Hume PageHume Page

AI, apocalittici o integrati?

24 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Di intelligenza artificiale mi sono occupato per diverso tempo, negli anni ’80, presso il LIA, il laboratorio di intelligenza artificiale del centro di calcolo della Regione Piemonte. A quella esperienza ritorno sempre con immenso stupore quando mi capita di maneggiare (o di essere maneggiato da) i pronipoti di quei tentativi, tanto ingenui quanto pionieristici, di emulare le prestazioni degli esseri umani.

Allora erano di moda i sistemi esperti, che venivano meticolosamente programmati per incorporare la conoscenza di medici, ingegneri, e altri specialisti. Una delle caratteristiche di quei sistemi era che, a fronte di un caso da esaminare, il programmatore era in grado di prevedere come l’algoritmo avrebbe risposto: il controllo, in altre parole, era ancora nelle mani dell’uomo. Oggi non è più così: il cuore degli algoritmi di intelligenza artificiale è invisibile all’operatore, e le loro risposte non possono essere previste perché l’addestramento non è più diretto ed esplicito (umano), ma si basa sul cosiddetto machine learning (apprendimento macchina). È un progresso, è un pericolo?

Probabilmente dipende dai campi. Nel campo della diagnosi medica (dalla lettura di una lastra alla diagnosi di una malattia) il progresso è stato spettacolare, e i vantaggi superano largamente i rischi. Ma in altri campi sarei molto più cauto. Se mi dicessero che l’aereo su cui viaggio è pilotato da un algoritmo, e non c’è nessuno a bordo in grado di subentrare se il sistema prende decisioni sbagliate, non sarei tranquillissimo. E se mi investisse (con torto) un veicolo “a guida autonoma” non mi piacerebbe apprendere che non esiste un soggetto legalmente responsabile dell’incidente. Ancora di meno mi piacerebbe che la terza guerra mondiale scoppiasse perché qualche algoritmo ha mal interpretato determinati segnali (anche se non è detto che un operatore umano avrebbe fatto di meglio). E già ora non mi piace affatto che, per un problema con la luce, il gas, il telefono, l’assicurazione, la banca, l’università presso cui lavoro, io venga affidato alle cure di un assistente digitale che non capisce il mio problema e non sa rispondere alle mie domande.

Dove invece l’AI mi stupisce davvero è nel campo della comprensione del linguaggio naturale. Negli anni ’80 la maggior parte di noi considerava ardua, se non disperata, l’impresa di riconoscere la voce e trascrivere il parlato, e molti consideravano la traduzione da una lingua straniera come attività eminentemente umana, non delegabile a una macchina. Quanto alla comprensione del senso di una domanda espressa in linguaggio naturale i tentativi di affidare il compito a una macchina erano circoscritti ad ambiti molto specifici (ad esempio interrogare un database statistico) e, visti con gli occhi di oggi, apparirebbero quanto mai goffi e barocchi.

I cosiddetti chatbot (come ChatGPT) non solo permettono di tradurre un testo in un’altra lingua, ma sono in grado di capire una domanda e, in risposta, di generare testi relativamente complessi, ovviamente basati su altri testi e materiali reperibili in rete. In questo ambito il progresso è stato non solo enorme rispetto agli anni ’80, ma rapidissimo negli ultimi due anni. Alla fine del 2023 ChatGPT faceva errori marchiani, ometteva le fonti e, quando non conosceva la risposta, inventava di sana pianta, perseguendo esclusivamente la verosimiglianza. Oggi non più, oggi si può usare ChatGPT per produrre testi di qualità paragonabile a quella (non eccelsa) che ci si può attendere da una tesina, da una ricerca o da un report compilati da un bravo liceale o da uno scrupoloso studente universitario. Con qualche errore, qualche dato inventato, ma nel complesso un prodotto accettabile e soprattutto comodo, utile.

Utile a chi?

Innanzitutto alle imprese e ai professionisti, che possono sbarazzarsi del lavoro di bassa manovalanza intellettuale. In secondo luogo agli operatori culturali (giornalisti e scrittori compresi), che possono appropriarsi gratis e senza fatica di contenuti che un tempo richiedevano tempo e perizia. In terzo luogo alla vasta rete dei plagiari più o meno professionali, che possono attingere all’oceano dei testi (scritti, musicali, video, eccetera) un tempo soggetti al diritto d’autore. Infine ai truffatori e ai professionisti della disinformazione, che grazie al cosiddetto deep learning (reti neurali multistrato) sono in grado di far circolare notizie e immagini false ma difficilmente riconoscibili come tali.

