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Rubrica A4 – Sentire le due campane sì, ma che non siano stonate

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia si assiste a una proliferazione di talk show, di dibattiti televisivi sulle questioni politiche interne e internazionali che fanno pensare a una maturità civica e a un interesse per la cosa pubblica invidiabili. In qualche canale, dopo il tg, finita una tavola rotonda, ne comincia subito un’altra, spesso con gli stessi attori protagonisti. In genere, la formula ‘vincente’ (sic!) è: ‘tutte le ragioni, tutte le opinioni’ ma a, ben riflettere, si dovrebbe dire: “tutte le opinioni, tutte le fazioni”. E’ un notevole passo avanti che vengano invitati tutti, in omaggio al dovere di ‘sentire sempre le due campane’, senonché quel principio finisce spesso per diventare l’occasione di risse da bar insopportabili. Ciò dipende dal fatto che, in mancanza dei grandi intrattenitori e comici televisivi   d’antan, gli insulti, le accuse di malafede, le insinuazioni sul piano personale degli attori in  scena ‘fanno spettacolo’, indipendentemente da quel che dicono o si dicono. Il curatore della trasmissione, onestamente, non nasconde affatto da che parte sta ma questo finisce per essere irrilevante. Ciò che conta, invece, è che politici e giornalisti, quasi sempre incompetenti, grazie alla comparsata televisiva ottengono visibilità e ..’prestigio’ (chiamiamolo così). Quanto dicono sono fesserie per chi non condivide le loro opinioni ma sono perle di saggezza per gli altri. E alla fine—ed è ciò che davvero importa—, per citare Mcluhan,”il medium è il messaggio”, e il contenuto del messaggio non è l’elemento decisivo nella comunicazione. Chi prenderebbe in considerazione certe Erinni della carta stampata o certe passionarie della politica o certi residuati bellici del 68, se non comparissero regolarmente sul teleschermo? “Con quella bocca possono dire tutto ciò che vogliono” giacché ogni scarafone ha diritto a dire la sua e l’importante, poi, è che milioni di telespettatori stiano lì a sentirlo (il fatto che il conduttore della trasmissione tv mostri il suo  disaccordo è ininfluente).

Siamo seri, almeno con l’anno nuovo! Meno politica spettacolo e più informazione attendibile e controllata. Si riducano, una buona volta, gli spazi del battibecco politico e, anche se al di fuori delle opere di maggiore ascolto, si faccia conoscere quanto sta avvenendo in Ucraina, nel Medio Oriente, a Gaza, nelle città europee e americane vittime del terrorismo islamico.  Specialmente in area anglosassone, non mancano riviste di relazioni internazionali che mostrano la realtà prismatica di quanto accade nel mondo, nè mancano studiosi (di diverse aree politiche e culturali) che si sono dedicati alla ricerca e che possono dire cose interessanti sulla politica, sull’economia, sulla cultura dei paesi in guerra. Non dico di stare a sentire ‘soltanto’ John J. Mearsheimer (rimasto dopo la morte di Samuel P. Huntington il più prestigioso political scientist degli Stati Uniti) : le sue idee, infatti, fanno a pezzi le interpretazioni dei conflitti in corso riportate dai grandi quotidiani nazionali; si invitino anche quegli storici e quegli scienziati politica che non la pensano come lui ma che hanno scritto articoli e saggi notevoli, in grado di mostrarci ogni volta ‘l’altra faccia della medaglia’.

 Non è possibile che quando, per caso, sul piccolo schermo appare un sociologo come Marzio Barbagli—o  un giurista del prestigio di Sabino Cassese- si debba pensare: ”finalmente il parere  di un esperto!”. Nelle trasmissioni dedicate alla politica, infatti, dovremmo sempre ascoltare i ‘compe-tenti’, affiancati da giornalisti seri, in grado di porre domande intelligenti e pertinenti. E, nel caso delle guerre in corso, occorrerebbero documentari (anche storici) delle due parti che ci aiutino a capire, da angolazioni diverse, quanto sta accadendo nel mondo e le cause alle origini dei vari conflitti.

Conoscere le opinioni politiche dei direttori dei grandi quotidiani o dei loro vice o caporedattori può avere qualche interesse ma quale contributo conoscitivo reale possono dare, ad es., al problema dell’Azerbaigian o della Georgia? All’estero i direttori—di Le Monde, del NYT, di Die Zeit etc.- intervistano (e con indubbia professionalità) ma non vengono intervistati giacché, nei paesi avanzati dell’Occidente, la divisione del lavoro rimane una regola inviolabile.

Un tempo, per farci conoscere il bel paese, la RAI produceva inchieste affidate a scrittori come Mario Soldati o a grandi giornalisti come Sergio Zavoli che rappresentano, tuttora ,documenti di straordinaria utilità  per chi intenda studiare il nostro recente passato. Non si potrebbe pensare, dove è possibile, a fare la stessa cosa per le guerre in corso, organizzando una bella scuola di documentaristi e di corrispondenti di guerra, diretta semmai, da vecchi, rispettabili, giornalisti come Domenico Quirico? E se non se ne hanno i mezzi, non si potrebbero acquistare dagli Stati Uniti filmati che non siamo in grado di produrre noi? In tal modo, non sentiremmo più l’intervistato del Bar di Casal di Principe che vorrebbe annullare la sentenza palermitana che ha assolto Matteo Salvini per ‘conflitto di interessi’ (l’avv. Bongiorno milita nella Lega, il partito dell’imputato!). ‘Tutte le ragioni, tutte le opinioni!” Ma possiamo risparmiarci almeno quelle degli imbecilli? O meglio, per essere politicamente corretti, quelle dei ‘diversamente intelligenti”?

