Usa, “atomi sociali” in libera uscita

Da tempo ormai le stelle degli Stati Uniti sono diventate sempre più opache e lontane: la terra promessa della democrazia liberale è solcata da lacerazioni di ogni tipo – ingovernabilità dei degradati quartieri afro-americani, violenze della polizia, contestazione della Civic culture che aveva fatto grande il Nuovo Mondo, abbattimento dei suoi simboli antichi, declino delle classi medie, allargamento della forbice tra gli have e gli have not, catastrofi ecologiche fuori controllo – tali che inducono a parlare di crisi epocale del mondo anglosassone, se non di tramonto di quell’Occidente che oltre Atlantico celebrava i suoi trionfi.

Agli States è rimasta la potenza industriale e quella finanziaria, una pesante armatura, dentro la quale, come nel Cavaliere inesistente di Italo Calvino, c’è il vuoto. In questo Sunset Boulevard vien voglia di rileggere quanto avevano scritto sul nuovo continente i grandi viaggiatori e sociologi dell’Ottocento e del Novecento, da Alexis de Tocqueville a James Bryce, da Michel Chevalier a Gunnar Myrdal ovvero gli scrittori politici che avevano più contribuito a consolidare nell’immaginario collettivo una certa idea dell’America.

Un importante momento di questa fabbrica del mito americano può essere costituito dalla Society in America di Harriet Martineau (1837) di cui la storica delle dottrine politiche e appassionata studiosa della “questione femminile”, Ginevra Conti Odorisio, ha curato un’edizione ridotta per la collana da lei diretta, Donne e politica, pubblicata dall’editore Aracne. La Martineau, infatti, si presta ad essere un significativo case study per comprendere che cosa del mondo americano affascinò gli europei colti e “progressisti”(in senso lato) e che cosa sfuggì ad essi e di cui oggi ci rendiamo drammaticamente conto.

La poligrafa scrittrice inglese – è sterminato l’elenco delle sue opere, dall’economia politica ai romanzi letterari – ha un duplice merito: il primo, scientifico, di aver svolto un’inchiesta a tappeto sulla società e sui costumi americani, consultando gente di ogni ceto sociale, razza, regione, religione, sì da venir considerata a mio avviso con qualche esagerazione – anche da studiosi come Robert Nisbet e Seymour M. Lipset, la fondatrice della sociologia; il secondo, etico-politico, di aver denunciato sia la soggezione delle donne americane, prive del diritto di voto, sia la vergogna della schiavitù. In anni in cui la questione razziale non aveva ancora toccato il punto più drammatico, la Martineau spiegò agli europei «cosa significasse la segregazione negli atti più elementari della vita quotidiana, come mangiare, pregare lavorare. Esclusa dall’istruzione, dalle cariche pubbliche, dalle professioni e dalle associazioni scientifiche e letterarie, la gente di colore vive in un clima umiliante, ammessa soltanto ai lavori più duri e ingrati». E ancora con parole roventi: «Nella fisionomia di ogni animale vi è vita e una certa forma di intelligenza anche in quella della stupida pecora; mentre non vi è nulla di così spento e vago come nello sguardo dello schiavo.|…| Visitammo il quartiere dei negri e dovunque mi recassi in questa piantagione provai un profondo disgusto. Era una via di mezzo tra un covo di scimmie e un’abitazione di esseri umani». Tralascio citazioni di pagine sulla questione femminile e mi limito a ricordare che il principio fatto valere della Martineau – e al centro del femminismo liberale dell’800 e del 900 – che “nessuno è tenuto a obbedire a leggi alle quali non ha dato il suo consenso”, fa della lettura di Società in America un testo che avrebbe potuto essere scritto cento e più anni dopo.

Vorrei invece richiamare l’attenzione sul coté illuministico dell’opera, ovvero sull’idea che i principi egualitari su cui si fondava la Dichiarazione di indipendenza – e che facevano sì che in ogni agglomerato urbano si trovasse «un cittadino indipendente» e «nelle campagne un proprietario terriero» – sarebbero stati il lievito spirituale di una civiltà superiore più libera, più generosa, più colta di quelle europee. E in ogni caso avrebbero portato a un melting pot disgregatore dell’idea di Nazione.

