Contro il piagnisteo della crisi della democrazia rappresentativa

Tira una brutta aria sulla democrazia rappresentativa: è un mezzo di locomozione che sembra essersi inceppato per guasti tecnici, la cui identificazione non trova affatto d’accordo giuristi, scienziati politici, opinionisti, filosofi del diritto, sociologi. Il populismo che dilaga dovunque in Europa e non risparmia l’America «la “pancia” dell’America bianca e xenofoba ha portato Donald Trump alla Casa Bian­ca»: è la discutibile diagnosi di uno dei nostri più accreditati storici contemporaneisti, Valerio Castronovo nell’articolo Popolo versus élite, ‘Il Sole 24 Ore’ 25 marzo 2018—porta a rispolverare i luoghi comuni che da più di duemila anni, a partire dal vecchio Platone, si riversano sul governo del demos. Non vorrei essere equivocato: neppure a me piace sempre come vota il popolo così come non mi piacciono gli inverni troppo rigidi e le estati troppo torride: non riesco a capire, tuttavia, che cosa si abbia in mente quando si auspica un nuovo modello di rappresentanza che rispecchi davvero la volontà del cosiddetto ‘paese reale’. L’unico discorso serio da fare, a mio avviso (ma non ho la verità in tasca, giacché in politica non ci sono verità ma solo opinioni), riguarda i sistemi elettorali ovvero quelli che bloccano la locomotiva e quelli che sono in grado di garantire a una maggioranza di governare. Di questi ultimi ne conosco solo due: il proporzionale con forte sbarramento (preferibilmente al 5%) e il maggioritario (preferibilmente senza doppio turno). È il pasticcio tra i due che in Italia ha portato all’impasse in cui ci troviamo attualmente, con un Quirinale che non sa che pesci prendere dal momento che nessun partito e nessuna coalizione è in grado di formare un governo.

Paolo Becchi, il filosofo del diritto ieri vicino al M5S oggi, non senza una certa coerenza, vicino a Matteo Salvini ed editorialista di ‘Libero’, sul ‘Secolo XIX’ del 4 maggio, in un articolo su I limiti della democrazia rappresentativa, ne ha dedotto che bisogna rimeditare la lezione del grande giurista tedesco Carl Schmitt, che vedeva nel principio fondamentale su cui si fonda lo Stato democratico, quello della rappresentanza, un limite. Becchi, che può considerarsi il più fine esegeta italiano di Schmitt, ne spiega così la tesi: se due partiti in competizione raggiungono il 48%, a decidere il governo del paese sarà quel 4% che, col suo etto in più farà prevalere un piatto della bilancia sull’’altro. Sinceramente non vedo lo scandalo: nella vita degli individui, come in quella dei popoli, è sempre un qualche punto in più che assicura la salvezza o condanna alla perdizione. Non si contano nella storia le ‘buone cause’ che hanno trionfato grazie a un esiguo spostamento di voti in una situazione di stallo.
Aggiungo che il 4% può essere determinante in un sistema proporzionale—come si è visto nella Prima Repubblica quando lo spostamento delle piccole percentuali di voto dei partiti laici minori poteva segnare il destino dei governi. Nei sistemi uninominali e soprattutto in quello più affidabile—senza doppio turno—si vince o si perde nettamente e la partita si gioca, sostanzialmente, in due: saranno poco rappresentativi ma assicurano la governabilità.

Come si rimedia allora? Con l’epistocrazia, ovvero col governo degli uomini «dotati di molta saggezza per ben discernere, e molta virtù per perseguire il comune bene della società»? Tra i maestri più cari che ho avuto all’Università—storici, filosofi, letterati, giuristi—non ce n’è uno che nel 1948 non abbia votato per il Fronte popolare e furono solo le masse ignoranti, per lo più contadine, e le vecchiette terrorizzate dai preti (secondo un vieto stereotipo) ad evitarci il destino di ‘paese satellite’.

In realtà, votare significa sempre dire con la scheda se si è contenti o meno dei partiti che hanno governato il paese. È come comprare un paio di scarpe: non si richiede competenza in fatto di suole e di tomaie ma solo se calzano bene al piede.

