Voltaire e l’illuminismo oscurato dalle catastrofi

Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana

Mentre nel mondo infuria il Covid19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l’intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto –philosophes e uomini comuni – sconvolto dal terremoto di Lisbona che, nel 1755 provocò, vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le desastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio.

Principe indiscusso dell’età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad es. la “Semiramide” che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini o l'”Alzira” messa in musica da Giuseppe Verdi), l’ever green Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice – uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu – per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l’uomo del terzo millennio (Ed. Mimesis con una sobria e illuminante  Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l’attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare.

In riferimento al tema della catastrofe naturale, che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un’ottima guida al Disastro di Lisbona nel senso che ci permette di inquadrarne il “messaggio” nel più vasto ambito dell’etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con “le magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura ma è il bastone che permette all’umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?» dirà Candido il più famoso dei suoi personaggi.

«Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all’elefante, si legge in Prendere partito, la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l’equivalente dell’astuzia e della ferocia con cui l’esecrabile ragno cattura e divora l’innocente mosca». Eppure queste considerazioni, che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell’umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L’uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L’uomo appare al suo posto nell’ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate “contraddizioni”, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l’uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal così lo è da Rousseau che, in una lettera dell’agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro  di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell’ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell’ottimismo razionalistico di Leibnitz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione – dal peccato originale  al quale non credeva, all’ordine immutabile dell’universo – per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. «La natura è muta e la s’interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/consolare il debole, illuminare l’ingegno».

E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta – allontanandolo dal trionfalismo illuministico – ad una sorta di etica del destino. «Come voi, scrive ad Allamand nel dicembre 1755, ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell’uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al  Pantheon dei suoi resti morali.

Pubblicato su Il Giornale dell’11 aprile 2020

 




Né di destra, né di sinistra

Capita spesso di leggere articoli che intonano il de profundis per la più antica coppia nemica della modernità politica: destra e sinistra. «Destra e sinistra – ha scritto il filosofo del diritto Paolo Becchi su Libero il 2 febbraio scorso – nuotano ormai nello stesso brodo culturale. La sinistra ha abbandonato la lotta di classe, la difesa della classe operaia oppressa dal modo di produzione capitalistico e la destra la battaglia per la difesa della comunità e della tradizione: entrambe in fondo hanno accettato la cultura dell’individualismo libertario sciolto da legami sociali e comunitari. A destra non si discute la competizione sul mercato globale e a sinistra si insiste sulla emancipazione non dei lavoratori ma dalle radici. L’unica libertà che conta è quella delle merci, dei capitali e degli individui».

Becchi sintetizza in poche, chiare, righe un leitmotiv ormai quasi secolare anche se le spiegazioni del tramonto delle due categorie politiche variano col tempo, con gli uomini, con i partiti.

Mutano anche gli atteggiamenti con i quali si prende atto della presunta irrilevanza di destra e sinistra.

Per alcuni il loro declino è la liberazione da fantasmi di epoche passate, per altri è il segno della crisi spirituale della nostra epoca che ha azzerato tutti i valori, tutti gli ideali per i quali gli uomini erano disposti a battersi e a rischiare la vita.

Ho l’impressione, tuttavia, che nelle relazioni ufficiali dell’avvenuto decesso si celi una pericolosa incomprensione. Quella di credere che “destra” e “sinistra” non hanno nulla di “sostanziale” in quanto legate al mondo della “superstizione politica” (che genera i fantasmi, appunto) o a stili di pensiero che, da rimpiangere o meno, sono relegati nel “mondo di ieri”.

Sennonché sia negli individui che nelle società si trovano elementi strutturali che possono appannarsi, venir dimenticati per anni, trascurati più o meno consapevolmente ma che, nondimeno, riemergono prima o poi: e spesso con una virulenza proporzionale alla sottovalutazione. Il bisogno di comunità, il senso della tradizione che caratterizza la destra – e che trova il suo simbolo privilegiato nell’albero che affonda le sue radici sul terreno della storia – è qualcosa di insopprimibile, come la proiezione verso il futuro, la volontà di emanciparsi dal peso di usi e costumi che incatenano gli individui al suolo, alla famiglia, al milieu religioso. Che ha il suo simbolo, invece, nell’atto di spezzare le catene del privilegio.

