Per “Il Foglio” del G8 di Genova verrà ricordato il conflitto ideologico. Gli stracci che volarono passano in secondo piano

Se sulle orme di Theodor W. Adorno, volessimo costruire una Scala T del totalitarismo, sicuramente dovremmo porre, tra le prime caratteristiche della personalità totalitaria l’attitudine a “far di tutta l’erba un fascio” ovvero a unificare “chi è contro di me” in una massa damnationis che non ammette o ritiene irrilevante ogni “distinguo”. I nemici dei nazisti erano gli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, i democratici – fossero eredi dell’Illuminismo francese o di quello inglese – i cristiani fedeli all’universalismo etico dei Vangeli, i liberalconservatori legati all’idea dello stato di diritto etc. etc. Tra il (presunto) bene e il (presunto) male non esistono vie di mezzo. La fallacia del piano inclinato (slippery slope) è il manganello di cui si servono i custodi del pensiero unico per liquidare critici e dissenzienti. Se tu sostieni, come ha fatto una sociologa svedese, che la convivenza tra etnie culturali molto diverse comporta problemi di ordine pubblico, sei sulla china che porta alla svastica. E’ la liquidazione del “dialogo”, possibile solo se si suppone che i due interlocutori abbiano qualcosa di interessante – e di veritiero – da dire.

Oggi in Italia non pochi sovranisti fanno pensare alla Scala T ma lo stesso può dirsi degli antisovranisti. In un articolo, assai discutibile, apparso sul “Foglio” del 21 luglio (Nel ventennale del G8 di Genova c’è una grande verità rimossa: gli eredi dei No global oggi si trovano nella destra sovranista), Claudio Cerasa sostiene che i temi che, vent’anni fa, ispiravano i black bloc si ritrovano tutti a destra: l’avversione al mondialismo, alla globalizzazione, all’imperialismo |sic!|, alle oligarchie finanziarie, al neoliberismo, alle multinazionali, al WTO, ai Soros, alle privatizzazioni, all’austerità fiscale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, il richiamo al primato nazionale. Ne deriva, secondo la più pura logica totalitaria che gli oggetti di avversione sono tra loro solidali, sono anelli congegnati in modo che ciascuno tira l’altro e che non si possono separare senza cadere in una contraddizione logica e in un peccato contro lo spirito. Sei perplesso sui modi in cui si sta costruendo l’unità europea? Significa che t‘ispiri ad Alfredo Rocco e sei un avversario ideologico di Altiero Spinelli. Vorresti una globalizzazione meno imprevidente – per citare il bel volume di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (Effici 2020)? Significa che sei un potenziale parlamentare di Fratelli d’Italia. La postazione ideologica in cui si colloca Claudio Cerasa è quella in grado di “associare le politiche portate avanti dal mondo progressista con quelle portate avanti dai difensori del mercato libero”. Insomma, sembra di capire: proliferazione dei diritti individuali (di qualsiasi tipo) più mercatismo, con la messa in soffitta non solo del vecchio Marx (che in soffitta già si trova dal 1911 con la famosa frase di Giovanni Giolitti) ma anche del welfarismo socialdemocratico che, secondo la geniale scienziata politica statunitense, Sheri Berman, ci ha regalato i venti anni migliori del nostro dopoguerra – v. il suo saggio del 2006 significativamente intitolato, Primacy of Politics: So-cial Democracy and the Ideological Dynamics of the Twentieth Century (Cambridge U.P. 2006). E’ la realizzazione dell’incubo di Augusto Del Noce che prevedeva una generazione di Claudio Cerasa che avrebbe liquidato sia la borghesia tradizionale (con i suoi valori vittoriani) sia il proletariato classico, con il suo sogno della rivoluzione anticapitalista.

Cerasa si fa raggiante al pensiero che la sinistra mondiale non sia stata contaminata dalla dottrina “no global” e che i miasmi genovesi siano rifluiti a destra ma, forse, si illude nel minimizzarne l’appeal in certi settori e movimenti politici (lui stessi ricorda Podemos, Mélenchon, Corbyn, Sanders, la Dibba Associati). Sennonché il problema vero è un altro: davvero il mondo si divide in due, global da una parte e no global dall’altra? Davvero chi non sta con gli uni, sta con gli altri secondo uno stile di pensiero che ha un fondamento religioso (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” Luca 11,14-23) ma che ripugna allo spirito laico e realistico che contrassegna la modernità? Non potrebbero esserci antiglobalisti dubbiosi e moderati e globalisti consapevoli dei problemi indotti da un mondo divenuto un’indivisa comunità di produzione e di scambio? E quanti come Ernesto Galli della Loggia invitano a riflettere sulle “virtù del nazionalismo” – per riprendere l’espressione di Yoram Hazony – sono le quinte colonne di Donald Trump e di Steve Bannon?

