Europee, la vere incognita

Fra pochi giorni si vota alle Europee, e ogni partito ha la sua linea Maginot, ovvero una soglia sotto la quale non può scendere senza sentirsi sconfitto. Per Fratelli d’Italia la soglia è il 26%, ossia il risultato delle elezioni politiche. Per il Pd la soglia
psicologica del 20%: al di sotto di quella cifra la leadership di Elly Schlein potrebbe scricchiolare. Per i Cinque Stelle la soglia dovrebbe situarsi intorno al 15%, tenuto conto che quello europeo non è il loro terreno di gioco preferito. Per Forza Italia la
soglia è il 10%, dopo le ripetuti promesse di Tajani di superarla. Per la Lega la soglia è non essere scavalcata da Forza Italia, e che il Generale Vannacci abbia un buon risultato.
E per tutti gli altri? Per tutte le altre liste, la soglia è il 4%, al di sotto della quale non si elegge nessun parlamentare europeo.      Ma quante sono le liste che, con un briciolo di buona sorte, potrebbero aspirare al 4%?

Sono almeno 3: Alleanza Verdi-Sinistra (che candida anche Ilaria Salis); Azione, capeggiata da Carlo Calenda; Stati Uniti di Europa, con Emma Bonino e Renzi. A queste, volendo e sperando, se ne possono aggiungere altre 2, ovvero la lista Pace
Terra Dignità, con Michele Santoro, e la lista Libertà, con Cateno De Luca e Laura Castelli (ex Cinquestelle).
Il risultato di queste 5 liste minori è ovviamente cruciale per loro stesse, dal momento che tutte rischiano di eleggere zero parlamentari, ma lo è anche per i 5 partiti maggiori, perché il numero di seggi a disposizione di questi ultimi potrebbe differire
sensibilmente a seconda del numero di liste minori che passeranno la soglia e del numero di parlamentari che il gioco delle circoscrizioni e delle preferenze consentirà a ciascuna di portare a casa.

Secondo alcune simulazioni, le liste minori potrebbero essere costrette ad accontentarsi di appena 2 seggi, secondo altre ne potrebbero conquistare addirittura 12. Poiché il numero totale dei seggi riservati all’Italia è costante, e pari a 76, i seggi per i 5 partiti maggiori potrebbero variare fra 64 e 74. Insomma, alcune possibili vittorie o sconfitte dei grandi potrebbero anche essere nient’altro che le conseguenze meccaniche delle alterne fortune dei piccoli.

Ma vediamo come potrebbero andare le cose per questi ultimi. Da un punto di vista puramente aritmetico, assumendo che i voti di questo bacino di elettori siano dell’ordine del 16% (come risulta dai sondaggi di qualche settimana fa), è possibile che nessuna lista minore raggiunga il quorum: se tutte prendessero poco più del 3%, nessuna passerebbe.                                                         Sempre da un punto di vista aritmetico, potrebbe anche succedere che il 4% venisse superato da 4 liste, tutte appena al di sopra del limite (4.1% x 4 =16.4%). Entrambe queste ipotesi (0 e 4 liste sopra la soglia) sono estremamente improbabili, quindi possiamo tranquillamente dire che quasi certamente il numero di liste che supereranno la soglia sarà compreso fra 1 e 3.
Ma quante e quali liste potrebbero farcela?

La mia idea (ma posso benissimo sbagliare) è che la presenza della Salis possa creare problemi – cioè sottrarre voti – alle liste affini, in particolare a Pace Terra Dignità, ma forse anche alla lista libertaria-europeista di Emma Bonino, ossia a Stati Uniti di
Europa, e in misura minore a quella di Carlo Calenda, che ha un profilo più liberal-tecnocratico.
Dovessi scommettere, direi che – realisticamente – le liste minori che passano la soglia dovrebbero essere o 2 o 3. Difficile che non ce la faccia il trio Salis-Bonelli-Fratoianni, possibile – ma non certo – è che una delle due liste europeiste (Azione o
Stati Uniti d’Europa) resti fuori per un pelo.

Resta il fatto che, per giudicare i guadagni o le perdite di seggi dei partiti maggiori sarà bene non tenere d’occhio solo quanti seggi avevano 5 anni fa, ma anche quanti erano allora e quanti sono oggi i seggi conquistati dalle liste minori. Allora il bottino
dei partiti maggiori fu notevole, perché le liste minori non conquistarono alcun seggio, e a un certo punto ai seggi conquistati sul campo si aggiunsero i seggi piovuti dal cielo per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Oggi tutto fa pensare che
le liste minori qualche seggio lo conquisteranno, assottigliando il bottino delle 5 liste maggiori.

