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Orrori del Bene

17 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Hanno suscitato sconcerto, prima ancora che indignazione o rabbia, le parole con cui il matematico Piergiorgio Odifreddi è parso, se non giustificare, perlomeno sminuire la gravità del gesto con cui un estremista di sinistra americano (Tyler Robinson) ha ucciso Charlie Kirk, estremista di destra (e secondo alcuni potenziale futuro candidato alla Casa Bianca).

Le frasi incriminate di Odifreddi sono ben quattro. Nella prima, a una domanda di David Parenzo sull’uccisione di Kirk, rispondeva dicendo testualmente “Ma sparare a Martin Luther King e sparare a un rappresentante di Maga (il movimento trumpiano Make America Great Again) sono due cose molto diverse, perché Martin Luther King predicava la pace e invece Maga e Trump…” [la fine della frase è incomprensibile, perché sovrastata dalle proteste dei presenti]. Le altre tre frasi sono delle specie di proverbi o paragoni, volti a spiegare e giustificare l’affermazione principale. Il primo (pronunciato ancora in trasmissione) è “chi semina vento raccoglie tempesta”. Il secondo pseudo-proverbio compare in dichiarazioni successive, rilasciate all’Ansa: “Gesù diceva chi di spada ferisce di spada perisce”. Ma Odifreddi è uno scienziato, non credente, e per perfezionare il ragionamento sfodera il terzo pseudo-proverbio, decisamente più laico: “se non si vuole citare Gesù Cristo si può citare la legge della fisica per cui a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.

Infine, per completare il ragionamento, cerca di far intendere che anche la vittima – l’estremista di destra ucciso – ha le sue responsabilità, in quanto odiatore: “non è necessario sparare per incitare all’odio, le parole possono essere macigni”. Tutte varianti del mai abbastanza deprecato “se l’è cercata” usato per attenuare le responsabilità di violentatori e stupratori.

Qui sarebbe facile far notare a Odifreddi, che di professione fa il logico, quanto illogico sia il suo modo di ragionare: se Parenzo si è tanto inquietato è precisamente perché condivide l’affermazione di Odifreddi, e cioè che “le parole possono essere macigni” (o pietre, come recita il titolo di un celebre libro di Carlo Levi). E’ curioso che chi vede la pericolosità dell’incitamento all’odio, non veda la pericolosità di chi minimizza un assassinio solo perché la vittima è a sua volta un odiatore.

Ma il punto su cui vorrei attirare l’attenzione è di tipo storico-empirico. Quello che mi colpisce è l’asimmetria che, negli ultimi anni in Italia, si è venuta instaurando nelle manifestazioni di esaltazione della violenza. Mentre in passato il ricorso alla violenza era praticato e teorizzato sia dall’estrema sinistra (Brigate Rosse e altri gruppi) sia dall’estrema destra (Nar e altri gruppi), oggi a praticare o celebrare la violenza sono quasi esclusivamente persone e gruppi di sinistra, o genericamente anti-fascisti. Negli ultimi anni, ad esempio, è diventato normale manifestare con le immagini di Giorgia Meloni (e di altri politici di destra) a testa in giù. Ènormale che dibattiti, presentazioni di libri, lezioni vengano impedite con la forza perché fra gli interventi previsti ci sono quelli di ebrei, o di persone di destra. È normale che, se la destra scende in piazza, antagonisti e centri sociali organizzino un contro-corteo, per impedire che il corteo sbagliato possa svolgersi in pace. Ènormale vedere studenti che scandiscono il vecchio slogan “uccidere un fascista non è reato”, preceduto da un raccapricciante “il maresciallo Tito ce l’ha insegnato…” (con le foibe?), o “la lotta partigiana ce l’ha insegnato…”, o addirittura dal grottesco “la nonna partigiana ce l’ha insegnato”. È normale che alla costruzione della linea dell’alta velocità in Val di Susa ci si opponga con la guerriglia contro le forze dell’ordine. Normale, infine, è che tutto questo susciti comprensione, prudente silenzio, minimizzazione, talora persino compiacimento in una parte parte dell’establishment progressista.

Si può obiettare, ovviamente, che in questi anni gesti violenti non sono mancati nemmeno a destra (su tutti l’assalto di Forza Nuova alla Cgil), ma l’obiezione non coglie il punto: sono la frequenza e l’ampiezza del sostegno alla violenza ad essere incomparabilmente superiori a sinistra.

Perché?