In realtà, il disegno dei Cerasa è quello di contarsi, del muro contro muro, di scrivere sulla lavagna della Repubblica resistenziale e democratica l’elenco dei cittadini buoni e dei cattivi. Le tinte sfumate, i “sì..ma”, gli accordi parziali, le mezze misure non sono di loro gusto: redivivi Simplicius del pensiero unico debbono snidare l’avversario, smascherarne connivenze e intenzioni inconfessate.

Sennonché non è neppure questo l’aspetto più controverso dell’articolo di Cerasa. A far riflettere è che per lui l’orrore suscitato dalle devastazioni dei black bloc passa in secondo piano rispetto agli obiettivi ideologici dei dimostranti. “La violenza portata in piazza dai manifestanti per così dire più facinorosi” fa da pendant alla “evitabilissima prova di forza della polizia” ed entrambe concorrono alla “rappresentazione falsata di ciò che quel G8 è stato dal punto di vista storico”. Eh no, caro Direttore, il suo è un caso da manuale di “falsa coscienza” che chiude gli occhi davanti alla realtà e se ne inventa una fittizia per convalidare le sue credenze ideologiche. Per quanti hanno vissuto quelle tragiche giornate le ragioni dei contestatori non hanno contato un bel fico secco: le devastazioni, i danni provocati a negozi e banche, la città messa a soqquadro, le sirene delle forze dell’ordine, gli assalti, il sangue versato hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, hanno mostrato quanto sia precario e difficile il mantenimento dell’ordine in una società democratica come la nostra. Alla posta in gioco (global/no global) non ha pensato nessuno: è la violazione delle più elementari “regole del gioco” a far ricordare quegli eventi come un sogno spaventoso. Mi ha scritto un lettore: “Io ricordo l’amarezza per lo sfregio fatto alla mia città da quei beceri violenti. Che poi le forze dell’ordine (o chi era loro preposto) non abbiano saputo prevenire l’invasione ed abbiano ecceduto nel rivalersi su quelli che hanno acchiappato e che magari non erano i più responsabili, è una faccia della medaglia che aggiunge dispetto”. E’ proprio il riemergere della violenza cieca, irrazionale, incontrollata e incontrollabile che accompagnerà la reminiscenza delle giornate di Genova, indipendentemente da chi protestava contro chi e perché.

Viene il sospetto che Cerasa condivida sostanzialmente un caposaldo dell’ideologia italiana, che non tiene conto di Thomas Hobbes e della fondazione dello stato moderno fondato sul principio che la legge e l’ordine debbano avere la precedenza su tutto, per cui – in uno stato costituzionale e democratico – qualsiasi causa, anche la più giusta, diventa indifendibile se comporta il ricorso alla violenza. Nell’ideologia italiana, invece, è radicata l’idea della cosiddetta “rilevanza etico-politica delle piazze” per la quale cortei, manifestazioni, invasioni di luoghi pubblici, quando non sono mobilitazioni sanfediste, sono sempre un’espressione della “libertà come partecipazione” e vanno giudicati – positivamente o negativamente – per gli obiettivi che si propongono non per l’oggettivo perturbamento dell’ordine pubblico e il vulnus costituito per la convivenza civile. E’ sconfortante che si debba ancora ricordare che la piazza con i suoi furori non ha alcun rilievo né costituzionale né morale se la forza pubblica viene aggredita insultata dileggiata A Genova la polizia di Stato aveva il compito di non fare entrare i dimostranti nel recinto in cui si tenevano incontri e conferenze del G8: giustificare la pretesa di chi non intendeva rispettare il divieto avrebbe dovuto essere impensabile per ogni partito e cultura politica, anche quella di Vittorio Agnoletto, Viviamo, invece, in un paese in cui in primo piano stanno i fini – che, se buoni, fanno dimenticare i mezzi cattivi – sicché per il mainstream culturale oggi dominante, il G8 s’identifica con una battaglia ideologica non con una di quelle esplosioni collettive che società complesse e raffinate come quelle liberaldemocratiche non sanno spesso come gestire.

Quest’idea della piazza come supplente delle istituzioni – quando le istituzioni si orientano in direzioni che a una parte dei cittadini sembrano sbagliate – è qualcosa di cui, temo, non riusciremo a liberarci. Per certi ideologi, lo stato è la dimensione della legalità ma la società civile (che non è un’istituzione ma un contenitore dei più diversi progetti di vita) è la dimensione della legittimità. Se un Parlamento liberamente scelto dagli elettori prende una decisione o emana una legge che gli interpreti della volontà generale ritengono ingiusta, si è autorizzati a scendere in piazza, a scontarsi con poliziotti e carabinieri, a fare pressione su deputati e senatori affinché tornino sui propri passi.