Alla fine, non mi stupirei che Fratelli d’Italia fosse l’unico partito a guadagnare seggi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 4 giugno 2024]




Le due facce della generazione Z

Non si erano ancora spenti gli echi della visita di Giorgia Meloni a Caivano per l’inaugurazione del nuovo centro sportivo, con tanto di polemiche per la sarcastica stretta di mano al governatore De Luca (quello che l’aveva definita “quella stronza
della Meloni”), e già la realtà presentava il conto, con la notizia secondo cui, a Comiso (Catania), un ragazzo tunisino di 16 anni, ospite di una comunità per minorenni stranieri non accompagnati, aveva violentato una donna 33enne nella villa comunale. Il fatto sarebbe avvenuto dieci giorni fa, ma la notizia è stata diffusa solo ieri, a poche ore dal blitz del premier a Caivano.

L’accostamento fra le due notizie non potrebbe essere più emblematico. Da un lato i primi passi per garantire la presenza dello Stato nei territori più degradati, dall’altro le crude verità della cronaca. Sullo sfondo, l’eterno dibattito sulla funzione del
carcere, che dovrebbe mirare alla rieducazione e al reinserimento sociale degli autori di reati, ma non sempre si dimostra all’altezza. Il tutto inasprito dalle polemiche sul decreto Caivano, che – secondo i critici – sarebbe all’origine di un allarmante
aumento del numero di minori detenuti.

La materia è scottante, e tocca temi su cui nessuno è disposto a cambiare idea.
Proprio per questo, però, vale forse la pena fare il punto sui dati obiettivi, da cui qualsiasi proposta non può prescindere.

In Italia il ricorso alla reclusione nei confronti dei minori è estremamente limitato.
Secondo i dati più recenti, i minori detenuti negli IPM (Istituti Penali per Minori) sono 312 (più 211 “giovani adulti”), a fronte di un numero di reati commessi da minori ogni anno circa 100 volte superiore (più di 30 mila). Anche ammettendo che gli autori siano la metà (perché alcuni commettono più di un reato), ne deriva che in carcere entrano meno di 1 ragazzo o ragazza ogni 50 autori di reati. Dove finiscono gli altri?

La maggior parte non entra nel circuito penale, o se vi entra viene inserito in uno dei molti percorsi alternativi alla detenzione, fra i quali il più promettente è probabilmente quello della “messa alla prova” (che contribuisce a tener basso il numero di recidive). Se sommiamo i numeri dei principali percorsi alternativi alla detenzione risulta che i minori e giovani adulti inseriti in tali percorsi sono almeno 7 volte più numerosi dei minori e giovani adulti reclusi.

In breve: il nostro sistema penale è sicuramente criticabile, ma non sembra che la sua principale pecca possa essere il ricorso eccessivo alle misure detentive. Ma, viene talora obiettato, il problema è che stiamo osservando un drammatico aumento del ricorso alla detenzione, che è causato dalle misure del decreto Caivano. Anche qui, meglio riflettere sui dati prima di trarre conclusioni.

Se consideriamo il triennio 2019-2022 (l’unico per cui abbiamo dati completi e consolidati) quel che salta all’occhio non è l’aumento degli ingressi in carcere (+15.8% per i minorenni, ma -19% per i giovani adulti), bensì l’esplosione dei reati più violenti e aggressivi commessi da minorenni, italiani e soprattutto stranieri (che pur essendo molto meno numerosi degli italiani contribuiscono a più di metà dei reati).

Rapine: +33% quelle degli italiani (stranieri: +109.2%). Risse: +51.9% (stranieri: + 128.5%). Percosse: + 34.9% (stranieri: +121.7%). Lesioni dolose: +12.6% (stranieri:+ 62,7%). Minacce: +8.4% (stranieri: +59.5%). Violenza sessuale: + 3.9% (stranieri:
+ 59.0%). Solo nel caso degli omicidi tentati o consumati i minori italiani fanno peggio degli stranieri: +111.1% contro +12.1%.

Se c’è una cosa di cui stupirsi, non è il numero di minorenni in carcere, ma che all’esplosione del numero di reati violenti commessi da minori non sia seguita una paragonabile espansione del numero di detenuti negli IPM.

