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Fra guerra e pace – Verso le elezioni anticipate?

9 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Nessuno può escludere che fra qualche mese un raggio di sole accarezzi il mondo. La guerra in Ucraina finisce, in Israele c’è una tregua, l’Europa raggiunge un accordo commerciale con gli Stati Uniti, le borse recuperano il terreno perduto. Il riarmo dell’Europa torna in secondo piano. Insomma, la gente smette di avere paura della guerra e dell’inflazione.

Questo però non è lo scenario più verosimile. Lo scenario più verosimile, purtroppo, è che, comunque evolvano le cose, la paura della guerra e lo spettro della recessione ci accompagnino ancora per un po’. Diciamo (almeno) per due o tre anni.

Ebbene, se questo dovesse essere lo scenario prevalente, il quadro politico potrebbe mutare sensibilmente, e i rapporti di forza fra i partiti al momento delle prossime elezioni politiche (previste per il 2027) potrebbero cambiare drasticamente. E potrebbero farlo nella direzione che, lentamente e quasi impercettibilmente, si sta profilando già in questi giorni.

A segnalare i primi scricchioli è stato l’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli, che fin dagli ultimi giorni di marzo, sul Corriere della Sera, avvertiva che Fratelli d’Italia stava perdendo colpi e soprattutto che, contrariamente a quanto affermato dalla maggior parte degli istituti rivali, era largamente al di sotto del 30% di consensi, e semmai si stava pericolosamente planando verso quota 26%, ossia al risultato elettorale del 2022.

Poi negli ultimissimi giorni è intervenuta la supermedia dei sondaggi calcolata da You Trend, che apparentemente non ha rivelato cambiamenti clamorosi ma in realtà, a leggere attentamente le variazioni rispetto a due settimane prima, non solo conferma il calo di Fratelli d’Italia (più che comprensibile date le evidenti difficoltà di Giorgia Meloni in politica estera) ma mostra che le micro-variazioni in atto negli altri partiti hanno un segno preciso e delineano (forse) una tendenza.

Quale tendenza?

Fondamentalmente il riallineamento del sistema politico lungo la frattura fra partiti europeisti (quasi sempre al governo in Europa) e partiti euroscettici (quasi sempre all’opposizione in Europa). Credo non sia un caso che il segno meno caratterizzi i consensi a Pd, Forza Italia, +Europa, Azione, Noi moderati, e il segno + caratterizzi i consensi a Lega, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi-Sinistra. Quel che differenzia i due blocchi è che i primi hanno assunto una posizione sostanzialmente favorevole al riarmo, mentre i secondi ne hanno preso univocamente le distanze non solo a Bruxelles, ma anche nelle piazze (vedi la grande manifestazione di sabato convocata da Conte).

Ebbene, se l’incubo della guerra dovesse perdurare, tutto questo potrebbe preludere ad alcuni cambiamenti importanti sia nella coalizione di governo sia nelle opposizioni.

Nella coalizione di governo la competizione fra Forza Italia e la Lega per la posizione di maggiore alleato del partito della Meloni potrebbe volgere a favore della Lega, unico partito in grado di offrire un approdo al pacifismo di destra. Nel fronte dell’opposizione potrebbe riaprirsi la competizione per la leadership fra Schlein e Conte. Oggi il Pd ha il 22.7% dei consensi, contro il 12.1% dei Cinque Stelle. Sembra un abisso, ma se anche solo il 3% dell’elettorato, in quanto nettamente contrario al riarmo, transitasse dal Pd ai Cinque Stelle, il partito di Schlein scenderebbe sotto il 20%, e quello di Conte salirebbe sopra il 15%. Con un distacco di 5 punti scarsi, e venti di guerra all’orizzonte, la partita per la leadership si riaprirebbe.