Se invece dell’incontro dei leader delle principali potenze economiche mondiali, si fosse organizzato nel capoluogo ligure un vertice degli statisti dell’Europa orientale contrari alla globalizzazione e se le “nuove” sinistre avessero indetto manifestazioni non autorizzate da prefetti e questori, forse le probabili devastazioni ed erogazioni di violenza avrebbero ricevuto dal “Foglio” (ma anche da altri giornali nazionali) un diverso trattamento. Gli “eccessi” sarebbero stati sempre condannati, beninteso, ma la “giusta causa” li avrebbe fatti passare in secondo piano – come, d’altronde, è capitato agli “eccessi” della Resistenza che la storiografia ufficiale e anpista ha sempre minimizzato, ricorrendo, ma solo nei momenti di sincerità, all’adagio del vecchio azionista Riccardo Lombardi che “per fare una frittata si deve pur rompere qualche uovo”.

Solo a una mente intossicata dall’ideologia poteva venire in mente che il G8 verrà ricordato, nella storia, per il fatto che le sinistre, allora, erano nemiche della globalizzazione e che in seguito si sarebbero ritrovate a pass the whitness a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Nella mail del mio lettore, al contrario, l’“amarezza per lo sfregio fatto alla città” non ha nulla a che vedere con gli obiettivi dei contestatori Il lettore, non lo escludo, avrebbe potuto anche condividerli, almeno in parte ma in quei giorni vide solo il Cavaliere rosso dell’Apocalisse.




Equivoci sullo “stato forte”

Nei suoi numerosi articoli e saggi Danilo Breschi, ha esplorato in lungo e in largo le complesse vicende dell’Italia contemporanea nell’ottica della storia delle dottrine politiche, insegnamento tenuto all’Università degli Studi Internazionali di Roma. Quale democrazia per la Repubblica? Culture politiche nell’Italia della transizione 1943-1946 (Ed. Luni) è il frutto maturo di lunghi anni di ricerca e del confronto con gli studiosi che più si sono occupati della nostra political culture e del suo impatto sulla società civile, da Roberto Pertici a Roberto Chiarini, da Paolo Pombeni a Ernesto Galli della Loggia. Perché in Italia non abbiamo avuto una democrazia liberale “a norma”? Perché da noi partiti, governi, istituzioni non sono stati l’alveo sicuro entro il quale il corso della modernizzazione è potuto fluire senza troppi sconvolgimenti sociali e politici? Breschi ne attribuisce la causa alla posizione di minoranza nella quale si trovarono uomini come Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, dinanzi alle tre grandi famiglie ideologiche – azionismo, social-comunismo, cattolicesimo sociale – che, sconfitte alle urne nel 1948, furono decisive nella redazione della Costituzione repubblicana e nell’interpretazione del passato come praefatio ad ducem. Ad accomunare quelle famiglie, nel triennio preso in considerazione da libro, è l’idea della “sostanziale marginalità del liberalismo di ascendenza risorgimentale e primonovecentesca. “Si tratta della convinzione che la democrazia liberale sia priva di contenuti etici e ideologici” che “non possieda un’idea direttrice, una dotazione di sen­so generale e collettivo” che sia incapace di “prendersi cura della formazione della coscienza individuale |…|. Sono il mercato, ossia gli interessi materiali, e la coscienza individuale, mantenuta tale, rigorosamente autonoma nelle proprie scel­te a determinare il suo corso, che resta costantemente instabile e al tempo stesso perennemente riequilibrantesi grazie all’omeostasi garantita dal primato della legge (rule of law), ovvero dalla solidità di istituzioni di governo fondate sul principio della separazione dei pubblici poteri che mutuamente si controllano”. L’individualismo, la democrazia liberale rappresentativa, il mercato vengono percepiti come agenti patogeni o comunque come istituzioni incapaci di mantenere unite le società. La borghesia, classe in declino, in quella che Renzo De Felice chiamava la vulgata antifascista, diventa il maggiore responsabile della conquista dello Stato da parte delle camicie nere. “La democrazia – ci si chiede – va intesa come mezzo, strumento per altri fini, oppure come fine in se stesso?”. La repubblica è un mezzo e non un fine” aveva detto Pietro Nenni al Teatro Brancaccio il 5 maggio del 1946.
Sono molte le ragioni che spiegano la persistente tendenza dell’”ideologia italiana” a considerare la democrazia liberale una forma vuota, da riempire con ardite riforme politiche o sociali ma, all’origine di tutte si trova “la rimozione del senso dello Stato e della cosa pubblica, la Repubblica appunto”. Per le nostre familles spirituelles – l’importante sono le squadre in campo e le strategie che hanno in mente: il campo da gioco, la comunità politica in quanto tale, non occupa le menti e non riscalda i cuori e le forme che essa può assumere interessano soltanto nella misura in cui consentono o meno l’entrata nella stanza dei bottoni. Regioni e corte costituzionale, per fare un esempio significativo, in un certo periodo vengono avversate, mentre in un altro, sono fortemente volute: tutto dipende dagli utili che se ne possono ricavare mentre nessuna considerazione viene riservata alla salus Rei publicae, alla forza ordinatrice dello Stato. E’ sempre vivo l’equivoco – condiviso dai panglossiani dell’ultraliberismo mercatista – che fa dello “Stato forte” l’incubatore del fascismo e del comunismo: un equivoco che distorce la realtà giacché fu proprio lo “Stato debole”, con la sua incapacità a mantenere l’ordine, a far rispettare le leggi, a punirne i trasgressori – fossero estremisti di destra o di sinistra – a spianare la strada ai regimi totalitari. Perdura, a ben vedere, la pericolosa illusione che le istituzioni sono in definitiva “sovrastrutture”, macchine ad uso dei guidatori più diversi, sicché non si concepisce neppure il dovere di battersi per una manutenzione della ‘casa comune’ che avvantaggerà non solo noi ma anche i nostri concorrenti politici. Da noi lo “spazio pubblico” non importa a nessuno perché è di tutti.




