Quant’è bella eresia L’ impresa eccezionale è restare ortodossi…

«Fece la fine dell’abbacchio ar forno /Perchè credeva ar libbero pensiero, /Perchè se un prete je diceva: -È vero/ Lui risponneva -Nun è vero un corno!». Questi versi dell’immortale Trilussa fanno venire in mente uno dei buchi neri del carattere nazionale, la passione inesausta per gli eretici. Basta che uno scenda in piazza per dire «non è vero un corno», per riscuotere l’ammirazione e la simpatia degli italiani o meglio dell’intellighentzia che, nel nostro paese, si ritiene lo specchio più fedele dell’opinione pubblica colta e pensante. Solo da noi, se ci si pensa bene, per esaltare qualcuno—specie post mortem—si dice che «fu un eretico!». Essere stato un «ortodosso» (il contrario, appunto, di eretico) equivale a venir accusato di conformismo se non di servilismo. L’eretico può sempre contare su una buona stampa indipendentemente dall’obbligo di rispondere a domande non retoriche come: «ribellione a chi? E perché?». Il pregiudizio positivo, tipico dei popoli immaturi, porta a esaltare gli oppositori, in virtù del principio che la critica è sempre una manifestazione di vitalità. «Sono lo spirito che sempre dice no/ Ed a ragione. Nulla/c’è che nasca e non meriti/ di finire disfatto». Si direbbe che questi siano i versi del Faust di Goethe che più hanno colpito i nostri chierici. Non si spiegano, altrimenti, l’entusiasmo di non pochi storici per gli avversari radicali di Robespierre, di Stalin, di Mao, dello stesso Hitler. Cosa importa che contestassero l’Incorruttibile perché non tagliava abbastanza teste o «l’Uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’Umanità» (così “L’Unità” diede la notizia della morte di Stalin), di non fare abbastanza…L’importante è criticare, criticare, criticare nella certezza che dalla contestazione la libertà uscirà armata come Athena dalla testa di Zeus. Ma è proprio sempre così?

Non vorrei essere equivocato. Sappiamo tutti che senza il vento vivificatore della critica—e della stessa protesta—il lago della politica diverrebbe uno stagno malsano. In Politica in nuce, Benedetto Croce scrisse, in proposito, una delle sue riflessioni più profonde: «la vita morale abbraccia in sé gli uomini di governo e i loro avversari, i conservatori e i rivoluzionari, e questi forse più degli altri, perché meglio degli altri aprono le vie dell’avvenire e procurano l’avanzamento delle società umane. Per essa non vi sono altri rei che coloro i quali non si sono ancora elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama e celebra i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li santifica martiri dell’idea. Per essa ciascun uomo di buona volontà serve alla causa della cultura e del progresso a sua guisa, e tutti in concordia discorde». E tuttavia, come non tutte le ciambelle escono col buco, così non tutte le contestazioni dell’esistente «procurano l’avanzamento delle società umane». Anche fascisti, nazisti e comunisti rifiutavano le democrazie liberali ma non pertanto meritano la gratitudine del mal seme d’Adamo. Il 68, almeno in Italia, ha contestato scuola e università e ne ha contribuito allo sfascio irreparabile. Certo i modelli di democrazia liberale e d’istruzione pubblica, in Italia, in Germania, nella Russia di Kerensky, per molti aspetti lasciavano a desiderare ma le febbri di crescita non si guariscono con la cicuta, sopprimendo il malato tout court.

 In Italia, se si pensa ai versi commossi dedicati dalla stampa mainstream ai vari movimenti giovanili “scaturiti dal basso” —dai girotondi alle sardine—c’è un basso continuo antico che non si riesce a eliminare. Mi riferisco alla persistente contrapposizione del paese reale al paese legale. Tale contrapposizione aveva senso (eccome!) prima del suffragio universale, quando gli attori politici e sociali che contavano erano un’esigua minoranza, rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione che non aveva voce né rappresentanza. Quando la patria era quella di lor signori richiamarsi agli ‘esclusi’ non era solo democratico ma altresì liberale, giacché significava il riconoscimento della dignità di tutti i cittadini, anche di quelli male in arnese.