Ma il pericolo maggiore, fra tutti i partiti, probabilmente lo correrebbe Fratelli d’Italia: la spina nel fianco pacifista è più dolorosa per chi guida il governo che per chi sta all’opposizione. Un Salvini che superasse il 10% diventerebbe una spina nel fianco per il governo Meloni, specie se il trend di ridimensionamento di Fratelli d’Italia, concordemente rilevato dalla maggior parte degli ultimi sondaggi, dovesse persistere. In quel caso, a meno di un insperato, rocambolesco soccorso del partito di Calenda, il ritorno anticipato alle urne non sarebbe così impossibile come appare oggi.

[articolo inviato alla Ragione il 6 aprile 2025]

Genitori e insegnanti – L’alleanza interrotta

7 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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I genitori sono alla sbarra. Dopo l’uscita del film Adolescence, e sull’onda degli ultimi femminicidi, accade sempre più di frequente che psicologi, psicanalisti, educatori in genere, leggano i fenomeni di violenza giovanile come segnali di un disagio di cui i primi responsabili sarebbero i genitori. Alla base di tutto vi sarebbe la mancanza di dialogo, e in particolare l’incapacità dei genitori di comprendere (e ascoltare) i tormenti esistenziali dei figli. Un deficit di attenzione aggravato da una parallela incapacità di ascolto degli insegnanti.

Negli Stati Uniti la diagnosi è molto più specifica, anche perché fondata su evidenze empiriche assai robuste  (serie storiche di lungo periodo) . Con due splendidi libri (iGen e The Anxious Generation) gli psicologi sociali Jean Twenge e Jonathan Haidt hanno dimostrato in modo difficilmente controvertibile che il disagio giovanile – fatto di ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari, solitudine, ideazione suicidaria (e ahimè pure suicidi riusciti) – è esploso intorno al 2012, subito dopo l’invenzione dell’iPhone 4 e la proliferazione dei social. Anche loro, come i nostri psicologi, puntano il dito sui genitori: alla base del disagio giovanile vi sarebbero genitori iper-protettivi nel mondo reale, e colpevolmente assenti in quello virtuale (ossia su internet).

Tutte queste diagnosi hanno naturalmente una loro plausibilità. Pare abbastanza verosimile che, se genitori e insegnanti fossero più presenti e più attenti ai bisogni psicologici dei figli, avremmo un po’ meno disagio, meno comportamenti aggressivi, meno violenza di genere. Ed è indubbio che, nella situazione attuale, molti adolescenti abbiano bisogno di un supporto psicologico. E tuttavia c’è anche un altro modo di porre la questione: com’è che alla situazione attuale siamo arrivati? da dove è sbucata l’enorme fragilità adolescenziale che osserviamo oggi? perché gli adolescenti di ieri non avevano, o avevano in misura molto minore, la maggior parte dei problemi di quelli di oggi?

Ebbene, se ci poniamo da questa prospettiva, meno individuale e più storico-sociologica, le cose ci appaiono in modo alquanto diverso. C’è un prima e c’è un dopo.

E c’è un evento che ha fatto da spartiacque. Questo evento è la rottura dell’alleanza fra genitori e insegnanti, che in Italia si è consumata grosso modo fra il 1995 e il 2000, ai tempi del mantra del “diritto al successo formativo”. Se i genitori non sono più in grado di dialogare con i figli non è per un più o meno repentino deficit di empatia (come tendono a suggerire le letture psicologiche) ma per il fatto molto concreto che, a un certo punto, hanno assunto il ruolo di sindacalisti dei figli, così perdendo il loro migliore alleato, l’insegnante. Quel che oggi si stenta a riconoscere è il fatto che il dialogo con i figli passava innanzitutto attraverso la delega di autorità che le famiglie conferivano alla scuola. È in quanto consideravano fondamentali i risultati scolatici, e degni di rispetto gli insegnanti, che i genitori erano per così dire costretti a dialogare con i figli e a esercitare la funzione genitoriale. Che certo non si esaurisce nel monitorare voti e pagelle, ma diventa difficile da esercitare se il baricentro quasi esclusivo della vita di ragazze e ragazzi non è più la scuola, ma è il gruppo dei pari. E se, conseguenza cruciale, la socializzazione non è più task-oriented (ossia basata su compiti concreti, dallo studio allo sport, dagli hobby alle esplorazioni) ma identity-oriented (ovvero fondata sulla ricerca del riconoscimento nel gruppo dei pari). Se tutte le tue energie sono impiegate a costruire la tua immagine (il famigerato “profilo”) e a massimizzare l’apprezzamento di una comunità virtuale, è normale che resti ben poco spazio per il dialogo intra-familiare, e spesso per il dialogo faccia a faccia in generale.

