Giovanni Amendola eroe del liberalismo che amava la nazione (e capì il fascismo)

Giovanni Amendola. Una vita in difesa della libertà (Ed. Rubbettino) è il titolo del volume collettaneo, a cura di Elio d’Auria, lo storico che ha dedicato un’esistenza allo studio e alla raccolta di scritti del leggendario capo dell’opposizione aventiniana al fascismo. Della complessa e poliedrica personalità di Amendola vi vengono analizzati quasi tutti gli aspetti: dal filosofo (Girolamo Cotroneo, Angelo Sabatini), al pubblicista (Mario Pendinelli, Sandro Rogari, Gerardo Nicolosi), dallo statista (Federica Guazzini) al teorico di una nuova democrazia (Fabio Grassi Orsini, Luigi Compagna). Non mancano capitoli di grande interesse sulle ‘amicizie politiche’ di Amendola (Sergio Zoppi, Lucio D’Angelo), sulle sue idee economiche (Guido Pescosolido), sulla sua analisi del fascismo (Giuseppe Bedeschi).

Sintetizzando il significato più profondo dell’impegno etico-politico amendoliano, ha scritto d’Auria: «La battaglia che egli combatté in difesa della libertà e della democrazia, si concentrò nel ridare allo Stato l’autorità di organismo al disopra delle parti che risolveva i conflitti sociali e politici attraverso la libera partecipazione dei cittadini all’esercizio degli affari pubblici» Alla forte valenza mazziniana di tale battaglia si era richiamato il prestigioso storico cattolico Gabriele De Rosa: «Tutta la pubblicistica amendoliana—si legge in un saggio del 1961— si muove attorno a una concezione mazziniana della democrazia, attorno a una concezione, cioè, in cui l’istanza parlamentare è subordinata all’idea dello Stato nazionale, come espressione degli interessi e delle aspirazioni ideali di una comunità che non esaurisce la sua vita pubblica in quella delle classi e dei partiti».

In un’epoca, come la nostra, in cui il Risorgimento, i suoi ‘eroi’, i suoi simboli sembrano tramontati nelle coscienze e nel ricordo degli Italiani, non può che apparire inattuale la lezione del  filosofo napoletano che rivendicava con forza il nesso tra lo stato nazionale, la democrazia e i diritti di libertà: un nesso che le giovani generazioni, va detto francamente, non sentono più, anche per colpa dei petulanti revisionismi storici che, presenti persino in trasmissioni televisive di grande ascolto (v. ‘Made in Sud’), dileggiano la fede dei ‘nostri padri’—di Francesco De Sanctis, di Benedetto, Croce, di Giustino Fortunato, di Gaetano Salvemini, di Gioacchino Volpe, di Rosario Romeo etc. etc.—riproponendo vetusti luoghi comuni come il ‘saccheggio piemontese’.

Introducendo la raccolta dei suoi scritti politici, chiestagli da Piero Gobetti, Amendola ricordava con orgoglio il principio ideale a cui aveva ispirato tutta la sua vita di filosofo e di combattente. «Tale direttiva si riassume in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando, profondando e consolidando le sue fondamenta in tutta 1’estensione spirituale della coscienza italiana». Di qui, altro motivo della sua inattualità, il suo liberalismo anti-individualista che lo portava a scrivere: «L’individuo non ha diritti assoluti contro la tradizione e contro la società; perché tradizione e società entrano a costituirlo in larga misura. Pertanto l’autonomia del singolo, su cui è fondata la libertà civile, non assolve l’individuo dalle sue responsabilità verso il passato, il presente e l’avvenire della società in cui egli vive; ma anzi le rende più precise ed imperative».

Ne derivava una strategia dell’attenzione verso Mussolini—v. il magistrale saggio Bedeschi—nutrita di illusioni comuni a gran parte dei liberali del suo tempo (sulla possibile costituzionalizzazione del fascismo) ma, altresì, capace di porre problemi cruciali che la retorica antifascista e resistenziale ha azzerato. Non si tratta per lui solo di riconoscere che contro la ‘minaccia del bolscevismo dissolvitore’ il fascismo (siamo nel 1922!) «rappresenta una tutela, la cui persistenza continua ad essere necessaria, una garanzia per l’avvenire del nostro Paese» ma di ben altro: del tentativo, appunto, di «introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato», nella fattispecie, «l’Italia di Vittorio Veneto». Per Amendola la vera tragedia italiana sta nel fatto che una reazione ‘sana’, quella fascista, si sia trasformata nella demolizione dello ‘Stato di diritto’ e che il rimedio sia risultato peggiore della malattia. Risposta sbagliata a un problema reale, quindi: è quanto una storiografia anpista e faziosa si ostina ancora a non vedere.