Vedremo fra qualche mese, quando saranno disponibili tutti i dati necessari, che cosa esattamente sia successo nell’ultimo anno sia sul versante dei reati che su quello degli ingressi in carcere (per ora sappiamo solo che gli ingressi totali negli IPM, compresi i
giovani adulti, sono aumentati dell’8.8% fra il 2022 e il 2023). Quello che però possiamo dire fin d’ora è che i dati della criminalità minorile degli ultimi anni mettono in crisi la descrizione standard della generazione Z, ossia delle ragazze e dei
ragazzi attualmente nella fascia 15-29 anni.

Spesso denominata snowflake generation (generazione fiocco di neve), sociologi e psicologi sociali l’hanno per lo più descritta nel registro della fragilità, afflitta da ansia, depressione, disturbi alimentari, autolesionismo, ritiro sociale, solitudine, tendenze suicidarie. I dati, in particolare quelli dei suicidi giovanili (in aumento da diversi anni), supportano pienamente questa descrizione, ma paiono non cogliere l’altra faccia della luna, ossia il fatto che la generazione Z è attraversata anche da spinte di natura opposta, di cui i comportamenti violenti sono solo la punta dell’iceberg.
Forse, è venuto il momento di prenderne atto: la generazione Z è una generazione bifronte. Chiunque voglia provare a capirla, non può guardarne una faccia soltanto.

[articolo uscito sul “Messaggero” il 30 maggio 2024]

 




Linguaggio inclusivo e bullismo etico

“Dilemmi” è, a mio parere, una delle più intelligenti e ben costruite trasmissioni della Rai. L’idea è di scegliere un dilemma interessante, e farne discutere due persone preparate, che la pensano in modo opposto, ma sono disposte a confrontarsi in modo
civile.

È quel che è successo, pochi giorni fa, con il confronto fra lo scrittore Emanuele Trevi (premio Strega 2021) e la linguista Vera Gheno, paladina del linguaggio inclusivo (ma lei preferisce chiamarlo “ampio”) e sostenitrice dell’uso della schwa (ə) per formare il plurale: anziché dire cari spettatori, oppure care spettatrici e cari spettatori, dovremmo dire: carə spettatorə.

La discussione si è animata varie volte, ad esempio quando è stata richiamata la decisione del comune di Bologna di bandire parole come “fratellanza” e “paternità” nel caso si riferiscano a donne, e di sostituirle con “solidarietà” e “maternità” (curioso
parlare della “maternità” di un’opera d’arte, o di uno scritto…). Ma il passaggio più interessante, a mio modo di vedere, è stato allorché Trevi ha spiegato le ragioni per cui il linguaggio politicamente corretto ma artificiale non gli piace.

Una ragione riguarda il suo mestiere di scrittore: il rispetto delle prescrizioni dei guardiani della lingua politicamente corretta vincola, limita, impoverisce la scrittura. Ma l’altra ragione ci riguarda tutti: quando qualcuno ci scrive facendo sfoggio di schwa, asterischi e artifici linguistici vari volti a includere e non offendere, in realtà ci sta anche dicendo che lui “si sente migliore, che sta facendo una cosa per il mondo”.

Detto in modo più crudo di quello usato da Trevi: il linguaggio politicamente corretto, specie se usato nei confronti di qualcuno che parla e scrive in modo naturale (non artificioso), funziona come una forma di bullismo etico, un modo per segnalare
la propria sensibilità morale, o la propria superiore virtù (il cosiddetto virtue signalling).

Si potrebbe obiettare che, dopotutto, gruppi e minoranze che fanno esperimenti sulla lingua sono sempre esistite. Pensiamo ai poeti ermetici, alla letteratura sperimentale, al Gruppo 63, per stare al contesto italiano. Ma proprio questi esempi storici
mostrano la radicale differenza con ciò che succede oggi. In quei casi le istanze di cambiamento della lingua non poggiavano, come ora, su un progetto politico di cambiamento della società, e tantomeno pretendevano di uscire dall’ambito letterario,
coinvolgendo la gente comune.

Oggi al contrario la sperimentazione linguistica ha l’ambizione di propagarsi al resto della società, e grazie a internet ha la possibilità tecnologica di farlo. Contemporaneamente, i suoi destinatari hanno ipso facto la chance di convertirsi, diventare essi stessi propagatori della neolingua, e infine ergersi a censori di chi non si converte.

Certo, per ora l’obbligo di adeguarsi alle regole della neolingua vige solo nelle grandi istituzioni come l’Unione Europea, le università, le amministrazioni locali che vogliono fare sfoggio di virtù. Il singolo cittadino, nella vita come in rete, è
liberissimo di non adeguarsi, e continuare a parlare come prima. Nessuno gli impone nulla. Ma il fatto di sapere che alle sue scelte linguistiche non verrà attributo un significato stilistico, bensì una portata etica e morale, è già sufficiente ad esercitare
una formidabile pressione psicologica. Soprattutto in rete, il rischio di finire in uno shitstorm, coperto di improperi per un aggettivo sbagliato o una desinenza scorretta, è troppo forte. A quel punto, la tentazione dell’autocensura e dell’adeguamento può
diventare irresistibile.