La grandezza dell’Occidente, a ben riflettere, è consistita nella capacità di tenere in equilibrio le due dimensioni, “l’unico” e “l’universale”, per riprendere un saggio del grande Jacob L. Talmon, la “comunità di destino” e la “società degli individui”, il romanticismo politico e l’illuminismo, banditore dell’universalismo etico. Oggi sembra vincente la delegittimazione etica di tutto ciò che sa di particolare, di difesa del “sangue” e del “suolo”, di richiamo all’identità. A guardar bene, è l’ideologia di grandi quotidiani come la Repubblica o di periodici di nicchia come Il Foglio.

Ed è quella che, per reazione, risuscita istinti tribali di difesa che ai livelli alti ispirano una saggistica sempre più lontana da quel “pensiero unico” che lega ormai l’Istituto Bruno Leoni agli eredi del comunismo e dell’azionismo in nome della demonizzazione dello Stato nazionale e delle sue logiche.

Quasi in retromarcia, Paolo Becchi conclude l’articolo scrivendo che «la distinzione politica fondamentale oggi» è «quella tra coloro che difendono il globalismo, l’universalismo astratto e coloro che lo criticano in nome di particolarità concrete».

Ma non è questa la forma che oggi assume la dialettica tra “destra” e “sinistra”? Becchi, che col suo “sovranismo mite” sta dalla parte dei no global, ritiene che nulla vieta di pensare a un progetto politico in cui «potrebbero coesistere idee come quella di comunità, di appartenenza, identità, lealtà, senso dello Stato, con altre idee che riguardano la giustizia sociale, la solidarietà e la redistribuzione».

Senza avvedersene, però, rivela la stessa forma mentis del mainstream progressista che, nel suo culto della globalizzazione, rassicura i timorosi che non hanno niente da temere, che far parte di società politiche sempre più vaste, non rappresenta affatto una minaccia per le comunità storiche ma, anzi, è un modo per preservarle da altre guerre distruttive, dagli odi etnici, dalla barbarie tribale.

Ma è proprio vero che le cose buone stanno sempre insieme e che esistono formule magiche in grado di salvare capre e cavoli, libertà ed eguaglianza, solidarietà e individualismo, difesa dei confini ed apertura a chi vuole entrare, ragion di Stato e limitazione della sovranità etc. etc.?

È così difficile (a destra e a sinistra) rassegnarsi al fatto che ogni famiglia ideologica, ogni partito, porta nel mercato della politica i suoi prodotti specifici? E che a dividerci non sono tanto i valori ma la priorità che diamo a quello che ci sta più a cuore quando non è possibile, ad esempio, salvaguardarli tutti: tutelare, ad esempio, la libertà senza sacrificare un po’ di eguaglianza; sostenere l’autorità dello Stato senza limitare i diritti degli individui?

Il sospetto è che il discredito della contrapposizione tra destra e sinistra, nasca dalla pretesa che esse non hanno più alcun significato giacché esisterebbe un punto di vista superiore in grado di salvaguardarne quanto – poco o molto – c’è di valido nell’una o nell’altra. È un punto di vista che non è al di sopra ma è al di sotto dei due vecchi duellanti. Al di là delle retoriche buoniste o cattiviste dilaganti, sta emergendo un “pensiero unico” che al di fuori di sé lascia soltanto (se si è di sinistra) il razzismo, l’atavismo di una destra impresentabile o (se si è di destra) il nichilismo che passa come un rullo compressore sulle Nazioni o e dei popoli. Dietro la “buona novella” che destra e sinistra sono passate a miglior vita, ci sono, in sostanza, la delegittimazione degli avversari e la morte del pluralismo.

È la fine della democrazia liberale: impensabile senza l’eterno contrasto tra conservatori e progressisti, tra Disraeli e Gladstone, tra De Gaulle e Mitterand.

