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Patria e Libertà. Le colpe non sono soltanto della sinistra – Lettera aperta a Vittorio Feltri

2 Novembre 2023 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

I–Caro Feltri. ho letto con grande diletto e condivisione i brani del tuo ultimo libro, Fascisti della parola (Ed. Rizzoli) riportati dal ‘Giornale’ il 28 ottobre u.s. con una spiritosa introduzione di Alessandro Gnocchi. Mi è bastata questa anticipazione per capire che stiamo sulla stessa lunghezza d’onde. Il ‘politicamente corretto’—rincarerei la dose—è il segno inquietante di una ‘cultura politica’ che non invoca più la ghigliottina né rinchiude gli oppositori nei Lager e nei Gulag, avendo capito che la violenza fisica non paga e che l’uniformità dei cittadini si raggiunge meglio aspirando (nichilisticamente, avrebbe detto Augusto Del Noce) dalle loro anime valori e ideali incompatibili con la civiltà delle ‘magnifiche sorti e progressive’. E’ l’incubo di Tocqueville che sembra divenuto realtà. Nella prima Democrazia in America (1835) si legge: «nelle repubbliche democratiche, la tirannide |..| trascura il corpo e va diritta all’anima. Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu  sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, |…| resterai   fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all’umanità. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti fuggiranno come un essere impuro; e, anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché   li  si  fuggirebbe   a loro volta. Va’ in pace, io  ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.  Sotto le monarchie assolute il dispotismo era disonorato; stiamo attenti che le repubbliche democratiche non lo riabilitino e che, rendendolo più pesante per qualcuno, non gli tolgano, agli occhi della maggioranza, l’aspetto odioso e il carattere degradante» .

 C’è, però, un punto del tuo discorso che non mi ha convinto ed è quello che riguarda la patria. Scrivi giustamente: «Oggigiorno, se dichiari di colti­vare il valore della patria, vieni guardato come se fossi Matteo Messina Denaro, o anche con maggiore disgusto e disprezzo. Ami la patria? Benissimo, sei un criminale. Punto. “Patria” è una parolaccia. “Patriota” un insul­to. “Patriottismo”, invece, una sorta di spirito fascista o nazi­sta». Di questa demonizzazione però incolpi solo la sinistra. Quest’ultima  «vorrebbe che la patria venisse odiata, il concetto di patria demolito, il patriottismo av­versato, allo scopo, appunto, di dare luogo a un mondo utopistico e mostruoso, senza confini, senza barriere, senza identità, senza storia (ecco perché si mi­ra a cancellarla o a riscriverla), senza maschi e senza femmine, un mondo dove tutto è genere neutro, nulla ha una propria identità e l’individuo è numero senza opinioni dissonanti rispet­to a quelle della maggioranza». A parte le perdonabili forzature, non hai tutti torti. Sono legione i filosofi del diritto, specie di scuola analitica, che in nome dell’universalismo illuministico (alla francese) non riconoscono alla ‘patria’—o alla nazione che è sostanzialmente  la stessa cosa—alcun valore. Nella rivistina ‘Non Mollare’–quindicinale di ‘Critica liberale’ una sorta di ridotto della Valtellina del post-azionismo duro e puro–Valerio Pocar nell’articolo dio, patria, famiglia nazionali del 23 febbraio u.s—scrive che «la situazione italiana» non consente «di parlare di patria|…|. Appare evidente che in questo Paese non esiste una patria comune, ma piuttosto una pluralità di patrie, nella storia essendo state numerosissime le etnie e le corrispondenti culture che hanno formato la popolazione residente sul territorio, etnie spesso gelose, talora anche giustamente, della loro specificità». Certo Valerio Pocar, come il suo collega Luigi Ferrajoli ,non fa, opinione, essendo noto solo a una ristretta cerchia di lettori e di periodici di nicchia.. Diverso è il caso di Norberto Bobbio che, come ho rilevato in un articolo Gli sfascisti della Nazione. Da Julius Evola a Norberto Bobbio (HuffPost 21 maggio 2023)– ripreso nel libro Per un liberalismo comunitario (ed. La Vela 2023–non solo non amava i termini ‘nazione’ ,’patria’ etc.ma diffidava anche della parola ‘popolo’, che per lui sapeva di ‘organicismo’ ovvero di qualcosa di opposto alla democrazia liberale fondata sugli ‘individui’.

 

II–Detto questo, però, non si può ignorare l’apporto rilevante della cultura conservatrice, tradizio-nalista, cattolica e liberale all’appannamento dell’idea di patria–un’idea divenuta col tempo indi-sgiungibile dall’idea di nazione, da cui si distingue per la dimensione affettiva non necessariamente connaturata alla seconda: si parla, infatti , di ‘amor patrio’ non di ‘amor nazionale’. La nazione è un dato storico oggettivo, che può essere persino percepito come naturale ma che, per definizione, non è oggetto di devozione, di affetto filiale se non come sinonimo di patria.