Alla luce di questi rilievi, ci si chiede davvero chi possa essere interessato al pensiero di Amendola: non gli antisovranisti duri e puri, per i quali lo Stato nazionale è un fantasma di cui ci si deve disfare al più presto; non i neo-liberali per i quali un liberalismo anti-individualista sarebbe un ossimoro; non gli idolatri del nuovismo, per i quali destra e sinistra non stanno sullo stesso piano, giacché l’una è la reazione e l’altra il progresso (Amendola aveva denunciato il ‘bacillo deleterio’ che portava a non riconoscere più nello stato democratico il garante della civile competizione tra destra e sinistra); non i fanatici della globalizzazione, che non intendono più il nesso aristotelico, chiaro ad Amendola, tra la forza delle classi medie e la vitalità della democrazia liberale. (v. l’opportuno cenno di Pescosolido).

E tuttavia il ‘superato’ Amendola fuori d’Italia non si troverebbe oggi in cattiva compagnia. Da anni, infatti, in Francia come nei paesi anglosassoni, la demonizzazione dello Stato nazionale è oggetto di profonda revisione critica. Autori come Abigail P. Aguilar, Yoram Hazony, Pierre Manent, David Miller, Roger Scruton, Yael Tamir parlano di «liberal nationalism» in un senso che sarebbe piaciuto molto al grande antifascista. Uno dei più importanti sociologi del nostro tempo, Edward Shils  nel 1995 aveva scritto in Nazione, nazionalità, nazionalismo e società civile: «I diritti nascono dall’essere membri di una collettività indipendentemente dal fatto di venire etichettati come ‘diritti umani’. Essi sono rivendicazioni nei confronti degli altri membri della collettività, non sono diritti che un individuo  possiede per il semplice fatto di appartenere alla specie homo sapiens; egli chiede e ottiene diritti come conseguenza dell’essere membro di una collettività.». Amendola avrebbe condiviso toto corde.

Articolo pubblicato su Il Giornale del 5 aprile 2019



La grande ipocrisia

Una caratteristica costante dell’antropologia culturale italica è la grande divisione tra le cose che si possono dire in pubblico (il sapere essoterico) e le cose che si possono dire solo in privato (il sapere esoterico). Quando si tratta di vicende personali tutto ciò può avere un senso: posso fare insinuazioni, tra amici, sull’infedeltà di una donna ma non posso sbandierarla ai quattro venti; a maggior ragione, se si sospetta che abbiano commesso reati nostri conoscenti o figure pubbliche.

 Non dovrebbe esserci invece, almeno in una società aperta, nessuna censura sulle opinioni politiche o sul modo in cui vediamo il passato. Certo chi riveste un ruolo pubblico—si tratti di governanti, di parlamentari, di giudici, di militari etc.—non può tessere l’elogio di un regime liberticida, fascista o comunista che sia, e se lo fa, è legittimo che lo si chiami a risponderne. Ma posto—e solo nei casi detti—il divieto di apologia della dittatura, non c’è nulla di più assurdo della censura che colpisce quanti, dopo aver premesso, che, per loro, la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle tirannidi, riconoscono realisticamente che queste ultime possono lasciare opere e istituti utili al paese. Specialmente quando—ed è il caso della recente intervista rilasciata da Antonio Tajani a ‘La Zanzara’ (Radio 24) —si tratta di verità acquisite (e ripetute) dalla stragrande maggioranza degli italiani. Che cosa ha detto, in sostanza, il Presidente del Parlamento europeo su Mussolini? Diamogli la parola:” “Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche |…| si può non condividere il suo metodo. Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale”. Ed ha aggiunto, a scanso di equivoci, “Complessivamente non giudico positiva la sua azione di governo, però alcune cose sono state fatte. Le cose sbagliate sono gravissime: Matteotti, leggi razziali, guerra. Sono tutte cose inaccettabili”. In seguito, bersagliato da ogni parte, ha chiarito ulteriormente il suo pensiero: “La dittatura fascista, le sue leggi razziali, i morti che ha causato sono la pagina più buia della storia italiana ed europea”.

E’ finita lì? Neppure per sogno! Il capogruppo dei Socialisti e Democratici all’Europarlamento, Udo Bullman, ha chiesto, sommamente indignado, dei ‘chiarimenti’ ; Romano Prodi ha parlato di ‘affermazioni molto discutibili’; l’ANPI, che ha il monopolio della vigilanza antifascista, naturalmente, è subito insorta, seguita a ruota dal M5S la cui vocazione antitotalitaria è ben nota—come dimostra la piattaforma Rousseau!:v. le dichiarazioni del sottosegretario Stefano Buffagni e del  capogruppo M5S alla Camera Francesco D’Uva); Carlo Calenda ha  scritto che Tajani ha dimostrato “una notevole dose di ignoranza e una totale inadeguatezza a ricoprire” la sua carica. E non parliamo delle sparate retoriche del segretario di “più Europa”, Benedetto Della Vedova, del sindaco di Milano Beppe Sala, del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti; e, soprattutto, della Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea) che, quasi fosse il Centro Studi dell’Anpi, in sostanza, ha accusato sul povero Tajani “di avvalorare una lettura del tutto parziale del fascismo”

 Nel nostro paese ci sono sempre eroi che si rivoltano nella tomba, martiri che si sentono umiliati, cittadini onesti e coscienze integerrime che chiedono la punizione di chi ‘parla male di Garibaldi’ anche se lo fa indirettamente, riconoscendo qualche merito ai suoi nemici.

