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Il fantasma del consenso

9 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Gerard Depardieu, Leonardo Apache La Russa, Ciro Grillo. Anche se per reati di diversa gravità (aggressione sessuale, stupro, stupro di gruppo), tutti e tre sono incappati in un processo a seguito delle denunce delle vittime. Il caso di Depardieu si è risolto con una condanna a 18 mesi di carcere (con sospensione della pena), quello del figlio di La Russa ha dato luogo a una richiesta di archiviazione della Procura di Milano (impugnata dalla difesa della vittima), quello di Ciro Grillo, a 6 anni dai fatti, è ancora fermo alle prime battute (l’accusa ha richiesto 9 anni di carcere).

C’è una differenza importante, tuttavia. Nel caso del settantacinquenne Depardieu alcol e sostanze non c’entrano. L’accusa è di molestie, non di stupro, e meno che mai di stupro di donna incapace di esprimere il consenso. Nel caso dei “figli di papà” Grillo e La Russa, invece, la sostanza dell’accusa è precisamente quella: aver approfittato di ragazze in palese stato di alterazione, e perciò – per definizione – non in grado di esprimere un consenso. Di qui una importante domanda: se una ragazza denuncia uno stupro dopo aver avuto rapporti sessuali in stato di alterazione psico-fisica (non importa se a causa di alcol, stupefacenti, o entrambi) il maschio o i maschi accusati sono automaticamente colpevoli?

La dottrina femminista secondo cui senza consenso esplicito l’atto sessuale è stupro risponde: certo che sì.

La macchina della legge, invece, sembra muoversi lungo un sentiero più accidentato. Nel caso di La Russa junior la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione in base alla seguente considerazione: “non vi è in atti la prova che gli indagati, pur consapevoli dell’assunzione di alcuni drink alcolici da parte della ragazza, abbiano percepito, in modalità esplicita o implicita, la mancanza di una valida volontà” della giovane “nel compiere gli atti sessuali”. A sostegno della sua richiesta di archiviazione la Procura sostiene, sulla base di alcuni video, che i comportamenti della ragazza “non denotano in alcun modo quella posizione di asimmetria psicologica o fisica che deve sussistere perché sia configurabile una delle ipotesi di violenza sessuale”. Tesi contestata dalla difesa della denunciante, secondo cui i medesimi video “dimostrano pacificamente che la parte offesa era in uno stato di palese alterazione laddove la stessa, nella seconda parte del video prodotto e oggetto di valutazione, risponde con titubanza e in modo assolutamente slegato e incomprensibile rispetto alla domanda che le viene posta da Leonardo La Russa”.

L’aspetto interessante è che, pur dissentendo sulla interpretazione dei video, accusa e difesa sembrano concordare su un punto: lo stato di alterazione non basta a escludere il consenso, occorre anche che sia rintracciabile una “posizione di asimmetria psicologica o fisica” a scapito della vittima.

Nel caso di Grillo Junior (e dei 3 ragazzi coimputati con lui), a quello che riferiscono le cronache, difesa e accusa paiono muoversi in modo difforme: i video che riprendono i rapporti sessuali sono invocati dalla difesa di uno degli imputati per contestare la presunta “incapacità di reagire” della vittima, mentre l’accusa (la procura di Tempio Pausania) sembra puntare sul mero fatto che, avendo bevuto a più riprese ed essendo stanca per la nottata,  la ragazza non poteva essere in grado di esprimere un valido consenso. La procura, in altre parole, sembra rendersi conto che i video non testimoniano a favore della ragazza, e che dunque – per accusarla – occorre fare propria quella che abbiamo chiamato la dottrina femminista per cui “il sesso senza consenso è stupro”.