Io temo che dietro questa asimmetria dei comportamenti, in realtà, lavori una asimmetria più profonda, che si situa su un piano psicologico e morale. Destra e sinistra sono entrambe portatici di visioni del mondo, mentalità, percezioni tra loro differenti. Con una differenza cruciale, però: mentre il tipico militante conservatore è consapevole della parzialità del proprio punto di vista (anche perché glielo ricordano quotidianamente), quello progressista è sinceramente convinto della superiorità e giustezza dei suoi principi, che percepisce come valori universali e dunque non negoziabili. E come tali degni di essere imposti a tutti, con le buone o con le cattive. Di qui l’attrazione fatale per il mezzo di coercizione fondamentale, sempre disponibile a chiunque: l’esercizio della violenza. Un’attrazione che è tipica di tutti i fondamentalismi e che, non a caso, fuori del perimetro della sinistra si manifesta nel modo più sistematico nelle violenze dei fanatici religiosi contrari all’aborto. Anche qui, in nome di un valore universale non negoziabile: il diritto alla vita del nascituro.

Orrori del Bene.

[articolo uscito sulla Ragione il 16 settembre 2025]

A proposito dell’inizio dell’anno scolastico – Ciao maschio

15 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Niente telefonini a scuola, anche nei licei. Chi fa scena muta all’esame di maturità sarà bocciato. Il voto in condotta peserà di più. Chi verrà sospeso per più di due giorni non potrà cavarsela stando a casa, ma dovrà svolgere attività di “cittadinanza solidale” presso strutture convenzionate. Quanto ai programmi, ci sono dei cambiamenti ma decorreranno solo 2026-27.

Queste le principali novità dell’anno scolastico che sta iniziando. Novità che, a ben vedere, sono semplicemente una rivincita del senso comune. Tardiva ma necessaria, al limite dell’ovvietà. La domanda, semmai, è come sia stato possibile, per anni, consentire l’uso dei cellulari nella scuola secondaria superiore, o elargire promozioni a dispetto di gravi violazioni di elementari norme di comportamento.

Bene, siamo tornati alla normalità. Ma di che cosa è fatta la normalità della scuola italiana?

Di tante cose. Alcune note, se non conclamate: il divario nord-sud nei livelli di apprendimento, la difficile integrazione degli studenti stranieri, il bassissimo numero di laureati. Altre eternamente discusse, ma senza pervenire a una diagnosi condivisa: disagio giovanile, bullismo, baby gang, studenti che aggrediscono gli insegnanti, genitori che difendono i figli a oltranza. C’è una cosa, però, che stranamente non entra mai nel dibattitto sulla scuola: lo svantaggio sistematico di un particolare gruppo sociale.

C’è un determinato gruppo sociale (dirò fra poco quale) che, da oltre 30 anni, si laurea molto di meno del resto della popolazione. Che, in terza media, ha voti più bassi in tutte le materie. Che, negli ultimi anni, ha beneficiato meno dell’aumento occupazionale. Insomma: un disastro su tutta la linea.

Chi sono costoro?

Un piccolo gruppo di emarginati, svantaggiati, disabili? O di stranieri, immigrati, provenienti da qualche paese lontano? O sono gli abitanti di una regione o provincia italiana particolarmente povera?

Niente di tutto questo. Il gruppo di cui mai si parla mettendone in rilievo lo svantaggio sono i giovani maschi. È dal 1991 che si laureano meno delle ragazze: oggi il divario è salito al 50% (per ogni 15 ragazze che si laureano vi sono solo 10 laureati maschi). Nella scuola media inferiore, già al terzo anno le ragazze hanno voti migliori dei ragazzi, in tutte le materie, compresa la matematica. E le differenze si riproducono sul mercato del lavoro: nell’ultimo triennio il tasso di occupazione dei maschi è aumentato meno del 6%, quello delle donne di oltre il 12%, più del doppio.

Perché tutto questo?