Da cosa si riconosce la crisi della democrazia liberale

La Democrazia liberale esige il rispetto degli altri: il rispetto dei loro valori, la comprensione dei loro interessi. Sembra l’enunciazione di una banalità ma, a ben riflettere, non è così. Per molti, infatti, il rispetto degli altri rinvia alla vecchia idea della tolleranza: le idee dei nostri avversari politici possono essere sbagliate ma dietro le idee ci sono gli uomini, la cui persona è sacra; quanti sono nell’errore, pertanto, non  possono venire criminalizzati ed esclusi dall’arena politica oltretutto per non rischiare la dittatura dei saggi sugli stolti.

La tesi che vado sostenendo da anni nei miei articoli e saggi è che su questa base non si costruisce nessuna democrazia liberale. L’equivoco di fondo risale alla stagione dei lumi. Questi ultimi hanno liberato il mondo da tanti pregiudizi, tradizioni, superstizioni che sono stati di ostacolo al pieno sviluppo della libertà individuale e dei diritti dei cittadini ma, con la loro luce abbagliante, delegittimando tutto il passato e preannunciando l’Uomo Nuovo – emancipato da ogni tipo di catena – hanno laicizzato e secolarizzato l’assunto su cui si reggono le Chiese – e le religioni universali – ovvero la coincidenza tra Verum e Bonum tra Conoscenza e Morale.

E’ la riaffermazione, in chiave moderna, dell’etica cognitivista: le verità – quelle della teologia o quelle delle scienze – debbono essere le determinanti dell’agire. Non è casuale che in quella parte d’Occidente in cui il cattolicesimo e l’illuminismo francese hanno esercitato una grande influenza sull’educazione e sulla cultura politica siano così poche le trattazioni dedicate alla morale, ritenendosi quest’ultima un capitolo del più ampio trattato sull’uomo, sul mondo, sulla storia. Per sapere come debbo comportarmi, debbo prima sapere chi sono, qual è il compito che mi è stato affidato dalla società in cui vivo – dalla comunità politica, dal partito, dalla classe, dalla razza – quali sono i doveri cui debbo adempiere affinché possa dare il mio contributo al benessere e alla felicità dei miei simili (che nella retorica universalista diventano l’intera umanità).

Che cosa c’è di sbagliato in tutto questo? E’ semplice: è il rifiuto di riconoscere, per riprendere il titolo di un saggio di filosofia del diritto di molti anni fa, che ‘”l’etica è senza verità” nel senso che i valori non si lasciano dedurre dai fatti ma appartengono a una dimensione in cui il criterio del vero/falso è improponibile. E’ la coscienza che mi prescrive ciò che debbo fare, non un’Autorità esterna – neppure quella di chi ha creato il mondo, come scrisse in una bellissima pagina Guido Calogero – non i saperi accumulati dai cultori delle “scienze naturali” e delle “scienze dello spirito”. L’economia politica può dirmi che agendo in un certo modo esco dal mercato; i miei amici possono mettermi in guardia dal non contravvenire alle leggi della politica se voglio avere i voti dei miei concittadini: si tratta di giudizi tecnici – se intendi raggiungere un certo risultato devi servirti dei mezzi più idonei – ma i dettami dell’economia e della politica non comportano alcun obbligo morale.

I valori stanno tutti sullo stesso piano e a ordinarli in una scala gerarchica non è la scienza, patrimonio collettivo, ma la coscienza, patrimonio individuale. La libertà e l’autorità, la tradizione e il progresso, la comunità e la società, la solidarietà e l’individualismo, l’illuminismo e il romanticismo, la poltrona e la palestra, l’eguaglianza e la differenza, il borgo natio e il vasto mondo, lo spirito aristocratico e la democrazia, lo Stato sopra gli individui e la società negli individui, la religiosità e l’ateismo, l’eroismo e la prudenza, la vita innanzitutto e la sfida della morte e del pericolo, con le loro infinite varianti e combinazioni, con i loro inesauribili simboli, fanno riferimento a idealità, che sono fortemente sentite da certi tipi umani e sono del tutto indifferenti ad altri.