«Se le cose stanno così», per citare Sergio Endrigo, non  si  rimedia agli errori del demos proponendo di legare—come è stato fatto da autorevoli giuristi in perenne ricerca di allori—l’ art. 48 della Costituzione, che esclude i cittadini dal voto in caso di ’incapacità civile’ o di indegnità morale (indicata dalla legge), all’art.3 secondo il quale la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». In sostanza, Sabino Cassese, che ha fatto questa bella pensata nell’Introduzione all’importante libro di Jason Brennan, Contro la democrazia (Ed. Luiss), propone di dare un contenuto concreto a espressioni come ‘incapacità civile’ e ‘indegnità morale’ in modo da sostituire adeguatamente quei criteri di censo e di istruzione che, in una società democratica di massa, non potrebbero venir fatti valere (e meno male! se si pensa al su ricordato 1948 quando ‘la classe dei dotti’, se avesse imposto la sua ‘superiore saggezza’, avrebbe trascinato il paese nell’abisso). Una casa confortevole, un buon lavoro, un’esistenza agiata dovrebbero essere i nuovi requisiti di competenza, garanti della epistocrazia. Siamo alle solite, all’investimento politico e morale sull’eguaglianza sostanziale—‘termine fisso d’eterno consiglio’ della sinistra anticapitalista—cui si affida il compito di assicurare l’epistocrazia. Sennonché, poiché i tempi non sono brevi, se non intervenissero le elite sagge e responsabili, correremmo il rischio di ritrovarci per chissà quanto una democrazia degli incompetenti, suscettibile di essere vampirizzata dal populismo e dal sovranismo—«brutte parole a cose più brutte», per parafrasare la definizione che del trasformismo dava il brontolone Giosuè Carducci. In altre parole, nel frattempo, ci si rassegnerà alla democrazia guidata dai sacerdoti della Resistenza e dell’antifascismo che ci ricordano come la nostra Costituzione si sia ispirata alla solidarietà sociale che la ‘libertà negativa’ pone al servizio della ‘libertà positiva’ e fa della democrazia formale l’abito che deve rivestire il corpo robusto della democrazia sostanziale.

Si racconta che l’ultimo desiderio di un napoletano condannato a morte fosse quello di imparare a suonare il pianoforte: «ce vedimm tra vint’anne!» pare che gli avesse detto Tata maccarone, il Re bonario, spietato solo con i liberali e i costituzionalisti. Se per avere nuovi competenti, nel senso di Cassese, dobbiamo aspettare la completa attuazione dell’art. 38—che poi non si sa cosa significhi giacché quell’articolo non stabilisce un diritto preciso, ad es., all’habeas corpus (peraltro incerto nella nostra Magna Carta) ma delinea un programma—‘campa cavallo’ giacché gli anni di attesa non saranno proprio venti ma qualcuno in più.

No, teniamoci, questa sgangherata e deludente democrazia rappresentativa: come diceva Maurice Chevalier della vecchiaia, una democrazia, pur se malata cronica, è una brutta cosa ma c’è di peggio…: e, in ogni caso, non sappiamo affatto con cosa sostituirla. Se un tecnico di elevato profilo (ma ce ne sono? O meglio esistono davvero tecnici neutrali au dessus de la melée politica? Lo era, forse, Mario Monti? Lo sarebbe Sabino Cassese, Summus Laudator di Gustavo Zagrebelsky?) riesce a ottenere la maggioranza in Parlamento, teniamoci pure il governo del Presidente, anche a me indigesto sotto il profilo etico-politico ma ineccepibile sotto quello giuridico e costituzionale, anche se Lega e M5S per ragioni di bottega sostengono il contrario, giacché in Parlamento i rappresentanti si contano, non si pesano, così come accade, del resto, per i voti depositati dai cittadini nelle urne elettorali. Che se poi le forze politiche dovessero accordarsi sul ritorno alle urne con un’altra, più saggia ed efficace, legge elettorale, non potremmo non intonare il Te Deum!