Si parla spesso, per denunciarla, della competitività che la scuola innescherebbe, e che sarebbe all’origine di tanti suicidi studenteschi. Ma basta un minimo di introspezione e di osservazione del mondo per rendersi conto che, mediamente, è molto più potente la pressione a essere percepiti come “fighi” dai propri pari che a essere giudicati “bravi” dai propri insegnanti o genitori.

Insomma, voglio dire che il processo ai genitori attualmente in corso è mal impostato. Non perché non abbiano le loro responsabilità (la principale delle quali, spesso, è di comportarsi da adolescenti), ma perché – finché accetteremo che i nostri figli abitino su internet e che i loro insegnanti siano a mala pena tollerati – la battaglia è perduta. Troppa la fragilità che nasce dalla competizione spietata con i più belli, i più desiderabili, i più sopra le righe. Troppa l’insicurezza per chi non ha terreni di gioco concreti su cui misurarsi, ma solo l’arena virtuale della rete. Troppo forti gli incentivi al bullismo, che prima o poi tracima da internet alla realtà.

Sarò sincero: quel che mi stupisce non è che tanti genitori non dialoghino con i figli, ma che non abbiano ancora capito la ragione per cui non sono più in condizione di farlo.

[articolo uscito sul Messaggero il 5 aprile 2025]

A proposito di Trump – Follemente scorretto

2 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Stupore. Sconcerto. Incredulità. Angoscia. Disperazione. Sono i sentimenti che, non senza buone ragioni, trasudano in questi giorni dalla maggior parte dei media di fronte ai gesti di prepotenza di Trump. Non mi riferisco tanto alla intenzione di annettere agli Stati Uniti la Groenlandia o il Canada. Né alla più volte reiterata minaccia di scatenare l’inferno a Gaza o sull’Iran. E neppure al non troppo celato avvertimento verso le Repubbliche Baltiche, cui si fa intendere che potrebbero essere abbandonate dalla Nato in caso di aggressione da parte della Russia.

No, quello cui mi riferisco è lo sconcerto per l’attacco alle politiche DEI (Diversity, Equity, Inclusion) in Europa, a ancor più per il drastico cambiamento di clima negli Stati Uniti, e in particolare nelle Università, dove sono in atto misure repressive nei confronti degli attivisti che, nei mesi scorsi, hanno partecipato alle manifestazioni pro-Palestina. In un articolo uscito su La Stampa, ad esempio, si riporta questo resoconto di Linda Laura Sabbadini, da sempre impegnata nelle battaglie femministe.

“Il clima che si vive è quello di un attacco globale ai diritti, a cominciare da quelli delle donne (…). Mi sembra che nel paese si stia sviluppando una forma di autocensura. Le persone hanno paura di dire quello che pensano. Tutti si sentono potenziali bersagli, a partire da chi si occupa di gender studies”. Di qui la considerazione finale: “Il clima dell’autocensura è tipico delle dittature. E io l’ho percepito tra i professori e nelle Ong. Sono spaventati per i loro finanziamenti. Tutto è in discussione”.

Questo resoconto mi ha molto colpito. E non perché parla di una evidente e ingiustificata limitazione della libertà di espressione, ma perché dice esattamente le stesse cose che, per almeno un decennio, hanno ripetuto quanti non erano allineati con la cultura woke. Professori sanzionati o licenziati per le loro opinioni conservatrici o tradizionaliste. Scrittori e intellettuali contestati, disinvitati, bersagliati per le loro opinioni sgradite alla cultura woke. Studenti restii a esprimersi in pubblico per timore di essere accusati di scorrettezza politica, micro-aggressioni, molestie. Femministe ostili all’utero in affitto o al self-id (autodeterminazione del genere) denigrate o messe a tacere per il loro mancato allineamento alla cultura dominante, o meglio alla cultura dell’élite progressista.