Chiarito questo, a mio avviso avrebbe titolo a definirsi liberale solo una democrazia che riconoscendo tutti i valori in campo, ritenuti tutti “buoni” – in quanto radicati nei cuori e tali da indurre a sacrificare i beni e la vita per vederli fiorire – iscrivesse nella sua costituzione solo quelli volti a presiedere le regole del gioco e a mantenere la competizione sempre aperta, nel quadro, ovviamente, dei diritti civili e politici indisponibili.

Dal punto di vista razionale, ciò per cui si è disposti a morire può apparire assurdo, come la decisione del giovane saraceno Medoro, nell’Orlando furioso, di dar pietosa sepoltura all’amato re Dardinello d’Almonte a costo di rimetterci la vita – “ché sarebbe pensiero non troppo accorto perder due vivi per salvare un morto”, gli dice l’amico Cloridano. Ma a seconda del criterio di razionalità adottato tutti i valori possono apparire irrazionali, a cominciare da quelli che spingono ad incrementare ulteriormente i beni di famiglia quando si vive già in una condizione agiata. Una società aperta è aperta a tutti i bisogni, a tutti gli interessi, a tutte le aspirazioni etiche e politiche degli individui: sarà il conflitto regolato a stabilire di quali si debba tener più conto nel momento di scrivere leggi imperative erga omnes; sarà il compromesso equo (il bargaining degli americani) a neutralizzare, con la “tutela delle minoranze”, il legittimo desiderio di revanche dei perdenti, fino alle nuove elezioni.

Quando si dice che ogni valore è buono non si intende negare che un valore assolutizzato – e senza altri valori che ne limitino le pretese – non possa portare ad esiti aberranti ma solo ribadire che questi esiti sono tali non per la  natura intrinseca del valore al quale si richiamano (e che, in corso d’opera,  viene stravolto, pervertendo, ad esempio, l’amore per la comunità in  tribalismo) ma alla luce di un sentire etico sempre più diffuso a livello planetario che condanna decisamente ogni forma di genocidio al quale può portare la legittima preoccupazione pro aris et focis. (Le vittime dei Lager e dei Gulag per il “Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale” sono una delle tante manifestazioni “naturali” di “quest’atomo opaco del male” che è la Terra: tra i forni crematori e l’eruzione del Krakatoa non c’è differenza). L’eguaglianza – valore illuministico par excellence – può condurre alla soppressione violenta di quanti sono legati a una società aristocratica o borghese-aristocratica; l’amore per le radici, può portare al genocidio razziale: dall’universalismo al Gulag, si potrebbe dire, dal comunitarismo ai Lager.

Ma se il vino dei valori degenera in aceto totalitario, a destra come a sinistra – e ciò avviene in virtù di fattori istituzionali interni ed esterni agli stati e di mentalità sopravvissute ai secoli, che richiederebbero un discorso a parte – ciò non autorizza i portatori dei valori vincenti a trattare i loro avversari come un pericoloso gregge eterodiretto, un’orda di barbari mossi da impulsi omicidi. Con un esempio facile, non si ha il diritto di escludere i post-fascisti o i post-comunisti dall’”arco costituzionale” se gli uni e gli altri riconoscono che i regimi che si sono legittimati richiamandosi alle “nobili cause” – l’eguaglianza, la nazione – hanno finito per comprometterle, giacché senza la democrazia liberale tutto finisce per degenerare, convalidando l’antico adagio che la strada dell’inferno è lastricata dalle buone intenzioni. Eppure è così che una certa stampa dipinge i seguaci di Matteo Salvini in Italia e quelli di Donald Trump in America. Basta essere etichettato come sovranista, nazionalista o populista per essere espulso dal genere umano in nome della lotta a quello che Umberto Eco chiamava l’Ur-Faschismus. Nessuno spazio oggi è concesso alla dimensione comunitaria giacché esistono solo gli individui i cui bisogni materiali vanno soddisfatti indipendentemente da ogni “appartenenza”.

Si prepara la guerra civile tra le due anime di un paese – quella conservatrice, quella progressista – quando i valori di una delle due vengono fatti a pezzi, i suoi simboli e monumenti abbattuti, quando le ruspe dell’universalismo fanno terra bruciata dei ricordi storici più cari. Sta qui la crisi profonda della democrazia liberale. L’incendio nazista delle Case del popolo equivale, sul piano simbolico, alla rimozione a Boston della statua di Lincoln: la pericolosità delle camicie brune – grazie alle istituzioni democratiche statunitensi – è imparagonabile alla furia devastatrice dei Blacklivesmatter ma l’impatto simbolico è lo stesso. E’ la fine di quell’equilibrio tra l’antico e il nuovo che aveva fatto grande l’Occidente: è l’inizio di un’epoca che vede il primato dell’emancipazione umana sulla volontà (“reazionaria”) di mettere in salvo quei momenti del “mondo di ieri” che, nel bene e nel male, ci hanno reso quel che siamo.