Col suffragio universale, però, le cose sono radicalmente cambiate: la legalità—i rappresentanti del popolo sovrano— è diventata, piaccia o no, il fondamento della legittimità—il diritto/dovere degli eletti a governare e a fare le leggi—  e continuare a opporre la seconda alla prima ingenera il sospetto che si voglia esentare le presunte “guide della nazione”—depositarie del senso elevato dello Stato e della difesa della Costituzione antifascista— dal mettersi da parte in caso di sconfitta elettorale. Di qui l’entusiasmo nei confronti dei “giovani adulti” (come il pindarico Ilvo Diamanti chiama le sardine) che riempiono le piazze mostrando che c’è un popolo che vive, che sente, che si preoccupa, che guarda, con timore e tremore, all’ascesa dei sovranismi, delle destre nazionaliste, di quanti vogliono riportare indietro le lancette della storia, che saranno pure maggioranza ma certo ‘maggioranza silenziosa’ servile e ignorante. “A foa || favola|| a l’è sempre quella”, dice una vecchia canzonetta genovese. E la “foa”, a ben riflettere, è la longue durée dell’abito mentale azionista con la sua «vocazione alla pedagogia verso gli altri partiti e verso il paese spesso più irritante che efficace», come scrisse il compianto De Caprariis, uno dei grandi storici del cenacolo crociano.

 In un articolo pubblicato su “Il Dubbio” il 27 novembre u.s., Se fanno i girotondi 2.0 finiranno per perdersi, Zeffiro Ciuffoletti ha scritto che «bisognerebbe ricordare che non sono solo le piazze a determinare la politica, e nemmeno la piattaforma Rousseau, ma semplicemente le urne elettorali che in Italia contano sempre meno, ma tuttavia restano decisive fin che saremo una democrazia». Forse, considerando il clima attuale che si respira in certi ambienti italiani, che temono sempre AnAnibale alle porte, la “nuova eresia” è questa: credere che al di fuori della legalità democratica non ci sia nessun’altra “legittimità superiore” —almeno se si resta nella dimensione della politica ovvero della vichiana “feccia di Romolo”.

Pubblicato su Il Dubbio



MINIMA POLITICA. Ora anche i sovranisti si mettono a fare gli antirisorgimentali

«Non si dimentichi, inoltre, che l’Unità d’Italia venne imposta con le armi, e non è considerazione di poco conto, e ben più della maggioranza degli abitanti dell’Italia pre-unitaria non la voleva affatto». Sono settant’anni che leggo frasi come queste in cui dà il meglio di sé l’attitudine italiana a épater les bourgeois avvalendosi di constatazioni ovvie. Nelle altre culture lo stupore si accompagna al trasgressivo, a verità che non sono tali per tutti ma, si sa, come diceva il vecchio Indro Montanelli, noi vogliamo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri. C’è però una grossa differenza rispetto al passato. Al tempo della mia giovinezza, a ripetere le celeberrime parole di Alfredo Oriani (maître-à-penser, si ricordi sia di Benito Mussolini che di Antonio Gramsci) sul sopruso della minoranza eroica che, nell’indifferenza dei popoli della penisola, fece l’Italia «aiutata da incidenze e coincidenze straniere», erano soprattutto gli eredi dei vinti del Risorgimento—comunisti e cattolici. E’ vero che non tutte le sinistre erano, si direbbe oggi,’revisioniste’—c’è un vario socialismo risorgimentale e mazziniano che arriva sino a Gaetano Salvemini e a Leonida Bissolati; ed è anche vero che, nel mondo cattolico, una componente di rilievo—il cui più prestigioso esponente, nel secolo scorso, fu Carlo Arturo Jemolo—si riconosceva  toto corde nei valori dello stato nazionale. D’altra parte, senza l’apporto decisivo della borghesia colta cattolica non avremmo avuto l’unità ed è, forse, superfluo ricordare che grandi statisti come Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e lo stesso Cavour che volle per il viatico un francescano, poi condannato da Pio IX, erano credenti. Resta, comunque, che i comunisti erano patrioti di un’altra patria (l’URSS) e i cattolici si sentivano eredi di uno Stato che la Chiesa non aveva riconosciuto.

 Oggi le cose sono cambiate. Paradossalmente è tra quanti si chiedono «per quale oscura ragione di diritto internazionale dobbiamo mettere il nostro ambito legislativo in posizione subordinata al diritto europeo e chiedere il nulla osta preventivo prima di decidere delle nostre questioni interne?» che si ritrova, spesso e volentieri, la demistificazione dello stato nazionale. In realtà non si comprende quale giovamento ne venga alla nostra civic culture e su quali valori i ‘sovranisti’ intendano ricostituire una citizenship condivisa. Abbattuti i monumenti a Cavour, a Mazzini, a Garibaldi, cancellate le tradizioni e gli ideali di chi volle farci diventare «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie di sangue e di cor» (Alessandro Manzoni, un cattolico unitario risorgimentale…), cosa ci rimane? Prevedo l’obiezione: dovremmo reintrodurre la retorica nel nostro insegnamento della storia? E trattare il Risorgimento nazionale come l’ANPI tratta la Resistenza antifascista? Ma neppure per sogno! Il processo che portò al ricongiungimento delle sparse membra della penisola fu, sia pur assai meno della lotta di Liberazione, costellato di contrasti, di violenze, di dure opposizioni sul tipo di stato (centralizzato o federale) che si sarebbe dovuto sostituire alla Staaterei preunitaria. E tuttavia la storia va studiata seriamente e la storia ci dice che se i modelli politici, vagheggiati dalle diverse correnti patriottiche, furono diversi, c’era qualcosa di profondo che le univa tutte: un fortissimo sentimento d’italianità, che rifulge nettamente persino nel più intransigente oppositore della soluzione sabauda, il federalista a 360 gradi Carlo Cattaneo (basta leggersi i due volumi degli Scritti letterari, a cura di Piero Treves, ed. Le Monnier).