 

DIETRO LA “BUONA NOVELLA” CHE DESTRA E SINISTRA SONO PASSATE A MIGLIOR VITA, CI SONO, IN SOSTANZA, LA DELEGITTIMAZIONE DEGLI AVVERSARI E LA FINE DEL PLURALISMO

 Pubblicato su Il Dubbio del 10 marzo 2020



Ma guai se il festival vuole dividere tra buoni e cattivi

«Bellissimo» ha definito Amadeus il monologo di Rula Jebreal sul femminicidio, in cui – come si legge nell’articolo  sul “Dubbio” di Giulia Merlo – «racconta storie di donne, tra le quali quella di sua madre» vittime di stupri in tutto il mondo e «declama versi delle canzoni di uomini» meravigliandosi che sanno scrivere di donne in modo così rispettoso. Poi chiede che si parli di come lei era vestita a Sanremo, ma non di come era vestita una donna la notte in cui è stata stuprata. Che le donne vengano “lasciate essere” ciò che vogliono. Tutto giusto, lacrime tra il pubblico e anche negli occhi della Jebreal, standing ovation». Una battaglia civile, quella di Rula Jebreal, che condivido in toto, specie se penso alle domande di certi magistrati alle donne che hanno denunciato la violenza subita: le stesse degli anni in cui Pietro Germi girava uno dei suoi capolavori, Sedotta e abbandonata (1964). Altrettanto civile ritengo l’impegno dell’Associazione Luca Coscioni a favore dei malati di SLA e del diritto alle disposizioni anticipate di trattamento che dovrebbe essere pienamente riconosciuto.

Tutto bene, quindi? No: alla stampa nazionale che esalta Amadeus e considera le performances di Rula Jebreal e di Maria Antonietta Farina Coscioni – che ha portato sul palcoscenico dell’Ariston un ventunenne colpito dalla SLA, Paolo Palumbo – e parla di un “vero” successo, mi sento di rispondere, si licet magnis componere parva, come Giordano Bruno, nel celebre sonetto di Trilussa, «nun è vero un corno» (con la tranquilla sicurezza, però, di non fare «la fine dell’abbacchio ar forno”).

Sanremo, ha detto la Farina, non è solo le “canzonette” «spesso è anche “impegno”, nel senso più alto, più nobile, della parola. Un palcoscenico per comunicare, far sapere, rendere consapevoli». Sorvolo sul termine “canzonette” che fa pensare (impropriamente) a forme d’arte minori e plebee e vengo al punto. Ma è normale, mi chiedo, utilizzare, solo per questioni di audience, uno spettacolo musicale seguito da milioni di telespettatori, al fine di far conoscere all’opinione pubblica l’autentica passione civile che anima la bella giornalista palestinese e la matura signora italiana? Nel mondo, la fabbrica del dolore e della sofferenza è attiva in ogni continente e le cause degne di attenzione sono infinite. Chi sceglie quelle da portare all’attenzione del paese? E in base a quali criteri selettivi?

Sennonché anche se le cause grancassate a Sanremo trovassero concordi tutti i membri dell’ideale giuria preposta alla selezione, resta la domanda: ma che tipo di società stiamo costruendo? Vogliamo vivere in un paese in cui non ci sono domeniche per l’impegno civile, per la partecipazione alle battaglie ideali, per l’esenzione ad essere sempre vigili e memori? E non è questo l’ideale dei regimi (e dei partiti) totalitari? E’ un’ideologia di questo tipo che ha  sostituito alla satira politica l’ironia sarcastica di “Fratelli di Crozza”; che ha preteso che la scuola diventasse il luogo in cui indottrinare i giovani col catechismo repubblicano (altro non è l’“educazione civica” ricomparsa ora al posto del ben più utile insegnamento di “Elementi di diritto costituzionale italiano ed europeo”); che ha delegittimato tutti coloro che non si riconoscono nella retorica antifascista giacché credono che la democrazia liberale sia un valore più alto e più “universale” dell’antifascismo di marca azionista o comunista; che si riservano il diritto di criticare quanti, se dipendesse da loro, istituirebbero non uno ma cento, mille, giorni della memoria e vorrebbero che tutti ci cospargessimo il capo di cenere per delitti commessi quando non eravamo nemmeno nati.

Stiamo ben attenti. A Sanremo si è vista la politicizzazione (per altro non nuova) di un momento collettivo di svago, in cui il dolore del ricordo e la sofferenza del presente hanno – sia pure inconsapevolmente – segnato sulla grande lavagna repubblicana i nomi dei buoni e quelli dei cattivi.

A scanso di equivoci, riconosco a ogni essere umano il diritto all’autodeterminazione – come del resto ha raccontato Paolo, il ragazzo affetto da SLA che lotta ogni giorno per sopravvivere e realizzarsi, grazie all’aiuto della sua famiglia – ma non voglio vincere la partita per decisione dell’arbitro e prima ancora che le squadre rivali scendano in campo. Quando al liceo qualche professore, a lezione, infilava nel discorso le sue opinioni politiche mi sentivo a disagio: soprattutto se erano anche le mie!