 Nel tuo scritto, caro Feltri, parli di patria-nazione e ne attribuisci la rimozione nelle coscienze alla sinistra tout court, ignorando ad es. che furono due leader di sinistra, Bettino Craxi, con la sua idea di ‘socialismo tricolore’ e Carlo A. Ciampi a rendere omaggio all’Italia. Ricordo solo l’articolo di Francesco Damato su ‘Formiche’ del 16 settembre 2014, Perché con Carlo Azeglio Ciampo la parola Patria tornò di moda. Furono due operazioni, peraltro che non mi convinsero molto, specie la seconda, ma non è questo il punto. Se si pensa ai due eventi che hanno segnato, l’uno, la nascita dello Stato nazionale—il Risorgimento—e l’altro il suo tramonto–il Fascismo–vien fatto di chiedersi: una subcultura politica, quella della destra ,può davvero sentirsi legata a una comunità di destino se il giudizio su quei due eventi epocali non trova d’accordo tutte le sue componenti? Prendiamo il Risorgimento. Per il mondo cattolico si è trattato di una tragedia giacché aveva posto fine al  potere temporale dei papi, garante dell’indipendenza del Capo supremo della Cristianità. Per ampi strati sociali che votano a destra—e non solo nelle campagne—a nulla è valso che Paolo VI attribuisse agli artefici dell’unità nazionale  il merito di aver liberato la Chiesa dal fardello dello Stato pontificio e, soprattutto, l’impegno etico e la partecipazione attiva alle battaglie risorgimentali da parte di quella borghesia cattolica liberale che aveva espresso un Alessandro Manzoni (“un di quei capi un po’ pericolosi”, per citare Giuseppe Giusti) un Bettino Ricasoli, un Marco Minghetti, un Ruggero Bonghi, un Vincenzo Gioberti etc. etc.

 Se dall’universo cattolico si passa a quello ‘nostalgico’ dei postfascisti, il discorso non cambia poi molto, in fatto di identità nazionale. La sconfitta dell’Asse, per molti, è stata la riprova delle colpevoli fragilità del regime e della necessità di superare gli stati nazionali in direzione di un impero europeo di cui il Terzo Reich aveva in un certo senso fornito il modello (a parte il genocidio ebraico, s’intende, da nessun gruppuscolo rivendicato come ‘cosa giusta e buona’)

 E che dire poi dell’aperto rinnegamento dello Stato unitario da parte di movimenti sorti in regioni come la c.d. Padania o la Campania? Non è il caso di rivangare il passato, ma come dimenticare che il leader e fondatore della Lega si vantava di pulirsi il c.. con la bandiera tricolore? E come ignorare l’agguerrita storiografia neoborbonica che ha ripreso tutte le mitologie relative al prospero Regno delle Due Sicilie, colonizzato, martoriato e impoverito dalla ‘conquista regia’? Ai seguaci di questi movimenti a nulla potrebbe servire la lettura del saggio puntuale e documentato di Dino Messina,  Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Ed. Solferino 2021): l’antitalianismo non si nutre di fatti ma di leggende nere; e dei grandi storici del passato—che hanno studiato il Risorgimento “con occhio chiaro e con affetto puro”—da Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, da Benedetto Croce a Rosario Romeo, da Adolfo Omodeo a Walter maturi, per limitarci a questi—non potrebbe importargliene meno.

 Ma le cose cambiano radicalmente quando si entra nella ‘casa dei liberali’? Certo qui il richiamo a Cavour, a Vittorio Emanuele II (meno), ai non troppo amati Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi

è quasi obbligatorio. Ma anche qui come ignorare la voglia (segreta) di liberarsi di quelle icone ormai invecchiate per presentare i liberali come gli alfieri di una democrazia liberale, che pone lo Stato al servizio degli individui e lo legittima soltanto come garante dei loro diritti civili e politici mentre proietta l’Italia nel mondo, quasi considerandola una provincia dell’Europa unita? Correttamente Andrea Frangioni, a conclusione della voce Nazionalità (principio di nazionalità) per il ‘Dizionario del Liberalismo Italiano (Tomo I, Ed. Rubbettino 2011) ,ricorda, a partire dagli anni cinquanta «i segnali di una progressiva scomparsa del principio di nazionalità non solo dall’orizzonte della contemporaneità italiana, come notò Rosario Romeo nelle Conclusioni del suo Cavour, ma anche da quello del liberalismo italiano. Basti pensare proprio all’itinerario di ricerca nel secondo dopoguerra di un pensatore liberale importante come Alessandro Passerin d’Entreves, che coinvolse temi inediti per il liberalismo italiano come quelli del diritto all’obiezione di coscienza nei confronti dello Stato e della disobbedienza civile. Ancora si può ricordare la scarsa fortuna della dicotomia chabodiana sulle idee di nazione, confutata, già nel 1949, sulla scia delle posizioni di Hans Kohn, da Salvemini nelle sue lezioni universitarie fiorentine. Non a caso, allora, la riflessione sulla nazione non viene indicata da Nicola Matteucci tra gli elementi di quella ripresa di vitalità del pensiero liberale che a suo giudizio cominciò a manifestarsi a partire dagli anni Settanta del Novecento». Tale mancata riflessione sulla nazione da parte di Nicola Matteucci, però, non  sembra espressione di lungimiranza politica e di profondità teoretica se si pone mente allo spazio che tale tematica occupa  negli scritti di grandi liberali del Novecento come Isaiah Berlin, Raymond Aron, François Furet e, in Italia, Benedetto Croce, Rosario Romeo, Renzo De Felice.