 Il problema, però, è un altro: quando si scrive, come faceva Oriani, che il popolo rimase estraneo (se non ostile) alle guerre di indipendenza, bisogna, perché l’osservazione abbia un senso, fare del comparativismo. La ‘costruzione dello Stato’, in altri contesti europei, avvenne consultando le popolazioni interessate?’I trenta re che fecero la Francia’, per citare il grande Charles Maurras, chiesero il consenso dell’Anjou, del Cotentin, della Provence? E i monarchi inglesi tennero conto dei desideri di gallesi, irlandesi, scozzesi quando ne fecero gemme della loro corona? E ci sono Stati in Europa che fecero eccezione?

 Si dirà: ma allora non erano i popoli a decidere bensì i sovrani. Certo, in ogni epoca storica sono determinate forze politiche ad assemblare regioni, province, città: la democrazia, come potere del demos, è venuta dopo. D’accordo ma la regola vale altresì per l’Ottocento, e per quello italiano in particolare, in cui a ‘fare politica’, a guidare i popoli, erano le borghesie nazionali e le loro avanguardie intellettuali. Ebbene si può contestare che la stragrande maggioranza di quelle borghesie—anche grazie alla stagione illuministica, che segnò una grande pagina della nostra storia intellettuale e alla conquista francese, che ci diede il tricolore—era per l’unità, per la Grande Italia? Nel meridione—a parte qualche piccolo storico locale nostalgico dei Borboni—l’alta cultura era quasi tutta schierata dalla parte dei Savoia (e, tra l’altro, non proponeva soluzioni federali ma uno stato forte e centralizzato in grado di mettere mano ai mali antichi del Sud). Nel centro e nel nord sentirsi italiani significava sentirsi moderni e volersi ricongiungere all’Europa vivente. Letteratura, arte, storia, filosofia non conoscevano frontiere e la lingua era un potente argomento per quanti volevano che le frontiere culturali coincidessero con quelle politiche. «Unità imposta con le armi?» Vulimme pazzià´? come si direbbe a Napoli. E il fenomeno del volontariato—che univa nelle stesse formazioni combattenti abitanti di ogni parte della penisola—non era la riprova che le ‘minoranze eroiche’ erano, sì, minoranze (nel senso che contadini e plebi urbane rimanevano a guardare le loro gesta, ma per gli artigiani si dovrebbe fare un discorso diverso) ma diffuse sull’intero territorio nazionale?

 A scuola una volta ci mettevano in guardia contro gli anacronismi. Anacronismo, si legge nell’Enciclopedia Treccani è l’« errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa». La sua proliferazione è, forse, la più triste riprova di quella perdita della storicità, che fu il portato più prezioso del liberalismo ottocentesco. Ricordare che l’unità italiana è stata fatta senza il consenso delle masse sta sullo stesso piano dell’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, colonizzatore e razzista. Sulla bocca di un sovranista è a dir poco sconcertante!




Il terrorismo del piano inclinato

Mi permetto di suggerire a Michela Murgia, l’Hannah Arendt di Cabras, inventrice del fascistometro, un indicatore forse ancora più infallibile dei 65 da lei individuati per smascherare la personalità totalitaria. Si tratta dell’argomento della china pericolosa—slippery slope argument—fondato sul sofisma che una volta ammesso A non puoi evitare di percorrere tutte le tappe che ti porteranno a Z. E’ come dire, chi ha cominciato a fumare lo spinello si ritroverà dipendente dall’eroina. Forse pochi altri stili di pensiero rivelano il cancro del fondamentalismo etico, dell’ottusità mentale, dell’oscuramento della ragione, del furore nichilistico come questo. A destra e a sinistra se ne fa un uso smodato: «se ammettiamo questo, chissà dove andiamo a finire!», «ciò che sulle prime sembra innocuo può diventare l’inizio delle peggiori nefandezze!». In tutto questo c’è una sottile sfiducia nella libertà e nella responsabilità umana: un’opinione cattiva diventa un cappio al collo di cui non ci si può liberare più e sostenere un’idea politicamente scorretta (lasciamo stare, per il momento, chi decide che sia tale) è come aver contratto una malattia. E coi malati non si dialoga: si curano o si isolano. Così se si hanno riserve sulla politica dell’accoglienza e delle porte aperte si finisce, in virtù dello slippery slope argument— in compagnia di Hitler, se si propone una qualche nazionalizzazione (ed io da liberale non sono certo favorevole ad affidare allo Stato la gestione delle aziende in crisi), si finisce in compagnia di Stalin. E il risultato, guardando a sinistra, è che, come ha scritto Luca Ricolfi nel suo magistrale articolo di fondo Chi rema contro il partito del Pil (‘Il Messaggero’ 16 novembre u.s.), poiché nel mondo progressista, l’ideologia tende a prevalere su tutto «per la sinistra, la Lega e il suo leader, non sono normali avversari, portatori di un progetto politico a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie».