Postilla sul ‘Foglio’ e Sabino Cassese

Ampi stralci dell’Introduzione di Sabino Cassese al saggio di Jason Berman sono stati pubblicati non da ‘La Repubblica’ o dal ‘Fatto quotidiano’ ma dal ‘Foglio’, un periodico di area liberale. Nessuna censura, per carità: l’azionismo è un momento importante della political culture italica e, con il tramonto del marxismo, è diventato la cultura politica egemone. Ma se Giacomo Matteotti diceva ‘i socialisti coi socialisti, i comunisti coi comunisti’, i liberali–quei pochi sopravvissuti nel nostro paese–dovrebbero dire: ‘i liberali coi liberali, gli azionisti con gli azionisti’. Che un periodico spregiudicato e bucaniere come ‘Il Foglio’—e che nonostante tutto è uno dei pochi giornali italiani che valga la pena acquistare in edicola—non si renda conto che la ‘filosofia del diritto’ di Cassese è la stessa degli Zagrebelsky e dei Rodotà, ovvero è quella filosofia che, per dirla in sintesi, vorrebbe costituzionalizzare i ‘diritti sociali’, è il segno della grande confusione ideologica che da noi continua a inquinare il dibattito pubblico, politico e culturale, e che, forse, risale all’incolpevole Piero Gobetti (incolpevole perché, morto ammazzato troppo giovane, non fece a tempo a elaborare una teoria politica più organica, meno ‘impressionistica’ e più disposta a prendere in considerazione il momento totalitario del comunismo, sia sovietico e leniniano che italiano e gramsciano). Qui non si tratta di essere a destra o a sinistra. Come ho scritto e spiegato tante volte, a sinistra si può essere a favore delle più ardite leggi sociali (anche di una legge che desse gratuitamente una casa a tutti) senza per questo volerle blindare in articoli della Costituzione e, a destra, si può limitare drasticamente, per ragioni di pubblica utilità, il diritto di proprietà, senza riguardarlo come un «terribile diritto» come faceva la buonanima di Stefano Rodotà. Ma voglio spingermi oltre e riconoscere francamente che in politica ci si può alleare strategicamente con tutti anche con la pars politica che fa capo a Sabino Cassese e che lega l’art.48 all’art.3. A patto, però, di non ricadere nella betise del settimanale americano ‘Time’ che, al tempo dell’alleanza con l’URSS, pubblicò in copertina una foto rassicurante di Lavrentij Berija con la didascalia: questo è il capo della NKVD, l’equivalente sovietico dell’FBI. Certo non mi sogno neppure lontanamente di marchiare un sincero democratico come Cassese con la falce e martello ma sarei confortato se qualcuno dicesse: «il re è nudo», Cassese è uno stimato giurista e un grande conoscitore del diritto pubblico e di quello amministrativo—e consideriamolo pure una ‘risorsa della Repubblica’—ma non appartiene certo alla razza di Luigi Einaudi o di Benedetto Croce.




Retoriche istituzionali

Ogni anno il 25 aprile, in Italia, diventa l’occasione per dare fiato alle trombe (ovvero ai tromboni) della Repubblica. Riti e atmosfere sono, sostanzialmente, quelli del vecchio sabato fascista: discorsi esaltanti conditi di speranze tradite ma non tramontate, appelli alle nuove generazioni perché «portino avanti» i valori di quanti contribuirono alla cacciata dello straniero e alla caduta della dittatura fascista, moniti agli amici dei tiranni, ‘mal seme d’Adamo’ che in settant’anni non s’è ancora trovato il modo di debellare. Alla rievocazione delle «giornate del nostro riscatto» seguono sempre regolarmente, passata la festa patriottica e resistenziale, le note dolenti su quanti non sembrano essere stati commossi dalla fusione comunitaria ma soprattutto sui giovani che non sanno nulla di fascismo e di antifascismo, di repubblichini e di partigiani e, quel che è peggio, sembrano ignorare la genesi e la natura della Costituzione italiana.

Alla culture of complaint non poteva non dare il suo contributo il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese, che, da qualche tempo, non c’è giorno che non ci propini distillati di saggezza in articoli e in interviste. Liberissimo di farlo e certo nessuno può dolersi se esercita un diritto sacrosanto—e riconosciuto a tutti i cittadini—di consiglio e di predica. È un diritto, però, che hanno anche i lettori, talora francamente perplessi dinanzi ad affermazioni poco meditate—per non dire brutalmente, infarcite di equivoci e luoghi comuni. Ne è un esempio la breve intervista, È fondamentale Sbagliato non avere insegnanti ad hoc, rilasciata al ‘Corriere della Sera’ il 28 aprile u.s. «L’insegnante di educazione civica—esordisce il professore giurista—oggi potrebbe essere la chiave per aiutare i ragazzi a combattere la diffusione dell’ignoranza e l’orgoglio dell’ignoranza». Un tale insegnante dovrebbe spiegare agli allievi che cosa è stato il fascismo, come esso abbia soppresso le libertà politiche, che cosa abbia rappresentato la Resistenza, perché bisogna fare del 25 aprile il nostro 14 luglio, perché la nostra è la Costituzione più bella del mondo. «Tranne gli istituti tecnici», lamenta Cassese, «l’educazione civica nelle scuole non è stata quasi mai insegnata». Se ne deduce che sono i periti chimici e industriali nonché gli aspiranti ai diplomi di infermiere, ottico, odontoiatra etc. ad avere un alto senso delle idealità repubblicane mentre i liceali di una volta, in mancanza di docenti ad hoc, rischiano di non sapere nulla di Mussolini, Togliatti, De Gasperi etc.