Insomma, la domanda è: ma dov’eravate, voi che denunciate la prepotenza di Trump, quando il clima di intimidazione, il chilling effect (l’auto-zittimento), si respirava ovunque, nei giornali, nei campus universitari, nelle istituzioni culturali, nel cinema, nell’arte, nelle Ong, nelle imprese più impegnate con le politiche DEI?

Quello che voglio dire, però, non è quello che forse qualcuno potrebbe pensare, e cioè che il trumpismo è il meritato contrappasso a un decennio di follie woke. No, quello che voglio dire è che cultura woke e restaurazione trumpiana sono le due facce della medesima moneta, e che quella moneta altro non è che l’incapacità delle istituzioni occidentali di assicurare una vera libertà di espressione.

Il contrario del follemente corretto che ci ha oppressi negli anni passati non è il follemente scorretto con cui Trump prova ad opprimerci ora. Le intimidazioni di cui si è macchiata la protesta progressista nei campus (ma anche nelle nostre università) non si neutralizzano con le intimidazioni di segno opposto cui assistiamo oggi. Il vero contrario del follemente corretto è la capacità di ascoltare l’altro anche quando – anzi soprattutto quando – la pensa in modo completamente diverso da noi. Il trumpismo è la negazione della tolleranza e della libertà di pensiero. Proprio come ciò che l’ha preceduto.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 1° aprile 2025]

La caduta degli DEI

1 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Ci sono parecchi equivoci nelle polemiche degli ultimi giorni sulle misure adottate da Trump conto le politiche DEI, acronimo che sta per Diversity, Equity, Inclusion. In estrema sintesi, per politiche DEI si intendono un vasto insieme di misure di sensibilizzazione, controllo e reclutamento con cui, da parecchi decenni (ma con particolare veemenza dal 2012), aziende e organizzazioni hanno cercato di tutelare, proteggere o privilegiare varie minoranze definite per lo più su base sessuale, razziale, etnica, nonché altre varie caratteristiche (disabilità, orientamento sessuale, ruoli di genere). L’effetto più tangibile della politiche DEI è stata la modificazione dei criteri di reclutamento e assunzione nelle imprese, nella pubblica amministrazione e nelle università, con la parziale sostituzione del criterio del merito (capacità di svolgere bene il compito per cui si viene reclutati) con criteri estrinseci, come il colore della pelle e il sesso biologico. Di qui la frustrazione, talora il risentimento, delle categorie penalizzate, cui non sempre era chiaro perché – ad esempio – una ragazza bianca di oggi dovesse essere penalizzata per le colpe, vere o presunte, dei suoi antenati colonialisti e/o padroni di schiavi. È il caso di aggiungere che, nella storia americana, la pressione a praticare politiche DEI ha rappresentato un completo capovolgimento del sogno di Martin Luther King, che aspirava a una società color blind (cieca al colore, o “daltonica”) in cui finalmente i suoi figli potessero essere giudicati non per il colore della pelle ma per il tipo di persone che erano. Viste con gli occhi dei loro critici, le politiche DEI – recentemente messe in discussione – altro non erano che forme di “discriminazione alla rovescia”, oltreché violazioni del principio della responsabilità individuale, che vieta di far cadere sul singolo colpe del suo gruppo, o peggio dei suoi antenati.

Ed eccoci al primo equivoco: quello che a noi europei spesso appare come un attacco ai valori occidentali di inclusione, per l’amministrazione Trump è semmai una affermazione del principio occidentalissimo di equità, che vieta di valutare le persone per le loro caratteristiche ascritte (di nascita) o non pertinenti (orientamento sessuale ecc.). Insomma: il confronto non è fra difesa (europea) dei valori occidentali e attacco (americano) ai medesimi valori, ma semmai è fra due diverse – e incompatibili – interpretazioni dei valori occidentali, dove Trump sta con Luther King, mentre Macron – indignato per l’attacco USA alle politiche DEI – sta con la cultura woke.

