L’8 giugno scorso il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un’ordinanza, la n. 106, con cui sono stati disposti per le aree alluvionate dell’Emilia-Romagna esami di stato conclusivi del primo e secondo ciclo di istruzione in forma agevolata. La valutazione per gli studenti residenti nelle zone interessate è stata così affidata a un solo colloquio, che, nel caso della “maturità”, integra momenti di accertamento relativi all’italiano e alla materia di indirizzo su cui si sarebbero dovute effettuare le prove scritte, ora eliminate.
Pare che la misura sia stata sollecitata da studenti, sindaci e dal presidente dell’UPI (Unione delle Province d’Italia), Michele De Pascale. Di fronte al manifestarsi nel mondo della scuola delle prime reazioni di dissenso, il ministro ha poi spiegato come non avrebbe agito da solo, ma sulla base di una scelta condivisa, all’interno di una “cabina di regia” tenutasi il 7 giugno, con l’Ufficio scolastico regionale e lo stesso Presidente della Regione, Stefano Bonaccini. La circostanza, mai smentita dai diretti interessati, è divenuta tuttavia piuttosto opaca in seguito alle dichiarazioni rese dall’assessore regionale alla scuola, Paola Salomoni, che fin dal 13 giugno, consapevole delle criticità e delle proteste via via emerse, ha più volte sottolineato che «i contenuti della modalità di svolgimento della Maturità sono di competenze esclusiva del ministero e Valditara le ha utilizzate senza mai coinvolgere la Regione» (“Repubblica Bologna”, 21 giugno). Come dire: se qualcosa del genere il territorio aveva chiesto, non era però certo quello che il ministro si è risolto a dare.
Quale sia stato il processo deliberativo alla base della scelta ministeriale è questione non secondaria, dal momento che è divenuto chiaro fin dai primi istanti come una vasta platea, forse la maggioranza, dei suoi destinatari non avesse desiderato tale agevolazione, né avesse intenzione di ricorrervi una volta decretata. Già il 9 giugno, infatti, la studentessa romagnola Maria Elena Merlo lanciava su change.org una petizione (Scritti anche in Romagna) che in poche ore raggiungeva oltre 1000 firme. Nel testo si evidenziavano dati di fatto inoppugnabili: il fenomeno alluvionale del 17 maggio è giunto a due settimane dalle fine delle lezioni e, quindi, non ha potuto compromettere in alcun modo la preparazione dei maturandi (la legge prevede, del resto, che i programmi d’esame siano conclusi e resi pubblici, con documento del consiglio di classe, entro il 15 maggio); gli scritti sono un banco di prova essenziale per competenze altrimenti difficilmente accertabili; la seconda prova negli indirizzi tecnici e professionali ha spesso carattere pratico e non può essere surrogata all’interno di un prova solo orale. La petizione, che vale di per sé un’attestazione di “maturità” per la studentessa che l’ha concepita, si concludeva ricordando come «dopo l’emergenza del Covid, che per più di due anni ci ha privato del contatto, della scuola intesa anche come “comunità”, di ogni aspetto relazionale dell’essere studenti, quest’anno finalmente abbiamo potuto vivere un ritorno pieno alla normalità, di cui l’Esame di Stato era uno dei simboli più evidenti. Questo provvedimento, per quanto pensato per agevolarci, ci ripiomba in qualche modo a quei giorni di privazioni e di anormalità e, in questo caso, senza una reale emergenza».
C’è da chiedersi, dunque: si è forse ecceduto nell’assegnare all’alluvione effetti così catastrofici da farne discendere una riduzione dell’esame di stato, come nei precedenti citati dei terremoti dell’Emilia e de L’Aquila? Il ministro, l’amministrazione scolastica territoriale e le altre autorità coinvolte hanno peccato per eccesso di zelo? Si è trattato di un atto di “buonismo” non richiesto, o addirittura di un caso di deprecabile demagogia politica?
Astenendosi dai giudizi e restando ai fatti, si deve constatare che l’impatto della calamità naturale sulla vita di insegnanti e studenti è stato in realtà assai differenziato, spesso anche all’interno dei confini di un medesimo comune, a seconda dei quartieri e persino delle strade. L’ordinanza tuttavia ha fatto di tutta l’erba un fascio, utilizzando la ricognizione topografica effettuata dalla Regione per censire danni a colture, attività produttive, case e viabilità quale strumento idoneo a constatare un universale e identico stato di bisogno per il sistema dell’istruzione e dunque la necessità dell’esonero per tutti – circa 7000 persone, pari al 20 per cento dei maturandi emiliano-romagnoli – dagli esami nella loro forma ordinaria. Il Ministero, in altre parole, si è rifiutato di affidare all’autonomia degli istituti scolastici la facoltà di individuare, sulla base dell’autocertificazione della loro residenza, gli studenti che intendessero avvalersi della facilitazione (soluzione di buon senso proposta, per esempio, da molti dirigenti scolastici del bolognese, con circolari emanate il 9 giugno). Al contrario, ha centralisticamente preteso di affermare la tassativa obbligatorietà del regime agevolato, sulla base di un’asserita, ma mai dimostrata, impossibilità tecnica di garantire ai singoli residenti delle aree alluvionate una facoltà di opzione tra la forma ordinaria d’esame e quella semplificata.
