Addio Ostellino. Ha fatto del liberalismo una bandiera

Il grande giornalista contribuì a fondare il Centro Luigi Einaudi. Ha esercitato lo spirito critico su tutto, dall’economia alla Costituzione

Piero Ostellino sarà ricordato non solo come un grande giornalista – della razza di Giovanni Ansaldo, Indro Montanelli, Enzo Bettiza, Alberto Ronchey – ma, altresì, come una delle figure più eminenti del liberalismo italiano dell’ultimo Novecento. Non a caso nel 2009, a Santa Margherita Ligure, gli fu assegnato dal Centro Internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova, il Premio Isaiah Berlin che era stato conferito a prestigiose personalità della cultura come Amartya Sen, Giuseppe Galasso, Ralf Dahrendorf, Benedetta Craveri, Mario Vargas Llosa.

Ad assicurare a Ostellino un capitolo importante nella storia dei difensori della società aperta non sono soltanto i suoi libri, dai reportage sulla Russia e sulla Cina, dove era stato corrispondente del Corriere della Sera dal ’73 all’80 – vedi soprattutto Vivere in Russia, del ’77, e Vivere in Cina, dell’81, entrambi editi da Rizzoli, che nulla hanno da invidiare alle analisi classiche di Michel Tatu, di Arrigo Levi, di Hélène Carrère d’Encausse – ai due ultimi, Il dubbio. Politica e società in Italia nelle riflessioni di un liberale scomodo (Rizzoli, 2003) e Lo Stato canaglia. Come la cattiva politica continua a soffocare l’Italia (Rizzoli, 2009) – ma, soprattutto, una particolare cifra pubblicistica che potrebbe definirsi «liberalismo quotidiano».

Con tale espressione mi riferisco alla vocazione più autentica di Piero che era quella di mostrare come i liberali classici – da Montesquieu all’amatissimo David Hume, da Luigi Einaudi a Friedrich von Hayek – fossero, anche nella società tecnologica di massa, delle guide imprescindibili per comprendere i vizi e le virtù non degli uomini, ma dei sistemi politici e degli assetti economici che condizionano, in positivo o in negativo, la loro vita. In questo era davvero figlio del vecchio Piemonte. Ricordo con quanto compiacimento mi diceva che, passando da Torino, si era fermato al Ristorante del Cambio, a Piazza Carignano, quello preferito dal Gran Conte. Quel luogo era il simbolo dei suoi grandi amori, il Risorgimento – nel quale, a differenza di tanti suoi amici liberisti, trovava le sue radici – e l’Italia liberale, appunto, quella che ci aveva ricongiunto, per dirla con Carlo Cattaneo, all’Europa vivente. Einaudi aveva spiegato che cos’è il liberalismo in economia in articoli, esemplari per la loro chiarezza, che partivano dal mercatino di Dogliani per illustrare la complessità dello scambio di beni e di servizi in una società complessa. Ostellino è andato oltre, ha insegnato a vedere, in una prospettiva liberale, le più diverse esperienze del vissuto quotidiano.

Non c’è campo, dalla politica al diritto, dall’economia all’etica sociale, dallo sport al mondo dello spettacolo, dalla religione alla scienza, che non abbia attivato la sua attenzione e la sua inesausta curiosità e voglia di capire e di far capire. Col risultato di iscriversi d’autorità tra gli implacabili dissacratori dei costumi di casa degli italiani, del senso comune costruito ad arte dagli ingegneri delle anime, dei miti che hanno segnato la political culture della Repubblica nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Ostellino non è mai stato tenero con la Costituzione più bella del mondo. Soprattutto ne Lo Stato canaglia, l’ha definita un «papocchio» nato da un compromesso tra le due Resistenze, quella democratica e quella comunista. «Una Costituzione che riconosce i diritti individuali ma li subordina all’utilità sociale, al benessere collettivo, cioè a una serie di astrazioni ideologiche che non sono nemmeno affermazioni di carattere giuridico». Si tratta di rilievi non nuovi, ma Ostellino, sempre controcorrente, ha accompagnato alla critica liberale della Costituzione la difesa intransigente di un liberalismo inteso come teorica delle libertà e non dei diritti, a cominciare dalla libertà d’impresa impensabile senza la proprietà privata.