I testi di educazione civica non mancano, rileva Cassese, (esemplare quello di Norberto Bobbio e Franco Pierandrei, Introduzione alla Costituzione), mancano le materie, mancano i professori. «Le persone debbono sapere da dove arriviamo, com’è nata e in quale momento la Costituzione, devono conoscere le tappe principali dell’Italia». Si capisce poco, per la verità, perché questo compito non possa venire affidato ai professori di storia (obbligandoli, semmai, nel corso dei loro studi universitari, a sostenere l’esame di ‘Istituzioni di diritto costituzionale’) e tanto meno perché debbano essere i laureati in Giurisprudenza a illustrare «le tappe principali dell’Italia», dal momento che, nel loro piano di studi, non c’è un solo insegnamento di storia moderna e contemporanea. (Come si vede da certe affermazioni di PM e giudici ordinari, in dichiarazioni alla stampa o in frenetiche interviste). «Non basta spiegare le norme, bisogna immergerle nella vita concreta |…| bisogna far capire come funziona un partito, cosa sono i sindacati, le formazioni sociali come le Ong. E lo si deve fare con i dati statistici». Giustissimo ma non sono questi i ‘saperi’ dei sociologi e degli scienziati politici assenti, come si sa, nelle scuole medie superiori tradizionali?

Un insegnante di ‘educazione civica’ che sia insieme giurista, storico, sociologo, politologo, statistico, conoscitore profondo della ‘vita concreta’ poteva solo essere un parto dell’ideologia italiana da sempre nemica dei settori di studio specifici, richiedenti competenze specifiche. Cassese, indica al suo professore il corretto cammino didattico: «Nella prima lezione li porterei ad assistere a una seduta in Parlamento. Poi li porterei dentro la Corte costituzionale». E fin qui niente da dire purché si trovino insegnanti in grado di far capire alle scolaresche, in visita alle istituzioni, gli arcana del linguaggio giuridico della Consulta e le reali poste in gioco nei dibattiti tra i politici di diverso orientamento alla Camera o al Senato. È la terza stazione di pedagogia civica, invece, a destare qualche perplessità. «Quindi inviterei un sindacalista. Affronterei con loro temi cruciali come l’immigrazione, cercando di far capire perché lo straniero che vive legalmente qui ha diritto all’assistenza, ma non può votare». (Ho cercato di spiegare, in realtà, la ratio di questa presunta contraddizione ma non credo di poter convincere chi scambia i suoi valori per principi iscritti, giusnaturalisticamente, nell’ordinamento del cosmo).

Restiamo sempre, come si vede, nel campo dei ‘massimi problemi’ e di una filosofia dell’educazione all’insegna del saper tutto, che affida al docente la missione di risvegliare le menti, in vista della formazione non del ricercatore cauto, circospetto, tormentato dal que sais je? di Montaigne e dal dubbio scettico di Hume ma del cittadino attivo, ‘impegnato nel sociale’, bene intenzionato, dopo aver conosciuto il mondo—grazie semmai a quattro filmati televisivi—, a cambiarlo.