In concreto, questo significa che i 6 ragazzi accusati (2 nel caso La Russa, 4 nel caso Grillo) potrebbero essere sia tutti condannati (se prevale la dottrina femminista) sia tutti assolti (se prevale la dottrina della Procura di Milano). Nel primo caso, la lezione sarebbe: caro maschio, non provare ad avere rapporti sessuali con una femmina in stato alterato, perché se lei ti denuncia il carcere è assicurato. Nel secondo caso, la lezione sarebbe: cara femmina, non permettere che i tuoi rapporti sessuali con uno o più maschi vengano filmati, perché il sexting potrebbe diventare una prova contro di te.

In entrambi i casi, l’unica soluzione – almeno in teoria – sarebbe quella a suo tempo (ai tempi del MeToo) paventata da Catherine Deneuve: “di questo passo avremo un’app sullo smartphone che due adulti che vorranno andare a letto insieme useranno per spuntare esattamente quali atti sessuali accettano di fare e quali no”: peccato che i giuristi spieghino che, anche questa, non potrebbe funzionare.

Insomma, soluzioni vere non esistono, in qualsiasi modo si muova la magistratura. O meglio, le uniche soluzioni solo quelle tradizionali, retrograde, romantiche: ripristinare il corteggiamento, scegliere accuratamente il partner, evitare il sexting come la peste. Se non ci piacciono, siamo tutti – maschi e femmine – costretti ad accettare il rischio di finire nei guai.

[articolo uscito sulla Ragione l’8 luglio 2025]

Sul problema delle carceri – Umanità e sicurezza

7 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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I mali delle carceri italiane sono ben noti: mancanza di personale e di servizi,  sovraffollamento, condizioni degradate di molte celle, suicidi 20 o 25 volte più frequenti che nel resto della popolazione. La situazione italiana non è mai stata quella di un paese civile, ma si è fortemente aggravata a partire dal 2018, anche per il progressivo venir meno degli effetti dell’indulto varato nel 2016. Periodicamente sentiamo lanciare appelli e proposte per alleggerire la situazione: nuovi indulti e amnistie, depenalizzazione di determinati reati, pene alternative al carcere, assunzione di nuovo personale specializzato, costruzione di nuove carceri.

Anche a me, più di una volta, è capitato di denunciare – cifre alla mano – la situazione disumana delle carceri italiane. Con il passare del tempo, tuttavia, mi sono formato la convinzione che, se davvero vogliamo affrontare il problema, dobbiamo – prima di tutto – liberarci di alcuni pregiudizi.

Il primo pregiudizio è l’idea che, in Italia, vi sia un ricorso eccessivo alla carcerazione. I dati, in realtà, indicano l’esatto contrario. Il nostro tasso di incarcerazione (circa 106 detenuti ogni 100 mila abitanti) è più basso di quello medio delle società avanzate, e pure di quello medio dell’Unione europea. E questo a dispetto del fatto che, con la rilevante eccezione degli omicidi, il nostro tasso medio di criminalità è maggiore sia di quello medio europeo, sia di quello medio delle società avanzate. Stante il numero di crimini commessi, ci aspetteremmo più e non meno detenuti.

Il sovraffollamento delle carceri non dipende dalla durezza della repressione penale, ma dal fatto che in Italia si finisce in carcere di meno nonostante si delinqua di più: se il numero di carcerati fosse commisurato al tasso di criminalità, il numero di detenuti sarebbe ancor maggiore.

Il secondo pregiudizio è che si possa far fronte al dramma dei suicidi in carcere semplicemente riducendo l’affollamento attraverso nuove carceri (che richiedono tempi lunghi) o mediante nuovi indulti (che esauriscono rapidamente i loro effetti). I suicidi non dipendono solo dai metri quadri per detenuto, ma dalla condizione spesso drammatica delle celle, dalla carenza di personale specializzato (medici, psicologi, sociologi), dalla possibilità di lavorare, studiare o essere coinvolti in attività dentro e fuori del carcere. Se si vogliono ridurre i suicidi, la costruzione di nuove carceri è meno importante (e probabilmente più costosa) della ristrutturazione e riorganizzazione di quelle esistenti.