«La libertà individuale non può sopravvivere senza la proprietà protettiva, ma può sopravvivere senza la proprietà produttiva (capitalistica e di investimento). (…) E ai fini della libertà politica non occorre il benessere: si può essere liberi in povertà». Sono tesi di Giovanni Sartori che Ostellino non avrebbe mai potuto condividere. Così come non avrebbe mai potuto condividere la parola d’ordine «più Europa». La Costituzione proposta dagli europeisti che «auspicano una severa governance dell’Unione europea che rimetta in rigo i poco virtuosi stati membri», scriveva otto anni fa, «ripropone il modello delle Costituzioni programmatiche del Novecento, che non regolavano proceduralmente poteri e compiti dello Stato, ma si proponevano di cambiare gli uomini». E cambiare gli uomini era per lui, come per Croce, un «peccato contro lo Spirito».

Pubblicato da Il Giornale l’11 marzo 2018



Idee e Istituzioni

Le grandi domande sul fondamento della nostra civiltà occidentale, che molti vedono sulla via del tramonto, sono destinate a non trovare mai una risposta convincente. I valori si vivono e non si motivano e quando si vivono non si sente il bisogno di giustificarli, come non si ragiona sull’amore per la propria madre. A questa idea, di cui sono sempre più convinto, è stato obiettato da un amico, uno dei pochi filosofi morali in circolazione che stimo: «Certamente anche i valori appartengono al mondo dei sentimenti, ma non si riducono a questo, tant’è che su di essi (religiosi, morali, civili, estetici) si discute da sempre e si sente il bisogno di giustificarli, anche perché coloro che hanno valori diversi dai nostri li contestano con argomenti intellettuali di vario genere. La religione e l’etica non si possono ridurre al puro emotivismo, come hanno tentato di fare alcuni filosofi neopositivisti». L’argomento è ineccepibile e ammetto che la metafora dell’amore materno poteva essere fuorviante. Rimane il fatto che i valori si possono argomentare, e ci sono diverse strategie per farlo, ma che nessuno riuscirà mai a dimostrare la superiorità o la maggiore validità dell’uno rispetto all’altro e, quindi, l’emotivismo cacciato dalla porta rispunta dalla finestra. Perché la Pace dovrebbe essere preferita alla Guerra? Perché il principio dell’Autorità varrebbe meno del principio della Libertà? Proprio perché ciascun individuo, ciascun gruppo, ciascuna agenzia politica, sociale e spirituale può avere credenze, ideali e progetti diversi si moltiplicano le sedi del confronto e della discussione, al fine di trovare una composizione (e una gerarchia ideale) che eviti la guerra di tutti contro tutti. Sennonché questi padiglioni etici e culturali, queste grandi impalcature in cui si dibatte, si argomenta, ci si scontra etc., stanno pur sempre nei giardini degli Stati, la versione moderna della comunità politica, che ne tiene sotto controllo la valenza esplosiva, anche fissando regole inique giacché è difficile porli tutti sullo stesso piano.

«Quando una civiltà, come sta accadendo alla nostra, non crede più nei suoi valori fondanti e cessa di difenderli con argomenti razionali (o pseudo tali, ma questo è secondario), anche le istituzioni collassano», scrive l’amico filosofo. E qui non sono più d’accordo. È il collasso delle istituzioni, che non è lo stesso in tutti i paesi delle due rive dell’Atlantico, ma presenta gradazioni e crepature diverse, a rendere i “valori fondanti” incomprensibili e irrilevanti come i duelli sulla Grazia e sul libero arbitrio tra il gesuita e il giansenista nel film di Luis Bunuel La via lattea(1969). Il nostro scetticismo, il nostro relativismo, il nostro empirismo non sono la causa dell’indebolimento delle nostre “radici” e tale indebolimento non è la malattia mortale che ha colpito le istituzioni politiche. Al contrario, è la morte delle istituzioni, che sarebbe riduttivo ridurre alla morte della patria, che ne è l’aspetto sentimentale e coscienziale che, proiettandosi nel passato, ci fa avvertire i paesaggi spirituali in cui siamo vissuti come irreali: fantasmi  che si allontanano sempre di più sull’orizzonte della vita vissuta, portandosi dietro Platone e Aristotele, Pagani e Cristiani, Agostino e Tommaso, Bossuet e Voltaire, Montaigne e Leibniz, aristocrazia e clero, Kant ed Hegel, Marx e Spencer, Illuministi e Romantici, borghesi e proletari. Cosa rappresentano più tutti questi “momenti dello spirito europeo” e che cosa hanno più a che fare con una società incerta sulla propria sopravvivenza e prosperità economica, come la nostra, che ha il problema della difesa dalle nuove grandi trasmigrazioni dei popoli e della protezione delle vittime della inarrestabile globalizzazione? È come se, una volta chiuso o reso progressivamente inagibile il campo sportivo in cui si svolgevano le partite di calcio, non avessero più senso né le partite, né i giocatori, né le classifiche, né i trofei sportivi: un fatto esterno vanifica il senso interno della convivenza civile. A mio padre, giovane fascista ”avanguardista”, non sarebbe mai venuto in mente di pensare: «ma perché dovrei ritenere l’Italia un valore appena al di sotto di Dio e appena al di sopra della famiglia?». Cominciò a porsi domande, a chiedersi «ma che cos’è poi questa nazione per la quale si dovrebbe essere disposti a rischiare la vita?», quando crollarono le istituzioni sotto i bombardamenti degli Alleati.