Per l’America, «la varietà dei suoi abitanti costituisce un’inesauribile risorsa. Per una Nazione può essere motivo d’orgoglio discendere da un unico ceppo, ma in definitiva è molto meglio che diverse Nazioni abbiano concorso alla sua formazione. Ne risulta un miscuglio di qualità fisiche e intellettuali, l’assimilazione di pregiudizi nazionali, l’incremento delle risorse mentali che finiscono per elevare il carattere della Nazione».

Erano entusiasmi ingenui di una fervente “radical” vittoriana, giacché come ha dimostrato Samuel P. Huntington in un grande libro, La nuova America ( 2005): «E’ difficile che la gente trovi nei principi politici – libertà, uguaglianza, democrazia, rispetto dei diritti civili, non-discriminazione, rispetto della legge – il profondo contenuto emozionale e il profondo significato che vengono assicurati dai vincoli sociali e familiari, dai legami di sangue e dal senso di appartenenza, dalla cultura e dalla nazionalità». Molti americani fino alla Seconda guerra mondiale e ancora diversi anni dopo, erano arrivati «a convincersi che il loro Paese poteva essere multinazionale, multietnico e privo di un’essenza culturale specifica, pur rimanendo una Nazione coerente, la cui identità veniva definita unicamente dal credo. Ma è proprio così? Una Nazione può essere definita solo da un’ideologia politica?». L’abbattimento delle statue dei Founding Fathers, esaltati nella Società in America, sono una risposta eloquente. Molti studiosi della Martineau – penso soprattutto a Michael Hill – vorrebbero che venisse riconosciuta la sua superiorità scientifica (!) rispetto a Tocqueville, condizionato – nei suoi appunti di viaggio e poi nella Democrazia in America – dal suo essere un bianco, maschio, aristocratico, portato a selezionare i fatti e a ritenere solo le opinioni da lui condivise.

Sennonché il nobile normanno per tutta la sua vita fu assillato da un problema cruciale: in una società di eguali – e gli Stati Uniti ne costituivano il modello politico per antonomasia – che cosa tiene insieme gli “atomi sociali” liberi ormai da ogni obbligo e da ogni autorità spirituale e temporale del passato?

Pubblicato su Il Dubbio del 31 ottobre 2020




Eterno non è il fascismo ma il manicheismo, nemico della civiltà liberale

Nelle ultime settimane dell’estate si tiene a Camogli il Festival della comunicazione, ideato da Umberto Eco e da Danco Singer. Una Valle di Giosafatte in cui ci sono tutti: scrittori, saggisti, attori, registi, giornalisti storici, psicologi, sociologi, letterati etc. etc. Non tutti, per la verità, ma quasi tutti giacché una conventio ad excludendum ne tiene fuori quanti non fanno parte del mainstream culturale – diciamo, brutalmente intellettuali vicini al o non lontani dal centrodestra. Non è casuale, del resto, che a ridosso del Festival, “Repubblica” – diretta dal liberale Maurizio Molinari – abbia distribuito, nei giorni 15 e 16 settembre due scritti di Umberto Eco, Il fascismo eterno e Migrazioni e intolleranza.

Eco è stato un benemerito degli studi semiologici in Italia, ha scritto diversi romanzi (“Il nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault” etc.) per la verità di faticosa lettura e, soprattutto, ha coltivato il genere parodistico talora in maniera geniale. (Fu lui a far ripubblicare da Bompiani l’Antologia apocrifa di Paolo Vita-Finzi).