[articolo uscito su La Ragione il 28 maggio 2024]




Diffamazione, l’incertezza della legge

12 ottobre 2023. Il tribunale penale di Roma condanna Saviano per diffamazione, infliggendogli una multa poco più che simbolica (1000 euro). Aveva dato dei “bastardi” a Salvini e Meloni per le loro posizioni anti-migranti. La mitezza della pena è dovuta al fatto che il giudice ha riconosciuto le attenuanti generiche, tra cui l’aver agito per “motivi di particolare valore morale”.

15 maggio 2024. La filosofa Donatella Di Cesare, querelata dal ministro Lollobrigida con l’accusa di diffamazione, viene prosciolta. Il ministro aveva usato l’espressione “sostituzione etnica” (presente nel lessico nazista), e lei aveva affermato che “quello del ministro non può essere preso per uno scivolone perché ha parlato da Gauleiter, da governatore neohitleriano”.

Nelle stesse ore del proscioglimento di Di Cesare, si apprende che il tribunale di Napoli ha condannato il giornalista Pasquale Napolitano a 8 mesi di carcere (pena sospesa) più una multa di 6500 euro per diffamazione a mezzo stampa: in un articolo
pubblicato sulla testata Anteprima24 aveva raccontato la vicenda del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola, rimasto in carica “attaccato alla poltrona” nonostante la mancanza di una maggioranza.

Parrebbe dunque sussistere una gerarchia: “attaccato alla poltrona” è un insulto gravissimo, che ti fa meritare il carcere “bastarda” è un po’ meno grave, specialmente se lo dici per motivi di particolare valore morale; invece “governatore
neohitleriano” si può dire tranquillamente, se sei un professore e fai un paragone storico.
Ma c’è una logica, in tutto questo?

Non saprei. Se proprio dovessimo trovarne una, si potrebbe ipotizzare che nella testa dei giudici viga una sorta di sottile scala di gravità, che distingue fra offese alla persona in quanto tale, offese alla persona in quanto ha fatto qualcosa, e offese alla
persona in quanto somigliante a una persona negativa:
(i) sei un bastardo;
(ii) ti sei comportato da bastardo;
(iii) parli come quel bastardo di…

Forse capiremo meglio dopo il 7 ottobre di quest’anno, quando il prof. Luciano Canfora andrà a giudizio per aver affermato in pubblico (in un liceo di Bari) che Giorgia Meloni è “neonazista nell’animo”. Se Canfora dovesse essere condannato, potremmo forse inferirne che quel che il giudice punisce sono gli attacchi diretti alla persona in quanto tale, a prescindere dalla gravità dell’accusa (incollato alla poltrona, neonazista nell’animo). Se Canfora dovesse essere assolto dovremmo forse inferirne
che gli intellettuali, come lui e la professoressa Di Cesare, godono di speciali immunità quando le loro offese (neohitleriano, neonazista nell’animo) sono pronunciate nell’ambito di un ragionamento storico, sociologico, o filosofico.

Vedremo. Quel che resterà comunque in piedi è il problema di conciliare libertà di espressione e rispetto della persona umana, due principi inevitabilmente destinati a confliggere fra loro. Sarebbe già un grande progresso, però, che i giudici non peggiorassero le cose spostando continuamente – e soprattutto soggettivamente – il confine fra quel che si può dire e quel che non si può dire in pubblico. Perché oggi l’unica certezza che ci accompagna è la consapevolezza che, da qualsiasi lato ci troviamo – accusati o accusatori – il nostro destino molto dipende dal giudice nelle cui mani siamo capitati.

[articolo inviato a La Ragione il 19 maggio 2024]




A proposito del caso Roccella – Sopraffazione

Non è la prima volta che, in un evento pubblico, a qualcuno viene impedito di parlare, come è successo la settimana scorsa al ministro Eugenia Roccella, in occasione degli Stati Generali della Natalità. Mai, però, avevo assistito a un così vasto fuoco di sbarramento per impedire che venisse detto, o ripetuto, ciò che solo il Presidente della Repubblica ha potuto dire senza essere irriso, e cioè che il gesto delle contestatrici era stato incivile e in contrasto con la Costituzione.