È qui che si è aperto un grave vulnus. Il ministro, per alleviare la situazione di chi dopo il 17 maggio non aveva potuto più dedicarsi alla scuola e allo studio, ha di fatto sottratto a chiunque – anche a quanti avevano perduto pochi giorni di frequenza, o magari nessuno, e non si consideravano danneggiati dalla calamità quanto al loro percorso scolastico – la possibilità di cimentarsi nell’esame secondo le forme alle quali si era lungamente preparato durante l’anno (le stesse “simulazioni” delle prove scritte si erano già tenute negli istituti, come previsto, generalmente tra aprile e la prima decade di maggio).
Il vulnus si è rivelato poi particolarmente doloroso nei casi in cui, come nel territorio bolognese, molte scuole site in zone non alluvionate sono frequentate da studenti di aree pedecollinari, montane o di pianura colpite dall’alluvione. Questi studenti, così, in virtù dell’ordinanza sono stati separati dai loro compagni di classe, che risiedendo in area non alluvionata hanno svolto, come il resto d’Italia, le prove scritte nei giorni 21 e 22 giugno. Proprio in quei giorni, come si suol dire, rituali, in cui la carriera scolastica si conclude e ci si avvia all’età adulta, intere classi sono state spezzate: gruppi significativi di 4-5 (talvolta 10) studenti per classe sono stati tenuti fuori dagli edifici pubblici, resi oggetto di divieto, a prescindere dalla propria volontà, di entrare in aula e sedersi a fianco dei loro compagni di cinque anni. Dopo il danno dell’alluvione, dunque, la beffa di un’ordinanza ministeriale!
Gli insegnanti delle scuole del bolognese hanno denunciato a più riprese, inascoltati, la forzatura e i guasti, le difformità amministrative e il rischio di contenzioso a cui il Ministero stava spianando la strada. Anche alla luce del fatto, davvero abnorme sotto il profilo giuridico, che l’ordinanza è intervenuta a modificare le modalità d’esame il giorno 8 giugno, a scuole chiuse e a scrutini d’ammissione già avvenuti. Come dire: i maturandi, benché “alluvionati” sono stati valutati il 7 e l’8 giugno dai loro consigli di classe e giudicati idonei a svolgere un esame secondo modalità ordinarie (ex OM n. 45 del 9 marzo 2023), ma hanno appreso dopo poche ore, il 9 giugno, che quelle modalità, solo per loro e indipendentemente dalla loro volontà, non esistevano più.
L’eco di queste denunce ha faticato a uscire dalla dimensione locale, raggiungendo risonanza nazionale solo grazie a “Il Messaggero” del 18 giugno (Romagna, prof e studenti contro la mini-maturità), ad una lettera di una studentessa diffusa da “Il Sole 24 Ore” del 19 giugno (La pretesa di farci rimanere bambini) e ad un commento di Nadia Urbinati sul “Domani” del 21 giugno (Il disastro delle buone intenzioni). Questi titoli riassumono bene i nodi cruciali di una vicenda in cui il ministro ha preso le sue determinazioni senza consultare chi – prof, studenti e presidi – vive tutti i giorni quel complicato mondo sociale che è la scuola pubblica, manifestando per giunta una desueta attitudine paternalistica e un’ostinazione capace di trasformare una lodevole esigenza di soccorso in una stolida imposizione autoritaria.
Resta infine da chiedersi che spazio sia stato riservato questa volta al “merito”, che Giuseppe Valditara ha voluto incidere a chiare lettere nella nuova denominazione del Ministero. Gli studenti che sono stati defraudati delle loro legittime aspettative a sostenere un esame normale, in cui mostrare il proprio valore in ambiti fondamentali come quelli dell’analisi e produzione testuale o delle discipline caratterizzanti il loro specifico corso di studi, hanno subito un’ingiustificabile discriminazione, in contrasto con quell’articolo 34 della Costituzione in cui il diritto fondamentale alla progressione fino ai “gradi più alti degli studi” è riconosciuto precisamente ai “capaci e meritevoli”.