Si è a favore delle unioni civili ma contrari al matrimonio gay e al diritto di adozione (rivendicato con successo da Niki Vendola)? Si rischia l’accusa di omofobia e, se dipendesse da Monica Cirinnà, si potrebbe anche essere citati in giudizio. Si vuole chiudere i porti all’immigrazione irregolare? Si rischia di passare per biechi nazionalisti, amanti dei muri e delle frontiere. Si vogliono pene certe e severe per i reati contro le persone e le loro proprietà? Si rischia l’accusa di giustizialismo e di essere seguaci di Charles Lynch. Se poi qualcuno si dichiarasse a favore della pena di morte—sostenuta, peraltro, dal più grande filosofo dell’età moderna, Immanuel Kant, e nell’Italia contemporanea da uno studioso insigne come Vittorio Mathieu, che di Kant è forse il massimo esperto mondiale—sicuramente non avrebbe accesso a giornali e a cattedre universitarie. Intendiamoci, non sto sostenendo che le opinioni citate siano corrette e che quanti sono di diverso avviso, contrariamente alla communis opinio della stampa establishment, siano nel torto. Il virus totalitario sta nel ritenere che le opinioni abbiano lo stesso status logico degli ‘aridi veri’ della scienza e che opporsi, ad es., a un disegno di legge ritenuto giusto—e in linea con la Costituzione—equivalga ad affermare che sia il sole a girare attorno alla terra. Per i regimi totalitari era senz’altro così: nell’URSS opinare che il potere non apparteneva al popolo ma a una ristretta oligarchia, significava venir preso per pazzo—alla stregua di un sostenitore della teoria geocentrica—e rinchiuso in un manicomio criminale; nell’Italia delle camice nere, assai meno totalitaria della Russia e della Germania, negare le benemerenze del regime comportava una bella bevuta di olio di ricino, al fine di liberare corpo e mente dai veleni dell’antifascismo.

Nel clima denunciato da Ricolfi, purtroppo, si registra un effetto moltiplicatore. La denuncia di quanti sono accusati di odiare i diversi (immigrati, gay, zingari, islamici, ebrei etc. etc.) assume toni così forti e (verbalmente) violenti da convertirsi in odio per i (presunti) seminatori di odio: sicché all’odio dei secondi si unisce quello dei primi e il cielo della politica diventa ancora più plumbeo e opprimente.

E dispiace che a gettare benzina sul fuoco sia un pontefice pur rispettabile, come Francesco I che giustamente, nel recente discorso ai penalisti internazionali, ha fatto rilevare l’inciviltà della carcerazione preventiva—una battaglia liberale quant’altre mai. «Quanto sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel’34 e nel ‘36». ‘Esageruma nen’? direbbero in Piemonte. Concordo in pieno con quanto scrive Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo del 16 novembre u.s.—I grillini vogliono lo Stato di polizia. Qualcuno li fermi—e ritengo anch’io liberticida la legge Severino (votata anche da ‘Forza Italia’ grazie all’ineffabile Niccolò Ghedini) e un giudizio non meno severo mi sento di dare sull’eliminazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, chiesta dal ministro Alfonso Bonafede, ma rievocare Hitler rivela una preoccupante nostalgia delle crociate e dello scontro all’ultimo sangue nonché una ferrea determinazione a ripulire il mondo, in nome dell’universalismo paolino—v. il saggio di Alain Badiou, Saint Paul. La fondation de l’universalisme, Puf 1997—di tutto il male che vi alberga e che Papa Bergoglio individua, a livello internazionale, nel capitalismo e nella finanza apolide e, a livello locale, nella guerra pro aris et focis combattuta dai sovranisti.