 In realtà, tutte queste incomposte reazioni sono sconfortanti per quegli studiosi che da una vita, ‘sine ira et studio’, cercano di comprendere la natura effettiva del fascismo, la sua genesi storica, la sua eredità politica e culturale, in senso lato, e che, per le loro ricerche, non si rivolgono a Carlo Calenda ma all’officina lasciata da Renzo De Felice e da altri storici non prevenuti del ventennio. Per questa scuola, alla quale mi onoro di appartenere, Tajani non ha detto proprio nulla di scandaloso, e semmai avrebbe potuto essere meno circospetto.

 Ho trovato discutibile, invece, la sua marcia indietro ovvero il capo cosparso di cenere presentato ai suoi inquisitori europei e italiani. “Da convinto antifascista mi scuso con tutti coloro che possano essersi sentiti offesi dalle mie parole, che non intendevano in alcun modo giustificare o banalizzare un regime anti-democratico e totalitario”. Invece di rivendicare, con dignità, la libertà di esprimere un’opinione (pur se discutibile) su momenti cruciali della nostra storia, Tajani si è recato a Canossa, giustificando implicitamente Bullmann, Prodi, Della Vedova & C. per averlo esposto alla gogna mediatica: è stato come riconoscere che avrebbe dovuto essere più attento alle parole e pensare alle reazioni che avrebbero potuto provocare. Diciamoci la verità: il ‘politicamente corretto’ lo abbiamo inventato noi anche se, per un residuo senso estetico, non ne meniamo vanto. O meglio abbiamo inventato il suo coté negativo laddove negli Stati Uniti vige da tempo quello positivo: in America, il politically correct serve a ‘imbiancare’, a dare dignità (ad es.,ai neri che diventano afroamericani), in Italia serve ad ‘annerire’, a demonizzare persone, figure e simboli storici che, se estranei al mainstream buonista e universalista, vengono precipitati nella stessa ‘massa damnationis’: in entrambi i casi, troviamo la  censura del pensiero e l’umiliazione di chi si ostina a pensare con la propria testa.

D’ora in poi, si può scommettere, Antonio Tajani—politico mite, rispettoso e così diverso dalla media dei suoi colleghi—sarà più guardingo nelle sue ‘esternazioni’, ricordando che quanto si dice in privato, non può essere detto in pubblico. Le convenzioni vanno rispettate anche se imposte dalla ‘grande ipocrisia’.




L’arte della separazione, stile di pensiero liberale

Da Jan Palach alle foibe carsiche, Guido Crainz si è assunto il compito di riscattare la cultura di sinistra in Italia (post-comunista, post-azionista, post-dossettiana etc etc.) dall’accusa di insensibilità dinanzi alle tragedie storiche causate da uomini e ideologie  che fanno parte dell’album di famiglia.

Nell’articolo pubblicato da ‘Repubblica’ domenica 10 febbraio, Mattarella e il dramma delle foibe, lo storico scrive, in linea con il discorso  fatto dal Presidente della Repubblica nel giorno della memoria:« Quelle migliaia di uccisioni, quel clima di terrore che segnò l’autunno del 1943 in Istria e il maggio-giugno del 1945 nell’intera zona occupata da Tito—e che portò all’esodo della quali totalità della popolazione italiana—non sono riducibili a ‘una ritorsione contro i torti del fascismo’, per citare ancora Mattarella». Averlo riconosciuto in un paese in cui la Sezione di Rovigo dell’Anpi in un suo comunicato negazionista scrive che quegli eccidi sono un ‘invenzione dei fascisti’, non è poco. Si sarebbe voluto, però, che, oltre al nazionalcomunismo di Tito, venissero ricordati anche i partigiani comunisti italiani che collaborarono al massacro nonché i portuali genovesi—la Superba è sempre stata il semenzaio del peggiore fanatismo estremista—che volevano impedire ai reduci istriani di sbarcare in Italia in quanto nazifascisti.