Il terzo pregiudizio è che i detenuti stranieri debbano tutti scontare la pena in carceri italiane. Il percorso sarà lungo, ma non si può escludere che, in futuro, una frazione crescente di detenuti stranieri possa scontare la pena nei paesi di origine, o in paesi terzi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia (in questa direzione si sono già mossi, negli ultimi anni, la Danimarca e il Regno Unito). Così come non possiamo escludere che il timore di essere espulsi o trasferiti abbia un effetto deterrente, con conseguente abbassamento del tasso di criminalità e alleggerimento delle carceri. Giusto per dare un ordine di grandezza: se il tasso di criminalità degli stranieri scendesse al livello di quello degli italiani si libererebbero circa 16 mila posti in carcere. E anche se risultasse 2 o 3 volte superiore a quello degli italiani (anziché 6-7 volte come oggi), si libererebbero comunque 8-10 mila posti. Più o meno quelli che, attualmente, occorrerebbe creare ex novo per neutralizzare il sovraffollamento.

C’è, infine, un’ultima considerazione. Quando si affronta il tema delle carceri, è inevitabile che si scontrino visioni liberali e garantiste da una parte e istanze securitarie dall’altra. Generalmente, quel che la politica è chiamata a fare è di riequilibrare un sistema che si è sbilanciato in una direzione o nell’altra, o perché ha dimenticato i diritti dei detenuti a un trattamento umano, o perché ha dimenticando i diritti dei cittadini a un accettabile livello di sicurezza. Il guaio del nostro sistema è che, ormai, si è sbilanciato in entrambe le direzioni: è troppo repressivo dentro le carceri, ma al tempo stesso è troppo remissivo al di fuori.

La “missione impossibile” della politica è di rimettere in equilibrio le cose: restituendo dignità ai detenuti, ma anche sicurezza ai comuni cittadini.

[articolo uscito sul Messaggero il 6 luglio 2025]

Il pride di Budaspest

2 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Il successo del Pride di domenica a Budapest è andato, molto ampiamente, al di là delle più ottimistiche previsioni degli organizzatori. Non sappiamo se i partecipanti siano stati davvero 200 mila, ma anche fossero stati la metà, il successo resta. La destra italiana si consola osservando che, per compattare il campo largo, hanno dovuto esportarlo a Budapest, e che in nessuna altra occasione e su nessun altro tema i progressisti sono stati capaci di marciare uniti.

Ma è una ben magra consolazione. Meglio farebbero, i nostri partiti conservatori, a prender atto del successo dei progressisti e a comprenderne le ragioni. Che a mio parere sono soprattutto due, tra loro strettamente intrecciate. La prima è che, quali che siano le buone ragioni di chi governa, non è mai una buona idea farle valere limitando il dissenso e la manifestazione del pensiero. Vale per il Pride ungherese, dove il premier Viktor Orbán ha sbagliato, e dove l’andamento civile e ordinato della manifestazione ha reso ancora più palese l’arbitrarietà – per non dire l’assurdità – del divieto governativo. Ma vale anche per altri tipi di limitazioni, come alcune di quelle introdotte in Italia dal recente decreto sicurezza riguardo alle manifestazioni, dove a sbagliare sono stati i nostri governati. Non che non possano esservi, in specialissime circostanze, buone ragioni per limitare il diritto di manifestazione del pensiero o la protesta politica, ma il punto è che la legge dovrebbe perimetrare in modo estremamente restrittivo e rigoroso i casi in cui il divieto governativo è ammissibile e giustificato. Insomma, c’è caso e caso: l’impedimento del traffico ferroviario o l’occupazione di case sono comportamenti ben diversi da una manifestazione di piazza. L’eccessiva estensione, o l’insufficiente specificazione, dei casi in cui si può vietare una manifestazione rischia di squalificare anche i divieti più ragionevoli.