Personalmente un movimento assistenzialista, giustizialista, populista, fautore della decrescita felice come quello fondato da Beppe Grillo è l’antitesi di tutto ciò in cui credo ma Hitler (e con lui Stalin, però non nominato) «che c’azzecca», come direbbe il padre spirituale dei pentastellati? No, il terrorismo del piano inclinato è la morte della democrazia liberale. E definire razzista chi, ad esempio, ha paura a vivere accanto a un campo rom ottiene solo l’effetto di renderlo razzista sul serio. Stiamo bene attenti: quanti, nati tanti anni dopo il crollo del fascismo, vengono giudicati fascisti per opinioni che ad essi sembrano del tutto ragionevoli potrebbero essere indotti a pensare: «ma se il fascismo era questo, non era meglio di questa nostra scarcagnata democrazia?».

Pubblicato su L’Atlantico



Fake news? C’è di peggio

“Fake news”, si legge in Treccani Cultura-Enciclopedia on line, è “una locuzione inglese (lett. notizie false), entrata in uso nel primo decennio del XXI secolo per designare un’informazione in parte o del tutto non corrispondente al vero, divulgata intenzionalmente o inintenzionalmente attraverso il Web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione, e caratterizzata da un’apparente plausibilità, quest’ultima alimentata da un sistema distorto di aspettative dell’opinione pubblica e da un’amplificazione dei pregiudizi che ne sono alla base, ciò che ne agevola la condivisione e la diffusione pur in assenza di una verifica delle fonti”.

Alle fake news è stato dedicato ampio spazio nella seconda edizione del Festival della Politica (Santa Margherita Ligure 20/21/22 agosto) organizzato dall’Associazione Culturale Isaiah Berlin e dedicato, quest’anno, al tema “Democrazia e Comunicazione”. Ne hanno parlato, tra gli altri, la sociologa del diritto Simona Andrini, lo storico delle dottrine politiche Enzo A. Baldini, il saggista Corrado Ocone. Non poteva mancare, ovviamente, il riferimento alla bufala di Donald Trump su Barack Obama “nato in Kenya”, un caso limite di disinformazione programmata (in questo caso per presentare Obama come “straniero” indegno di ricoprire la carica più alta degli Stati Uniti). Indubbiamente, le fake news – sulle quali, peraltro, Eugenio Di Rienzo ha scritto un illuminante articolo su Il GiornaleLa storia è piena di fake news ma sono tutte da studiare”, 8 agosto u.s. – sono i veleni dell’informazione in una società aperta ma, a ben riflettere, la disintossicazione non è difficile anche in virtù della loro evidenza e facile confutabilità.

Mi sembra assai più insidiosa, invece, la ricostruzione degli eventi (passati e presenti) che col metodo “forbici/copia e incolla”, incide, a tempo indeterminato, sulle credenze collettive e, combinando omissioni ben calibrate e qualche congettura presentata come fatto certo, foggia un senso comune e interpretazioni storiche e sociali al riparo da dubbi e confutazioni. Ne costituisce un esempio l’“Addio ad Alberto Ronchey un giornalista indipendente”, apparso su la Repubblica dell’8 marzo 2010 a firma di Ettore Boffano. A mio avviso, si tratta di uno scritto che dovrebbe essere letto e meditato in tutte le scuole di giornalismo, come case study di violazione dell’etica professionale che impone agli operatori della carta stampata di raccontare, prima di tutto i fatti, seguiti semmai (ma non è indispensabile) da un commento (anche di parte). Boffano ricostruisce la carriera di Ronchey, prestigioso editorialista (dal Corriere d’Informazione alla Stampa di cui fu direttore, dal Corriere della Sera a la Repubblica) e per qualche tempo ministro dei beni culturali, ma sul suo “lungo passaggio al Corriere della Sera che lascia nel 1981, in piena bufera P2” – un rapporto tormentato su cui ci sarebbe da scrivere un lungo saggio – non solo è telegrafico ma fa il gioco delle tre carte (per non dire altro). L’articolo, infatti, termina con una testimonianza che è tutto un peana a Piero Ottone e alla (presunta) “bontà dei cavalieri antichi”. Piero Ottone lo ricorda così: “La sua cifra più autentica era lo scrupolo di non sbagliare mai, di non imporre mai al lettore un qualsiasi errore. Qualcosa che nel giornalismo odierno non esiste più. Controllava tutto, numeri, date, nomi e non era mai soddisfatto sino a quando non vedeva l’articolo stampato, sempre in ansia di non aver fatto tutto il possibile”. “Aveva un senso etico, morale del giornalismo – conclude Ottone – che ha ispirato tutta la sua vita personale e professionale. Nel 1977, quando lasciai la direzione del Corriere, i Rizzoli padre e figlio mi chiesero un consiglio sul mio successore e io feci il suo nome. Apparvero entusiasti, ma poi cambiarono idea. Seppi dopo che era scattato un veto da parte di Licio Gelli che non lo voleva direttore. La scusa ufficiale per quel no fu che Alberto era troppo amico di Agnelli”.