Comunque non è tanto su questa dimenticanza (se si scrive su ‘Repubblica’ ci si autocensura) quanto su un vecchio e deprecabile ‘costume di casa’ che porta i nostri intellettuali impegnati all’uso strumentale della ‘storicizzazione’. Quando si tratta delle malefatte dei neri, il giudizio etico prevale su ogni altra considerazione: un giudizio terribile, inappellabile, che non fa sperare nella remissio peccatorum neppure nell’altro mondo. Quando si tratta, invece, delle malefatte dei rossi ci si richiama al ‘contesto politico’ sicché alla cerimonia commemorativa delle vittime—alle quali si rende onore con anni e anni di ritardo—si accompagna una bella lezione di storia. E’ come se accanto al sacerdote che officia la messa e ricorda il sacrificio di nostro Signore ci fosse un professore di storia antica a spiegare il ‘contesto’che portò alla crocifissione, le buone ragioni dei custodi delle leggi giudaiche e il motivo reale per cui Ponzio Pilato fece il gran rifiuto.

Si tratta di un ‘costume di casa’ che è la negazione pura e semplice (una delle tante) dello ‘stile di pensiero’proprio della democrazia liberale e altre volte rievocato su queste pagine. In questo caso, si ignora (si vuole ignorare) che le cerimonie pubbliche appartengono alla dimensione religiosa e hanno una funzione intensamente comunitaria :sono un collante sentimentale e valoriale non la rievocazione di come si sono effettivamente svolti i fatti, per citare Leopold  von Ranke.

«Quel clima—aggiunge Crainz a un discorso condividibile—non è comprensibile appieno però ove non si consideri nel suo insieme la lunga storia di quest’area: dal trauma della prima guerra mondiale sino alla politica anti-slovena e anti-croata perseguita dal fascismo. E sino all’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941, nello scenario di una guerra che fu—a est più ancora che altrove—guerra di sterminio» Ed eccoci, così, tornati al vizietto dell’intellettuale organico—una figura da noi sempre verde:Crainz plaude al Presidente Mattarella (l’officiante del rito delle foibe) ma non dimentica di affiancargli il professore di storia contemporanea che dice agli Italiani: ora asciugatevi le lacrime perché è venuto il momento di dirvi «perché è successo».

  Intendiamoci, se ci si trovasse nel laboratorio  delle scienze storiche e sociali condividerei, sul piano metodologico, quanto scrive Crainz  sulla necessità di storicizzare gli eventi, ma che c’azzeccano gli strumenti della ricerca con la giornata della memoria? Non solo. E perché quando si rievocano e si depongono corone di fiori sui luoghi dei delitti compiuti dal fascismo—ad esempio, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia  dove venne rapito e ucciso Giacomo Matteotti—non si parla—e giustamente, ci tengo a sottolinearlo—di ‘contesto’ ovvero delle cause sociali, culturali, economiche, politiche che portarono il Duce al potere e che spiegano ‘gli anni del consenso’, le adesioni di larghissimi strati sociali al regime, le grandi trasformazioni—non tutte negative—che se ne ebbero nel paese?

 Lo storicismo è ,e da tempo, nel nostro paese, un po’ come le leggi di cui parlava il buon Giovanni Giolitti: è una misura che si applica agli amici (vincitori) e si nega ai nemici (i vinti). Sinceramente dispero che si ci possa liberare di questo doppiopesismo della mente e che si possa porre a fondamento della ‘società aperta’ l’arte della separazione dei piani, che nasce dal senso profondo della varietà delle dimensioni esistenziali e dei relativi codici. Sennonché quella che sembra l’invasione di campo di una scienza che antropofacizza  la sfera del mito e del sentimento, è, in realtà, ideologia con  maschera di scienza. Si ha, a volte, la penosa impressione che nelle nostre aule universitarie, sulle pagine culturali dei grandi quotidiani, nelle redazioni delle riviste, nei documentari televisivi, il ‘sapere’ serva solo a devitalizzare il dente cariato del ’senso comune’ quando non è in sintonia col pensiero egemone.Nel caso delle foibe, curiosamente, si accusano ancora oggi le destre di averne parlato in modo strumentale come se ciò non fosse vero per tutte le parti politiche che selezionano, nell’infinita varietà dei fatti storici quelli che «fanno il loro gioco».




Perché la ‘filosofia della guerra’ è più umana della ‘filosofia della rivoluzione’