Oggi si è parlato di stupri e di liberazione dei malati terminali dal carcere della vita, domani si potrebbe parlare dell’obbligo di accoglienza universale, degli orrori del capitalismo e del mercato, del diritto della magistratura a perseguire i reati con ogni mezzo. Tutte battaglie legittime (anche se non le condivido) ma che vanno combattute negli spazi ad esse assegnati da una società civile che nella separazione delle “sfere vitali” vede l’essenza dell’etica liberale.




Dalla tribù all’universo, e il nazionalismo diventa il male assoluto

Da tempo, grazie anche alle esortazioni di figure istituzionali come il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, veniamo invitati a distinguere tra il patriottismo, valore alto e positivo, e il nazionalismo, negazione di ogni virtù civica. Cominciò Giuseppe Mazzini, in un testo del 1871, Nazionalità e nazionalismo, a porre sullo stesso piano il fraintendimento delle parole “tolleranza” e “indifferenza” con quello che rendeva sinonimi «la santa parola Nazionalità» e il «gretto geloso nazionalismo. È lo stesso errore che confonde Religione e superstizione o Unità e «concentramento amministrativo». In realtà, il nazionalismo al quale si riferiva l’apostolo genovese non aveva nulla a che vedere con quello moderno, riferendosi piuttosto agli ingrandimenti degli Stati promossi da dinastie avide e prive di scrupoli. Per i retori del patriottismo e del republicanism, però, tutto fa brodo. Anche il richiamo a Benedetto Croce che, nel 1943, scriveva sulla ‘parola desueta: l’amor di patria’ che «si potrebbe dire che corre tra l’amor di patria e il nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio». Il senatore, qualche anno dopo, tuonava contro il Trattato di Pace imposto all’Italia, che toglieva allo Stato nazionale lembi sacri di territorio e le colonie ma questo non interessa chi nella storia cerca solo argomenti a sostegno di una tesi ideologica.

Certo si può distinguere il patriottismo dal nazionalismo, rifacendosi al lungo Ottocento, ma non è lecito ignorare un dato fondamentale: che negli scrittori dell’età postrisorgimentale, il nazionalismo era la degenerazione di una cosa buona mentre oggi è diventato il segno stesso del male radicale, di un pendio al fondo del quale si trovano razzismo, fascismo, antisemitismo etc. Un grande e dimenticato filosofo del diritto, Alessandro Levi – assieme a Rodolfo Mondolfo espressione di un socialismo riformista, europeista e occidentale scriveva nell’articolo La crisi della democrazia ( 1912): «La democrazia che non chiuda gli occhi alla realtà non può disconoscere la verità storica e anche l’efficienza civile delle lotte fra le classi e fra i popoli. Né può negare, se non voglia addormentarsi cullata dalle nenie di un bamboleggiante pacifismo, che, nella vita nazionale e internazionale, ‘pace è vocabolo/ Mal certo’. E sa la democrazia che non si perda in rosei sogni, come gli individui, le classi, le Nazioni nulla ottengono se non si fanno valere».

Oggi queste parole sarebbero inconcepibili: il rigetto del nazionalismo è così radicale da estendersi allo stesso concetto di Nazione. Con le parole di un allievo di Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, «il concetto di Nazione è in se stesso inconsistente e implausibile, e come tale inaccettabile; la teoria che difende il diritto di autodeterminazione dei popoli – peraltro sancito in questi termini in documenti di diritto positivo – è una teoria mal costruita, ambigua e almeno per certi aspetti contraddittoria, e pertanto ricusabile».

Per capire quel che sta succedendo, a mio avviso, può essere utile adottare un approccio transpolitico, riprendendo e laicizzando la filosofia della storia di Augusto Del Noce. Per il pensatore piemontese (uno dei più geniali del nostro tempo) «anziché vedere il vero motore della storia nella causalità materiale, nei conflitti di classe o nel progresso tecnologico, dovremmo riconoscere che tutti questi processi, certo importantissimi, forniscono però solo la materia della trasformazione storica. La forma, che è poi l’elemento decisivo, dipende dalla visione filosofica complessiva che fornisce le categorie attraverso le quali il mutamento viene pensato». Non si tratta di un approccio idealistico (in base al quale sarebbero le idee a fare la Storia) ma di disposizioni mentali che segnano in maniera indelebile un’epoca storica.