Ma c’è anche un secondo equivoco. Dalle cronache di questi giorni sembrerebbe che lo smantellamento delle politiche woke sia il nefasto effetto dell’autoritarismo trumpiano. In parte è vero, ma non dobbiamo dimenticare che sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito il processo era iniziato ben prima della vittoria di Trump. Sono centinaia le grandi imprese e organizzazioni che, specie negli ultimi 4-5 anni, hanno fatto retromarcia rispetto alle politiche DEI, anche se per ragioni non sempre simili. Nel Regno Unito la retromarcia è stata favorita dagli eccessi delle lobby LGBT+ e da scandali come quello che ha coinvolto la clinica Tavistock, un tantino leggera nelle autorizzazioni alle transizioni di genere di ragazzi e ragazze. Negli Stati Uniti, invece, decisive sono state le prosaiche leggi dell’economia. Dopo anni di infatuazione per le politiche DEI, grandissime aziende come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google si sono rese conto degli inconvenienti a esse associati: i costi elevati degli staff DEI, l’inefficienza delle politiche del personale (non poter scegliere i migliori per una data mansione ha un ovvio costo economico), la ribellione di una parte degli utenti e dei dipendenti. Anche qui Trump non c’entra molto: se nel primo mandato non aveva fatto quasi nulla, e ora pare scatenato, è perché allora l’onda woke era fortissima e invincibile (anche grazie agli scandali sessuali che, fra il 2016 e il 2017, innescarono il MeToo), mentre oggi al neo-presidente è bastato fare surf sull’onda di una ribellione anti-woke in corso da alcuni anni.

E non è tutto, a proposito di equivoci. Noi europei troviamo scandaloso che l’amministrazione americana discrimini le aziende europee che ancora adottano politiche woke. Anche a me non piace, ma per ragioni diverse da quelle invocate da Macron (la presunta ingerenza negli affari interni di un paese). Quel che trovo pericoloso (e alla lunga controproducente) è, in generale, il fatto che gli acquirenti di un bene o servizio anziché scegliere in base alle sue qualità intrinseche, lo valutino in base a fattori esterni, di tipo morale, etico, politico o ideologico. All’amministrazione americana non dovrebbe interessare nulla il fatto che l’azienda che fornisce i pasti al personale dell’ambasciata a Parigi sia più o meno impegnata nelle politiche DEI. Un tramezzino è un tramezzino è un tramezzino, direbbe Gertude Stein. E invece no: ora pare diventato importante se l’azienda ha o non ha una determinata politica del personale. E, orrore degli orrori, per l’amministrazione Trump conta che l’azienda non abbia una politica inclusiva, basata sui principi DEI.

E qui incontriamo l’ultimo equivoco. Che sta in questo: non ci rendiamo conto che quel che fa Trump è solo una variante di quel che, da molti decenni, fanno le imprese e i consumatori occidentali, ossia includere la virtù nel calcolo economico. Le imprese hanno capito, già molti decenni fa, che la reputazione di un marchio è fondamentale, e può essere migliorata con politiche di pura immagine, molto meno costose di quanto lo sarebbero modificazioni effettive del prodotto o miglioramenti delle condizioni di lavoro dei dipendenti. Ma i consumatori non sono stati da meno: quanta gente compra un prodotto anche perché è pubblicizzato come green, eco- sostenibile, agganciato a qualche pandoro benefico? Quanti consumatori smettono di comprare determinati beni o servizi perché detestano chi li produce? Oggi tocca a Fratoianni e consorte dismettere la loro Tesla in odio a Trump, ma quante volte abbiamo assistito a campagne di boicottaggio contro i prodotti israeliani, o contro le aziende di Berlusconi, a partire dalla campagna Bo.Bi (Boicotta il Biscione, 1993)?

La realtà è che, ormai da tempo, viviamo in un mondo in cui anche il mercato è drogato dall’ideologia. Un mercato che noi stessi abbiamo contributo a drogare. E in cui Trump sguazza benissimo.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 marzo 2025]

A proposito del riarmo europeo – Pronti per il 2030?