Il ricordo—non le celebrazioni che non ci sono state—della vittoria italiana nella Grande Guerra è stato l’occasione per riaprire le cataratte della retorica buonista nazionale. «Mai più inutili stragi!», «Mai più guerre!». «La guerra è sempre la soluzione peggiore!». Se si pensa a un conflitto armato tra superpotenze dotate di terribili arsenali atomici, non si può che essere d’accordo. Oggi la guerra può rappresentare la fine della vita sulla terra o, comunque, ridurre il pianeta in uno stato simile a quello descritto da Robert Altman nel film ‘Quintet’ del 1979. Tale evidenza, tuttavia, è tale per il presente ma si capisce assai meno per il passato. Qual’ è la ragione reale che induce i pacifisti in servizio permanente effettivo a ritenere che la guerra sia sempre stata il peggiore dei mali? Non vedo, all’interno di un’etica cristiano-illuministica, che una ragione sola: l’erogazione di violenza, accompagnata dalla distruzione di vite umane, di paesaggi naturali e artificiali prodotti nei secoli con enorme dispendio di risorse economiche e intellettuali, di opere architettoniche che, senza la guerra, avrebbero sfidato i secoli, di edifici civili, di chiese, di biblioteche, di monumenti dell’arte, di laboratori della scienza. Sennonché se si tratta di questo, non c’è qualcosa di ancora più terribile della guerra nella rivoluzione? Se parliamo del conteggio dei morti, della fame, della carestia, del saccheggio, dell’abbattimento delle case e dei luoghi di culto, della demolizione dei simboli del regime politico abbattuto, la rivoluzione appare oggettivamente ancora più esecrabile della guerra. Nella sola Russia sovietica sono perite, in pochi decenni, più del doppio delle persone cadute nella Grande Guerra o nell’insensata guerra dell’Asse. La Rivoluzione cinese sembra sia costata alla popolazione civile più di trenta milioni di ‘nemici del popolo. La stessa ‘Grande Rivoluzione’ ha causato in Francia (e in Europa) un numero di morti maggiore di quello che si era avuto nelle guerre dinastiche per l’egemonia da Richelieu a Luigi XVI.

Quel che è peggio, però, non è la quantità dei trapassati a miglior vita bensì il carattere ideologico, religioso, spietato, fondamentalista, della rivoluzione. Le guerre d’ancien régime—che non s’intende certo idealizzare—scaturivano da un mero conflitto di interessi: ciascun esercito combatteva per the King and the Country e i nemici—specie se ufficiali superiori—si sentivano parte di uno stesso corpo professionale, caratterizzato da uno specifico senso dell’onore, che imponeva il rispetto del ‘collega’.«Messieurs les Anglais, tirez les premiers !», sono rimaste celebri le parole pronunciate nella battaglia di Fontenoy (1745).’La Grande illusione’ di Jean Renoir (1937) resta ,forse, l’espressione più toccante di quel ‘mondo di ieri’ in cui erano ancora immersi i due aristocratici protagonisti del film– il comandante della prigione tedesca, il capitano von Rauffestein (Erich von Stroheim) e il suo prigioniero francese, il capitano Boeldieu (Pierre Fresnay)–ma che non riusciva a comprendere, per le sue origini borghesi, l’altro prigioniero francese, il tenente Marèchal (Iean Gabin).

E’ con la Rivoluzione francese, in effetti, che inizia the Great Transformation. Gli eserciti che si battono contro la reazione esterna e interna non inalberano la bandiera della ‘Ragion di Stato’—che, in quanto ragione con la erre minuscola, conosce l’arte della prudenza e la capacità dell’autolimitazione non in nome della morale ma dell’«interesse bene inteso»—bensì il vessillo dei «diritti dell’uomo e del cittadino» che porta a riguardare i nemici come agenti della Reazione, espressioni del Male assoluto, della negazione radicale dell’eguaglianza, della libertà e della dignità di tutti i Figli della Terra. La violenza non viene ora avvertita come una ineliminabile necessità ma come la giusta punizione dei corrotti e dei depravati che vogliono fermare il corso della storia. Non ci sono più ragioni al plurale ma c’è solo la Raison al singolare–e con la lettera maiuscola–che impone di bonificare il terreno della conquistata libertà dai parassiti e dalle cattive erbacce che, nel corso dei millenni, hanno impedito di trasformare il pianeta nel giardino sognato dagli utopisti. E’ l’eticizzazione (e, in seguito, la giuridicizzazione) del conflitto che rende, de facto, la rivoluzione, nel suo corso, più disumana della guerra, giacché nessuna Convenzione di Ginevra ne limita e contiene la violenza. Quando il nemico è un criminale nessuna pietà può muovere chi lo cattura e se, nondimeno, riesce a salvarsi (per essere portato dinanzi a un tribunale) ciò avviene per la sopravvivenza di antichi codici d’onore nel vincitore. Non è causale che durante la nostra guerra civile—la Resistenza—i partigiani provenienti dall’esercito siano stati meno spietati di quelli provenienti dai partiti (v. le memorie di Edgardo Sogno e di Alfredo Pizzoni); e che un fenomeno analogo si sia registrato nella ‘Guardia Repubblicana’ di Salò in cui i membri della Milizia o del disciolto PNF andavano meno per  le spicce rispetto ai soldati dell’ex esercito regio.( E’ la testimonianza–da me raccolta–di ufficiali che, vivendo al nord, si erano ritrovati nel territorio della Repubblica Sociale e che ad essa avevano dovuto aderire)