È abbastanza semplice: i ragazzi studiano di meno delle ragazze, e proprio perché studiano di meno accumulano difficoltà crescenti nel percorso scolastico. Non studiare alle elementari non ha effetti immediati, tutti vengono promossi a prescindere. Ma man mano che si va avanti i deficit di preparazione costano sempre più cari: per quanto permissivo e di manica larga sia il sistema dell’istruzione, gli è impossibile promuovere tutti dalla licenza elementare alla laurea. È come in una corsa ad ostacoli: per chi studia poco gli ostacoli diventano sempre più alti man mano che si procede nei vari gradi (o “scalini”) del percorso di studi. Il risultato è una selezione spietata dei giovani maschi, che pagano il deficit di preparazione uscendo anzitempo dal percorso degli studi. Non a caso, nel confronto europeo, l’Italia non è messa affatto male se si comparano i tassi di conseguimento della laurea delle ragazze, ma occupa una posizione sconfortante se si comparano quelli dei ragazzi: le ragazze laureate sono il 37%, vicine all’obiettivo europeo del 45% entro il 2030, i ragazzi sono fermi al 24%, poco più della metà dell’obiettivo europeo.

Se questo è quel che raccontano i dati, ci si potrebbe chiedere perché se ne parla così poco. Qualsiasi gruppo sociale che presentasse numeri come quelli dei giovani maschi diventerebbe immediatamente oggetto di attenzione, di pensosi dibattiti, di proposte e iniziative per colmare il divario. Per i maschi invece no, questa attenzione non c’è quasi mai.

La ragione è semplice, e la dice molto lunga sul tipo di cultura in cui siamo immersi: dei maschi non si parla perché sono sì un gruppo svantaggiato, ma lo sono per responsabilità propria. Non possono rivendicare lo status di vittima. Non c’è una condizione sociale, un trauma, una tara psicologica o mentale che ne giustifichi il ritardo nella corsa della vita.

Di qui il silenzio. Un silenzio che, per una volta, si potrebbe provare a interrompere. Almeno nei giorni in cui per tutti, giovani ragazzi e ragazze, comincia l’avventura degli studi.

[articolo uscito sul Messaggero il 14 settembre 2025]

Strabismo umanitario – Bambini di serie A e di serie B

11 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Un marziano che fosse atterrato in Europa nel 2022, e per tre anni avesse seguito le vicende belliche della Terra solo dai giornali e dalle tv, oggi avrebbe maturato alcune curiose convinzioni.

Primo, nel mondo ci sono 2 guerre, una in Ucraina, l’altra a Gaza. Secondo, l’aggressione di Israele contro i palestinesi è molto più grave di quella di Putin verso gli ucraini. Terzo, la Palestina è popolata da bambini, l’Ucraina da adulti.

La prima convinzione è falsa, i conflitti sanguinosi in corso sono decine (fra 50 e 100 a seconda delle definizioni e delle fonti). Sulla seconda convinzione (gravità delle due aggressioni) sospendo il giudizio, perché è una questione di punti di vista politico-ideologici. Quanto alla terza convinzione, è quantomeno esagerata: i bambini (minori sotto i 6 anni) ci sono da entrambe le parti, anche se a Gaza rappresentano una quota maggiore della popolazione (circa il 18% contro il 6% dell’Ucraina). In termini assoluti i bambini sotto le bombe sono tra 300 e 400 mila a Gaza, circa 2.2 milioni (cioè sette volte di più) in Ucraina.

Da che cosa possano essere state generate queste convinzioni è evidente: i media sono sensibili agli umori dell’opinione pubblica, e l’opinione pubblica è indignata per lo sterminio in corso a Gaza. In questa indignazione, tuttavia, c’è qualcosa che non torna. La maggior parte delle persone che si dicono indignate affermano di esserlo innanzitutto per ragioni umanitarie, ossia al di là di ogni ideologia e convinzione politica: quel che Israele sta facendo è intollerabile, e va assolutamente fermato. Chi non si indigna, non firma appelli, non scende in piazza è complice. Di qui l’invito alla mobilitazione generale per salvare i bambini di Gaza.

Ed ecco quel che non torna: se le ragioni della protesta sono puramente umanitarie, ovvero scevre da scelte ideologiche e preconcetti politici, allora ci aspetteremmo che l’indignazione non fosse concentrata su un unico conflitto. Che qualche voce si levasse a difesa dei bambini non dico in tutti, ma quantomeno nei teatri di guerra più drammatici.

Se davvero la preoccupazione è per il destino dei bambini, come mai i bambini ucraini uccisi dai russi non suscitano la medesima indignazione dei bambini palestinesi uccisi dagli israeliani? Come mai del dramma dei 20 mila bambini ucraini rapiti e deportati dai russi parla quasi esclusivamente la Chiesa cattolica?