26 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Anch’io, come il ben più ascoltato Fausto Bertinotti, detesto la ossessiva ripetizione della formula latina si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra), variamente fatta risalire nientemeno che a Platone, Cicerone e altri. E la detesto non perché io creda, come Bertinotti, che se ti riarmi poi le armi le usi, ma più semplicemente perché non credo nelle formule di (presunta) saggezza usate in ambiti complessi, come quello militare e strategico.

In realtà entrambe le formule sono state vere, e non sappiamo quale si applichi alla situazione di oggi. La proliferazione degli armamenti nucleari ha garantito 70 anni di (relativa) pace, ma potrebbe riservarci la terza guerra mondiale fra qualche tempo. Il riarmo tedesco degli anni ’30 ci ha regalato la seconda guerra mondiale, mentre di quello – non solo tedesco – annunciato in questi giorni nessuno è in grado di dire se dissuaderà la Russia dall’attaccare l’Europa, o se sarà la miccia che farà deflagrare una nuova guerra sul Continente.

Insomma, sono scettico. E alquanto stupito sia delle certezze di Marco Travaglio (cui “non risulta” che Putin voglia invaderci) sia di quelle di Prodi (il quale sa che, se non ci riarmiamo, saremo invasi dalla Russia).

Quello che più di tutto mi sorprende, però, sono le convinzioni che, da un po’ di tempo, vengono fatte circolare dai fautori del riarmo europeo. Secondo alcune fonti (ad esempio i servizi segreti tedeschi), riprese da vari organi di stampa, l’Europa subirà un attacco russo entro la fine del decennio. Di qui il piano Readiness 2030, che auspica e pianifica un rapido riarmo europeo in modo da essere pronti per il 2030, in vista di un probabile attacco russo.

Perché ne sono sorpreso?

Perché non conosco la risposta a due ordini di domande.

Primo. Come mai stiamo già parlando di riarmo, senza aver chiarito con gli Stati Uniti il futuro della Nato? Siamo sicuri che gli Trump voglia uscire dalla Nato, e che il Congresso glielo permetterebbe? (una legge del 2023 obbliga il presidente a passare da un voto del Congresso, con maggioranza di due terzi). Il problema posto da Trump (per inciso: già dal 2016, non da oggi) è solo quello dei costi della difesa, troppo onerosi per gli Usa, o è di alleanze? Lo sganciamento degli Stati Uniti sarà graduale, o è già una realtà di fatto? Mi pare che le risposte a queste domande facciano grande differenza. Se fosse solo un problema di costi, ad esempio, sarebbe molto più efficiente pagare la permanenza delle basi americane in Europa piuttosto che rafforzare gli eserciti nazionali e/o dare l’arma nucleare alla Germania. Come mai la sinistra, così preoccupata della “onda nera” nazista, non ha ancora alzato un sopracciglio sui rischi di un riarmo tedesco gestito dalla Afd? Possibile che la Afd sia un mostro temibile quando promette l’espulsione dei migranti irregolari, e non lo sia quando si profila l’eventualità di una Germania nazisteggiante e armata fino ai denti?

Secondo ordine di domande. Tutti concordano sul fatto che, anche nella più efficiente delle ipotesi, il riarmo dell’Europa non ne aumenterà significativamente il potenziale difensivo prima di qualche anno. Ma allora: se è vero che Putin ci vuole attaccare entro il 2030 (cosa che nessuno sa, ma molti fingono di sapere), ed è vero che stiamo facendo di tutto per essere prontissimi per il 2030, perché mai Putin dovrebbe aspettare 5 anni per attaccarci? Se davvero ha intenzione di farlo, il messaggio che gli mandiamo è di sbrigarsi, prima che diventiamo in condizione di respingerlo.

In breve: siamo sicuri che, prima di annunciare con le fanfare il riarmo europeo (come sta facendo il sempre meno pacioso Prodi), non sarebbe meglio fare due chiacchiere con Trump, e attendere di conoscere gli accordi di pace sull’Ucraina?

[articolo uscito sulla Ragione il 25 marzo 2025]

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