Ci si pone, allora, la domanda: se la quantità della violenza erogata e la sua stessa modalità avrebbero dovuto indurre a temere più la rivoluzione che la guerra, perché i costi della prima sono stati rimossi al punto da farne un evento da santificare (anche quand’è finita male, come nel caso del 1917) mentre la seconda è rimasta sempre la cloaca massima in cui si riversano tutte le fogne infernali della terra? Il motivo sta nel fatto che in una società caratterizzata da una political culture lontana dal realismo, e sommamente indulgente per tutto ciò che sa di—o si richiama al– ‘progresso’, contano soprattutto le intenzioni. Le rivoluzioni si fanno (o almeno così si pensa) per ragioni ideali, per liberare gli uomini dall’oppressione aristocratica o dalla tirannide borghese, mentre le guerre traggono origine dagli interessi e gli interessi non sono valori ma appetiti egoistici. Incendiare le case degli sfruttatori del popolo può essere riprovevole ma è, nondimeno, manifestazione di altruismo: difendersi (con le armi) da quanti vogliono toglierci il posto al sole o prevenirli nell’occuparlo non ha alcuna giustificazione, è manifestazione di nazionalismo e di sopraffazione, anche in presenza di un’oggettiva volontà di sopraffazione da parte degli Stati vicini e concorrenti—gli stati, diceva Benedetto Croce, sono leviatani dalle viscere di bronzo.

«La guerra non ha mai risolto nulla?». In un certo senso è vero, se i due conflitti mondiali hanno ridisegnato la cartina dell’Europa e del mondo, non sono riusciti poi a ridisegnarla in meglio, almeno in ogni loro parte :il vecchio continente nel 1918 assistette, in molte aree, all’affermazione del ‘principio di nazionalità’, al crollo degli Imperi centrali e dell’autocrazia zarista ma, nella voragine di potere aperta dalla Grande Guerra, si sarebbero ben presto installati regimi totalitari così disumani da far impallidire il ‘dispotismo asiatico’ di Montesquieu.

Sennonché «che cosa ha risolto poi la rivoluzione?» Il bilancio della rivoluzione sovietica è stato—anche per storici decisamente schierati a sinistra come Eric J. Hobsbawm—del tutto fallimentare e sulle sue macerie, quarant’anni fa, è nato un regime politico democratico-autoritario che solo vendendo all’estero le sue materie prime riesce a evitare la bancarotta. E quanto alla Francia, madre di tutte le rivoluzioni moderne si sarebbe, forse, trovata peggio senza il Terrore giacobino, la dittatura napoleonica, e il vorticoso avvicendarsi di repubbliche e monarchie? Sono domande che in nessuna scuola della Repubblica possono venir poste senza prestarsi all’accusa di disfattismo democratico se non di reazione. Eppure i fatti sono quelli e stanno lì più duri dell’acciaio.

A mio modesto avviso, per dirla brutalmente e senza nessuna preoccupazione per il politically correct, non saremo mai una democrazia  liberale a norma se non sostituiamo la “filosofia della guerra” alla “filosofia della rivoluzione”, se non ci rassegniamo a vedere nell’avversario uno come noi, che ha interessi diversi dai nostri–e talora componibili solo con le armi (le armi della scheda elettorale, non quelle militari)–ovvero se non rinunciamo a considerarlo un essere moralmente inferiore, da schiacciare senza pietà. Nella ‘filosofia della rivoluzione’ c’è l’idea della mela marcia, del virus letale che infetta una società (naturaliter) sana, nella ‘filosofia della guerra’, c’è, sostanzialmente–venata di scetticismo humiano–l’idea dell’eguaglianza per cui sui due lati della barricata ci si aspetta di trovare lo stesso materiale umano.

 




Un caso inequivocabile di antifascistite acuta

 Alberico Giostra non è uno dei tanti che scrivono su Facebook o su riviste on line lette da pochi intimi—parenti e amici. Ha lavorato al Tg La7 e scritto su ‘Liberazione’, ‘Il Manifesto’, ‘Il Riformista’, l’’Espresso’ e ‘Diario’. Nel 2007 ha pubblicato un’inchiesta su Clemente Mastella nel volume collettaneo, I nostri ponti hanno un anima, nel 2009, Il Tribuno. Storia politica di Antonio Di Pietro, nel 2013 l’e-book, Di Pietro ultimo atto. La caduta del Tribuno e nel 2018 Il partito del F.Q. Chi trova un nemico trova un tesoro, un feroce attacco al ‘Fatto Quotidiano’. Da tempo lavora alla RAI ovvero nell’ente pubblico che svolge un ruolo decisivo nell’informazione e, volente o nolente, nella formazione culturale degli italiani—qualche anno fa si sarebbe detto nella nazionalizzazione delle masse—e che, pertanto, dovrebbe fare una politica delle assunzioni particolarmente prudente e severa. L’8 gennaio Giostra ha postato su Facebook queste sue riflessioni: «Il pugile professionista che a Parigi si scaglia con violenza contro il poliziotto a terra, l’aggressione dei neofascisti di Forza Nuova contro il giornalista dell’Espresso, Federico Marconi, al Verano, dimostrano non solo che il fascismo non è un’ideologia ma un reato, ma che il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione. Si diventa fascisti perché si ha voglia di menare le mani, non per difendersi da qualche minaccia. Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno. Si diventa antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia. Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia. Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità».