 In Matteucci, in questo vicino a Norberto Bobbio, non c’è il sospetto che la democrazia liberale, come tutte le forme di governo, è, per così dire, una divisa istituzionale che regge nella misura in cui si adatta  al corpo che la indossa ovvero nella misura in cui  si confà alle tradizioni, agli stili di pensiero, ai costumi, alla cultura in senso lato di un popolo. Se non si fanno i conti con ciò che l’Italia è, che è stata, col suo passato drammatico e complesso, se non si medita  sul modo in cui ricostruire su valori comuni l’unità politica lasciataci in eredità dal Risorgimento, si costruisce solo sulla sabbia: la patria—ideale che accomuna—scompare ma null’altro è in grado di  sostituirla. E soprattutto non è in grado di farlo il ‘patriottismo costituzionale’ giacché sui diritti individuali in quanto tali non si fonda niente. I ’diritti universali’ acquistano peso e sostanza se sono quelli di una comunità politica che, grazie anche ad essi, vuole sopravvivere nel tempo e prosperare. L’universalismo etico-giuridico–bisogna abbattere le frontiere giacché il Diritto è eguale per tutti i figli della Terra—non è più corrosivo dell’idea di patria rispetto all’universalismo mercatista—si vende e si compra là dove è più conveniente sicché l’esportazione di capitali e di imprese all’estero non può essere ostacolata da considerazioni sovraniste, come la perdita di posti di lavoro in patria giacché la libertà dell’individuo-imprenditore viene prima della presunta ‘ragion di Stato’. Non è un caso che ormai il liberalismo italiano abbia messo in soffitta l’idea di Stato nazionale, sulla scia di correnti di pensiero che si rifanno a Karl R. Popper, all’ideologia federalista ed europeista, alla scuola austriaca e persino ai libertari anarco-capitalisti americani. Se si ritiene con Popper che < il principio dello stato nazionale |…| è un mito; è un sogno irrazionale, romantico e utopistico, un sogno del naturalismo e del collettivismo tribale> come si può prendere sul serio il culto della bandiera, l’Inno di Mameli, l’orgoglio dell’appartenenza a una comunità di destino? Anche nei quotidiani della destra liberale, grande spazio viene dato ad autori come Elie Kedourie la cui condanna del ‘nazionalismo’ fa pensare all’anti-sionismo così diffuso nella cultura di sinistra. Come l’antisionismo, in realtà, è una maschera dell’antisemitismo ed ha come obiettivo la distruzione dello stato nazionale ebraico, così troppo spesso l’antinazionalismo è il cavallo di Troia che nel suo ventre nasconde l’attacco al principio di nazionalità, sul quale Woodrow Wilson pensava di rifondare il puzzle etnico europeo, suscitando l’entusiasmo di autentici democratici italiani ed europei—v. gli scritti del grande e dimenticato filosofo del diritto, socialriformista, Alessandro Levi nonché di Gaetano Salvemini.

III–E qui cade anche il discorso sul fascismo. Non recupereremo mai il senso, dell’identità nazionale, l’amor di patria, finché il giudizio storico sul regime continuerà ad essere fonti di divisioni e di incomprensioni, finché non avremo elaborato, ma sul serio non retoricamente, il senso di una visione condivisa.

 In un generoso articolo (mai pubblicato e forse non è un caso)—ricordato da Eugenio di Rienzo nella sua bella voce ‘Patria’–sul citato ‘Dizionario del liberalismo italiano’ —Benedetto Croce rilevava, nel 1943, che l’amor di patria era una ‘parola desueta’(allora!!!): ma «deve tornare in onore appunto contro lo stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario. Si potrebbe che corre tra l’amor di patria e il nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio. L’amore di patria è un concetto morale. Nel segno della patria i nostri più austeri doveri prendono una forma particolare e più a noi vicina, una forma che rappresenta l’umanità tutta e attraverso alla quale si lavora effettualmente per l’umanità tutta. Perciò,  se i nazionalismi aprono le fauci a divorarsi l’un l’altro, le patrie collaborano tra loro, e perfino le guerre tra esse, quando non si riesce ad evitarle, sono non di distruzione reciproca, ma di comune trasformazione e di comune elevamento. E poiché la patria è un’idea morale, essa ha in ciò il suo intimo legame con l’idea della libertà».

 Erano parole nobili ma dettate solo dal cuore, in cui si avvertivano lontani echi mazziniani : non a caso erano parole destinate a cadere nel vuoto. All’interno di una filosofia politica che abbia preso il pluralismo sul serio, la patria, in realtà,  non ha nessun ‘intimo legame con la libertà’ ma costituisce la base terrena su cui le ideologie—quella liberale non meno di quella totalitaria—costruiscono i loro edifici istituzionali. Una patria coesa, vigorosa, abitata da cittadini che sentono fortemente il legame comunitario, sarà una risorsa preziosa sia per il Giappone di Tojo e la Germania di Hitler sia per l’America di Roosevelt e di Eisenhower. Il fascismo volle creare la coesione nazionale sacrificando al valore comunità il valore libertà ovvero privilegiando la dimensione comunitaria sulla dimensione societaria—quella delle libertà individuali, dei diritti dell’89 e dei principi che saranno a fondamento della Carta atlantica. In tal modo rimuoveva la consapevolezza  che nel ‘mondo civile’ ci si sente a proprio agio se le due dimensioni vengono tenute costantemente in equilibrio. Come scriveva Max Weber nel 1918, mettendo in relazione la democrazia inglese con il suo imperialismo (quale linguaggio politicamente scorretto!), «Solo un popolo politicamente maturo è un ‘popolo di signori’ : è tale un popolo che ha nelle proprie mani il controllo dell’amministrazione dei propri affari e che, mediante i propri rappresentanti eletti, determina in maniera decisiva la scelta dei suoi capi politici.  |..| Solo i popoli di signori hanno la missione di intervenire sugli ingranaggi dell’evoluzione mondiale.|..| Ma una nazione che produce solo buoni funzionari, stimabili lavoratori d’ufficio, probi commercianti, eruditi e tecnici valenti, nonché servi fedeli e per il resto sopporti pazientemente una burocrazia libera da controlli sotto frasi pseudo-monarchiche—ebbene questo non è un popolo di signori e farebbe meglio ad attendere alle proprie faccende quotidiane, anziché avere la presunzione di preoccuparsi dei destini del mondo».