Come si vede, assumere un atteggiamento netto verso l’AI non è facile. Alla fine, come aveva immaginato Umberto Eco fin dagli anni ’60, ci divideremo fra apocalittici e integrati.

[articolo uscito sulla Ragione il 23 dicembre 2025]

Sulla domanda di sicurezza – La paura e la rabbia

22 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Una vena di schizofrenia, da qualche tempo, affligge il dibattitto politico sulla sicurezza. La destra è in difficoltà perché diversi reati (a partire dalle violenze sessuali) sono in aumento, e la sinistra dà la colpa al governo. Le opposizioni, a loro volta, sono in imbarazzo perché si sentono costrette ad occuparsi di un tema che non è loro congeniale e che hanno sempre snobbato. Quello cui assistiamo è così uno spettacolo inedito: la destra costretta a minimizzare il problema della sicurezza, la sinistra a drammatizzarlo.

Quello su cui un po’ tutti sembrano concordare è che la gente è preoccupata, ha paura di uscire di casa la notte, e chiede più pattuglie di polizia nelle strade.

Ma è davvero la paura lo stato d’animo che si è impossessato dell’opinione pubblica? Ѐ davvero l’aumento del numero di poliziotti la via maestra per ridurre le ansie dei cittadini?

Ne dubito fortemente. Le numerose indagini degli ultimi anni non segnalano un aumento massiccio dei sentimenti di paura e insicurezza. Quanto al numero di poliziotti, l’Italia è fra i paesi che ne hanno di più in relazione al numero di abitanti. Aumentarli ancora può essere utile, ma non va certo alla radice del problema.

E allora? Qual è il problema?

Il problema, il vero problema è la rabbia. Ѐ questo il sentimento dominante. Un sentimento che non nasce dalla inadeguatezza delle forze dell’ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza, vigili del fuoco), che anzi suscitano per lo più l’ammirazione e la gratitudine dei cittadini, ma dal malfunzionamento del sistema giudiziario e penale. Un sistema che, di fatto, ha reso strutturale l’impunità. Quello che la gente non sopporta è che chi viene espulso possa restare tranquillamente sul territorio italiano. Che chi ruba venga arrestato e rilasciato in meno di 24 ore, anche se è l’ennesima volta che commette il reato. Che quello di borseggiatrice possa diventare un mestiere. Che chi compie devastazioni (nelle scuole, nelle università, nelle strade di una città) non sia mai chiamato a risarcire il danno. Che chi esercita la violenza e la sopraffazione, magari mascherate da dissenso politico, possa continuare a togliere la parola agli altri. Che chi difende sé stesso o i propri beni da un aggressore possa finire in carcere. Che coloro che compiono determinati reati, nei campi agricoli come nelle piazze dello spaccio, possano operare indisturbati anche quando i reati si vedono a occhio nudo.

Ebbene tutto questo non è principalmente paura. È semmai rabbia, collera, indignazione, senso di frustrazione, sentimento di impotenza. E non è qualcosa di momentaneo, che potrebbe rapidamente appassire se ci fossero un po’ più di poliziotti per le strade. Anzi, potrebbe persino accentuarsi, ove più poliziotti e più arresti  venissero vanificati dal combinato disposto delle leggi e dell’indulgenza dei giudici.

Perché siamo arrivati a questo?

Alcune ragioni sono contingenti, e strettamente politiche. Le leggi varate dal parlamento non puniscono a sufficienza la recidività, e rinunciano in grandissima parte allo strumento dell’incapacitazione (rendere inoffensivi con la reclusione). E vi rinunciano anche per un ottimo motivo: i posti in carcere scarseggiano, e lo stato degli istituti di pena non è degno di un paese civile.