C’è anche una seconda ragione, però, per cui il Pride di Budapest ha segnato una grave sconfitta dei conservatori, ed è che – vietando la semplice manifestazione del pensiero – essi hanno fatto venir meno le proprie buone ragioni, o meglio le ragioni che, giuste o sbagliate che siano, sono pubblicamente difendibili. Quello che spesso si dimentica, infatti, è che il nucleo duro dell’ostilità contro il mondo Lgbtq+ non è il “diritto ad amare chi si vuole”, un principio ormai ampiamente e quasi universalmente affermato, almeno in occidente e perlomeno dai tempi di Giorgio Gaber (ricordate i versi di quella canzone del 1975? Vedi, cara, l’amore è una cosa normale, uno lo può fare con chi vuole, donne, uomini, animali… caloriferi…). No, il nucleo delle battaglie anti-Lgbtq+, chiunque le conduca (la Chiesa, i tradizionalisti, i moralisti), non è il diritto degli adulti consenzienti di fare sesso con chi vogliono e come vogliono, ma è la tutela dei minori e dei loro diritti contro rischi e conseguenze, reali o presunte, delle rivendicazioni Lgbtq+ e più in generale della cultura woke.

Quali rischi e conseguenze?

Fondamentalmente quattro. Primo, l’indottrinamento a scuola in materia sessuale, che secondo alcuni entrerebbe in conflitto con l’articolo 26 della “Dichiarazione universale dei diritti umani” (dicembre 1948), che al comma 3 recita: i genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell’istruzione da impartire ai loro figli. Secondo, i rischi per la salute fisica e mentale connessi ai cambiamenti di sesso precoci, mediante bloccanti della pubertà e/o operazioni chirurgiche. Terzo, la violazione del diritto dei bambini ad avere una madre e un padre nei casi di adozioni non convenzionali (single e coppie omosessuali). Quarto, le complesse problematiche etiche della maternità surrogata (utero in affitto) sia sotto il profilo dello sfruttamento economico delle gestanti sia sotto quello del benessere psicologico del nascituro.

Qualsiasi cosa se ne pensi, credo si possa concordare che si tratta di materie delicate, sulle quali sono legittime e comprensibili le opinioni più diverse, perché è nella società che – come testimoniano i sondaggi – le troviamo tutte ampiamente rappresentate. Ecco perché la mossa di Orbán – vietare la manifestazione – è stata non solo profondamente sbagliata, ma stupidamente autolesionistica: mettendo la questione in termini di libertà di manifestazione, ha concesso un rigore a porta vuota ai propri avversari.

[articolo uscito sulla Ragione il 1° luglio 2025]

Nel segno dell’incertezza

2 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Che cosa pensa l’opinione pubblica delle guerre in corso? A giudicare da diversi sondaggi degli ultimi tempi sembra che i sentimenti dominanti siano stanchezza, scetticismo, incertezza. La guerra in Ucraina è durata troppo, le speranze di una “pace giusta” sono ridotte al lumicino. La condanna dell’intervento israeliano a Gaza coesiste con una certa comprensione per l’attacco americano ai siti nucleari dell’Iran. Il riarmo europeo e il connesso aumento delle spese militari spaccano sia la destra sia la sinistra.

Che l’opinione pubblica sia confusa e divisa non stupisce più di tanto, data la straordinaria complessità delle questioni sul tappeto. Quel che trovo sorprendente, invece, è la sicurezza con cui si muovono tanti esperti di questioni geopolitiche e geostrategiche. Due cose mi colpiscono in particolare. La prima è quante informazioni cruciali ci mancano, e quanto poco questa ignoranza venga tematizzata. Nel caso dell’intervento in Iran non sappiamo se l’Iran era davvero sul punto di possedere l’arma nucleare, o se siamo di fronte a una nuova bufala, come quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein nel 2003; non sappiamo dove siano in questo momento i 400 chili di uranio arricchito e che cosa gli iraniani intendano farne; non sappiamo, soprattutto, quale proposta americana l’Iran avrebbe rifiutato prima della rottura dei negoziati sul programma nucleare. Nel caso della guerra in Ucraina non sappiamo con la necessaria esattezza chi e che cosa fece fallire le trattative intavolate a Istanbul nella primavera del 2022; e ovviamente non conosciamo i piani di Putin per i prossimi anni (sempre che resti al potere), né come reagirebbe alle possibili mosse dei governi occidentali.