Pubblicato su Huffington Post il 16 gennaio 2021




Rileggendo oggi Rosario Romeo

Cancel culture. Il tumore maligno che ha colpito l’epoca contemporanea è la rimozione della storia, che è poi il rifiuto del destino che ci è toccato

«Un ragazzo di colore, Tory Bullock – ha scritto Giulio Meotti sul “Foglio” alcuni mesi fa – chiede di abbattere la statua, perché Lincoln non è un liberatore, ma soltanto un uomo bianco, in piedi sopra un ragazzo nero in ginocchio. In un video pubblicato giovedì sulla sua pagina Facebook, Bullock, uno scrittore, attore e influencer, ha fatto appello al sindaco di Boston Marty J. Walsh per rimuovere il memoriale. Ha lanciato una petizione, raccogliendo migliaia di firme». L’amministrazione democratica della città ha accolto la richiesta dell’afro-americano e così l’imponente statua è stata rimossa. Del resto Fred Kaplan, nel saggio Lincoln e gli abolizionisti, ha messo il timbro del politically correct sull’intera questione: “il presidente americano che ha abolito la schiavitù lo ha fatto con indugi, politicismi e lentezze perché, in fondo, era uno sporco razzista”.

Ho rilevato spesso – ma temo di essere la classica vox clamantis in deserto – che non è affatto da sottovalutare quanto sta accadendo in America. Non si tratta di accessi di follia o di un momentaneo “oscuramento dell’intelligenza” o di effimere mode culturali destinate a durare l’espace d’un matin ma della fine di un mondo – del nostro mondo – alla quale dovremmo purtroppo rassegnarci. Ciò che tramonta è l’idea che tutto ciò che siamo, nel bene e nel male, è il prodotto delle generazioni che ci hanno preceduto e che ogni passo avanti sulla via del cambiamento non avviene bruciandosi i ponti alle spalle. Se si fa il deserto dietro di noi ci si ritrova, immancabilmente, col deserto davanti a noi. Non solo gli individui, anche le società non possono trovare il necessario equilibrio interiore per produrre grandi opere di civiltà se non fanno i conti col passato, selezionandone i lasciti vitali da quelli caduchi.

Il tumore maligno che ha colpito l’epoca contemporanea è la rimozione della storia, che è poi il rifiuto del destino che ci è toccato. Roma conquistò il mondo finché la pietas nei confronti degli antenati fu il lievito della sua etica pubblica: le guerre civili che la insanguinarono, le forme di governo che sperimentò nel corso della sua storia secolare non le impedirono di rendere omaggio a quanti avevano concorso alla sua grandezza. In fondo Giulio Cesare venne pugnalato ai piedi della statua eretta a Pompeo Magno. La Rivoluzione francese non abbatté i monumenti che celebravano i grandi re che avevano costruito lo Stato e la Nazione e la stessa dittatura sovietica dovette ricordare le figure dei grandi zar per infiammare gli animi di odio antitedesco nell’anno dello sciagurato attacco di Hitler alla Grande Madre Russia.

Per avere senso compiuto del mondo che si è perduto, si potrebbero rileggere con profitto gli scritti del più grande storico italiano della seconda metà del XX secolo, Rosario Romeo. Non parlo solo dell’imponente studio su Cavour – un autentico chef-d’œuvre della storiografia italiana – ma degli articoli pubblicati sui grandi quotidiani, dal “Corriere della Sera” al “Giornale”. Dove è stupefacente la capacità dello studioso siciliano di impartire raffinate lezioni di metodo storico, recensendo le ricerche storiche via via sfornate dall’editoria italiana. Romeo era un autentico liberale ma il suo era un liberalismo che si traduceva in maturo “giudizio storico”, in meditazione profonda e documentata del passato, in volontà di comprendere i valori politici in conflitto: non venne mai tentato di spiegare ai suoi allievi e lettori “che cos’è il liberalismo” e non solo per la sua totale estraneità all’approccio ideologico agli eventi umani – caratteristico, va sans dire – di tanti suoi colleghi, (soprattutto marxisti) ma anche perché, nella dialettica tra la “vita” e le “forme”, gli interessavano gli individui concreti – gli attori sociali e politici – e non i programmi o gli intenti rimasti sulla carta.