 Finché il fascismo , lungi dall’essere riguardato come la negazione di ogni valore (il Male assoluto), non verrà visto come la terra data alle fiamme per il trionfo di un valore unico–‘l’unità e la potenza della nazione’–sarà difficile recuperare un qualsiasi senso della patria. Quest’ultimo è possibile solo se ci si decide di assumersi collettivamente la responsabilità di quanto è accaduto nel demonizzato ventennio, se si riconosce che il fascismo fu un vulnus per la democrazia liberale ma che a prepararlo furono tutte le ‘familles spirituelles’ del paese. I cattolici che. mai del tutto riconciliati con lo stato nazionale, non vollero unirsi ai socialisti di Turati per salvare lo Statuto albertino; i liberali di governo che, come ricordava Rosario Romeo, furono incapaci di imporre la legge e l’ordine nelle piazze, per viltà e/o per opportunismo; le sinistre che ‘volevano fare come la Russia” occupavano le fabbriche, mettevano a soqquadro leghe padronali e sindacati bianchi; gli intellettuali memori del carducciano ‘ahi non per questo’—ovvero ‘non per. questo corrotto regime parlamentare s’è fatta l’Italia’.

 Nel nostro paese, la destra, se liberale, ripete stancamente con Croce che il fascismo e il nazionalismo sono i nemici più pericolosi della patria; se conservatrice o tradizionalista, si limita a riconoscere che le leggi razziali e l’Asse Roma-Berlino furono colpe inespiabili del regime. Nessuna delle due, né la destra liberale né la destra conservatrice, sembra voler acquisire la consapevolezza che il fascismo è stato ‘cosa nostra’, sia di quanti lo hanno sostenuto sia di quanti lo hanno combattuto, e che, per liberarsene davvero, occorre metterne a fuoco le negatività—certo innegabili e inespiabili—ma anche le ragioni storiche e le motivazioni ideali. La destra così gioca in ‘difesa’—non abbiamo nulla a che fare col fascismo. soprattutto con quello della seconda metà degli anni trenta—e la sinistra ‘all’at-tacco’—siete, consapevolmente o meno ,fascisti, sovranisti e populisti e quindi inaffidabili. Una partita deprimente destinata a dividere sine die gli italiani e a distruggere per sempre ogni barlume di amor di patria. Però, caro Feltri, non dare la colpa solo a una parte politica. La sinistra, leggendo le tue pagine sul declino dell’amor patrio, potrà sempre dire: “a ciò non fu’io sol”.

L’eterna illusione liberale

2 Novembre 2023 - di Dino Cofrancesco

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Luca Ricolfi è un analista politico che ha scelto “il lavoro intellettuale come professione” e lo pratica seguendo la lezione di Max Weber. ”Sì rade volte, Padre, se ne coglie” nel nostro paese in cui gli scienziati politici, che collaborano ai grandi giornali, sono diventati  banditori al servizio dei partiti  o dell’establishment politico-culturale. Nell’editoriale del  ‘Messaggero’ del 27 ottobre u.s., “Conoscere le culture per lavorare per la pace”, ha scritto che dovremmo fare uno sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi” per renderci conto “che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società ’durkheimiane’ in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione”. Non si può che essere d’accordo. E tuttavia bisogna stare in guardia dall’eterna illusione liberale che i due opposti, la ‘comunità chiusa’ dei potenziali martiri della fede e la ‘società aperta’, la società degli individui, siano i due brodi di coltura alla base dello Stato autocratico, teocratico, totalitario etc., nel primo caso, e dello stato democratico, liberale, tollerante nel secondo. In realtà, “ ci son più cose in cielo e in terra  di quante ne sogni la filosofia” occidentalista. Lo Stato liberale classico non guardava agli individui, uti singuli, ma alle persone nella ricchezza delle loro determinazioni storiche, culturali, etiche. Era lo Stato, sì, al servizio delle persone, e non viceversa, ma essere al servizio delle persone non significava soltanto garantire ai cittadini la ricerca della felicità ovvero le libertà civili e politiche e il perseguimento dei loro interessi privati ma proteggere, custodire, arricchire le tradizioni e le  istituzioni all’interno delle quali “ci si sentiva a casa”, per citare Isaiah Berlin. Non si muore per la Francia perché in Francia ognuno può arricchirsi e dire liberamente la sua: anche in altri paesi europei questo accade e, forse, meglio che a Parigi o a Marsiglia. Il dramma dei paesi euro-atlantici è il venir meno delle motivazioni ideali che portano la gente a sacrificare vita, tempo e denaro per  una causa. Sennonché le civiltà fondate sull’individualismo libertario e mercatista non soprav-vivono a lungo.

L’Occidente e il deficit di cultura liberale – Una risposta a Marcello Veneziani

23 Ottobre 2023 - di Dino Cofrancesco

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I. Su ‘La Verità’ del 13 ottobre u.s., Marcello Veneziani ha scritto un lungo articolo, in realtà, un vero e proprio saggio storico-filosofico, sull’Occidente peggiore nemico di se stesso. In esso manifesta tutto il disagio di chi, come lui, da un lato, “ama la civiltà da cui proveniamo” e dall’altro  “detesta la sua decadenza e il suo rinnegamento”. Il primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnica, “l’assenza di valori salvo i codici woke, black o politicamente corretti” a suo avviso non sono  valori  per cui vale la pena ancora battersi. L’Occidente “che rinnega la sua civiltà, la sua identità e le sue radici greche, romane e cristiane” è un’idea da accantonare. L’occidentalista – di cui  abbiamo tanti esempi sui grandi giornali, soprattutto tra gli scienziati politici divenuti quasi tutti predicatori delle crociate ‘antifasciste’(!) – alla fine difende “solo il suo livello di benessere e la sua potenza, rinunciando a tutto il resto, mettendo a rischio pure la libertà e la democrazia”.