La seconda cosa che mi sorprende è che, in una situazione di così palese e drammatica ignoranza dei dati basilari, tanti politici e tanti esperti esibiscano convinzioni strategiche univoche. Mi hanno colpito, in particolare, le analisi contenute in due bellissimi libri di specialisti, uno uscito nei giorni scorsi (Se la Russia attacca l’Occidente, di Carlo Masala, Rizzoli), l’altro pubblicato pochi mesi dopo l’invasione dell’Ucraina (Il governo mondiale dell’emergenza, di Alessandro Colombo, Cortina). Il primo è un esercizio di fanta-politica, che immagina uno scenario futuro di tipo catastrofico: la Russia attacca l’Estonia il 28 marzo 2028, e i governanti europei, non avendo dato seguito alle promesse di riarmo ed essendo tra loro divisi, non riescono a reagire adeguatamente l’attacco. Il secondo è una raffinata analisi del dopo ’89, e degli errori strategici dell’occidente, incapace di capire che l’aggressività e pericolosità dei suoi nemici dipendono anche dalle politiche, a loro volta aggressive e ossessionate dall’imperativo della sicurezza, messe in atto nei loro confronti. Anche se i due autori non si pronunciano esplicitamente, credo che la lezione che un lettore ricaverebbe dal primo libro è che l’Europa dovrebbe riarmarsi al più presto (“si vis pacem para bellum”), mentre la lezione che ricaverebbe dal secondo è che l’Occidente e la Nato devono smetterla di spadroneggiare in tutto il mondo.

Quello che ai miei occhi in entrambi pare mancare, è la coscienza che il gioco delle relazioni internazionali non è governato dal rischio ma, per riprendere la fondamentale distinzione di Knight e di Keynes, è retto dall’incertezza. Si ha rischio quando gli esiti delle proprie azioni sono sconosciuti ma calcolabili probabilisticamente (come in molti giochi d’azzardo), si ha incertezza quando non solo le conseguenze delle nostre azioni non sono prevedibili, ma non siamo neppure in grado di assegnare probabilità ai vari esiti logicamente possibili. E’ questa, sfortunatamente, la situazione del gioco europeo in atto in questi anni. Dove l’imperativo del riarmo ha una sua logica, il paragone con gli errori delle democrazie di fronte a Hitler ha una sua plausibilità, ma nessuno è in grado di escludere che le cose stiano all’opposto, e che il comportamento futuro della Russia possa dipendere anche, se non soprattutto, da quanto si sentirà minacciata da noi. Di qui, in particolare, l’impossibilità di formulare un giudizio razionale sul riarmo tedesco: provvidenziale ciambella di salvataggio per un’Europa altrimenti inerme, o provocazione che rischia di risvegliare l’orso russo, memore di Napoleone e di Hitler?

Ecco perché sono stupito. I nostri governanti, i nostri politici, i nostri esperti militari, i nostri intellettuali, i nostri editorialisti parlano come se conoscessero le conseguenze delle scelte che l’Unione Europea si appresta a compiere. Come se non sapessero che questo è il tempo dell’incertezza. E che, in tempi di incertezza, nessuno può sapere con ragionevole certezza qual è la via che si deve imboccare.

[articolo uscito sul Messaggero il 28 giugno 2025]

L’Italia è un paese sicuro?

26 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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L’Italia è un paese sicuro?

La domanda riceve risposte perentorie solo da chi è schierato in modo ideologico. Se prendete un politico di destra, ad esempio Salvini, vi sentirete rispondere che l’Italia non è un paese sicuro, e che occorre un giro di vite. Se prendete un intellettuale di sinistra, ad esempio Gianrico Carofiglio, vi può capitare di sentir dire che l’Europa è uno dei posti più sicuri del mondo, e che noi italiani “stiamo vivendo nell’epoca in assoluto più sicura della nostra storia”. Se poi parlate con una militante femminista, vi inonderà di indignazione per i femminicidi, descritti come una mattanza, uno sterminio, un’ecatombe.