Ma soprattutto: perché mai delle migliaia di bambini uccisi, violati, affamati, malati nell’inferno del Sudan (guerra civile + epidemia di colera) non parla quasi nessuno? E dei massacri che da 4 anni si susseguono in Myanmar? Più di 50 mila morti e 3 milioni di sfollati sono ancora troppo pochi per suscitare un cenno di attenzione nel mondo civile?

Eppure non stiamo parlando di qualche conflitto minore, di qualche guerra locale fra tribù: stiamo parlando di drammi che, per le loro dimensioni, eguagliano e spesso superano il dramma di Gaza.

Dunque torniamo alla domanda: perché solo determinati bambini infiammano gli animi? Perché ci sono bambini di serie A (Gaza), di serie B (Ucraina), di serie C (tutti gli altri)?

Credo che la risposta sia: perché l’indignazione si presenta con le vesti del senso di umanità, ma con l’umanità ha ben poco a che fare. La vera base dell’indignazione a senso unico è l’ideologia, che induce a usare le tragedie del mondo non per cambiarlo in meglio, ma per promuovere la causa politica di cui si è prigionieri (in questo caso l’antiamericanismo e l’antioccidentalismo). Per questo scopo i bambini palestinesi sono perfetti, quelli degli altri teatri di guerra no, o molto di meno.

Ma come si fa – qualcuno potrebbe obiettare – a occuparsi di tutto? Non è naturale seguire le questioni più vicine e trascurare i drammi lontani?

Ebbene, questa è una scusa che non regge. Perché ci sono i contro-esempi, che dimostrano che non è ineluttabile essere faziosi e provinciali. Se si prova a dare uno sguardo ai grandi conflitti e alle catastrofi umanitarie che scuotono il mondo, non è difficile scoprire che, in molte delle realtà snobbate dai nostri media e dagli indignati anti-israeliani, prestano la loro opera coraggiose organizzazioni internazionali (spesso non governative), queste sì davvero umanitarie – cioè universalistiche – come Medici senza frontiere, Emergency, Amnesty International, Unicef, solo per ricordarne alcune. Manifestare e firmare appelli è troppo comodo. Chi ha davvero a cuore la sorte dei bambini e i loro diritti farebbe meglio a dare un sostegno concreto a chi è pronto a operare in qualsiasi teatro di guerra, senza farsi accecare dall’ideologia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 settembre 2025]

Parole in (troppa) libertà – La lezione di Simone Weil

7 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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È giusto, per amore di una buona causa (o di una causa che si ritiene buona), deformare sistematicamente la realtà?

Non è la prima volta che me lo chiedo, ma mai come negli ultimi anni mi è parsa una domanda pertinente. Certo, molto dipende dalle categorie di persone cui ci rivolgiamo. Nei confronti dei politici la domanda è fuori luogo: deformare la realtà per sostenere la propria causa fa parte dei ferri del mestiere. Nessuno, realisticamente, si sognerebbe di pretendere che un politico rinunci a quei ferri, tutt’al più si auspica che non ne abusi.

All’estremo opposto della scala si situano gli scienziati: da loro si esige che non deformino la realtà, perché è precisamente quello il loro mestiere: se l’ingegnere deforma la realtà il ponte crolla, ma se a deformare è il sociologo o lo psicologo? Qui le cose cominciano a complicarsi, perché non ci sono ponti che crollano, o computer che non funzionano, ma solo discussioni infinite fra addetti ai lavori, nessuno dei quali è abbastanza autorevole da squalificare chi deforma sistematicamente la realtà. E purtroppo molti cosiddetti scienziati sociali non si accontentano di studiare (e spiegare) come la realtà funziona, ma sono inclini a ritoccarne più o meno pesantemente la rappresentazione, nella presunzione che così facendo possano facilitare la causa in cui credono. Tipico esempio: gonfiare le cifre dei mali che si vogliono combattere, nella speranza di “sensibilizzare” pubblico e istituzioni (e magari attrarre finanziamenti).

Il caso più imbarazzante, però, è quello del mondo dell’informazione. Qui la pretesa di parlare della realtà (tipica degli studiosi) troppo spesso si combina con la più o meno dichiarata fede in una causa, una visione del mondo, una missione (come è tipico dei politici e dei predicatori). Così è sempre stato, ma non ricordo un periodo in cui questa attitudine – parlare della realtà deformandola a sostegno di una causa (spesso nobile) – sia stata pervasiva come in questi tempi. Oggi si ascoltano quasi soltanto discorsi enfatici e schierati, in cui non solo è assente qualsiasi dubbio, non solo si stabiliscono nessi di causa-effetto arbitrari, ma la stessa descrizione dei fatti è guidata dall’ideologia, o più genericamente dall’obiettivo, di rafforzare una causa che si ritiene sacrosanta.