In realtà, è difficile sapere come si sono svolti i fatti. Che il veto di Licio Gelli, nel 1977, fosse decisivo e che la scusa dell’amicizia con Gianni Agnelli fosse credibile è qualcosa che può credere solo un lettore immemore che abbia dimenticato l’accusa che si faceva a Ronchey di essere troppo vicino a Bettino Craxi e di avere in un certo senso “tradito” le sue vecchie amicizie repubblicane. Lucio Colletti raccontava che a impedire la successione di Ronchey alla direzione del CorSera fu il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, in accordo con Aldo Moro, ma tale ipotesi, tutt’altro che irrealistica, non avrebbe gettato ombre inquietanti sulla sinistra democristiana e sul leader politico candidato agli onori dell’altare? Meglio, quindi, non parlarne e riversare tutte le colpe sull’infame Licio Gelli, al quale potrebbe oggi imputarsi anche lo scioglimento dei ghiacciai.

Sennonché, al di là della domanda “chi pose il veto a Ronchey?” sarebbe stato interessante ricordare a quale Corriere sarebbe stata assai poco gradita la direzione di uno dei più grandi editorialisti colti del secondo Novecento. Ce lo racconta in un libro dimenticato (et pour cause!) un altro prestigioso giornalista scomparso nel 2017, Enzo Bettiza. In “Via Solferino. La vita del Corriere della Sera dal 1964 al 1974” (Ed. Rizzoli 1982), si rileva che “la formula ottoniana del ‘quotidiano di tutti’, mentre pretendeva di rispecchiare liberalmente gli umori della società moderna, in realtà rispecchiava soprattutto l’ideologia della microsocietà illiberale che, promossa e protetta dal sindacato, si era cristallizzata all’interno del Corriere (…). Questo processo di radicalizzazione e di spartizione dei ruoli, che vede il comitato di Fiengo (Raffaele Fiengo per vent’anni è stato un pilastro del Comitato di redazione, chiamato ‘il Soviet di Via Solferino’), usurpare col beneplacito di Ottone diverse prerogative direttoriali, sfocerà fatalmente in vari atti di censura, sofisticata o diretta. Ai miei commenti di politica estera seguiranno sempre più spesso dei controcommenti, che diranno il giorno dopo esattamente l’opposto di quello che dicevo io il giorno prima. Più tardi verrà il momento in cui certi articoli scomodi di Alberto Ronchey, destinati al fondo, saranno per così dire disinnescati con la elzevirizzazione di terza pagina”. Un destino analogo capiterà a Piero Ostellino. In fondo, può rilevarsi ironicamente, il Corriere aveva tenuto conto della lezione di un mio compianto maestro, Norberto Bobbio, che in uno dei suoi scritti più lontani dell’universo liberale, aveva lamentato che la democrazia si arrestasse alle soglie delle aziende.

Non era certo il caso di Via Solferino dove, sempre nel racconto di Bettiza, il 1° marzo 1974, nel vasto salone della mensa, un migliaio di persone del comitato di redazione e del consiglio di fabbrica, mise sotto accusa Cesare Zappulli che, sulla Domenica del Corriere aveva criticato il segretario generale della Cisl, Bruno Storti. “Qualche giorno dopo la Domenica del Corriere ospitava una minacciosa petizione sindacale contro il profanatore, al quale la direzione stessa del settimanale negava il diritto di replica”. C’era solo da domandarsi – concludeva amaramente Bettiza – cosa sarebbe avvenuto del nemico del popolo Zappulli se coloro che detenevano già tanto potere dentro l’azienda di Via Solferino avessero avuto nelle loro mani anche i ministeri della polizia e della cultura.

Saggiamente, dal suo punto di vista, il giornalista genovese (in seguito vicedirettore del Fatto quotidiano) non ha neppure accennato al clima che si respirava al Corriere negli anni ’70. Se l’avesse fatto qualcuno avrebbe potuto pensare: “Ma che probabilità c’erano, che con quei redattori e con quei tipografi – che avevano fatto entrare ‘la democrazia in azienda’ – che Alberto Ronchey divenisse il successore di Piero Ottone?”.