 Vale la pena occuparsi di queste farneticazioni? L’obiezione che mi è stata fatta da un amico giornalista al quale avevo manifestato il mio stupore dinanzi a tante banalità ideologiche, è tutt’altro che infondata. Sennonché è difficile trattenere lo sconcerto se si pensa che, piaccia o no, la mens di Giostra è la stessa di tanta, tantissima, parte della nostra political culture: i suoi giudizi   sono moneta corrente nelle nostre facoltà umanistiche, nei mass-media, nelle pagine culturali dei grandi quotidiani nazionali, nei tribunali dell’ANPI, quelli che hanno dato notizia della morte di Giorgio Albertazzi col comunicato Un bastardo ci lascia e hanno contribuito a stendere un velo di silenzio sul 1918—l’inutile strage voluta da una minoranza cieca e violenta. Pubblicisti come Giostra, in realtà, non sono da sottovalutare: rappresentano, infatti, un case study esemplare che consente di mettere a fuoco la degenerazione dell’antifascismo in antifascistite acuta e le ragioni del discredito odierno che tale repellente metamorfosi getta sulla più nobile delle cause politiche, quella della lotta per la libertà dei popoli e in difesa della dignità umana.

A chi da una vita si occupa di fascismo, sulla scia di grandi storici e filosofi del XX secolo—da Renzo de Felice ad Augusto Del Noce, da Ernst Nolte a Domenico Settembrini—il post di Giostra fa un effetto terribile e sconvolgente. Dà il senso dell’assoluta inutilità di una ricerca storica che, sulle due rive dell’Atlantico, ha segnato momenti fondamentali per l’evoluzione stessa della democrazia liberale: non è casuale che il revisionismo storiografico—che ha avuto in De Felice il suo simbolo per antonomasia—abbia ridato nuovo vigore intellettuale al liberalismo contemporaneo, ispirando, ad es., opere come Il passato di un’illusione del grande storico François Furet, prematuramente scomparso, e abbia ridestato l’attenzione  sulla produzione saggistica di Raymond Aron, il principe del liberalismo novecentesco, quasi un revisionista ante litteram per i suoi studi sulle destre—conservatrice e radicale. Leggere che « il fascismo non è un’ideologia ma un reato» e che « il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione» significa trasmettere alle giovani generazioni, avide frequentatrici di facebook, un’immagine della dittatura italiana che avrebbe fatto trasalire persino il Palmiro Togliatti delle Lezioni sul fascismo (il celebre ciclo di conferenze tenuto dal Migliore a Mosca tra il gennaio e l’aprile 1935) per non parlare del Gramsci dei Quaderni.

 Con Giostra siamo ancora nella fase preanale della riflessione sui movimenti totalitari di destra, segnata dall’autocompiacimento per le proprie secrezioni etico-emotive e dall’estraneità assoluta all’etica weberiana della ricerca, che distingue analisi e valutazioni, scienza e coscienza. Sennonché l’auogratificazione di chi si sente immune dai «più beceri istinti di violenza e di sopraffazione» ha un costo elevato: la cancellazione della realtà, l’incapacità di riconoscere che, per tanti anni, una parte rilevante della società italiana ha plaudito al duce e che tanti illustri intellettuali—da Giovanni Gentile a Luigi Pirandello, da Gioacchino Volpe a Guglielmo Marconi —hanno visto in lui il pater patriae, il salvatore di una  ‘comunità nazionale’ dilacerata non tanto dai problemi enormi della ricostruzione postbellica quanto dall’irresponsabilità politica dei principali partiti e sindacati  privi del senso delle istituzioni e restìi  a mettere da parte i loro contrasti per salvare natura e funzioni dello Stato di diritto.

