitano i dati su uno dei reati più odiosi, ossia le violenze sessuali: nei primi 9 mesi del 2024 quasi la metà (il 44%) sono state perpetrate da stranieri (regolari e non), che costituiscono appena il 10% della popolazione. E ancora più preoccupanti appaiono i dati delle violenze sessuali commesse da giovani, che vedono un’incidenza degli stranieri che sfiora il 60%, circa 6 volte il loro peso sulla popolazione.

Ci vorrà tempo e pazienza per ponderare bene questi dati, confrontandoli con quelli rilasciati in passato, anche per capire se la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è aumentata o diminuita nel tempo (a una prima analisi pare aumentata).

Quello che per ora i dati ministeriali sembrano suggerire sono almeno due cose. Primo, la pericolosità relativa degli stranieri irregolari è circa 50 volte superiore a quella dei cittadini comunitari (italiani e stranieri). Secondo, quasi un terzo dei posti occupati in carcere è imputabile a cittadini stranieri, in buona parte irregolari (con i
dati disponibili, la percentuale esatta può solo essere stimata). Si può tranquillamente affermare che senza questi detenuti non vi sarebbe alcun sovraffollamento carcerario, anche se – ovviamente – resterebbero i gravissimi problemi di degrado, trattamenti
disumani, carenza di servizi giustamente (e inutilmente) denunciati da alcune associazioni (a partire da Antigone) e da alcune forze politiche (a partire dai Radicali).

Che fare, dunque?

Molte cose si potrebbero fare, sia di sinistra sia di destra, ma ve ne è una preliminare a qualsiasi soluzione: non negare l’esistenza del problema. Perché già lo so che, a partire dai prossimi giorni, vedremo rispolverare le due obiezioni – entrambe fallaci – che vengono sollevate ogniqualvolta il Ministero o l’Istat forniscono dati disaggregati per nazionalità degli autori di reati.

La prima è: ma la maggior parte dei reati li commettono gli italiani, non gli stranieri. Questa obiezione è ingenua, perché è ovvio che – essendo gli italiani 10 volte più numerosi degli stranieri e 100 volte più numerosi degli stranieri irregolari – il loro apporto alla criminalità complessiva non può essere trascurabile. Il punto è che, da soli, gli stranieri (regolari e non) commettono circa 1/3 dei reati, e gli stranieri irregolari, spesso concentrati in spazi circoscritti, costituiscono una minaccia intollerabile per la gente comune. E questo non perché quest’ultima sia preda di paure irrazionali, ma semplicemente perché – in certi quartieri o isolati – il rischio di aggressione per km quadrato è di 10, 100, anche 1000 volte superiore a quello di un quartiere normale. Né si trascuri il fatto, già accennato, che cancellare anche solo 1/4 o 1/3 dei reati allevierebbe in modo significativo le condizioni di vita dei detenuti.

La seconda obiezione fallace è: gli stranieri sembrano più pericolosi degli italiani perché la propensione a denunciare è maggiore, molto maggiore, quando l’autore è straniero. Detto in altre parole, il “numero oscuro” (ossia il numero di reati non denunciati) sarebbe diverso a seconda che l’autore sia italiano o straniero.

Questa obiezione è debole per due motivi distinti. Innanzitutto, ci sono reati – in particolare gli omicidi e i femminicidi – per cui il numero oscuro è vicino a zero, e ciononostante la propensione degli stranieri risulta 2 o 3 volte superiore a quella degli italiani. Tutto fa supporre che, ove disponessimo della distinzione fra stranieri regolari e irregolari, la forbice fra le propensioni degli stranieri irregolari e quella degli italiani (o degli stranieri regolari), sarebbe ancora più pronunciata.

La seconda debolezza sta nel fatto che, anche ammettendo che la propensione alla denuncia possa essere più alta quando l’autore è straniero (ipotesi più che ragionevole), non vi è alcuna prova che la differenza fra le due propensioni possa essere così ampia da spiegare l’enorme gap che separa i tassi di criminalità degli stranieri irregolari da quelli di tutti gli altri (italiani e stranieri regolari). L’unica stima fornita a sostegno dell’ipotesi di tassi di denuncia differenziati si basa su una ricerca vecchia, che riguarda solo le violenze sessuali, e ignora il fatto che i tassi di denuncia delle giovani generazioni sono presumibilmente assai più alti e allineati (ossia indipendenti dalla nazionalità dell’autore) di quelli delle generazioni precedenti.

In conclusione. I nuovi dati del Ministero dell’Interno gettano luce su un problema drammatico. Ci sarà modo di analizzarli, discuterli, forse anche criticarli o richiedere chiarimenti. Ma la cosa peggiore che potremmo fare è rispolverare l’armamentario
negazionista con cui, ogni volta che vengono fuori numeri e statistiche, più o meno improvvisati fact-checker cercano di occultare l’amara realtà dell’immigrazione irregolare.