«Ma perché la fede resti viva e operante −prosegue il mio stimato interlocutore− occorre, come ci insegnano le religioni, che venga sostenuta da un’apologetica. Non basta la parola di Cristo, occorrono anche Agostino, Tommaso e l’opera oscura di mille parroci che spiegano ogni domenica al popolo i “misteri” della fede. Dove sono oggi, nella nostra società del disincanto spinto fino al cinismo, i teologi e i parroci della religione della libertà? Chi si incarica di tenere viva questa fede? Al più c’è qualcuno che, con argomenti più o meno discutibili, fa l’apologia della libertà economica». Sono d’accordo, ma la fuga degli dèi, la diaspora dei loro sacerdoti non ha nessun rapporto con la corrosione interna del potere politico che sosteneva quel mondo e ne teneva in equilibrio (sempre precario) le varie componenti? Non è casuale che “l’apologia della libertà economica” (che, a scanso di equivoci, è anche per me una componente fondamentale della libertà liberale) sia rimasta l’unica vexata quaestio, all’ordine del giorno del dibattito pubblico e che non si avverta affatto il parlarne come un innocuo dispersivo?

Non sono un determinista ma penso che non siano le idee a mettere in crisi le istituzioni ma la qualità scadente delle istituzioni (la loro scarsa tenuta, la loro debolezza) a “far venire certe idee” e spesso a farci ripiegare in un pessimismo antropologico che proiettiamo poi sull’universo intero. Non è questione di giovinezza e di vecchiaia, è il sospetto che nasce in questi casi quando è superata la soglia dei settant’anni, ma se le nostre concezioni del mondo, le nostre idee (e chiamiamole pure “ideologie”) di mezzo secolo fa  erano diverse da quelle attuali  lo si deve forse al fatto che  il sistema istituzionale reggeva ancora, almeno un poco, grazie anche alla centralità della DC, garante e fattore di stabilità, comunque si vogliano giudicare oggi i suoi uomini, i suoi programmi, i suoi stili di governo. Il nostro piccolo mondo antico, almeno fino alla svolta cruciale del ’68, era un mondo ordinato in cui ideologie e partiti ben definiti trovavano uno spazio e una funzione inequivocabili. È la ragione che spiega come una sinistra che finalmente è diventata forza di governo possa, in incaute dichiarazioni dei suoi esponenti ma, soprattutto, in tanti “discorsi a tavola”, rimpiangere gli anni che la vedevano all’opposizione e, quindi, lontana dalla nenniana stanza dei bottoni. È proprio il caso di dire: “si stava meglio quando si stava peggio”, giacché allora la casa era in ordine, l’ordine non piaceva ma era pur sempre un ordine. Ci si batteva per una migliore ridistribuzione delle carte (anche radicale) ma non si pensava di rovesciare il tavolo di gioco. Oggi che l’edificio (istituzionale) è andato in pezzi meraviglia che tutto si confonda nella mente, che ci si chieda, sempre più spesso: cos’è lo stato nazionale? Cosa sono destra e sinistra? Quali sono i valori e gli interessi che tengono unito quello che, prima del 1861, appariva al grande Alessandro Manzoni “un volgo disperso che nome non ha”?