E’ un discorso che non può non far presa su un liberale ‘ottocentesco’, come lo scrivente, per il quale la ‘comunità politica’(ieri lo stato nazionale, domani chissà cosa) non è la nemica dei diritti civili e politici, né della logica del mercato ma costituisce il sostrato terreno che sostiene gli uni e l’altra sicché il suo dissolvimento nell’embrassons nous universalista non rappresenta un progresso ma il temuto trionfo del nichilismo. Condivido anche quanto dice Veneziani in polemica con chi “risolve tutto agitando senza indugi le bandierine del momento, quella ucraina, quella israeliana, come fa il presente governo; accetta l’elementare manicheismo dei media e dei soggetti più forti d’Occidente, non si pone domande critiche, non riconosce i precedenti e i presupposti, non vede le cose da più punti d’osservazione, non calcola gli effetti a lungo raggio, i dolori e i risentimenti di rivalsa che suscita. Divide in assoluto tra vittime e carnefici, senza porsi il problema se i carnefici di oggi sono le vittime di ieri e viceversa; è più facile il messaggio e magari è più vantaggioso, anche sul piano personale” Per chi ama la realtà e la verità e ha a cuore alcuni principi, avverte Veneziani, non ci sono soluzioni semplici e unilaterali al grande conflitto planetario esploso dopo l’invasione russa dello stato ucraino (sovrano e multinazionale) ieri e alimentato a dismisura oggi dall’attentato terroristico di Hamas. Personalmente ritengo che i tagliagole islamici si sono abbandonati a tali atti di crudeltà da far impallidire gli stessi guardiani nazisti dei Lager che incolonnavano uomini, donne, bambini verso i forni crematori ma non infierivano sui loro corpi, non decapitavano bambini, non si esaltavano nel versare il loro sangue. E un discorso analogo va fatto per il comunista Pol Pot che erigeva piramidi di teschi ma si asteneva (sembra) dall’uccidere i bambini. Se fossi un dirigente israeliano non avrei alcuna difficoltà ad applicare ai responsabili dei massacri nel kibbutz Be’eri  la Legge Eichmann, perseguitandoli in ogni angolo del mondo, per poi impiccarli e disperderne le ceneri nel Mediterraneo. Detto questo, però, sono d’accordo anch’io con le conclusioni dell’articolo: “sconfiggere il terrorismo di Hamas è una priorità da condividere, ma il programma non può essere solo la salvaguardia di Israele, sacrosanta, senza considerare la necessità di garantire la vita al popolo palestinese e dar loro uno stato e un territorio. Le frustrazioni e i diritti elementari negati armano gli estremismi e minano il futuro assai più delle trattative e dei negoziati”.

C’è però un punto – cruciale – in cui mi sento di prendere le distanze da Veneziani. Le società occidentali, a suo avviso, ormai condizionate dall’individualismo, dal benessere, dal mercato non hanno altri valori. Posso essere anche d’accordo a patto di aggiungere che, però, hanno una risorsa che manca nel resto del mondo: la libertà di parola, il diritto al dissenso e a far mancare la propria cooperazione al potere. Abbiamo milioni di difetti noi euro-occidentali ma  la libertà di dire nonon ce la toglie nessuno, nonostante  i duri colpi che a tale libertà danno il politicamente corretto e una political cultureche, in Italia ad esempio, in nome dell’antifascismo, dell’antisovranismo, dell’antipopulismo cerca vanamente di mettere a tacere ogni voce fuori dal coro. Se dovessi fare un’ipotesi sulle ragioni di tale risorsa, non le troverei nella dimensione culturale – sovrastrutturale, avrebbe detto il vecchio Marx – ma in quella sociopolitica. Siamo privilegiati del destino giacché, nella nostra parte di mondo, i vari poteri che cementano la coesione sociale – quello spirituale, quello politico, quello economico: oratores, bellatores, laboratores – non sono stati mai monopolizzati da nessuna autorità superiore. E i regimi totalitari (ma anche autoritari) che hanno tentato di farlo sono finiti sempre male. E’ questa base storica oggettivamente ‘ingovernabile’ la garante delle nostre libertà non le retoriche partorite nelle menti degli intellettuali, oggi sedicenti tutti liberali. Questo è vero, soprattutto, del nostro paese in cui l’identità politica è sempre stata un’identità polemica e l’ “altro” è una figura che non si può certo eliminare – la Costituzione sta lì a salvaguardia di tutte le parti in conflitto – ma si può sempre delegittimare moralmente e culturalmente.