Ma la ragione vera, quella che sta alla base del nostro sentimento di rabbia, è di natura culturale, e si riassume in una parola: civilizzazione. Un processo che, secondo il grande sociologo Norbert Elias, ha preso il via nell’alto Medioevo, ma secondo altri – ad esempio la filosofa americana Martha Nussbaum – era ampiamente avviato già nel V secolo avanti Cristo, quando Eschilo, nell’Orestea, esaltava il passaggio dalla cultura del genos (stirpe) basato sulla vendetta, a quella della dike (giustizia), con cui Athena per così dire riforma e riplasma le vendicatrici, orribili e crudelissime Erinni, trasformandole nelle più gentili, razionali e giuste Eumenidi. In concreto, questo millenario processo ha condotto a una progressiva mitigazione delle istituzioni giuridiche e del sistema penale. Una mitigazione che,  fortunatamente, ha comportato la messa al bando della giustizia fai da te, la soppressione della pena di morte, l’abbandono della giustizia retributiva, l’introduzione di principi garantisti e di istituti come la rieducazione del reo e le pene alternative al carcere. Insomma la Giustizia è diventata più umana e comprensiva verso le ragioni di chi delinque.

Benissimo, ma cosa non ha funzionato?

Quel che non ha funzionato è che la civilissima rinuncia allo strumento della vendetta, la giusta preoccupazione di rieducare e reinserire il reo, si è accompagnata – quanto inevitabilmente? – al progressivo smantellamento della punizione o “castigo” (per usare un’espressione cara a Simone Weil), necessaria premessa a ogni percorso rieducativo.

Il disagio dell’opinione pubblica non nasce da una regressione, da un ritorno irrazionale alla cultura della vendetta, frutto della nostra incapacità di accettare la civilizzazione della macchina della Giustizia, ma dal fatto che l’impunità dilagante offende gravemente il senso di giustizia, innato in ogni essere umano. È da decenni che film come quelli di Charles Bronson mettono in scena un eroe – un “giustiziere della notte” – alle prese con l’impotenza e l’inettitudine della Giustizia. È da decenni che il pubblico mostra di apprezzarli, e accoglie con sollievo il gesto che punisce l’autore del male: chiediamoci perché.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 dicembre 2025]

Eredità Agnelli – La Stampa o la Juve?

17 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Forse poteva scegliere un altro momento, John Elkann, per proclamare enfaticamente: “la Juventus, la nostra storia, i nostri valori non sono in vendita”. Sono stato un tifoso piuttosto sfegatato della Juventus, finché ho seguito il calcio. Come (ex) tifoso, come torinese, come cittadino sabaudo, mi può anche far piacere che la Juventus resti in mani Agnelli, l’unica famiglia regnante sopravvissuta al crollo della monarchia. Nello stesso tempo, però, non posso evitare un certo s-giài (ribrezzo, in piemontese) per la contiguità temporale fra la notizia della mancata cessione della Juventus (a fronte di un’offerta di oltre un miliardo di euro) e le notizie sulla affannosa ricerca di un compratore per l’intero gruppo Gedi (che controlla Stampa e Repubblica, e vale circa un decimo della Juventus).

Con questo non voglio dire che un gruppo economico non abbia pieno diritto di acquistare e vendere asset in base alle proprie strategie e convenienze (è il capitalismo, bellezza!), ma – proprio perché riconosco questo diritto – trovo di estremo cattivo gusto tirare in ballo i “valori” e la “storia” della famiglia Agnelli quando si tratta di non vendere una squadra di calcio, e non farlo quando in ballo c’è la vendita di un quotidiano – la Stampa – che di quella famiglia è stata per lungo tempo espressione e longa manus. Avrei trovato più elegante un composto silenzio sulle ragioni che hanno condotto Exor, la cassaforte degli Agnelli che ha in pancia sia la Juventus sia il gruppo Gedi, a salvare società e atleti di una squadra di calcio, e abbandonare società e giornalisti di un quotidiano.

Dobbiamo dunque dare ragione a quanti, in queste settimane, si sono stracciati le vesti per la possibile scomparsa o (riformattazione, con cambio di linea politica) di due quotidiani entrambi schierati a sinistra? Dobbiamo dare ragione alla segretaria del Pd che nell’operazione intravede niente meno che “lo smantellamento di un presidio fondamentale della democrazia”?

Per certi versi no, proprio no. Nessuno dei due giornali può pretendere di costituire “un presidio fondamentale della democrazia”, non solo per la partigianeria di entrambi, ma perché nessun quotidiano, considerato in sé, può svolgere quel ruolo. Che un singolo quotidiano, di destra, sinistra o centro arrivi a pensare di essere essenziale per la democrazia è solo segno di autosopravvalutazione, o quanto meno di scarso senso delle proporzioni.