Qui non siamo in presenza di fake news in senso stretto ma, certamente, di un’operazione di insabbiamento ideologicamente motivata, che ci riporta alla filosofia del Grande Fratello. È il potere che dice “come sono andati i fatti”: se ne ricordano quelli che fanno comodo, si cancellano gli altri (la grande colpa di Renzo De Felice, storico del fascismo, è stata quella di non cancellare niente…) Se è vero che con le mezze verità, diceva Indro Montanelli, si costruiscono le menzogne, quelle inventate di sana pianta (come quella di Obama nato in Kenya) sono, in definitiva, meno pericolose delle menzogne che, proprio per il loro richiamarsi ai fatti, appaiono verità indiscusse.

Articolo pubblicato su L’Atlantico il 03 settembre 2019



Dai vecchi partiti-chiesa alle Srl minestrone di oggi. Ne è valsa la pena?

I vecchi partiti politici, che in Europa hanno scritto due secoli di storia e che quasi dovunque stanno esaurendo la loro carica vitale, hanno rappresentato qualcosa che forse ci toccherà rimpiangere a lungo.

In un certo senso, erano delle vere e proprie chiese, sia che si ispirassero alla moderna laicità illuministica sia che traessero alimento spirituale dal cristianesimo, cattolico o protestante. A caratterizzarli era una Weltanschauung, una impegnativa visione del mondo alla luce della quale veniva giudicato il passato e si elaboravano programmi di riforma della società, non necessariamente in senso progressista. Ogni partito presentava tre volti: l’ideologia – la sua specifica political culture – il programma elettorale (che poteva mutare, almeno in parte, di volta in volta), le battaglie concrete con cui voleva essere identificato – ad es., il divorzio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’adesione alla Nato etc. etc. In genere, nessuno si prendeva la briga di leggere i programmi – spesso ampollosi, troppo tecnici, sostanzialmente noiosi – ma si era molto attenti agli obiettivi specifici per cui un partito s’impegnava a battersi. E ancor più, va sottolineato, all’ideologia che fissava l’identità etico-sociale del militante e dell’elettore abituale. Quando si entrava nella grande sala con le pareti piene dei ritratti dei nobili antenati – si chiamassero Filippo Turati o Giacomo Matteotti, Luigi Sturzo o Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi o Benedetto Croce, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti – si era disposti a ingoiare più di un rospo se i leader del partito decidevano politiche o contraevano alleanze poco gradite. Si tolleravano scelte tattiche discutibili giacché si era rassicurati dal far parte di una comunità etico-politica su cui vegliavano i grandi del passato.

L’ideologia era, nel senso di Guglielmo Ferrero, il collante di legittimità dei partiti, il garante della loro continuità nel tempo, il deposito bancario sul quale si poteva sempre contare nei periodi bui. “Basta esporre la vecchia bandiera socialista e avremo di nuovo migliaia di iscritti”, pare avesse detto un vecchio socialista al rientro in Italia dopo l’esilio cui l’aveva costretto il fascismo. Quella bandiera era un simbolo quasi religioso, rinviava a idealità, a storie esemplari, a “filosofie”, nel senso forte del termine, che non si esaurivano certo nelle pur condivise richieste della Repubblica e della Costituente (parole d’ordine lanciate, con la sua foga generosa, da Pietro Nenni). Alla stessa maniera, lo scudo crociato indicava la casa in cui si sarebbero potuti raccogliere tutti i cattolici, almeno quelli che avevano accettato lealmente le regole e le istituzioni della democrazia liberale e, abbandonando ogni posizione temporalista, la separazione tra Chiesa e Stato. I più “moderati” potevano anche accettare l’alleanza tattica con i partiti “atei e materialisti” della sinistra giacché a rassicurarli era, per così dire, la “comunità di partito” ovvero la “famiglia spirituale” le cui tattiche – anche le più spregiudicate – rimanevano sempre in funzione di una strategia lungimirante volta a impedire che il processo di modernizzazione si risolvesse in una devastante secolarizzazione.

In Italia, grazie a magistrati integerrimi come Francesco Saverio Borrelli, quel mondo non esiste più: i partiti non sono più familles spirituelles ma, absit iniuria verbis, comitati d’affari (in prevalenza) della borghesia. Ci si unisce, si smantellano le vecchie federazioni, si formano nuove formazioni politiche in vista di obiettivi limitati e, spesso, in nome di un anti invece che di un pro. Fermare la “resistibile ascesa” di Craxi, di Berlusconi, di Renzi, di Salvini porta a vedere a braccetto in una stessa formazione politica Monica Cirinnà e vecchi democristiani, atei razionalisti e quanti si richiamano (dicono di richiamarsi) a Sturzo e a De Gasperi. Ci troviamo dinanzi a “società a responsabilità limitata” dove ciascun azionista pensa di rimanere se stesso giacché gli è garantita libertà di coscienza sulle grandi questioni etiche. In questa maniera, però, mi sembra difficile “salvarsi l’anima” e il rischio reale è quello di diluire le vecchie identità del passato in una marmellata ideologica, che si traduce nella statua di Aldo Moro con l’Unità in tasca.