Le bustine di Minerva sono, sia pure per palati raffinati, una lettura divertentissima degna dei grandi umoristi della letteratura italiana. Sennonché il filosofo alessandrino – che aveva una solida formazione medievistica e una non comune competenza di storia dell’estetica – decise, a un certo punto, di diventare il maître-à-penser di un paese ormai incamminato sulla via della secolarizzazione e che del marxismo aveva rimosso i fondamenti teorici portanti ma non la rivolta contro il capitalismo e la società di mercato. Forse la vera anima del sessantottismo totalitario fu proprio Eco, con la sua dissacrazione della società borghese e della sua etica repressiva. A questo punto, però, ci si chiede: come mai della sua vasta e importante produzione intellettuale si sono scelti proprio i due discutibili volumetti sul fascismo e sull’intolleranza? La spiegazione sta nel fatto che ormai in Italia, per citare Max Weber, le parole che si pronunciano nei Festival culturali, «non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta», sono una politica fatta con altri mezzi. Si sarebbe tentati di dire: una patetica chiamata a raccolta di un ceto intellettuale che, incontrandosi e contandosi, si compiace di essere così numeroso ed esorcizza il fantasma di un popolo che elettoralmente ha voltato le spalle alla sinistra.

 L’Eco maître-à-penser rivela tutta la sua formazione cattolica: nel mondo si svolge l’eterna lotta delle forze del Bene contro quelle del Male e compito del filosofo è quello di mettere in guardia dalla lezione pluralistica di Isaiah Berlin per il quale «le peggiori catastrofi della storia nascono da contrasti tra principi buoni», come giustizia e libertà, tra valor militare e aspirazione alla pace, tra nazione e umanità.

Non meraviglia, quindi, che il fascismo diventi una sorta di Arimane che attraversa i secoli. Nella sua “brillante paranoia” – come Alfonso Berardinelli definì Il fascismo eterno – Eco lo associava a una serie di brutture (tradizionalismo, antimodernismo, culto dell’azione, criminalizzazione del disaccordo e del pacifismo, paura della differenza, appello alle classi medie frustrate, tribalismo, complottismo, invidia sociale, elitismo, militarismo, machismo, populismo qualitativo, neolingua) con le quali dovremo sempre cimentarci. Si tratta di caratteristiche presenti in molti regimi totalitari ma generosamente assegnate al solo Ur-Faschismus.

Se nichilismo significa cancellazione di un momento imprescindibile dell’umano, Eco, innegabilmente, aveva un coté nichilistico: la “comunità” (tradizione, patria, etnia, famiglia etc.) era per lui un disvalore assoluto, il cilindro da cui Satana faceva uscire i cavalieri dell’Apocalisse. In Migrazioni e tolleranza, profetizzava, non senza un sottile compiacimento, che «nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso». «L’Europa sarà come New York o come alcuni paesi dell’America latina». Diventeremo quindi una società di meticci! E sia pure ma che c’azzecca l’esempio della civiltà romana, razzialmente meticcia ma con un senso così forte dell’identità culturale e istituzionale da trovare l’ultimo cantore in Rutilio Namaziano, un gallo narbonese. «Signora, disse Fustel de Coulanges all’imperatrice Eugenia, sua allieva— noi siamo di razza celtica ma di cultura romana». Sarebbe assai difficile trovare tale orgoglio nei Black Lives Matter o nelle altre etnie che rendono le società multiculturali latino-americane (e ora anche gli Stati Uniti) così instabili e conflittuali.

Lo stesso Eco, è vero, riconosce (retoricamente) che la “tolleranza aperta” è cosa buona ma «dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che ci sono abitudini, idee, comportamenti che sono e devono restare per noi intollerabili». Ma chi, poi, in una democrazia che si rispetti, deve stabilire cosa è da conservare se non i cittadini che non si affidano alla sofocrazia ovvero ai preti, ai dotti, agli scienziati, ma valutano l’accettabile e il non accettabile in base alle loro esigenze e al loro ideale di “vita buona”?

Per Eco, i populisti non hanno idee ma solo «pulsioni selvagge»: l’”altro” quindi non è un avversario politico ma un agente patogeno.

Non ci resta che un commento malinconico: eterno non è il fascismo ma il manicheismo, il vero, grande, nemico della civiltà liberale. Nelle scuole di una volta si insegnava che la validità di un’analisi storica, politica, sociologica si mostra in ciò che concede all’avversario: se a quest’ultimo non si riconosce nessun valore, nessuna istanza iscritta nell’umano, nessuna “ragione”, vuol dire che non abbiamo a che fare con la ricerca della verità ma con l’invettiva lanciata dal pulpito. Dal chierico traditore… anche lui “eterno”.