II. L’ideale di tanti politici e intellettuali, da noi,  è quello di monopolizzare la legittimità politica, lasciando fuori dalla sua area gli attori, per varie ragioni, poco rispettabili. Sennonché, fino a quando si può votare liberamente le divisioni sociali ‘strutturali’ non consentiranno mai tale appropriazione indebita. Negli anni in cui, in seguito a Mani pulite, la sinistra sembrava ormai venire incontro alle aspettative del paese e pronta a insediarsi nei palazzi del potere chissà per quanti anni, la gioiosa macchina di guerra di Achille Occhetto venne fatta a pezzi da una maggioranza silenziosa che aveva interessi e valori da tutelare molto diversi da quelli che parevano ormai prevalenti e vincenti. L’esempio più emblematico dell’impossibilità di una parte della classe politica di identificarsi con le istituzioni, mettendo alla porta tutti i concorrenti, è la costituzione del PD nel 2007. Conosco non pochi esponenti del PD degni di stima e per i quali  sarei tentato di votare, se li avessi nel mio collegio elettorale ma tale considerazione non m’impedisce di  metterne in luce il fondo inconsapevolmente ‘totalitario’ se non ‘integralistico’ in una delle due accezioni del termine, riferita a “ogni concezione che, in campo politico (ma anche sociale, economico, culturale), tenda a promuovere un sistema unitario, ad abolire cioè una pluralità di ideologie e di programmi, sia appianando contrasti e divergenze tra gruppi contrapposti e conciliando tendenze ideologiche diverse”. Esponendo nelle sezioni di partito i ritratti di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi i fondatori del PD, in sostanza, si ponevano come asse portante del sistema politico dal momento che nel comune contenitore ideologico (assolutamente inedito nella storia della democrazia in Europa) confluivano le due ‘scuole di pensiero, la cattolica e la comunista, divenute, nel secondo dopoguerra. le aziende più importanti – a livello sindacale, sociale, culturale – del mercato politico nazionale. Saltavano così le linee divisorie garanti di quella dialettica politica che, nelle democrazie a norma, prevede una maggioranza di governo e una minoranza di opposizione, nonché l’alternanza di ruolo in seguito al responso delle urne. Le forze che si coagulavano attorno al PCI e alla DC, espressione dei diversi interessi e valori in competizione nelle società aperte, univano le proprie risorse ma senza poter rispondere alla domanda: chi sarebbe rimasto fuori da questa union sacrée e come considerarlo? Se il meglio delle tradizioni politiche nazionali si era fuso nel PD, quale legittimità poteva ancora rivendicare una forza di opposizione? Riappariva un vecchio costume di casa, quello di declassare gli avversari nella lotta per il potere a nemici del bonum commune e delle istituzioni, naturalmente, per il PD, quelle nate dalla Resistenza e dalla lotta antifascista.

Sennonché le masse non hanno premiato quanti proclamavano che la salus rei publicae suprema lex esto e di quella salus se ne facevano custodi e medici, sicché nell’impossibilità di disarmarli di nuovo con un ‘governo di tecnici’ si è tentati di seppellirli sotto la solita valanga di accuse—fascismo, sovranismo, populismo, nazionalismo, antieuropeismo etc. Col risultato di far dimenticare le reali pecche dell’esecutivo di centro-destra e le proposte di leggi sbagliate o abortite.

III. Dovrebbe essere chiaro il senso di questa digressione, sine ira ac studio, sul PD. E’ il ‘costume’ politico che m’interessa non le battaglie che non finiscono mai tra una sinistra (che si crede votata dalle persone per bene) e una destra (per definizione poco raccomandabile). Ciò che intendo ribadire è molto semplice: almeno in Italia, per la salvaguardia del bene più prezioso per un liberale, la libertà – di parola, di associazione, di critica etc. – non c’è da fare alcun affidamento sulla political culture, insegnata nelle Università, propagata dai mass media. Il liberalismo alla Isaiah Berlin, alla Raymond Aron ma anche alla Benedetto Croce è un’esile pianticella esposta alle tempeste di una lotta politica, de facto, senza regole. A garantire le nostre libertà sono le nostre divisioni storiche, il fatto che la società civile è da sempre dilacerata, sicché a nessuna parte è consentito di unificarne, sotto il suo controllo, tutte le risorse, ideali e materiali. Non è quanto passa nelle menti dei filosofi politici, degli scienziati politici, degli storici ’impegnati’ a rassicurarmi sulla tenuta delle nostre libertà. Ormai si dicono tutti ‘liberali’ anche quanti scrivono sul ‘Domani’ o sul ‘Manifesto’—“quotidiano comunista” ma de facto sono i guerrieri nascosti nel cavallo di Troia (forse inconsapevolmente) per mettere a sacco e  a fuoco la ‘società aperta’.

E’ l’anarchia–nel senso della mancanza di un’autorità spirituale e temporale suprema– che ci protegge: le nostre libertà nascono negli interstizi di corposi interessi materiali in insanabile con-trasto e di ideali – legati al passato o proiettati nel futuro – che non intendono lasciarsi assorbire.
Tutto questo, agli occhi di un tradizionalista come Veneziani, può essere desolante: significa, infatti, che non ci sono ‘valori comuni’ a tenerci uniti – il tentativo di crearne fatto dal fascismo finì nelle leggi razziali, nell’alleanza con Hitler, nella catastrofe bellica – ma ci sono crepe antiche che ci consentono di raggiungere una barricata se in un’altra ci sentiamo poco protetti.

Quanto può durare tutto questo? E’ difficile dirlo. In ogni caso, non resta che rassegnarci, pensando al privilegio che nessuno ci ha ancora tolto e su cui non poteva contare Trilussa, sotto il regime fascista, quando scriveva nel sonetto All’ombra (riportato poi nel monumento a Trastevere a lui eretto del 1954): Mentre me leggo er solito giornale/ spaparacchiato all’ ombra d’un pajaro/ vedo un porco e jè dico: Addio maiale./ vedo un ciuccio è je dico: Addio somaro./ Forse ste bestie nun me capiranno /ma provo armeno la soddisfazione de potè di le cose come stanno/ senza paura de finì in prigione”. Oggi non finiamo in prigione neppure se critichiamo (lo fanno pochissimi) il Presidente della Repubblica per le sue omelie antifasciste fuori stagione. Indubbiamente, il con-flitto tra potentati non protegge il dissenziente da sanzioni indirette, talora pesanti, comminate dall’establishment. A un Roberto Vivarelli che avesse scritto l’esemplare, civilissimo, saggio  La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Ed. Il Mulino 2000) nessuno avrebbe garantito il più che meritato cursus honorum accademico  .