Per comprendere davvero il nostro tempo, a mio avviso, occorre prendere coscienza della ‘rivoluzione culturale’ che lo distingue dalle epoche passate, finite nel ’68 come aveva ben compreso il compianto Roger Scruton. Si tratta della fine di quell’equilibrio tra etica e politica, tra morale e diritto, tra religione e scienza, fra passato e avvenire che aveva fatto grande l’Occidente e che costituiva la stessa ragion d’essere del vecchio Stato nazionale – anello di congiunzione, per adoperare una splendida metafora di Pierre Manent tra l’universo e la tribù. Uno studioso della Scuola di Raymond Aron, Marcel Gauchet così ne parlava: «E’ precisamente nel quadro degli Stati-nazione, e in esso soltanto, che l’individuo universale ha potuto prender corpo. E questo il motivo che ha portato all’adozione di tale forma politica. La finitudine umana ci condanna a non poter accedere all’universale se non all’interno del particolare. Le Nazioni sono l’espressione politica della particolarità sociale che ha consentito di pensare l’universalità dei diritti dei loro membri, ovverosia il loro superamento in una federazione pacifica di particolarismi. Non prendiamone le distanze senza prima aver valutato quel che dobbiamo a esse».

Oggi, sui piani alti della cultura politica si assiste, per restare nella metafora di Manent, alla cancellazione della ‘tribù’ e al trionfo su tutta la linea dell’’universo’. E’ come se la mens illuministica avesse imposto le sue misure: a ciò che è ‘particolare’ – la comunità umana che persegue un suo interesse specifico che può entrare in conflitto con gli interessi di altre comunità – non viene quasi più riconosciuto uno status morale, una sua ‘ragione sociale’ o ‘ragion di Stato’.

La stessa endiadi gloriosa delle rivoluzioni atlantiche: i diritti dell’uomo e del cittadino va in frantumi. I ‘diritti del cittadino’ sono legittimi finché non cozzano contro i diritti dell’uomo. La Politica, che trova nello Stato il suo luogo naturale, diventa un cane mastino a guardia del Diritto e della Morale: le sue frontiere sono le mura di cinta delle ville del privilegio, il cui accesso viene impedito ai dannati della terra. (v. il ‘diritto cosmopolitico’ del filosofo del diritto, un altro allievo del neo-illuminista Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli). Le ‘appartenenze’ al plurale diventano, tutt’al più, ’qualità secondarie’ e nell’età dei diritti, conta solo l’appartenenza al genere umano. E’ esemplare quanto scriveva Voltaire nella VI ‘lettera inglese’: «Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le Nazioni. Là, l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste libere e pacifiche riunioni, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; questo va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; quello fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa mormorare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa col cappello in testa ad attendere l’ispirazione divina, e tutti sono contenti». Sembra il manifesto della globalizzazione economica: è, in ogni caso, la sintesi dei tre universalismi che oggi tengono il campo. L’universalismo economico: si produce, si vende e si compra là dove c’è più convenienza. L’universalismo etico: gli uomini sono tutti uguali, sotto ogni latitudine e longitudine. L’universalismo giuridico: la cittadinanza deve essere sempre più inclusiva. Come ha ben sintetizzato Fernando Savater, nel libro Contro le Patrie (Ed. Elèuthera 1999): «Nell’evoluzione delle idee politiche, tutto ciò che ha qualcosa di progressista e di emancipatorio va in una direzione di riaffermare il carattere convenzionale e ‘artefatto’ dell’organizzazione sociale. Al contrario, tutto quanto insiste nel ‘naturalizzare’ la gerarchia sociale o nel ‘sovrannaturizzarla’ (sovente ambedue gli impegni apparentemente antitetici funzionano in modo complementare) è inequivocabilmente reazionario. Da qui il ripudio illuministico della teocrazia e del razzismo, del diritto divino dei re e dei ceti socialmente superiori per sangue, della schiavitù e delle leggi inappellabili del divenire storico. ‘Nazionalismo’, ‘patriottismo’, sono ideologie che, già nella loro etimologia, si richiamano più alla biologia che al patto sociale».