Impossibile ricapitolare, nello spazio di un articolo, il profluvio di argomenti scomodati per aggirare il severo giudizio del Capo dello Stato. Ne ricordo solo alcuni: la colpa è di Roccella che ha rinunciato a parlare, anziché rassegnarsi a farlo sotto un diluvio di fischi; quello delle contestatrici era solo dissenso, e il dissenso è il sale della democrazia; impedire di parlare a un ministro è giustificato dalla eccezionale gravità delle intenzioni del governo; la Roccella non ha subito nessuna censura, perché la censura procede da chi ha il potere verso chi non ne ha, e non viceversa; la Roccella ha infiniti mezzi per far conoscere le sue opinioni, le
contestatrici no; è questo governo che esercita la censura e intimidisce privati cittadini con le querele (casi di Roberto Saviano, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare).

Sarebbe facile, arrivati a questo punto, fare notare il doppio standard. Che cosa sarebbe successo se, in un evento pubblico, attiviste delle associazioni pro-vita avessero impedito a Elly Schlein di parlare? Che cosa fa sì che si possa lodare Laura Boldrini, Presidente della Camera, quando annuncia di volere denunciare i suoi odiatori, e deprecare Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, quando fa la stessa cosa? Perché lo squilibrio di potere viene invocato quando il denunciato è Roberto Saviano, che pure ha un vastissimo sistema mediatico pronto a difenderlo, e viene dimenticato quando i denunciati sono comuni cittadini, che insultano la Presidente della Camera ma non hanno (meno male…) alcuna rete protettiva?

Ma passiamo oltre. Qui vorrei solo far notare una circostanza, e sollevare un problema.
La circostanza è che nel nostro linguaggio sembra assente un termine per indicare quel che è successo al ministro Eugenia. Roccella, ma anche a tanti altri cui, specie negli ultimi tempi, è stato impedito di parlare. Su questo ha perfettamente ragione la sinistra a dire che non si tratta di censura, e ha torto la destra quando parla di violenza femminista. Ma allora di che cosa si tratta?

La sinistra risponde dissenso, contestazione. Ma anche questo è sbagliato, o meglio è riduttivo. Si può dissentire senza impedire agli altri di parlare, si può contestare ma accettare il dialogo. Lo specifico di quel che è successo con Roccella è che si è
contestato, ma lo si è fatto impedendo a un ministro di esercitare un diritto costituzionale, ovvero la libertà di manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21 della Carta: è questo che ha inquietato il Presidente della Repubblica.

Nello stesso tempo occorre dire con chiarezza che, a differenza di tante altre contestazioni, questa non è stata violenta. Fischiare, tamburellare, urlare, cantare, emettere suoni di disturbo sono atti che impediscono materialmente di parlare, ma non sono violenza. Tolgono la parola, ma non alzano le mani su nessuno.

È curioso che non esista una parola condivisa per descrivere questi atti, che producono le stesse conseguenze della censura e della violenza, ma non sono né censura né violenza. Eppure sono atti sempre più diffusi, specie nelle università straniere, dove a centinaia di professori e studiosi viene impedito di parlare dagli attivisti contrari alle loro idee (celebre il caso della professoressa britannica Cathleene Stock, addirittura costretta a dimettersi ed emigrare in America). Insomma, sarebbe bene che una parola la inventassimo, o la scegliessimo fra quelle che abbiamo.

Se non è né censura, né violenza, e tuttavia è la negazione di un diritto fondamentale, come possiamo chiamare l’atto di impedire la parola? Io suggerirei di usare il termine ‘sopraffazione’, che mi pare renda bene l’idea di una prepotenza efficace, ovvero riuscita nell’intento.

Resta aperto un problema, però: ci sono circostanze, al di là di quelle già previste dalla legge, in cui può essere ragionevole sospendere l’articolo 21, che tutela la libertà di parola?
Per molti di coloro che hanno attaccato Roccella e giustificato le sue contestatrici, la risposta pare essere positiva, come se la giustezza (vera o presunta) della causa per cui si combatte autorizzasse a togliere la parola a chi la pensa diversamente. Per
quanto mi riguarda, invece, la risposta è negativa: ci sono diritti che non possono essere sospesi neppure in circostanze eccezionali, perché il loro esercizio non limita la libertà e la sicurezza di nessuno. Il diritto a non essere sopraffatti da chi pretende di toglierci la parola è uno di tali diritti non comprimibili. Forse non l’unico, ma certo il più importante per chi ancora desidera vivere in una società libera.

[articolo trasmesso al Messaggero il 13 maggio 2024]