Tanti anni fa l’allora direttore de ‘La Stampa’, il compianto Arrigo Levi, a Domenico Settembrini, autore di un articolo in cui si criticava Palmiro Togliatti, faceva notare. ”Caro Professore si rende conto delle migliaia di operai comunisti che lavorano per la Fiat e del fatto che un giornale della Fiat non può pubblicare  una critica così dura del leader del PCI?”. C’erano, però, altri quotidiani che avrebbero ospitato (e ospitarono) gli articoli di Settembrini giacché la libertà di stampa nel nostro paese non è mai venuta meno. E’ vero, erano quotidiani meno letti de ‘La Stampa’ sennonché bisogna prendere atto che, in Italia, il pubblico di lettori moderati o conservatori è molto meno numeroso di quello della sinistra – basta entrare in una Libreria Feltrinelli per rendersene conto. Delle ‘due culture’ nazionali quella progressista recluta più proseliti di quella liberal-conservatrice ma la colpa non è sicuramente della mancanza di libertà. Liberi son tutti e se le risorse a disposizione sono ineguali dipende anche dall’ incapacità a reperirle – o forse meglio  dalla  sottovalutazione del momento culturale come fabbrica del consenso. In fondo la woke culture da noi non infierisce come negli Stati Uniti. E nessuno può neppure immaginare di mettere il bavaglio a Marcello Veneziani.

[Intervento uscito sul blog del ‘Corriere della Sera’ La nostra storia, di Dino Messina]

 

Vecchio fascismo duro a morire…

8 Ottobre 2023 - di Dino Cofrancesco

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“Giorgio Napolitano, ho letto su un quotidiano di area liberalconservatrice,  è stato una figura divisiva, ma non si meritava la mancanza di rispetto che gli hanno tributato alcuni tifosi in diversi stadi italiani. Il presidente emerito della Repubblica è venuto a mancare a 98 anni lo scorso venerdì: per onorare la sua memoria era stato disposto dalla Figc il classico minuto di silenzio, da rispettare prima dell’inizio delle partite”. Non è difficile immaginare i volti delle componenti canagliesche  delle tifoserie e soprattutto di quella laziale che un Federico Fellini redivivo avrebbe ripreso, con sadico piacere, in un documentario aggiornato sulla capitale. Facce feroci e grottesche, insulti triviali, canzonacce oscene nel fetore sudaticcio di corpi scalmanati. E tuttavia, dispiace dirlo al direttore del quotidiano, il problema è un altro. Ed è quello del fascismo—davvero Ur Faschismus per citare il peggiore Umberto Eco—che in Italia sembra non tramontare mai. In un vecchio film di Mario Mattoli, Totò Fabrizi e i giovani d’oggi (1960) Totò viene schiaffeggiato dalla camicia nera Aldo Fabrizi perché non si è tolto il cappello al passaggio delle bandiere e dei gagliardetti fascisti. A pensarci bene, è l’essenza della dittatura: obbligare tutti a venerare i simboli del potere, anche se l’ossequio è soltanto formale. Quanti si ritrovano insieme, senza conoscersi e solo casualmente, ad es., per acquisti al supermercato, per sentire un’opera, per assistere a una partita di calcio, per un minuto, debbono diventare una comunità di destino, sentirsi figli e fratelli d’Italia, obbligati a onorare i grandi che hanno lasciato questo mondo.E’ ancora viva in molti liberali l’indignazione suscitata da Maurizio Pollini alla Scala di Milano quando prima di eseguire le sonate di Chopin in programma, lesse un manifesto di condanna dell’aggressione degli Stati Uniti al Vietnam. Gli spettatori, si disse, avevano acquistato il biglietto per ascoltare musica non per essere indottrinati dal pianista contestatore. Il caso della scomparsa di un personaggio pubblico certo, è diverso ma, lo confesso, mi è difficile capire perché lo sia tanto. Uno stato democratico e liberale può—anzi    è tenuto a—indire grandi manifestazioni pubbliche per ricordare gli statisti che hanno segnato un’epoca ma non può pretendere che, per citare una famosa storiella, si commuovano tutti, anche quanti appartengono a una parrocchia diversa da quella del de cuius.

Se Napolitano è stato una figura divisiva—e su questo non ci piove, basterebbe ricordare la nomina di Monti a senatore a vita, ancor prima del  ‘servizio reso all’Italia’—perché obbligare tutti a sentirne le lodi? Lo si celebri pure nelle scuole pubbliche ma senza costringere tutti gli alunni a sentire le parole alate degli apologeti ufficiali. Il minuto di silenzio negli stadi deciso dalla FIGC, francamente, mi è parso incomprensibile, non ricordando altri casi, di grandi protagonisti della vita pubblica ai quali siano stati tributati analoghi omaggi. Se nel 1964 questi ultimi fossero stati riservati dai Signori del pallone a Palmiro Togliatti–che non ricopri certo la più alta carica istituzionale dello Stato anche se fu titolare del Ministero di Grazia e Giustizia  e comunque,  protagonista indiscusso della vita politica, diede un notevole contributo alla stesura della nostra Carta Costituzionale, le varie tifoserie sarebbero state costretto a osservare il minuto di silenzio? Anche i neofascisti, i parafascisti, i picchiatori della suburra che avevano esultato per la  sua morte?