Pubblicato su Il Dubbio del 19 settembre 2020




Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia

In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.

Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.

«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.

Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.

Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».

E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo  di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media –  i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi  decisi a scendere in campo 150  rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici.  Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».

Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.

In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.

Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?

Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?

Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?

Purtroppo non si intravedono vie di uscita.

Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020




Siamo un popolo che non perde la testa

Una grande potenza come la Cina scatena – non si sa se per colpa dei suoi laboratori di ricerca o per i mancati controlli dei mercati alimentari e dei macelli – la più grande pandemia che si ricordi dal tempo delle pestilenze medievali, per quanto terribili territorialmente limitate; mette in crisi l’economia planetaria, unendo i continenti in una comune tragedia; stravolge i modi di vivere di società che si sentivano sicure dai flagelli antichi, al riparo delle loro tecnologie. Eppure il grado di maturità degli italiani è così alto che non si sono avute recriminazioni incomposte, maledizioni da parte delle vittime del covid19, episodi razzisti. Nessun sit in dinanzi alle ambasciate cinesi, nessun assalto ai megastore che in certe città hanno cambiato il volto di vecchi quartieri, nessuna condanna, nessuna esecrazione degli eredi di Mao. Qualcuno ha fatto notare che un regime democratico non avrebbe tenuto nascosto un “incidente” mille volte più esiziale di Chernobyl e che i ritardi nel darne l’annuncio hanno comportato un costo specie per l’Occidente. Quasi nessuna accusa, però, si è levata contro la Cina: una terribile disgrazia può capitare a tutti. C’è persino qualche giornalista “liberale” che s’è affrettato a elogiare l’industria e la chimica cinese alla notizia che si stava preparando un vaccino antivirus da distribuire urbi et orbi senza ricavarne alcun vantaggio economico (come avrebbero fatto le potenze capitalistiche). Se la notizia fosse stata confermata, chissà, avremmo dovuto chiedere scusa al rosso-celeste Impero per aver parlato di ritardi nell’informazione. Questa è civiltà! E certo nulla sarebbe cambiato se la pandemia fosse venuta dagli Stati Uniti, dall’Ungheria, dal Brasile.. Comprensione, solidarietà, rassegnazione, in nome dell’ever green “legge del Menga”, sarebbero state riservate anche ai governi di Washington, di Budapest e di Brasilia. O sbaglio?




La lezione di Weber anti ideologie: c’è il vero senza dover essere né bello né sacro né buono

Se Alexis de Tocqueville, stando a Raymond Aron è, il più grande pensatore politico del XIX secolo, Max Weber – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – sicuramente lo è del Novecento. Morti entrambi in età non certo avanzata (a 54 anni il primo, a 56 il secondo) hanno lasciato un’impronta decisiva sul loro tempo come sul nostro. L’uno col suo concetto di “democrazia” – non un regime politico ma uno stato sociale caratterizzato dall’eguaglianza delle condizioni ovvero da diritti non ascritti in virtù della nascita, del ceto, dell’ufficio – l’altro con la sua tesi della burocratizzazione dell’esistenza – la “gabbia d’acciaio” in cui il processo di razionalizzazione, innescato dall’economia capitalistica, dal prodigioso sviluppo delle tecnica e della scienza, ha imprigionato l’uomo contemporaneo – hanno messo a fuoco l’architrave della società moderna. A Weber, tuttavia, va riconosciuta un’ampiezza di interessi culturali ben diversa da Tocqueville. Non c’è quasi grande tema della modernità che egli non abbia trattato e su cui non abbia lasciato analisi profonde tutt’ora al centro del dibattito teorico. A cominciare da quello – spesso frainteso – dei nessi tra etica protestante e spirito del capitalismo. Weber non disse mai che il protestantesimo è il padre del capitalismo: il suo intento non era quello di stabilire l’efficacia causale delle idee religiose quanto la loro indipendenza analitica. Questo significa che, nella ricostruzione della genesi del capitalismo, ci si deve chiedere perché fattori materiali che si ritrovano nell’antichità classica come nelle civiltà orientali – economia monetaria, crescita della popolazione, aumento dei metalli preziosi, mobilità occupazionale, libertà di commercio  – non abbiano prodotto dovunque la moderna società di mercato. La risposta, per Weber, andava ricercata nei fattori attitudinali (industriosità e spirito acquisitivo): «La smodata sete di guadagno degli asiatici in generale non trova, notoriamente, eguali nel resto del mondo. Tuttavia si tratta di una “spinta al guadagno” perseguita con ogni possibile mezzo, inclusa la magia universale. Ciò che manca è proprio quel che è stato decisivo per lo sviluppo economico dell’Occidente: la traduzione e l’immersione razionale della spinta al guadagno economico e dei suoi corollari, in un sistema di etica del comportamento, mondana e razionale – ad es: “l’ascetismo mondano” del Protestantesimo in Occidente».