«Ma perché le istituzioni sono franate?», mi chiederà l’amico filosofo, per richiamarmi all’importanza strutturale dei fatti sovrastrutturali (le idee, i valori, le visioni del mondo). Rispondere in termini realistici significa aprire un nuovo capitolo, far riferimento all’ordine internazionale, alle sfide della guerra fredda, all’incapacità delle istituzioni di venir incontro ai bisogni dei tempi nuovi, alla stessa political culture di un paese, che nel caso italiano ha fatto spesso registrare una crescente alienazione dei cittadini nei confronti delle istituzioni, spesso tradotta in populismi più o meno totalitari, alle difficili relazioni le due grandi potestà ereditate dal Medio Evo: l’Ecclesia e l’Imperium.

Mi rendo conto, però, che queste considerazioni sono destinate a cadere nel vuoto e, soprattutto, a deludere profondamente il lettore giacché non prefigurano, neppure in modo vago, quale potrebbe essere il nuovo sistema politico che, riportando l’ordine nei rapporti sociali e la stabilità nelle menti, potrebbe ricostruire i padiglioni dello Spirito che l’abbandono dei giardinieri ha lasciato nella desolazione e nell’insignificanza. L’Europa che, ristrutturando se stessa e dotandosi di una vera autorità federale democratica, potrebbe riassettare la vecchia casa continentale e in tal modo contribuire validamente all’ordine planetario? È difficile crederlo anche perché, come capita in tutte le stagioni di decadenza (vera o presunta), l’esperienza del passato sembra non insegnare nulla. E, d’altra parte, da tempo sono portato a credere che tra i segni inequivocabili della crisi, che stiamo attraversando da quarant’anni, il più inquietante sia proprio la perdita di quel realismo che era l’anima più vera dello storicismo. La storia è ormai il faldone di pratiche accumulate sui tavoli dei GIP e dei PM educati alla scuola del politically correct e dell’universalismo buonista. Il loro compito è stabilire quante condanne e quante assoluzioni vanno riservate ai protagonisti dei grandi eventi del passato prossimo ma anche remoto (se non remotissimo), dove sono moltissimi i casi meritevoli di damnatio memoriae e davvero pochi i casi riguardanti gli individui da riabilitare. (Bontà loro!).




Uno spregiudicato, Grasso. Un irresponsabile, Berlusconi

Grazie a Pierluigi Bersani—a mio avviso uno degli sfascisti più catastrofici della storia italiana (e della sinistra) di questi anni—una legione di pretoriani è riuscita in un’impresa che sarebbe stata impensabile nella Prima Repubblica democristiana, quella di ‘piazzare’ alle tre più alte cariche dello Stato—Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama—tre presidenti di parte, nessuno dei quali concordato con l’opposizione. Il fair play ormai è un lontano ricordo: il leone non si riserva la parte più grossa (quia est leo) ma prende per sé tutto il mazzo sapendo di poter contare sulla maggioranza dei voti.

Vedendo le mosse di Pietro Grasso di questi giorni, il suo grande elettore può ben  dirsi  soddisfatto. La prima performance fu l’estromissione dell’ex Cavaliere dal Parlamento grazie all’imposizione del voto palese: un’autentica vergogna giacché si è impedito il voto segreto per sfiducia nella propria base parlamentare–se nessun senatore del centro destra, infatti, avrebbe votato contro Berlusconi, non pochi senatori di sinistra avrebbero potuto obbedire alla loro coscienza e votare a suo favore, senza attenersi alle direttive dei gruppi parlamentari. Oggi si è avuta la seconda, con la scomunica pubblica del PD renziano e la restituzione della tessera. Sennonché quella tessera Grasso non avrebbe dovuto restituirla nel momento dell’elezione alla presidenza del Senato, come gesto simbolico e impegno a tenersi, nell’esercizio dell’alta carica, super partes? In passato, non tutti i titolari delle tre più alte cariche dello Stato hanno dato   prova di ‘stile’, è vero: non hanno abbandonato i rispettivi partiti né Casini, né Bertinotti, né Fini. Sennonché, a parte il fatto che, nello svolgimento delle loro funzioni, Casini, Bertinotti e Fini hanno cercato di far dimenticare le aree politiche  di provenienza (persino Gianfranco Fini–come dimostra il libro non simpatizzante che gli ha dedicato Paolo Armaroli—come Presidente della Camera  non ha demeritato), nessuno dei tre ha fatto sentire la sua voce per delegittimare pesantemente un partito, dicendo agli Italiani che il vero PD non è quello che pretende di essere tale ma quello del suo ‘benefattore’ Bersani.