 La FIGC non è stata solo imprudente ma ha rivelato un poco rassicurante costume di casa: la pretesa che tutti debbano sentire profondamente i ‘valori’ di un regime politico e le ‘narrazioni’ (che brutto termine!) fornite dalle autorità. Dal Presidente della Repubblica al Pontefice Romano, dai pennaruli dei grandi quotidiani nazionali ai filosofi, giuristi, economisti dell’establishment, il ritratto ufficiale  di Napolitano è l’unico vero e guai a metterlo in discussione. E’ la stessa logica che fa dire al Primo Cittadino dello Stato che il fascismo è stato una dittatura spietata, feroce e sanguinaria e che ogni tentativo di metterne in evidenza i tratti positivi denuncia una preoccupante immaturità democratica e liberale.

 Per non essere frainteso, credo anch’io che insolentire  quanti commemorano un politico ieri avversato sia da condannare nella maniera più assoluta. Se qualche gruppo di sciamannati disturbasse, ad es., una grande manifestazione a Piazza del Popolo per ricordare l’illustre scomparso, le forze dell’ordine dovrebbero intervenire senza alcun riguardo contro i provocatori, il cui ‘stile fascista’ sarebbe dimostrato dall’odio per quanti hanno idee diverse dalle loro sull’Italia, il suo passato, il suo futuro.

 Una ‘società aperta’, però, deve guardarsi dall’esigere l’uniformità ideologica, il pensiero unico. Non c’è bisogno di cittadini che la pensino alla stessa maniera sui grandi problemi della storia e della politica nazionale. L’essenziale è che tutti rispettino la Costituzione, riconoscano le libertà civili e politiche da essa garantite e che l”agire esterno” sia l’unico a essere tenuto in conto. Ma, soprattutto, bisogna porre al vertice della piramide liberale la libertà di parola, ben più importante della ’verità’: nelle faccende umane infatti, non si sa cosa sia la seconda (“quid est veritas?”) mentre si sa bene cosa sia la prima. Oggi chi è di diverso parere rispetto alle veline ufficiali non viene certo riguardato come un trasgressore delle leggi ma delegittimato moralmente e squalificato intellettualmente come persona non degna di rispetto. Ha scritto Massimo Giannini su ‘La Stampa’ del 24 settembre u.s., Re Giorgio e l’Italia orfana di una destra repubblicana,  “Nella cerimonia degli addii a Napolitano, più profondo del dolore c’è solo lo sgomento per la reazione glaciale col quale la destra politica e giornalistica regola i suoi conti con questo Servitore dello Stato. In Parlamento i patrioti tacciono, riparandosi dietro al comunicato di Giorgia Meloni che, stitico e burocratico, trasuda gelo puro da ogni riga. In redazione gli squadristi bastonano, inchinandosi “di fronte alla sua morte ma non alla sua vita”. Intorno al feretro di Re Giorgio si celebra, postuma, un’odiosa luna di fiele”.  Non condividere l’elogio del ‘caro estinto’—il riferimento è a un editoriale di Alessandro Sallusti—significa essere uno squadrista armato di manganello. Ci sono italiani che hanno nostalgia del fascismo (una minoranza in via di estinzione) ed altri che ne hanno della guerra civile e fanno di tutto per tenerla accesa.

Il censore della nostalgia

7 Settembre 2023 - di Dino Cofrancesco

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Commentando il ‘discusso libro’ del generale Roberto Vannacci, Corrado Augias, uno dei terroristi della mente in servizio permanente effettivo sulle colonne di ‘Repubblica’, dopo aver ricollegato Il mondo al contrario al clima di esaltazione delle ‘famigerate SS naziste’, ironizza sulla nostalgia del mondo di ieri che cola dalle pagine del saggio. Rimpiangere l’Italia che fu significa ignorarne l’arretratezza, la diffusa povertà, i diritti civili inesistenti, il divorzio da conquistare a colpi di pistola, il delitto d’onore, l’assistenza sanitaria rudimentale. ‘E’ inutile polemizzare col presente tanto più se si considera la portata rivoluzionaria del passaggio in corso, dalla cultura della carta a quella digitale’. Sono preziose stille di saggezza! E tuttavia, vorremmo chiedere all’onnipresente columnist, è un reato ritenere che l’Italia di Pane amore e fantasia avesse anche positività perdute? Cercare di conservare qualcosa del passato è un reato di lesa modernità? Parlare di “bellezza del nucleo familiare tradizionale” comporta l’esposizione alla gogna mediatica? Forse è ingenuo voler ritornare al mondo pre-68 ma non si vede perché si debba essere obbligati a guardare al passato come a un blocco compatto in cui, ad es., il positivo (assenza di ballo con sballo) era indissolubilmente unito al negativo (l’autoritarismo familiare) e la meritocrazia era unita a una Università che teneva lontane le masse. In ogni caso, i valori legati al passato stanno sullo stesso piano di quelli che guardano al presente e al futuro e, in democrazia, quel che conta è la diversa risonanza che hanno negli animi dei cittadini. Il pluralismo – quello vero di Isaiah Berlin – è proprio questo: abbiamo idee diverse in campo morale, politico, sociale, bioetico, culturale e tali idee vanno rispettate tutte, dal momento che nessuna scienza è in grado di disporle in ordine gerarchico. Se quello che pensa il generale Vannacci è condiviso in tutti i bar d’Italia, Augias se ne faccia una ragione: vuol dire che la maggioranza dei nostri connazionali si riconosce in una etica tradizionale piuttosto che in quella illuministico-cosmopolita degli opinion makers di ‘Repubblica’. Toglieremo il voto ai retrogradi o li sottoporremo a una rieducazione di massa?

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