La costruzione dello Stato, il diritto moderno, il disincanto del mondo, il pluralismo dei valori, il nesso tra religione e civiltà, il futuro del capitalismo, il carisma politico e il destino della democrazia nella società di massa, la distinzione tra etica dell’intenzione (quella del fiat justitia pereat mundus) ed etica della responsabilità (che calcola le conseguenze dell’agire), la dialettica tra movimenti sociali e istituzioni politiche, il processo di secolarizzazione, la metodologia delle scienze storico-sociali: sfido a trovare un libro rilevante su ciascuno di questi argomenti che non si confronti con l’autore del Lavoro intellettuale come professione (1919).

Eppure nonostante questa presenza mai venuta meno Weber è uno dei pensatori più lontani dal Weltgeist del XXI secolo. E per due ordini di ragioni. La prima sta nell’obbligo imposto allo studioso di conoscere i fatti in maniera wertfrei (avalutativa) “sine ira ac studio”. Scrive in una straordinaria pagina de La scienza come professione. «Quando uno parla sulla democrazia in una riunione popolare» ha il dovere di «prendere partito in modo chiaramente riconoscibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso mezzi per l’analisi scientifica, bensì di propaganda per trar dalla nostra parte gli altri. Quelle parole non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in un’aula un simile uso della parola sarebbe sacrilego. Se vi si parlerà di “democrazia”, se ne osserveranno le diverse forme, se ne analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà quali siano le singole conseguenze dell’una o dell’altra nella vita pratica, e poi vi si contrapporranno le altre forme non democratiche dell’organizzazione politica e si cercherà di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione secondo i propri supremi ideali. Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall’alto della cattedra, a prendere un qualsiasi atteggiamento, sia esplicitamente sia con suggerimenti: giacché è il metodo più sleale, quello di «far parlare i fatti». In un paese, come il nostro, intossicato dall’ideologia – che chiede alla cattedra non di far conoscere il fascismo (o il comunismo) ma di inculcare l’odio per il fascismo (o per il comunismo) – sono parole di colore oscuro.

La seconda ragione sta nella “classicità” di Weber, nel sentimento tragico della vita che abbiamo oggi del tutto rimosso. Per noi, i “cattivi” sono ineliminabili ma è rassicurante che la nostra intelligenza – razionalista e universalista – sappia individuarli con certezza. Per Weber, invece, i valori sono spesso conflittuali e incompatibili. Come scriveva nel 1919 «Oggi riconosciamo che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto che non sia bello ma perché e in quanto non è bello (ne trovate le prove nel capitolo 53 d’Isaia e nel salmo 21); e che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto di non essere buono, ma proprio perché non lo è, così come c’informa di nuovo Nietzsche, e nel modo che voi già trovate illustrato nei Fiori del male, come Baudelaire chiamò la sua raccolta di poesie; ed appartiene al buon senso di tutti i giorni riconoscere che qualcosa può essere vero sebbene non sia ed anzi perché non è né bello né sacro né buono».

E’ un discorso non certo congeniale a un’epoca come la nostra in cui il “buono” cancella tutte le altre virtù antiche e moderne e la statua di Cristoforo Colombo viene fatta a pezzi.

Pubblicato su Il Dubbio del 20 giugno 2020