 Intendiamoci, nessuno vieta a Grasso di scendere in campo—un liberale è decisamente contrario non soltanto al mandato imperativo ma anche a leggi che impediscano agli eletti del popolo di cambiare casacca—ma non può farlo senza deporre nell’armadio la giacca nera dell’arbitro per indossare la maglietta del giocatore. Mi rendo conto che a ragionare in termini di buon gusto e di correttezza etica in un periodo in cui conta solo il reato accertato dal tribunale e la colpa morale è relegata, come il peccato, nella privacy, si corre il rischio di abbaiare alla luna ma ricordare i codici del ‘mondo di ieri’ forse può configurarsi come un nuovo dovere civico.

 In questo mondo di iene e di sciacalli, è passata inosservata una notizia alla quale ha dato ampio risalto domenica scorsa il quotidiano ‘Libero’ con un articolo di Renato Farina, Sostenere Grasso per colpire Renzi. La tentazione (pericolosa) del Cav. Farina è un giornalista che non mi piace: il suo antirisorgimentismo, il suo tradizionalismo cattolico quasi lefevriano, il suo eccessivo gusto per il politicamente scorretto sono irritanti, almeno per un liberale ottocentesco come me, ma la sua denuncia di un centro-destra pronto, su ordine di Berlusconi, «a far di tutto, pur di facilitare la caduta di Renzi, allo scopo di favorire il consolidamento politico del presidente del Senato  alla testa di una sinistra di sapore comunista e giustizialista» me l’ha fatto apparire come il protagonista del Rinoceronte di Ionesco, l’unico ad essersi mantenuto lucido in una congrega politica  resa fin troppo euforica dal voto siciliano. Giustamente Farina ha ricordato il Kaiser che nel 1917 finanziò la rivoluzione bolscevica, Carter che nel 1979 armò Bin Laden per sconfiggere i sovietici in Afghanistan.« Così non va—ha rilevato—Non è roba liberale, non è lealtà, non porta bene la logica comunista del tanto peggio tanto meglio».

 Non è solo questione di lealtà, tuttavia. Ammettiamo pure che la sinistra antirenziana riesca a spaccare l’attuale PD e che, accanto al vecchio, se ne formi uno nuovo—in sostanza, una riedizione di Rifondazione comunista—di pari entità, quale vantaggio ne trarrebbe il paese? Se assieme—ipotesi dell’irrealtà—i due tronconi della sinistra ottenessero la maggioranza dei seggi parlamentari, che probabilità avrebbe il vecchio di impedire al nuovo di cancellare le poche leggi buone fatte nella breve era renziana? E se il partito antirenziano—rafforzato anche dalla desistenza berlusconiana– potesse far maggioranza col M5S, non sarebbe il trionfo del giustizialismo più disinibito e non comporterebbe per l’ex Cavaliere la ricerca di una sua Hammamet?

 Renzi gioca (malamente) la carta del riformismo socialdemocratico, il centro-destra gioca (o dovrebbe giocare) la carta del riformismo liberale: nemici oggettivi di entrambi sono gli antiriformisti della destra populista e della sinistra neo-massimalista—contro i quali potrebbero essere costretti, centro-destra e centro-sinistra, a coalizzarsi un domani non lontano, seguendo, d’altra parte, un trend europeo ben illustrato recentemente da Sergio Fabbrini sul ‘Sole-24 Ore’. La strategia che ha in mente Berlusconi–se Renato Farina non s’è inventato il foglio d’ordini partito da Arcore—non è la riprova del suo machiavellismo .Machiavelli si rivolterebbe nella tomba sapendo che un uomo politico per eliminare un competitore che gli contende il potere, favorisce l’avversario del suo avversario ovvero un estremista che una volta al governo, gli toglierebbe non solo il potere, ma anche la libertà, i beni e la vita).La strategia di Berlusconi, in realtà, è solo la riprova  della sua irresponsabilità—che rischia di rimanere l’unica caratteristica che lo accomuna ai giovani.