 Se si definisce fascista   chi ha voglia di ‘menar le mani ’non ha più senso alcuno lo sforzo di comprensione dei nostri avversari: alla violenza si reagisce con la violenza senza perder tempo in inutili chiacchiere. Come nel vecchio western ,vince chi spara per primo e Giostra si candida a pistolero (per ora solo verbale) al servizio della Dodge City antifascista. Sennonché, nel suo concetto allargato di fascismo, tutto diventa species  del genus.« Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno»: in altre parole, se si è contrari alle nozze gay e, soprattutto, all’adozione gay (ma non al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto) in nome di una visione tradizionale della famiglia non si è portatori di valori diversi da quelli di Giostra e del ‘Manifesto’—valori ereditati appunto dalla Tradizione  contrapposti ai valori  nati dal Progresso–:si diventa la mela marcia fascista che una società civile è tenuta ad espellere dal suo paniere. Del pari, se si è «antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia» ,le riserve manifestate da Norberto Bobbio nei confronti dell’interruzione della gravidanza vanno lette come senescenza senile, oscuramento dell’intelligenza morale.

 La sindrome totalitaria può definirsi come la malattia dello spirito che tende a fare un solo fascio di quanti non la pensano come noi e a squalificare a priori le distinzioni nel campo di Agramante che fanno perdere solo tempo. Tra il seguace del ‘Movimento per la vita’—che legittimamente, peraltro, si batte contro l’aborto—e il liberale laico che assimila l’aborto a un omicidio ma ritiene che lo sconvolgimento di vita della madre sia da tenere in maggiore considerazione della pur dolorosa soppressione di una esistenza non ancora sbocciata, non c’è nessuna differenza. Tra chi si lamenta di un’immigrazione che degrada e rende insicuri i quartieri   delle metropoli (e non sono certo quelli ricchi) e l’incappucciato del Ku Klux Klan c’è solo un diverso grado di temperatura razzista.

«Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia». Per chi sa come va il mondo—anche se non ha fatto il militare a Cuneo—l’universo morale è sempre in bianco e nero: nessun sospetto, pertanto, che nella pur detestabile categoria dei giustizialisti ci siano persone che non godono affatto (o godano poco) nel vedere qualcuno alla gogna ma che pensano a torto (dal mio punto di vista liberale) che una giustizia rapida e implacabile debba difendere la società dei corrotti e dai violenti, senza andar troppo per il sottile. Tutti fascisti, insomma, tutti parte della massa damnationis che Giostra vuole sprofondare nelle fogne! Siamo passati dalla scala f  ||f sta per fascismo|| della personalità autoritaria—la ricerca collettiva del 1950 guidata, negli Stati Uniti, dall’esule T. W. Adorno– il discusso fondatore della Scuola di Francoforte ma pur sempre erede della grande tradizione filosofica tedesca—al Fascistometro (ed. Einaudi) proposto dalla dilettante allo sbaraglio Michela Murgia, una sarda alla quale i media hanno dedicato un’attenzione a dir poco eccessiva (ed avvilente per i seri cultori delle humanities)

 Forse per aver il senso della complessità della vita e della tremenda difficoltà cui va incontro la smania dell’etichettatura ideologica bisognerebbe aver letto Montaigne e Hume—a mio avviso, da considerare padri nobili del liberalismo a maggior titolo degli stessi Locke e Montesquieu–: potrebbero essere un antidoto contro la tentazione—così forte in quanti ,da noi, si occupano di politica, a destra e sinistra—del fondamentalismo etico-politico per il quale finché c’è guerra (civile) c’è speranza. Sennonché in Italia i due classici dello scetticismo moderno—Montaigne e Hume, appunto—sono autori più ammirati che letti e, quand’anche venissero letti, servirebbero solo come armi contro la Tradizione e non certo come lame a doppio taglio in grado di scalfire le certezze del progressismo illuministico e del suo supposto punto di approdo: il comunismo sovietico.(i pochi filosofi humeani che ho conosciuto, ai tempi dell’Università, votavano tutti per il PCI, come i cd ‘filosofi analitici’ che della ‘grande divisione’ tra giudizi di fatto e giudizi di valore si riempivano la bocca, forse senza aver letto una sola pagina di Vilfredo Pareto, uno dei più grandi  sociologi del suo tempo che su quella divisione scrisse pagine definitive).

 L’obiettivo incitamento all’’odio per il diverso’ (la destra, il fascismo, il tradizionalismo etc. etc.) che si registra nel post di Giostra non poteva non concludersi con un monito esemplare: « Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità». A questo punto forse è inutile (e persino patetico) ricordare che, per l’homo europaeus, la politica e l’etica sono senza verità giacché la verità appartiene al dominio della scienza mentre la politica e l’etica sono fatti di coscienza e non devono stabilire che cosa è vero ma che cosa è giusto e per chi…E ancor più superfluo è rilevare ciò che per gli studiosi seri sarebbe la scoperta dell’acqua calda e cioè che la violenza politica contrassegna tutte le ideologie e i regimi totalitari e che riguardare il diverso alla stregua di un criminale ricorda personaggi come Lenin, Mao, Pol Pot—che i ‘libertari’ del ‘Manifesto’ contrapponevano al burocratismo del sedicente compagno Stalin, fascista il va sans dire.