Siamo sempre lì, la demonizzazione della weberiana Wertfreiheit e dell’illusione di una conoscenza neutrale prelude a una scienza posta al servizio dell’etica, giusta uno stile di pensiero che, dal cristianesimo all’illuminismo, dal fascismo al comunismo impronta tutto il canone occidentale. Che la musica sia questa lo prova l’invito rivolto al sindacalista. Perché solo al sindacalista e non anche all’imprenditore? Non sono entrambi ‘parti sociali’ e la Repubblica non è fondata sul ‘lavoro’—sia manuale che intellettuale—e non sui lavoratori come avrebbe voluto (subdolamente) il PCI? Il sindacalista potrà ben esporre i problemi del lavoro che rientrano nella sua sfera di competenza ma l’imprenditore non potrà fare opera analoga, mostrando di che lagrime grondi e di che sangue fondare e dirigere una fabbrica oggi, con gli enormi condizionamenti costituiti dalle pubbliche amministrazioni, dalle banche, dalle politiche fiscali dei governi? Il fatto è che, per Cassese, le parti sociali non stanno sullo stesso piano giacché i sindacati rappresentano l’interesse generale mentre gli industriali perseguono soltanto il loro utile privato. Se è così, niente da eccepire: ognuno la pensi come vuole. Purché non si finga che lo ‘stile di pensiero’ di una parte politica—quella di Cassese, di Gustavo Zagrebelsky, del compianto Stefano Rodotà e degli odierni teorici dei ‘diritti sociali’— sia quello che deve ispirare le scuole di ogni ordine e grado della Repubblica e formare i cittadini del domani.




L’Italia termidoriana

Si è tentati di parafrasare una frase caustica di Winston Churchill: «Processi politici e sistemi elettorali lasciateli agli esperti che non ne azzeccano una», leggendo in questi giorni gli articoli dei ‘competenti’ che invitano il PD a non lasciare il tavolo di gioco, rinchiudendosi in una sterile opposizione. In realtà, l’opposizione ha una funzione cruciale nella democrazia rappresentativa—in Inghilterra, non a caso, si parla di “Opposizione di Sua Maestà”! —ed ivi è sempre, e per definizione, responsabile—ovvero non fa mai mancare il suo voto quando si tratta di misure e di leggi in cui ne va di mezzo l’interesse nazionale. Ma non è su questo che voglio richiamare l’attenzione bensì su un malcostume che potrebbe definirsi ‘termidoriano’ e che, in Italia, è stato profondamente interiorizzato. Esso consiste nell’elaborare strategie di controllo della volontà del popolo sovrano attraverso norme costituzionali e leggi elettorali che non gli consentano di mandare al governo formazioni politiche che potrebbero minacciare i valori e gli interessi supremi della Repubblica. I termidoriani facevano colpi di Stato e cambiavano le regole del gioco per neutralizzare ora maggioranze monarchiche (fruttidoro) ora maggioranze democratico-giacobine (pratile). Tutto questo poteva essere giustificato in anni in cui non si era ancora riusciti a terminer la Révolution ma in periodi normali costituisce un grave vulnus per la democrazia, che non ha bisogno di guide responsabili ma di uno Stato che, col suo pluralismo istituzionale (divisione dei poteri, indipendenza della Pubblica Amministrazione, libertà della stampa, magistratura etc.) impedisca a quanti ricoprono cariche di governo, in virtù dell’investitura popolare, di attentare ai diritti dei cittadini. Non sono gli avversari politici dei ‘partiti inaffidabili’ a dover stabilire chi e come deve andare a Palazzo Chigi ma unicamente gli elettori.

Maggioranze molto orientate a sinistra o a destra non possono essere stoppate da bizantini meccanismi elettorali—suggeriti dai mass media, dagli opinion makers, da figure politiche considerate, non si sa bene perché, ‘risorse della Repubblica’—ma da regole semplici e trasparenti, di sicura efficacia anche se non prive di inconvenienti–come tutte le cose umane, ahimé. Non essendo un political scientist, ne conosco solo due: il proporzionale con elevato sbarramento (al 5%) e il maggioritario puro senza doppio turno. Il primo avrebbe sconsigliato ieri l’innaturale connubio della Margherita con il partito post-comunista–dei nipotini di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi con quelli di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti–e oggi l’abbraccio (forse mortale) di Forza Italia con la Lega di Salvini. Il secondo avrebbe riportato al centro l’asse della vita politica italiana senza violare l’ethos della democrazia e il principio di maggioranza che ne è alla base.