Obnubilati dalle nostre passioni politiche, non siamo nemmeno più capaci di usare le parole appropriate per descrivere le cose. Il segno forse più inequivocabile di questa degradazione delle nostre capacità linguistiche è l’abuso dell’iperbole. Che certo talora è relativamente innocuo, come nell’impiego dell’espressione “senza precedenti” per qualsiasi cosa che sembri un po’ nuova, o dell’aggettivo “esponenziale” per dire che un fenomeno cresce rapidamente (mentre in matematica significa tutt’altro). Ma in altri casi l’abuso delle parole è un grave attentato alla verità, che ci impedisce di dare una descrizione fedele della realtà, presupposto indispensabile per cambiarla.

L’esempio più clamoroso (e attuale) di questo intorbidamento della lingua è l’uso del sostantivo ‘genocidio’ per descrivere i crimini di guerra di Israele. Basta leggere attentamente e per intero la definizione ONU del 1948 per accorgersi che, nel caso della guerra a Gaza, mancano i presupposti. La definizione ONU, infatti, richiede che siano presenti due elementi, entrambi indispensabili per integrare il crimine di genocidio: un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e la volontà di distruggerlo “in quanto tale”. Nel caso della guerra in corso a Gaza i due elementi sussistono ma in forma scissa, ossia con due diversi referenti. Israele ha sì l’intenzione di distruggere in toto Hamas, ma Hamas non è un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. I Palestinesi, d’altro canto, sono effettivamente un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, ma verso di esso manca “l’intenzione di distruggerlo in quanto tale”.

Ma ci sono anche altri abusi linguistici. Ad esempio l’impiego di termini come patriarcato (anche quando c’è solo maschilismo), mattanza (per il fenomeno dei femminicidi), o deportazione (per le espulsioni di stranieri autori di crimini, o presenti illegalmente in un paese).

In tutti questi casi lo scopo è chiaro: enfatizzare, drammatizzare, amplificare un fenomeno che consideriamo negativo, senza alcuna preoccupazione di analizzarlo, descriverlo, comprenderne la genesi. Eppure, dovremmo aver imparato la lezione di Simone Weil, che ammoniva: “là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero”.

E dove c’è un grave errore di pensiero si rischia di non vedere una parte importante della realtà, e quindi di non riuscire a cambiarla davvero. Credere o far credere che il governo di Israele voglia davvero lo sterminio dei Palestinesi in quanto gruppo etnico non aiuta certo a individuare le vere (e gravi) responsabilità di Israele, e meno che mai a fare passi avanti nella costruzione di uno Stato palestinese. Vedere ovunque in Europa e in America progetti di deportazione anziché piani di rimpatrio dei migranti irregolari conduce a una totale incomprensione dei movimenti di destra, e verosimilmente a una iper-radicalizzazione del conflitto politico, da cui difficilmente potranno trarre giovamento i migranti. Per non parlare dell’equivoco del patriarcato, un concetto cui si ricorre quasi sempre a sproposito, ignorando il suo esatto significato in campo sociologico e antropologico: patriarcato significa potere del capofamiglia sui matrimoni dei figli, sottomissione o segregazione dei membri femminili della famiglia, diritto successorio patrilineare (privilegi del primogenito). Tutte cose che in Italia sussistono sì, ma quasi esclusivamente nelle enclave arcaiche (tipicamente islamiche), dove le figlie vivono sorvegliate, non sono libere di vestire all’occidentale né di scegliere con chi fidanzarsi e sposarsi. Smettere di parlare di patriarcato quando non c’è, aiuterebbe a riconoscerlo – e combatterlo – dove c’è davvero. La tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere con il fidanzato, non ci ha insegnato niente?

[articolo uscito sul Messaggero il 6 settembre 2025]

Rubare a Singapore – Nuotatrici leste

3 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Chi va nell’isola di Singapore, ricca città-stato del sudest asiatico (il suo reddito per abitante è più del doppio di quello italiano), lo sa perfettamente, perché glielo spiegano le agenzie di viaggio e i siti che si occupano di vacanze: a Singapore vigono innumerevoli divieti. Ad esempio: masticare chewingum, fumare in luoghi diversi da quelli appositi (pochissimi), buttare cicche o altro per terra, mangiare o bere sui mezzi di trasporto, girare nudi per casa (se visibili all’esterno), consumare droghe. Ma il vero tratto distintivo di Singapore è che quei divieti li fa rispettare, come – a maggior ragione – fa rispettare i divieti che a noi paiono più ragionevoli: ad esempio rubare.