[articolo uscito sul Messaggero il 17 dicembre 2024]




In margine alla festa di Atreju – Elettori oltre la destra e la sinistra

Forse è un po’ presto per fantasticare di nuove creature politiche, visto che – salvo incidenti – si voterà nel 2027. Però è quello che sta succedendo nelle ultime settimane, prima con la cacciata di Beppe Grillo e la “contizzazione totale” dei Cinque Stelle, poi con le manovre al centro per la dar vita a un partito liberal-democratico, o con quelle per la (ri)nascita di un partito cattolico di sinistra, sulla scia della Margherita di rutelliana memoria. Per non parlare degli smottamenti interni a Forza Italia, sempre più tentata di accentuare i suoi tratti moderati, se non di “partito di destra che guarda a sinistra”, cavalcando alcuni temi indigesti per la destra-destra: ius scholae, diritti delle minoranze sessuali, multe ai No Vax.

Quello che accomuna tutti questi sommovimenti è lo sforzo di aggirare la dicotomia secca destra-sinistra, in cui tanti non riescono più a riconoscersi. In effetti, a giudicare dai sondaggi (penso in particolare a una recente indagine di Renato Mannheimer) gli
elettori che non se la sentono né di dichiararsi di destra né di dichiararsi di sinistra non sono certo pochi: il 33% dell’elettorato, ossia 1 elettore su 3, rifiuta entrambe le etichette.

Allora è vero che una forza di centro, né di destra né di sinistra, avrebbe a disposizione praterie di potenziali elettori?

No, è un’illusione. Se infatti andiamo a vedere come è composto l’insieme degli elettori che non si riconoscono né nella destra né nella sinistra, scopriamo che solo il 9.1% dell’elettorato si autodefinisce di centro. È una percentuale di poco superiore a quella che, prima del divorzio fra Renzi e Calenda, dava il suo voto al cosiddetto Terzo Polo. Nulla suggerisce che siano più del 10% gli italiani disposti a dare fiducia a un partito che non dichiara se, dopo il voto, si alleerà con la destra-destra o con la sinistra-sinistra. Sono invece il 20-25%, cioè circa 1 su 4, gli italiani che non si riconoscono né nell’attuale sinistra, né nell’attuale destra, né in un generico partito di centro, o partito dei moderati.

Ma perché sono così tanti? E che cosa pensano? Che cosa li trattiene dall’auto-collocarsi a destra o a sinistra?

Una ragione può essere lo scarso interesse per la politica, o l’insoddisfazione per le politiche di entrambi gli schieramenti. Ma una ragione alternativa, a mio parere più importante, è che – non solo in Italia – sono sempre più numerosi i cittadini che esprimono istanze che, lungi dall’essere né di destra né di sinistra, sono sia di destra sia di sinistra.

Prendiamo, a titolo di esempio, la classica frattura fra ceti medi e ceti popolari. Nell’universo politico classico un operaio votava a sinistra, un impiegato o libero professionista votavano a destra. Oggi, invece, può capitare che un operaio guardi a destra perché vede il degrado delle periferie indotto dalla presenza degli immigrati, o semplicemente perché non capisce l’ostinazione del mondo progressista nella difesa delle minoranze sessuali, o nel sostegno alle politiche green, o nella promozione del linguaggio “follemente corretto”. Simmetricamente, un insegnante, un magistrato, un impiegato può guardare a sinistra semplicemente perché la sua condizione è abbastanza agiata da consentirgli il lusso di pensare ai diritti civili piuttosto che ai diritti sociali, o di occuparsi del futuro del pianeta anziché del bilancio famigliare.

Di qui il dilemma di tanti elettori, che si sentono di sinistra su certi temi, e di destra su altri. Di qui, anche, lo spazio che (in teoria) si sta aprendo ai Cinque Stelle, che sono l’unica formazione politica che è strutturalmente sia di sinistra (in economia) sia
di destra (in materia di immigrazione). È quello che, neanche tanto fra le righe, è andato a dire Conte ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, quando ha affermato di essere progressista, ma non di sinistra: “se sinistra significa contrastare il governo attuale solo nel segno dell’antifascismo, io non ci sto”; “se sinistra significa accogliere tutti indiscriminatamente, io non ci sto”; “se sinistra significa occuparsi solo di quelli nei quartieri residenziali, nelle Ztl, io non ci sto”.

Applausi, ogni volta, degli spettatori presenti. Tutti di destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 dicembre 2024]




Destra e sinistra – Chi è maggioranza nel paese?