Per un altro verso, però, Elly Schlein ha ragione. Il vero “presidio della democrazia” non è l’esistenza di Repubblica, ma il pluralismo dell’informazione. Quel che conta non è che sopravviva il giornale che si percepisce come il numero uno, incarnazione stessa della democrazia, ma che nella sfera dei media il gioco delle opinioni sia ragionevolmente bilanciato; che non ci siano troppi quotidiani da una parte, e troppo pochi (o troppo piccoli) dall’altra; e magari pure che i conti di ogni giornale siano in ordine.

Da questo punto di vista le preoccupazioni della segretaria del Pd non sono infondate. Se scomparissero Stampa e Repubblica, che da anni sono entrambi assai vicini al maggiore partito della sinistra, effettivamente si determinerebbe uno squilibrio. La destra e i moderati hanno i loro quotidiani – Giornale, Libero, Verità, Nazione, Tempo, Resto del Carlino, Giorno. I Cinque Stelle hanno il Fatto Quotidiano, unico giornale nazionale in crescita. La sinistra-sinistra (comunista e non) ha il Manifesto, Domani, l’Unità. Riformisti e liberal-democratici hanno il Foglio e il Riformista. E il Pd? Il Pd aveva Stampa e Repubblica, ma potrebbe – per la prima volta –  venirsi a trovare senza un giornale di riferimento. E questo, senza dubbio, sarebbe un male per la democrazia. Ma sarebbe un male anche per il Pd?

Qualcuno ne dubita. Secondo Claudio Velardi, direttore del Riformista, è stato proprio il giornale di Scalfari, con la sua pretesa di egemonizzare la sinistra indirizzandola verso i “ceti medi riflessivi” e la cultura dei diritti, a decretarne il declino, spegnendo la sua vocazione originaria di paladina dei ceti popolari. Se Velardi ha ragione, la scomparsa (o la metamorfosi) di Repubblica potrebbe, paradossalmente, rivelarsi la scossa giusta. Quella in grado di riavviare il motore di un Pd troppo succube del giornale-partito che per tanti anni ha preteso di guidarla.

Non ci resta che aspettare.

[articolo uscito sulla Ragione il 16 dicembre 2025]

A proposito di Pasolini – Sinistra e nostalgia

15 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Pasolini era un conservatore? Pasolini non era di sinistra? Pasolini era di destra?

È probabile che, dell’edizione di Atreju che si conclude oggi, saranno queste le domande che più a lungo ci accompagneranno. Domande interessanti, su cui in tanti si sono interrogati. C’è chi ha risposto sì, c’è chi ha negato risolutamente, c’è chi ha concluso che Pasolini è inclassificabile.

Forse, però, la domanda giusta è un’altra. Dopotutto, su chi fosse veramente Pasolini non ci sono grandi dubbi o divergenze. Più che chiederci se era un conservatore, dovremmo chiederci che cosa davvero significhi essere un conservatore e, in secondo luogo, se si possa – al tempo stesso – essere conservatori e di sinistra.

Sul fatto che nel pensiero di Pasolini si possano rintracciare elementi di conservatorismo credo non vi possano essere dubbi. Nella sua critica del mito dello sviluppo, nel suo rimpianto per il mondo di ieri (meravigliosamente descritta con la metafora della “scomparsa delle lucciole”), nella sua ostilità alla legge sull’aborto vista come sottomissione al potere dei consumi (il “nuovo fascismo”), echeggiano sicuramente motivi conservatori, per non dire retrogradi o reazionari. Dunque, alla domanda se Pasolini fosse un conservatore tenderei a rispondere: di più, Pasolini era un “indietrista”, che guardava in modo romantico all’Italia povera e contadina, e pensava che lo “sviluppo”, con la dilatazione dei consumi delle masse e la liberazione sessuale, non fosse progresso. Perché, per lui, il vero progresso era anche, se non innanzitutto, liberazione dall’alienazione consumistica, rinuncia al superfluo.

Ma Pasolini era di sinistra, o perlomeno si sentiva tale, e tale era considerato dai più. Eccoci quindi al vero interrogativo: che cosa significa essere di sinistra? si può essere di sinistra e conservatori? la nostalgia per il passato è un’esclusiva della destra?