Tra i due mi pare preferibile il maggioritario. Certo può parere ingiusto che su dieci partiti in competizione, vinca quello che ha ottenuto il 20% dei suffragi mentre gli altri nove che rappresentano l’80% dell’elettorato rimangano esclusi dalla stanza dei bottoni, avendo ciascuno raccolto in media l’8,8% del consenso popolare. Il rimedio a questo inconveniente, però, non consiste in quel doppio turno che nasce appunto dalla doppiezza e non dall’onestà politica. Vediamo perché. Se vigente il maggioritario a doppio turno, si temesse che un partito della destra radicale—ma democratico se nessun tribunale lo ha sciolto—potrebbe ottenere il 45% dei suffragi, i suoi antagonisti, lo metterebbero fuori gioco inducendo estremisti e moderati, mangiapreti e ammazzaborghesi, classi alte e uomini dell’establishment a votare per lo stesso candidato. Se tutto questo sembra naturale, segno è di un ottundimento irrimediabile del senso morale.
Diverso sarebbe il caso del maggioritario puro. Qui gli opposti non sarebbero più costretti a matrimoni di convenienza ma, al contrario, sarebbero gli affini interessati a unirsi, superando quei fattori di divisione, che, in un sistema proporzionale, li porterebbero ad appoggiare partiti diversi ma contigui. A un forte candidato radicale, infatti, dovrebbero contrapporre candidature credibili in grado di essere bene accette al maggior numero di elettori e la cui forza non sia dovuta al controllo delle tessere e all’appoggio degli apparati ma a una riconosciuta competenza politica e amministrativa nonché al ruolo svolto nella vita civile. In tal modo, oltretutto, si avrebbe l’effetto collaterale di ridimensionare il potere dei partiti senza annullarne la funzione mediatrice, anch’essa importante in una democrazia a norma— Raymond Aron docet.

Come accade spesso nel nostro paese, invece, le riforme riescono a mettere insieme il peggio del vecchio e del nuovo e quella elettorale non fa eccezione. Ci ritroviamo, così, gli apparentamenti favoriti dal maggioritario, le divisioni del proporzionale e un alto indice di litigiosità tra i componenti della stessa coalizione. E i risultati sono l’ingovernabilità, l’incertezza, l’impossibilità stessa di attenersi al principio aureo della democrazia, quello della maggioranza. È più democratico dare l’incarico di governo a Matteo Salvini, capo della coalizione che ha avuto il più alto numero di voti ma è segretario della Lega votata da un numero di elettori che è la metà di quelli del M5S o è più democratico che a Palazzo Chigi vada Luigi Di Maio, leader di un partito che non è maggioritario? È un maremagno tutto pien d’imbrogli, per dirla con l’immortale Giuseppe G. Belli.

Il fatto è che, con buona pace di certi political scientist, poco interessati alla storia reale e intenti solo ad arabesche ingegnerie costituzionali–che, nel migliore dei casi, lasciano un segno ‘qual fummo in aere e in acqua la schiuma’—si ha paura degli estremisti (populisti di destra, di centro di sinistra) perché non c’è fiducia nelle istituzioni. È la mancanza dello Stato o, meglio, di un autentico Stato di diritto a far temere per il futuro. Se ci fosse lo Stato, l’irrompere del nuovo, per quanto indigesto, non susciterebbe alcuna apprensione, giacché in regime liberaldemocratico, lo spazio delle decisioni politiche è limitato: dalle leggi costituzionali, dai diritti civili, dalle garanzie di libertà. È l’invasione dell’amministrazione pubblica e della società civile da parte della politica—che i decreti Bassanini non hanno certo ridimensionato—a non farci dormire sonni tranquilli. E per ‘politica’ non intendo solo quella dei partiti: è politica anche quella di una parte della magistratura, che si assume un ruolo di supplenza di autorità assenti e corrotte e che, volendo bonificare moralmente il paese, non si limita al compito istituzionale di accertare un reato ma pretende anche di ‘snidarlo’ o di far valere, con le sue sentenze, diritti che i legislatori indugiano a riconoscere.

C’è Stato quando ogni organo opera in base ai ruoli che gli sono stati assegnati e ogni settore dell’edificio sociale si attiene ai suoi codici, «sotto la protezione delle leggi». Non c’è Stato quando un vigile urbano — Alberto Sordi nel vecchio film di Luigi Zampa del 1960– multando il sindaco (Vittorio De Sica), sente il fatidico «Lei non sa chi sono io!». Nel Rechtsstaat, il figlio di Metternich può essere bocciato e il figlio del macellaio di Metternich promosso, giacché, a scuola, Metternich è il professore. Se penso al giustizialismo ovvero al feeling del M5S con certe correnti della magistratura, c’è poco da stare allegri ma una democrazia sotto tutela, con il sigillo dell’establishment, non mi preoccupa meno.