In altre parole, non assistiamo alla laicizzazione dei partiti ma a un melting pot culturale che ne stravolge i connotati tradizionali. Partiti divenuti “leggeri” sono ormai uniti da un’inconsapevole ideologia “leggera” anch’essa: ma, a guardare bene, solo in apparenza. Per fare un esempio, Alcide De Gasperi è ormai quello di Pietro Scoppola – è l’uomo di centro che guardava a sinistra – Luigi Sturzo è l’interlocutore di Piero Gobetti se non di Antonio Gramsci, Luigi Einaudi è l’antisovranista per antonomasia, rivendicabile anche da Critica liberale (organo di un laicismo fazioso, alla Ernesto Rossi, che si riteneva scomparso per sempre). Le giornate degasperiane del Trentino vengono affidate all’appeal di Ferruccio de Bortoli e di Lella Costa (famiglia Gad Lerner)! Anche nelle iconografie risorgimentali si vedevano a braccetto Pio IX, Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, ma allora il problema era quello di “fare l’Italia”, di costruire la nazione e uno Stato moderno, non quello di rifondare il sistema politico contro “nemici” che in una “democrazia a norma” si dovrebbero riguardare (e rispettare) come “avversari”.

Nelle aggregazioni dell’epoca post-partitica, i colori si sono come diluiti, i volti della storia ormai si somigliano tutti, i valori si sono omogeneizzati, le opposte scelte di campo di un tempo sono state riassorbite (in fondo anche per Berlinguer la Nato era uno scudo protettivo!) e del tanto esaltato Piero Gobetti si rimuove l’appello intransigente ognuno al suo posto!: ovvero resti ciascuno fedele alle sue memorie e alle sue tradizioni. Intendiamoci: che un deputato cattolico su questioni rilevanti – come il welfare state, la politica estera, l’immigrazione – si allei con chi è a favore del divorzio, dell’aborto (e lo scrivente ha votato per l’uno e per l’altro), del matrimonio e adozione gay, non è certo motivo di scandalo, ma che faccia parte dello stesso partito della Cirinnà, la cui concezione della famiglia è antitetica a quella di Papa Bergoglio (per citare un pontefice in odore di anticapitalismo terzomondista) è qualcosa che si spiega solo con la retrocessione di una questione etico-politica grande come una montagna – la questione della famiglia, appunto – a fatto privato, a “problema di coscienza”. Non esprimo giudizi morali – non è compito dello studioso – mi limito a constatare un fatto e mi chiedo se un mutamento epocale come questo ci renda migliori o peggiori. Specie se si pensa che le sintesi leggere fanno pagare ad ogni elemento versato nell’infuso il prezzo della mutilazione ovvero la rinuncia “a prendere troppo sul serio” i valori che lo avevano fatto entrare nella storia. Ha ragione, pertanto, Eugenio Scalfari – e ha torto Franco Carinci che lo critica – a porre nel codice genealogico del Pd capostipiti come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e forse anche Guido Dorso e Altiero Spinelli. Se è vero, infatti, che “i nomi citati non sono collocabili fra i fondatori e sostenitori del PCI”, non è così scontato che “appartengono tutti alla cultura democratica” (dopo quanto ne hanno scritto Giuseppe Bedeschi, Ernesto Galli della Loggia, Luca Ricolfi)?. In realtà, quei nomi, quei simboli, rinviano a una sinistra et/et, socialista e “liberale”, nazionale e internazionalista, italiana ed europea, europea e cosmopolitica, non più nemica del capitalismo ma sempre, sotterraneamente, antiamericana, dove ciascuno può trovare quel che gli piace e nessuno è tenuto a fare i conti col proprio passato, non dovendo rispondere dell’accusa di apostasia.

Dovevano, certo, abbandonare le scene i partiti “forti”, disciplinati e dogmatici ma senza sottrarsi alle loro colpe storiche oggettive e, semmai, rivendicando fieramente i valori che li avevano indotti a guardare con interesse ai regimi politici poi crollati. Diventando un “partito radicale di massa”, come previde genialmente Augusto Del Noce in anni lontani, le vecchie sinistre hanno perso la loro anima ma non hanno reso un buon servigio al Paese giacché gli stanno fornendo – e da tempo – un “minestrone ideologico” che sta insieme solo con lo sputo, inventandosi di volta in volta un’invasione barbarica (di nazionalisti, di sovranisti, di razzisti) alla quale i loro antichi elettori non credono più.

Pubblicato su Atlantico il 6 agosto 2019