Nel volume Scritti storici 1951-1987 che raccoglie i suoi interventi sui quotidiani (Ed. Il Saggiatore 1991 con Introduzione di Giovanni Spadolini) mi è parsa esemplare la recensione dedicata al lavoro di Mario Silvestri, Isonzo 1917 (Ed. Einaudi 1965). Al moralismo del pur apprezzato Silvestri, che condivide il giudizio di condanna emesso da Benedetto XV sulla prima guerra mondiale, Romeo obietta: “Perché certamente, la prima guerra mondiale, vista a mezzo secolo di distanza può apparire davvero ‘inutile strage’, guerra civile” rovinosa per l’Europa che sacrificò una somma enorme di energie e aprì essa stessa la via al declino della sua posizione nel mondo, senza che nessuna delle mete proposte ai popoli dai governi e dai ceti dirigenti a giustificazione dell’immenso massacro – di gran lunga il maggiore che l’Europa occidentale abbia conosciuto, anche in confronto al secondo conflitto mondiale – fosse paragonabile al sacrificio. Ma è evidente che con siffatte argomentazioni si rischia di troppo dimostrare: e a questa stregua non solo la prima guerra mondiale ma le rivoluzioni nazionali del Quarantotto e la stessa Rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle Crociate appariranno inutili massacri compiuti per ideali di cui si può mostrare facilmente che non furono più alti di quelli che il Silvestri giudica “falsi” e “grotteschi” del 1914, o che quanto meno simboleggiavano mete assai più economicamente raggiungibili per altra via. In tal modo l’intera vi­cenda degli uomini può apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi come questi, nei quali ideali interessi e aspirazioni del nostro presente vengono assunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che non li conob­bero e che si mossero invece sulla scia di altri interessi, aspirazioni e ideali”.

Siamo davvero a una svolta storica epocale: quello che Romeo giudicava un esito paradossale – e quindi assolutamente impensabile in una società civile moderna – sta diventando in America senso comune e, di lì, si sta riversando sull’Europa. Se oggi si facesse leggere a uno studente (liceale o universitario), il lungo brano appena citato, il suo stupore sarebbe eguale a quello provato dal grande risorgimentista se, redivivo, leggesse il libro di Fred Kaplan su Lincoln e gli abolizionisti. Giudizi anacronistici quelli di Mario Silvestri, di Benedetto XV e ora di Papa Francesco? No dal momento che il principio della retroattività in fatto di morale, sembra essere inteso e vissuto ormai come la grande conquista del nostro tempo.

Mi si consenta, però, una perplessità: non si dovrebbe, sul piano dell’assolutismo etico, che ispira la “cancel culture”, rammentare il detto evangelico “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”? Se siamo così poco indulgenti verso i nostri padri e nonni, se non siamo affatto disposti a ricordare che, accanto ai lati oscuri del loro difficile “mestiere di vivere”, ci sono anche quelli positivi – le virtù che ci hanno fatto crescere moralmente e spiritualmente – non dovremmo usare la stessa, spietata, intransigenza verso di noi e i nostri vizi? Non dovremmo farci santi, diventare tutti “arcangeli della morte”, come l’integerrimo Saint-Just che con Robespierre, impose “la virtù all’ordine del giorno”?

No, non è proprio il caso di sottovalutare l’iconoclastia nordamericana ed europea! Quel che sta accadendo oggi non è una pericolosa stravaganza, è l’inizio di un incubo. E lo si capisce solo se il vilipeso “storicismo” – divenuto quasi sinonimo di passatismo, di avversione alla scienza e alla modernità – è stato una componente importante della nostra educazione dell’anima.

Pubblicato su Huffington Post il 2 gennaio




Cultura e stili di vita centrati sul presente, sindrome del nostro tempo

Uno dei più grandi giuristi del nostro tempo Ernst Wolfgang Boeckenfoerde, in uno scritto ripreso in Diritto e secolarizzazione (ed. it. Laterza 2010), si chiedeva «in quale misura i popoli riuniti in uno Stato possono vivere soltanto della garanzia della libertà del singolo, senza un vincolo unificatore preesistente a questa libertà?». I singoli in virtù del processo di secolarizzazione, che in sostanza estrometteva Dio dalla politica, «dovettero cercare una nuova comunanza e omogeneità, se non volevano che lo Stato cadesse in preda alla disgregazione interna, che porta poi con sé un cosiddetto totale controllo esterno». Nel XIX secolo «una nuova forza unificatrice subentrò a quella antica: l’idea di Nazione. L’unità della Nazione prese il posto dell’unità religiosa e fondò una nuova omogeneità, sia pure orientata in senso più esteriore e politico». Sennonché la Nazione – e lo Stato nazionale – ha perso da tempo la sua «efficacia formativa» e non solo in molti Paesi europei.