Ebbene, se sono queste le domande, tutto diventa più chiaro e semplice. Perché una sinistra conservatrice, anti-borghese, ostile al consumismo, anti-individualista,  sensibile alle istanze comunitarie, critica verso l’ideologia dei diritti umani, è sempre esistita, almeno dai tempi di Marx. Anzi il suo capostipite è Marx stesso, che soprattutto ne La questione ebraica (1844), pone con forza, e sorprendente crudezza, il problema delle basi del legame sociale. Basi che, a suo parere, dovrebbero essere solidaristiche e perciò stesso diffidenti verso “i cosiddetti diritti dell’uomo”. I quali, per Marx, “non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su sé stessa”.

Questa linea di pensiero, che potremmo chiamare sinistra antica, stigmatizza ora i consumi superflui (Marcuse), ora l’industria culturale (Adorno, Horkheimer), ora la crescita (Latouche), ora il cosmopolitismo e l’ideologia dei diritti umani (Michéa, Žižek), ora l’individualismo e l’atomismo della modernità (Bauman). E scorre come un fiume carsico sotto il cammino della sinistra ufficiale. La cui storia può anche essere descritta come un lento congedo dalla visione  collettivistico-solidaristica del legame sociale (tipica dell’Ottocento e cara a Marx), verso una concezione individualistica, per cui il cemento della società è un contratto sociale fondato su principi universali (il “patriottismo costituzionale”, teorizzato da Jürgen Habermas). Il nucleo del progresso diventa quindi la crescita della libertà individuale, fatta di consumi crescenti e espansione dei diritti dell’individuo, non importa quanto isolato e separato dagli altri individui. Un ideale che in occidente ha avuto nella Svezia socialdemocratica la sua più avanzata, esemplare, e pure discutibile realizzazione.

È questo tipo di sinistra, allora nascente, da cui Pasolini prendeva le distanze, senza per questo diventare un intellettuale di destra. Non gli occorreva cambiare campo, non tanto perché la destra di allora era essenzialmente la Dc, ma perché in quel tempo esisteva e contava ancora una sinistra comunitaria, rispettosa della tradizione, radicata nel “mondo di sotto”, non ancora imborghesita e ostaggio della cultura dei diritti. Pasolini probabilmente sentiva che, sotto la pressione del movimento studentesco e del femminismo, quella sinistra antica avrebbe presto cambiato pelle. Per questo non fu mai tenero con gli studenti, visti come figli di papà, né con le aspirazioni delle donne, viste come avanguardie di una borghesissima rivoluzione del costume.

Ma quando il cambio di pelle si produsse effettivamente?

Credo si possa dire che quel tipo di sinistra, che proprio perché antica pensava ancora in termini di doveri e di sacrifici, si inabissò in un arco di tempo preciso, fra il 1977 e il 1984. Esisteva ancora nel triennio 1977-1979, quando Berlinguer e Lama, in nome dell’interesse collettivo, lanciarono e difesero la linea dell’austerità a dispetto dei sacrifici che comportava per i lavoratori. Ma non c’era già più nel 1984, quando la morte di Berlinguer sottrasse al maggiore partito della sinistra l’unico dirigente capace di mantenere un legame forte con i ceti popolari. Dopo la morte di Berlinguer la sinistra antica, orgogliosamente comunitaria e anti-individualista, sopravvive solo a livello culturale (nel pensiero di molti filosofi) e in piccole formazioni politiche, radicali e minoritarie.

Pasolini non visse abbastanza per assistere all’inabissamento della sinistra antica e al trionfo della “vita facilitata”, così ben descritta dal sociologo Gian Paolo Ceserani in un suo libro del 1977. Non possiamo sapere con certezza come Pasolini avrebbe raccontato il paese che allora stava prendendo forma, ma sappiamo come vedeva l’Italia pochi anni prima di morire: “Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro”.

Se questa non è nostalgia, che cosa è?

[articolo uscito sul Messaggero il 14 dicembre 2025]

A proposto di legittima difesa – Paura o rabbia?

10 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

La recente condanna a 14 anni di carcere del gioielliere Mario Roggero – colpevole di aver inseguito e ucciso due rapinatori che avevano assalito il suo esercizio a Grinzane Cavour mettendo in pericolo la vita di moglie e figlia – ha riaperto per l’ennesima volta il dibattito sulla legittima difesa. Da una parte i leghisti, per i quali la difesa è sempre legittima, dall’altra i progressisti per cui non lo è quasi mai.