In difesa del maggioritario onesto, quello senza doppio turno

Non essendo uno scienziato politico ma un assai più modesto storico contemporaneista, non riesco sinceramente a capire i sostenitori del maggioritario a doppio turno. Come ho fatto rilevare in un articolo scritto per ‘Il Dubbio’: «Certo può parere ingiusto che su dieci partiti in competizione, vinca quello che ha ottenuto il 20% dei suffragi mentre gli altri nove che rappresentano l’80% dell’elettorato rimangano esclusi dal governo, avendo ciascuno raccolto in media l’8,8% del consenso popolare.» Il rimedio a questo inconveniente, a mio avviso, non sta, però, in quel doppio turno che nasce appunto dalla doppiezza politica e non dall’onestà politica.

Col doppio turno, per fare un esempio concreto, se per Marine Le Pen—il suo Front National fu il primo partito alle elezioni europee (e sottolineo europee pour cause) del 2014 e non dimentichiamo che fu eletta deputato per il Pas de Calais il 19 maggio 2017 col 46,02% contro il 16,4% del suo avversario socialista Kemel–si dovesse prevedere alle prossime presidenziali, al primo turno,un 45% dei suffragi contro il suo più diretto antagonista, fermo al 30%, quest’ultimo potrebbe andare all’Eliseo grazie all’SOS indirizzato al 25% degli elettori da lui lontanissimi ideologicamente ma chiamati a raccolta contro il pericolo populista (se non fascista)! Trovo tutto questo, francamente, indecente, giacché in una ‘democrazia a norma’ non si vince con la mobilitazione di tutti i Romani contro Annibale alle porte: i partiti stanno sullo stesso piano e se una formazione politica non è democratica–perché ha violato precisi articoli della Costituzione–a scioglierla debbono pensarci i tribunali, non gli elettori. Come ha spiegato, in pagine magistrali, il più grande storico francese del secondo Novecento, François Furet, una delle funzioni svolte da un antifascismo da settant’anni fuori stagione, è anche quella di promuovere l’Union sacréé contro gli odiati avversari politici. E’ l’antifascismo—autentico e subdolo veleno della democrazia liberale: lo mostrò Renzo De Felice in una criticatissima intervista a Pasquale Chessa—a stabilire che cosa può entrare nell’agenda politica di un partito e che cosa no, che cosa può essere tollerato e che cosa no. (A Genova è l’Anpi a decretare che Casa Pound non può aprire la sua sede nella Città Santa della Resistenza !!).

In un’ottica autenticamente liberale, il doppio turno che unisce gli opposti suscitando spettri del passato e alimentando paure infondate, è un residuo di stagioni che dovremmo lasciarci alle spalle per sempre. La via maestra è quella del maggioritario puro che a un candidato ritenuto (a torto o a ragione) inaffidabile ma con serie chances di vittoria, contrappone una personalità che goda di ampio prestigio e che dia garanzie per quanto riguarda le sue competenze amministrative, la sua riconosciuta onestà e la sua indiscussa professionalità. A meno che non si voglia andare incontro a una sicura  débâcle, un candidato simile non può essere un fedelissimo del partito o qualcuno della cerchia interna del leader—ad esempio, un avvocato di Berlusconi o una sindacalista CGIL promossa ministro della P.I. Per battere una candidatura forte, infatti, occorre qualcuno in grado non di unire gli opposti (gollisti e maoisti contro la minaccia lepenista) ma di far convergere i «simili» ovvero quell’ampia fascia di elettorato—di destra o di sinistra– che, in un sistema proporzionale puro, avrebbe votato per partiti diversi, ma non lontani. In tal modo, il gioco sarà aperto e leale e il voto sarà un voto pro non un voto contro, nel rispetto assoluto dell’ethos democratico che non s’identifica più da tempo con quello antifascista. Come la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali, la democrazia è una cosa troppo seria per lasciarla ai political scientists.




Addio Ostellino. Ha fatto del liberalismo una bandiera

Il grande giornalista contribuì a fondare il Centro Luigi Einaudi. Ha esercitato lo spirito critico su tutto, dall’economia alla Costituzione

Piero Ostellino sarà ricordato non solo come un grande giornalista – della razza di Giovanni Ansaldo, Indro Montanelli, Enzo Bettiza, Alberto Ronchey – ma, altresì, come una delle figure più eminenti del liberalismo italiano dell’ultimo Novecento. Non a caso nel 2009, a Santa Margherita Ligure, gli fu assegnato dal Centro Internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova, il Premio Isaiah Berlin che era stato conferito a prestigiose personalità della cultura come Amartya Sen, Giuseppe Galasso, Ralf Dahrendorf, Benedetta Craveri, Mario Vargas Llosa.