Tutto questo è noto ma, a quanto pare, era sfuggito ad alcune nuotatrici azzurre, beccate a rubare in un duty free dell’aeroporto. Pare che una di loro, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, abbia infilato un profumo (o due boccette di olii essenziali, secondo un’altra versione) nella borsa della collega, così inguaiandola.

La vicenda, risolta con l’intervento della nostra ambasciata a Singapore, ha suscitato un certo imbarazzo al Ministero degli Esteri, che si è affrettato a dichiarare che il ministro Tajani non ha avuto alcun ruolo. Con tutti gli italiani che abbiamo il problema di riportare a casa, spesso con ottime ragioni, ci mancava solo la figuraccia di un ministro che si batte per rimpatriare una ladruncola.

A quanto pare siamo di fronte a un Fassino-bis, diverso dal famoso profumo rubato in aeroporto dall’ex sindaco di Torino perché la ladra non ha tenuto il profumo per sé, ma l’ha appioppato all’amica. Ma l’attrazione fatale per i profumi non è l’unico elemento che accomuna i due casi. In realtà ce n’è anche un altro. Ricordate la goffaggine delle giustificazioni di Fassino?

“Ero a Fiumicino e volevo fare un regalo a mia moglie. Avevo le mani occupate e ho messo il profumo in tasca, ma intendevo pagarlo”.

Ebbene, le spiegazioni della nuotatrice azzurra sono un capolavoro di reticenza. Anziché dire: “scusate, non ho rubato nulla, è stata una mia compagna a infilarmi il profumo nella borsa”, la ragazza ha tirato fuori un repertorio di circonlocuzioni elusive, astratte, e in perfetto stile burocratico-politichese come “Desidero condividere alcune considerazioni in merito a quanto recentemente emerso sulla mia persona”;
“non ho mai avuto intenzione di compiere gesti inadeguati, e chi mi conosce sa quanto tengo ai valori dello sport, alla correttezza e all’onestà personale”; “da questa esperienza comunque traggo grandi insegnamenti sulla prudenza, sulla responsabilità individuale e sul valore delle persone che mi circondano”.

Evidentemente, parlar chiaro non fa parte delle virtù della nostra nuotatrice, per la quale un furto è “un gesto inadeguato”.

Credo che in questo le nostre atlete non siano granché isolate. Nelle nostre società ultra-civili e ultra-democratiche i divieti di Singapore appaiono assurdi, o nella migliore delle ipotesi esagerati. E gli stessi furti, pur essendo deprecati, e pur tormentando i sonni di tanti italiani, sono considerati quasi fisiologici, un elemento ineliminabile del paesaggio sociale, specie nelle grandi città.

Ma è davvero così?

Il caso di Singapore è interessante perché mina questa percezione di ineluttabilità. Secondo gli ultimi dati disponibili, fatto 100 il numero di furti per abitante in Italia, a Singapore si scende a 9.5, con una riduzione del 90%. E le cose sono ancora più nette nel caso dei furti con scasso: fatto 100 il livello dell’Italia, a Singapore si scende a 0.87, con un abbattimento del 99%. A quanto pare i divieti servono, e ancor più serve la volontà ferrea di farli rispettare.

Dunque, si potrebbe fare anche da noi?

Probabilmente no, perché loro sono buddisti e noi cattolici. Perché da loro c’è la pena di morte e noi abbiamo assimilato la lezione di Beccaria. Perché la nostra stampa è libera e la loro ha restrizioni importanti. Insomma, la loro democrazia è quantomeno imperfetta (noi siamo al 34-esimo posto nella classifica dell’Economist, loro al 70-esimo).

Però, una cosa la possiamo fare: riflettere sui costi della democrazia. O meglio, della nostra democrazia. Noi, rispetto a Singapore, abbiamo non solo molti più furti, ma anche il doppio di femminicidi. Segno che i divieti, e la volontà di farli rispettare, a qualcosa servono. E non solo a pizzicare due bricconcelle a un duty free.

[articolo uscito sulla Ragione il 2 settembre 2025]

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