Il tutto, non di rado, condito da dati statistici: ad esempio i tassi di criminalità degli immigrati, che sembrano dare ragione a Salvini, i tassi di omicidio, che sembrano dare ragione a Carofiglio, il numero di donne uccise dal partner, che sembrano dare ragione alla femminista.

Se vogliamo capire come stanno le cose, la prima cosa da fare è evitare quello che gli inglesi chiamano cherry picking (selezionare ciliegie), ovvero usare solo i dati che fanno comodo alla tesi cui siamo affezionati. E allora proviamoci, nei limiti di spazio di un articolo.

Punto numero uno: effettivamente, se consideriamo i comportamenti violenti, e in particolare quelli contro la donna (femminicidi e stupri), l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Però attenzione, c’è una importante differenza: gli omicidi, sia di uomini sia di donne, sono relativamente pochi, e abbastanza stazionari negli ultimi anni, ma le violenze sessuali sono in forte aumento, sia nel breve periodo (ultimi anni) sia nel lungo (rispetto agli anni ’50 e 60). Difficile, senza prove, rassicurarsi ipotizzando che il loro aumento nel tempo rifletta solo un aumento del tasso di denuncia.

Anche sugli omicidi in generale occorre andarci piano. Usando il cherry picking possiamo auto-rassicurarci dicendo che, rispetto al picco del 1991 (in cui c’erano stati quasi 2000 omicidi) le cose vanno benissimo (nel 2024 sono sati solo 319). Ma quel che invariabilmente si dimentica, quando ci compiacciamo della spettacolare riduzione del numero di omicidi dal 1991 a oggi, è il fatto che il 1991 è un anno specialissimo, che conclude una altrettanto spettacolare ascesa degli omicidi iniziata subito dopo il ’68, allorché gli omicidi erano ancora sotto quota 400, dunque non molto lontano dal livello cui sono oggi.

In breve: se parliamo di violenza, è vero che in Italia ce n’è meno che in Europa, ma non si può dire che sia minore di com’era negli anni ’60. Il vero crollo degli omicidi è avvenuto fra gli anni dell’immediato dopoguerra, in cui erano diverse migliaia all’anno, e la metà degli anni ’60, in cui erano scesi sotto i 400: una diminuzione di un fattore 10.

Ma la insicurezza non è fatta solo di esposizione alla violenza. È fatta anche, forse soprattutto, di esposizione a reati più comuni e diffusi, come quelli che attentano alla proprietà privata (furti, rapine, truffe).

Ebbene, se diamo un’occhiata alle statistiche disponibili per i paesi avanzati (Oecd o UE) scopriamo che, in generale, l’Italia si situa nel gruppo dei paesi in cui la proprietà è esposta a maggiori pericoli. E, sorpresa, in tale gruppo – oltre all’Italia – troviamo paesi considerati civilissimi come Svezia, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Canada, Francia. Mentre nel gruppo dei paesi in cui i crimini predatori sono più diffusi troviamo soprattutto i paesi dell’Est europeo, tendenzialmente meno ricchi, meno democratici, meno avanzati sul piano dei diritti, meno aperti all’immigrazione.

Conclusione. Quando parliamo di sicurezza, dobbiamo distinguere nettamente fra attacchi alle persone fisiche (omicidi e violenze sessuali) e attacchi alla proprietà. Chi cerca di rassicurarci ha ragione se parliamo di attacchi alla persona e il termine di paragone sono le altre società avanzate. Ma ha torto se il termine di paragone è il passato remoto del nostro paese (l’Italia non è più sicura che negli anni ’60 del Novecento), o se parliamo di attacchi alla proprietà (l’Italia è meno e non più sicura delle altre società avanzate).

[articolo uscito sulla Ragione il 24 giugno 2025]

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