Ad assicurare a Ostellino un capitolo importante nella storia dei difensori della società aperta non sono soltanto i suoi libri, dai reportage sulla Russia e sulla Cina, dove era stato corrispondente del Corriere della Sera dal ’73 all’80 – vedi soprattutto Vivere in Russia, del ’77, e Vivere in Cina, dell’81, entrambi editi da Rizzoli, che nulla hanno da invidiare alle analisi classiche di Michel Tatu, di Arrigo Levi, di Hélène Carrère d’Encausse – ai due ultimi, Il dubbio. Politica e società in Italia nelle riflessioni di un liberale scomodo (Rizzoli, 2003) e Lo Stato canaglia. Come la cattiva politica continua a soffocare l’Italia (Rizzoli, 2009) – ma, soprattutto, una particolare cifra pubblicistica che potrebbe definirsi «liberalismo quotidiano».

Con tale espressione mi riferisco alla vocazione più autentica di Piero che era quella di mostrare come i liberali classici – da Montesquieu all’amatissimo David Hume, da Luigi Einaudi a Friedrich von Hayek – fossero, anche nella società tecnologica di massa, delle guide imprescindibili per comprendere i vizi e le virtù non degli uomini, ma dei sistemi politici e degli assetti economici che condizionano, in positivo o in negativo, la loro vita. In questo era davvero figlio del vecchio Piemonte. Ricordo con quanto compiacimento mi diceva che, passando da Torino, si era fermato al Ristorante del Cambio, a Piazza Carignano, quello preferito dal Gran Conte. Quel luogo era il simbolo dei suoi grandi amori, il Risorgimento – nel quale, a differenza di tanti suoi amici liberisti, trovava le sue radici – e l’Italia liberale, appunto, quella che ci aveva ricongiunto, per dirla con Carlo Cattaneo, all’Europa vivente. Einaudi aveva spiegato che cos’è il liberalismo in economia in articoli, esemplari per la loro chiarezza, che partivano dal mercatino di Dogliani per illustrare la complessità dello scambio di beni e di servizi in una società complessa. Ostellino è andato oltre, ha insegnato a vedere, in una prospettiva liberale, le più diverse esperienze del vissuto quotidiano.

Non c’è campo, dalla politica al diritto, dall’economia all’etica sociale, dallo sport al mondo dello spettacolo, dalla religione alla scienza, che non abbia attivato la sua attenzione e la sua inesausta curiosità e voglia di capire e di far capire. Col risultato di iscriversi d’autorità tra gli implacabili dissacratori dei costumi di casa degli italiani, del senso comune costruito ad arte dagli ingegneri delle anime, dei miti che hanno segnato la political culture della Repubblica nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Ostellino non è mai stato tenero con la Costituzione più bella del mondo. Soprattutto ne Lo Stato canaglia, l’ha definita un «papocchio» nato da un compromesso tra le due Resistenze, quella democratica e quella comunista. «Una Costituzione che riconosce i diritti individuali ma li subordina all’utilità sociale, al benessere collettivo, cioè a una serie di astrazioni ideologiche che non sono nemmeno affermazioni di carattere giuridico». Si tratta di rilievi non nuovi, ma Ostellino, sempre controcorrente, ha accompagnato alla critica liberale della Costituzione la difesa intransigente di un liberalismo inteso come teorica delle libertà e non dei diritti, a cominciare dalla libertà d’impresa impensabile senza la proprietà privata.

«La libertà individuale non può sopravvivere senza la proprietà protettiva, ma può sopravvivere senza la proprietà produttiva (capitalistica e di investimento). (…) E ai fini della libertà politica non occorre il benessere: si può essere liberi in povertà». Sono tesi di Giovanni Sartori che Ostellino non avrebbe mai potuto condividere. Così come non avrebbe mai potuto condividere la parola d’ordine «più Europa». La Costituzione proposta dagli europeisti che «auspicano una severa governance dell’Unione europea che rimetta in rigo i poco virtuosi stati membri», scriveva otto anni fa, «ripropone il modello delle Costituzioni programmatiche del Novecento, che non regolavano proceduralmente poteri e compiti dello Stato, ma si proponevano di cambiare gli uomini». E cambiare gli uomini era per lui, come per Croce, un «peccato contro lo Spirito».

Pubblicato da Il Giornale l’11 marzo 2018