Qualche tempo fa, in un’intervista alla Stampa, l’inossidabile e sempre tagliente Massimo D’Alema è stato perentorio: “questa destra non è maggioranza nel paese: lo dicono i numeri”.

Sicuro?

Allora vediamoli questi numeri. Ovviamente D’Alema non poteva riferirsi al numero assoluto di voti, perché – da questo punto di vista – nessuno schieramento o coalizione, per quanto allargata, potrà mai avere il sostegno di 26 milioni di elettori (la maggioranza degli aventi diritto). L’astensione, ormai prossima al 50% del corpo elettorale, fa sì che i votanti siano circa 30 milioni, se non qualcuno di meno. Alle politiche del 2022 furono 29 milioni e mezzo, di cui solo 28 espressero un voto valido. Dunque: per essere maggioranza, l’obiettivo è avere almeno 14 milioni di voti.

Quanto sono vicini a questo obiettivo i due schieramenti?

Se stiamo agli ultimi sondaggi la destra, nell’assetto attuale, è vicinissima all’obiettivo: l’ultima super-media di Youtrend la colloca al 48.4%, sommando i voti di Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, Noi Moderati. Con il tasso di partecipazione elettorale del 2022 fanno circa 13.5 milioni di voti, a un soffio dall’obiettivo dei 14 milioni di voti.

E la sinistra?

Qui occorre fare attenzione. La sinistra vera e propria è costituita solo dal Pd (23.2%), e dall’alleanza Verdi-Sinistra (6.3), che insieme totalizzano il 29.5% dei consensi. Trascurando le differenze politico culturali possiamo aggiungere Italia Viva (2.3%), e arrivare al 31.8% dei consensi. Trascurando le differenze programmatiche in campo economico (liberismo versus statalismo), possiamo aggiungere +Europa (2%), e arrivare al 33.8% dei consensi. Trascurando quasi tutte le differenze – politiche, economiche, giudiziarie – possiamo aggiungere Azione (2.7%) e arrivare al 36.5%: circa 10 milioni di voti, ovvero 4 milioni in meno di quelli necessari per conquistare la maggioranza dei votanti. In breve: alla sinistra, sia pure allargata ai “cespugli” di Azione, Italia Viva, +Europa, mancano pur sempre 12 punti percentuali per raggiungere il centro-destra, e 14 per superare il 50% dei consensi.

E i Cinque Stelle?

Qui sta il problema. Che però ha due facce. Prima faccia: allo stato attuale dei consensi, anche se Conte si accodasse alla “gioiosa macchina da guerra” di Elly Schlein, anche se questa scelta non provocasse l’uscita di Calenda e/o Renzi dall’alleanza, anche se nessun elettore rinunciasse a votare a sinistra per insuperabile antipatia verso uno o più alleati, il consenso totale resterebbe non solo al di sotto del 50%, ma anche – sia pur di poco – al di sotto del consenso di cui attualmente gode il centro-destra (47.9% contro 48.4%).

Seconda faccia: il Movimento Cinque Stelle non è mai stato, e presumibilmente mai sarà, una forza politica di sinistra, almeno fino a che il volto della sinistra sarà quello globalista, europeista, atlantista sperimentato negli ultimi anni. Certo la distinzione,
brandita da Conte negli ultimi giorni, fra essere “di sinistra” ed essere “progressista” suona capziosa a azzeccagarbugliesca. Qualcuno, come fa Piero Sansonetti da anni, potrebbe persino argomentare che il Movimento Cinque Stelle non solo non è di
sinistra, ma è pure reazionario, ossia l’esatto contrario di progressista. Ma, al di là della diatriba terminologica, resta il fatto che, fin da quando è nato il movimento, i sondaggi hanno sempre rilevato che una parte non trascurabile del suo elettorato o
respinge la dicotomia destra-sinistra, o si colloca più a destra che a sinistra. Il che è culturalmente comprensibilissimo: una parte del movimento è semplicemente qualunquista, un’altra è anti-europea, un’altra è anti-migranti irregolari, e nessuno di questi segmenti più o meno sovrapposti è genuinamente di sinistra nell’accezione corrente del termine. Del resto, per certificarlo, basterebbero le recenti manovre di avvicinamento dei Cinque Stelle al partito tedesco BSW di Sahra Wagenknecht, una
formazione “sia di sinistra sia di destra”.

Conclusione. Se prendiamo atto che una parte dei Cinque Stelle (almeno 1 su 4) sono più vicini alla destra che alla sinistra, non possiamo che rovesciare la conclusione di d’Alema: la destra (per ora) è maggioranza nel paese, è la sinistra che non lo è. Lo
dicono i numeri.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 dicembre 2024]