La vicenda delle norme sulla legittima difesa è abbastanza atipica, perché è in marcata controtendenza rispetto al trend permissivista e perdonista con cui negli ultimi decenni (ma per certi versi negli ultimi secoli) sono evolute le norme penali e più in generale le procedure di contrasto alla violenza. Non occorre evocare le tesi di Norbert Elias sul processo di civilizzazione”, per rendersi conto che, da tempo immemore,. la tendenza dominante è alla mitigazione delle sanzioni in tutti i campi: abolizione della pena capitale, amnistie, indulti, pene alternative al carcere, sconti di pena, allentamento delle regole in materia migratoria, eccetera. Una tendenza, questa, che è stata anche di tipo culturale, con l’ampia diffusione di teorie volte a promuovere indulgenza, perdono, permissività un po’ in tutti i campi, dalla scuola alla giustizia. Ci sono naturalmente anche eccezioni e controtendenze, ma negli ultimi due secoli il trend è stato quello.

Per questo può suscitare un briciolo di sorpresa che il legislatore italiano, in materia di legittima difesa, si sia mosso perlopiù nella direzione esattamente opposta. Nel 2006 il governo Berlusconi varò una legge che allargava i limiti della legittima difesa (legge 59), nel 2019 il governo Conte I procedette ad un ulteriore allargamento (legge 36) mediante una serie di modifiche del codice penale (articoli 52 e 55).

La più significativa di tali modifiche è quella che introduce come causa di non punibilità  lo stato di “grave turbamento” del soggetto che, aggredito, reagisce a sua volta con violenza. Quest’ultima modifica della legge, inevitabilmente, conferisce al giudice un enorme potere discrezionale, perché la condizione di “grave turbamento” non può essere né provata né esclusa in modo obiettivo.

Ma che cosa significa “grave turbamento”? È verosimile ipotizzare che il gioielliere di Grinzane Cavour abbia sparato perché soggetto a uno stato di grave turbamento? Si può essere gravemente turbati di fronte a un gruppo di rapinatori in fuga?

Sfortunatamente non esiste una interpretazione univoca del termine turbamento. Qualcuno potrebbe leggerlo come angoscia, paura, terrore. Altri potrebbero associarlo al concetto di vendetta: un grave torto subito provoca uno stato di turbamento, che suscita rabbia e desiderio di vendetta.

C’è una differenza fondamentale, però, fra le due interpretazioni. Nella nostra cultura attuale la paura è un sentimento legittimo, accettato, compreso. E quindi atto a giustificare le azioni che dalla paura stessa sono motivate e dalla paura stessa possono essere mosse.

Rabbia, risentimento e desiderio di vendetta invece no: sono sentimenti che consideriamo inammissibili, in quanto confliggono con il risultato di 2500 anni di evoluzione della Giustizia in occidente, grosso modo dall’Orestea di Eschilo (V secolo a.C.) a oggi. È questa la tesi energicamente sostenuta da Martha Nussbaum, forse la principale filosofa americana contemporanea, nel suo importante libro Anger and Forgiveness (sottotitolo: Resentment, Generosity, Justice), pubblicato nel 2016.

Se riflettiamo su questa evoluzione, che specie negli ultimi 80 anni (dopo la seconda guerra mondiale), con la proliferazione degli organismi sovranazionali e del diritto internazionale, ha avuto una straordinaria espansione, non possiamo stupirci che i giudici del gioielliere di Grinzane Cavour, come quelli di altre vicende analoghe, abbiano deciso per la colpevolezza. Per loro il gioielliere non poteva essere stato mosso dal terrore, perché i rapinatori erano ormai in fuga, e non aveva diritto al risentimento, perché il desiderio di vendetta che può scaturirne non è compatibile con l’idea contemporanea di Giustizia.

Tutto logico e comprensibile, salvo che per un fatto: la Giustizia della tolleranza, della generosità e del perdono di fatto funziona in modo così iniquo, così illogico, così umiliante per le vittime, che la gente poco per volta sta riscoprendo il concetto arcaico di Giustizia, quello contro cui si scaglia Martha Nussbaum nel suo libro. Quando vede ladri sistematicamente scarcerati dopo un furto, stupratori in libertà dopo pochi mesi, parenti dei rapinatori che pretendono milioni di euro di risarcimento dai rapinati, la gente è “gravemente turbata” non tanto perché è terrorizzata dai criminali, ma perché vede devastato il proprio naturale senso di giustizia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 dicembre 2025]

image_print
1 2 3 121
© Copyright Fondazione Hume - Tutti i diritti riservati - Privacy Policy