Diceva il vecchio Hegel che la tragedia umana sta nel fatto che a scontrarsi non sono quasi mai una ragione e un torto ma sovente due ragioni. Se questo è vero, il nostro tempo ha eliminato la tragedia sostituendola col dramma (rassicurante) della lotta dei buoni contro i cattivi. Solo all’etica universalistica (kantiana) è stata riconosciuta l’eccellenza mentre alla Nazione tribalizzata – sono state impresse le stimmate del fascismo.

E’ una frattura epocale che si fonda sulla rimozione della storia: definito il fascismo come negatività assoluta non si è più in grado di comprenderlo come la trasformazione del buon dottor Jekyll (lo Stato liberale risorgimentale) nel bieco Mister Hyde: trasformazione dovuta a contesti istituzionali e a sfide storiche, non inventati dalle camicie nere ma abilmente sfruttati. In quello che considero uno dei testi fondamentali per la comprensione della genesi e della natura del fascismo, la Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, (Ed. Il Mulino 2012) Roberto Vivarelli scrive: «Il fascismo, tanto più alle sue origini, non si definisce propriamente in termini di classe, ma di adesione o meno allo Stato nazionale e ai suoi valori e di rapporto con la tradizione risorgimentale». Cent’anni fa, e non solo in Italia, si ebbe la lacerazione tra la classe e la nazione. Oggi abbiamo quella tra il mondo e la nazione: tra quanti economicamente, culturalmente, antropologicamente vivono un’esistenza che sta oltre le frontiere nazionali e quanti si vedono nel loro abbattimento la fine della ‘protezione sociale’. E’ un vero e proprio ‘scontro di civiltà’ che rischia di fare a pezzi la democrazia liberale giacché questa richiede la condivisione di valori iscritti, soprattutto, nell’etica pubblica, e quando si affrontano non più avversari divisi dal modo di realizzare le idealità comuni ma nemici ontologici – catapultati dall’Inferno – e al confronto pacifico e rispettoso delle parti subentra un’interminabile guerra civile. E’ da un secolo, per tornare nel nostro Paese, che gli antifascisti sono considerati anti-italiani, ovvero nemici della comunità nazionale, e i fascisti (nazionalisti, sovranisti, razzisti etc.) non-umani, giacché ignari dell’eguaglianza di tutti i figli della terra. Con la sua trentennale riflessioni storiografica sul fascismo, Renzo De Felice aveva fatto opera elevata di educazione civica consentendo agli Italiani il disarmo degli spiriti e una riappropriazione del passato nel segno della comprensione e non della demonizzazione. Ma la sua fu la classica vox clamantis in deserto.

Pubblicato su Il Dubbio



Viene da lontano la rivolta delle sardine

Che il movimento delle sardine riesca a riempire le piazze a far parlare di sé stampa, radio, tv, blog e twitter vari è innegabile. Che si tratti di giovani motivati e in buona fede è altrettanto certo. A molti hanno ricordato il 68 ma, a mio avviso, a torto. Le differenze, infatti, sono varie e rilevanti.

Innanzitutto, di natura ideologica. Il 68 fu segnato da una forte componente marxista e di critica radicale al “sistema” (capitalistico, of course) e, inoltre dal disegno ambizioso di costituire un asse di acciaio tra le avanguardie studentesche e la classe operaia non ancora socialdemocratizzata.

In secondo luogo, il terreno dello scontro, la posta in gioco. Gli studenti riprendevano la bandiera rivoluzionaria che i partiti della sinistra avevano riposto nell’armadio per chiamare a raccolta una società civile liberata dalle catene della morale borghese e del tradizionalismo cattolico. Di qui il rilievo culturale assunto da Herbert Marcuse che il materialismo storico coniugava con la distruzione dei tabù sessuali.

In terzo luogo, le “armi della critica”. Il 68 fu contraddistinto da un’elevata erogazione di violenza che le frange più radicali avrebbero trasmesso alle BR. Occupazione delle facoltà, interruzione delle lezioni, aggressione ai docenti e agli studenti collabò, esami di gruppo, vandalismi vari (dai muri imbrattati alla devastazione di aule e laboratori) etc. non furono infrequenti da Trento a Palermo.