Le parole di Boeckenfoerde fanno venire in mente uno degli scritti più ispirati di Rosario Romeo, il principe della storiografia italiana della seconda metà del Novecento, Nazione (1979) pubblicato nell’ “Enciclopedia del Novecento” (e ripreso poi nella raccolta Italia, mille anni ( Ed. Le Monnier). Nella nostra epoca, sosteneva l’Autore, «sono così diffuse e presenti nella cultura di tutto il mondo le tentazioni e i rischi di una concezione e di uno stile di vita tutto risolto nel presente e non più in grado di conferire all’esistenza degli uomini quel senso e significato che viene dalle grandi concezioni storiche e religiose». La causa veniva riportata alla crisi dello Stato nazionale che ha coinciso con un drastico abbassamento della vita culturale. «Quale può essere, si chiedeva Romeo, il livello della vita collettiva in un Paese che ha di fatto rinunciato a decidere in modo autonomo dei propri destini, limitando la propria realtà essenzialmente alla buona amministrazione e alla corretta gestione dell’economia, e rinviando invece ad altre potenze, di altro rango e statura internazionale, le decisioni relative dai grandi problemi della sicurezza e della pace nel contesto mondiale?». La grande potenza diventava, così, condizione necessaria (ma non sufficiente) di responsabilità, di elevazione culturale, di etica pubblica, di senso profondo della dignità del cittadino. Non a caso nel corso universitario tenuto su Richelieu, lo storico legava il ruolo internazionale acquisito dalla Francia grazie al cardinale, all’egemonia che la lingua francese esercitò per due secoli sul vecchio continente, alla grande letteratura, al teatro, all’arte, alle scienze che trovarono a Parigi stabile dimora.

A rileggere le pagine di Boeckenfoerde e di Romeo sembra di trovarsi in un altro pianeta. In particolare la critica mossa dal secondo alle teoriche federaliste (che attribuivano allo stato nazionale la responsabilità di tutte le guerre e dei tutti i crimini), le riserve (già di Benedetto Croce) sul Tribunale di Norimberga, la denuncia della divisione della Germania, l’assenza di retorica occidentalista nel racconto della seconda guerra mondiale sono polpette avvelenate per la mensa del “politicamente corretto”. Quest’ultimo non comprende solo il buonismo universalista ma il ripudio stesso della storia, vista illuministicamente, come un catalogo di violenze insensate, di sopraffazioni, di negazione dei diritti più elementari alla libertà, alla dignità, al rispetto. La cancel culture è il lievito spirituale di quella contraffazione del liberalismo classico che è il moderno libertarismo di ispirazione nordamericana. Quest’ultimo riprende e assolutizza tematiche della grande scuola austriaca degli Hayek e dei Mises, fa a pezzi, nella galleria della “società aperta”, le statue di Immanuel Kant, di John Stuart Mill, di Alexander Hamilton di Max Weber, di Benedetto Croce. La sua filosofia politica è molto semplice: dove c’è stato, c’è nazione, dove c’è nazione, c’è fascismo.

Per il filosofo del diritto, Carlo Lottieri, autore dell’agile manuale Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico ( Ed. La Scuola 2013) John Stuart Mill – l’autore di On Liberty – si colloca al di fuori del liberalismo non avendo compreso come «le potenzialità negative della ricchezza e delle idee» fossero «una minaccia alla libertà solo indirettamente, quando si alleano con la politica», ovvero con lo Stato moderno, che si è abbattuto sul povero genere umano facendo più vittime delle dieci piaghe d’Egitto. Non lo sfiora neppure l’idea del rapporto libertà individuale/statualità: la fine dell’ordine medievale, con la sua «logica policentrica» è per lui l’inizio del grande arretramento del diritto che nasce dal basso, dal rapporto di persone concrete che stipulano accordi circoscritti e l’ascesa del Leviatano che tutto spiana al suo passaggio. Se ne deduce che il passato – con le sue glorie, con i suoi monumenti civili, con le sue culture impensabili senza i grandi conflitti di civiltà – va rimosso come un incubo che ancora grava sulle nostre vite. Che senso ha idealizzare la regina Vittoria, imperatrice delle Indie, erigere monumenti ai grandi zar modernizzatori, a Giuseppe Mazzini, reo di ritenere che senza la dimensione collettiva e nazionale gli Italiani saranno sempre i paria tra le nazioni, ai grandi re che fecero la Francia – soffocando come riteneva Proudhon l’anima delle singole regioni?

Che si possa fondare una “scuola di pensiero” su queste idee, su questa visione del mondo, si può comprendere. Dovremmo però essere consapevoli che esse creano una frattura insanabile nella cultura liberale. Il liberalismo classico (non quello di Lottieri) nasce dalla profonda meditazione sulla storia, da una critica del razionalismo fondata non su un astratto giusnaturalismo – i diritti individuali assoluti che lo Stato moderno mette in forse – ma sullo scetticismo classico, anch’esso, inteso come senso della relatività delle opinioni, che si traduce in bargaining, in compromesso tra i valori politici in conflitto affidato all’arte politica.

Pubblicato su Il Dubbio del 28 novembre 2020