Nulla di tutto questo richiama il fenomeno delle sardine. In primis, la loro ideologia nella pars destruens, è (almeno apparentemente) “leggera” e fatta di negazioni condivisibili – antifascismo, antisovranismo, antirazzismo etc. – mentre, nella pars construens, è costituita dagli ingredienti classici del “buonismo”, dalla “filosofia dell’accoglienza” alla condanna della guerra e dello sfruttamento della natura.

L’obiettivo polemico, per venire al secondo punto, non è costituito dalle classi dirigenti   economiche, politiche, religiose, come nel 68: dell’establishment, infatti, le sardine non possono lamentarsi dal momento che dalle più alte cariche dello Stato, ai quotidiani più diffusi e alle gerarchie ecclesiastiche tutti parlano ormai la lingua del “discorso delle beatitudini”. È il “ventre molle della società civile” che esse odiano, sono i demagoghi che diffondono ansie e paure per il “diverso” e che, per questo, rappresentano una minaccia sia per la democrazia sia per l’etica universalistica ereditata dal cristianesimo e dall’illuminismo.

Infine, gli strumenti di lotta. Le sardine sono non violente, ripudiano lo stile dei centri sociali, rifuggono dai pugni chiusi esibiti dagli antagonisti.

E tuttavia, ricordate e sottolineate queste differenze, non mancano le analogie. Ad accomunare 68 e sardine, è per così dire il “momento francescano” ovvero, per riprendere le categorie di Francesco Alberoni, la rivolta del “movimento” contro le “istituzioni” e il richiamo di queste ultime alla coerenza, al dovere di difendere i valori tanto sbandierati a parole coi fatti.

Tali indubbie analogie confermano il fatto che sia negli anni 60 che oggi, il senso dello Stato di diritto e l’etica liberale non sono mai entrati nelle nostre scuole. La democrazia è sempre stata intesa non come un sistema di regole, un codice sportivo atto a consentire un gioco corretto tra le due squadre in campo ma come un “mezzo” volto a procurare benessere e felicità ai popoli. La libertà politica è benedetta solo come «libertà per il bene» e i partiti hanno pieno riconoscimento morale e costituzionale solo se si pongono al servizio delle buone cause. In tal modo, i valori degli altri diventano disvalori, i loro programmi di governo attentati ai diritti dei cittadini. Un leghista, un forzista, un “fratello d’Italia” non sono avversari ma nemici assoluti: di qui l’indignazione e lo sconcerto nel vedere che una percentuale così elevata di elettori vota per Salvini, e per giunta nell’esemplare Emilia-Romagna. Cosa fanno i partiti di sinistra e gli organi di governo per porre argine a questa deriva? Di qui il paradosso, fatto rilevare da molti, di un movimento che non marcia contro il governo ma contro un’opposizione che potrebbe andare al governo: qualcosa che fa venire in mente non il 68 ma il «dì una parola di sinistra» dei girotondi d’antan, lo svegliarino dato i “nostri” che se ne stanno lì a guardare mentre la reazione avanza.

Entrambi, sardine e sessantottini, sono i pasdaran di una nuova stagione culturale ma i secondi in nome di una classe operaia tradita, le prime in nome di una generica comunità politica rimasta priva di ancoraggi spirituali. Destra e Sinistra, ammoniva Francesco De Sanctis due anni dopo Aspromonte, non sono «nomi accidentali sono la rappresentazione di due forze che si contendono il potere in tutta la società moderna: una forza che cerca il suo appoggio negli elementi conservativi, che cerca di assimilarsi e il passato, e un elemento che cerca il suo appoggio nella parte nuova». È questo rispetto profondo dell’alter pars che la scuola non ha mai inculcato nell’anima dei giovani. Le sardine, nelle loro adunate oceaniche, saranno pure poco violente in senso fisico ma, nella sostanza, rappresentano il prodotto delle nostre istituzioni educative. Si dicono al di fuori della politica ma fascistizzando gli avversari, intonando “Bella ciao” per segnare una “identità” forte e divisiva, invitando a “legare” Salvini, tallonando il capitano nei suoi spostamenti, impedendogli di passeggiare nelle vie della città dopo un comizio (che non possono impedire) – lo ha ricordato Paolo Armaroli in un articolo sul “Dubbio” di alcuni giorni fa – non rappresentano certo un modello di civiltà  e di tolleranza in un paese allo sfascio come il nostro.

Pubblicato su Il Dubbio