Il Concerto di Capodanno

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Sere fa su RAI Storia Giorgio Zanchini e la storica Vittoria Fiorelli hanno rievocato, con indubbia competenza, La tragedia di un imperatore, Francesco Giuseppe. Ne è venuto fuori il ritratto di un monarca assoluto, chiuso a ogni idea moderna (a differenza del figlio Rodolfo), interessato solo alla caccia e all’esercito, succubo della madre, l’Arciduchessa Sofia di Baviera, e incapace di dare affetto alla donna pur molto amata, la mitica Sissi. La cupa atmosfera della Hofburg, l’ossessione burocratica, la preoccupazione impotente di tenere insieme un impero, che si stava sgretolando, sono emersi in maniera inequivocabile. Eppure al telespettatore non digiuno di storia non sarà sfuggito un rilievo fatto quasi en passant: che la Vienna di Francesco Giuseppe è stata la città culturalmente più affascinante d’’Europa, al punto da superare la stessa Ville Lumière, Parigi. Dalle arti visive alla musica d’avanguardia, dalla psicanalisi alla filosofia del linguaggio, dal teatro alla letteratura, dalle scienze all’economia, la capitale del vecchio Kaiser (al quale Johann Strauss avrebbe dedicato il suo valzer più bello, cantato dalle scolaresche viennesi nel giorno del genetliaco dell’Imperatore sotto le finestre della reggia) è stata, oltretutto, un irrepetibile crogiuolo di etnie culturali, oggetto di rimpianto di grandi scrittori come Stephan Zweig e Joseph Roth. Come spiegare questa ‘contraddizione’? Il fatto è che l’Impero austro-ungarico era una comunità politica ‘premoderna’, nel senso che in essa la politica (differenza fondamentale dai terrificanti regimi totalitari e dalle impegnative democrazie occidentali) non assorbiva tutto il cittadino: a occuparsene erano i burocrati e al suddito era riservata la più ampia di libertà di dedicarsi ai suoi affari, alla sua religione, ai suoi problemi esistenziali. Non era un impero liberale ma del liberalismo condivideva una caratteristica cruciale: l’immenso spazio riservato alla privacy non controllato da un (disinteressato) potere politico. Non a caso, il suo più alto simbolo musicale non era un inno di battaglia ma il valzer. Quello che il 1° gennaio ci incanta al Concerto di Capodanno, trasmesso in tutto il mondo, dalla sala dorata del  Musikverein  di  Vienna .

(Articolo uscito il 31 dicembre 2024 su “Il giornale del Piemonte e della Liguria”)

Feste civili e giornate della memoria che dividono

23 Dicembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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I lettori non me ne vogliano se dico di comprendere i magistrati, i giustizialisti e la sacra corona delle sinistre unite che si oppongono ferocemente al giorno della memoria delle vittime delle sentenze giudiziarie. Nel nostro paese, infatti, le feste nazionali e le giornate della memoria non sono momenti di rinnovata concordia nazionale ma sceneggiate di guerre civili che si vogliono far rivivere, carnevalate di cui nessuno sembra vergognarsi. Nelle marce, nei moniti minacciosi—‘non passeranno!’—nella demonizzazione dei vinti (‘Vae victis!’), non si gode insieme la riconquistata libertà, la ritrovata indipendenza, la fine di una tragedia nazionale, ma ci si compiace quasi per la violenza erogata contro i nemici interni ed esterni, fino ad esaltare le macellerie messicane (per citare Ferruccio Parri) di Piazzale Loreto e dei triangoli della morte. Un comunista d’antan, Gian Carlo Pajetta, in una trasmissione televisiva, disse a Giorgio Almirante: “abbiamo riconquistato la democrazia anche per voi”. E il leader missino, qualche tempo dopo, dichiarò pubblicamente, non senza una certa ironia, “se antifascismo vuol dire libertà per tutti, elezioni democratiche, rispetto di tutte le opinioni sono antifascista anch’io”. E’ superfluo rilevare che non è questo lo spirito del 25 aprile in cui, alle sfilate partigiane stricto sensu, non sono tollerati, non dico gli ex fascisti (pentiti o dissociati), ma neppure i liberali non di sinistra. I più vecchi ricorderanno che al padre di Letizia Moratti, in carrozzella, si vietò di prendere parte al corteo che, nella sua Milano, rievocava la Resistenza e la Liberazione. Una delle figure più nobili della Resistenza e della Prima Repubblica, Randolfo Pacciardi, fu demonizzato per aver collaborato con Giano Accame – un politico intellettuale di elevata cifra morale – in un movimento inteso al superamento del fascismo e dell’antifascismo e a una riconciliazione nazionale. Nel 1974, come ricorda Luca Polese Remaggi nel ‘Dizionario Biografico degli Italiani’ (2014) venne persino “raggiunto da una comunicazione giudiziaria, inviata dal giudice istruttore di Torino Luciano Violante. Era accusato insieme a Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, a diversi funzionari dello Stato e a neofascisti di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale di Valerio Borghese di aver cospirato per un colpo di Stato”. Cose e’ pazze!, si direbbe a Napoli.

Nel 1945, nella grande manifestazione svoltasi nella Parigi liberata, Charles De Gaulle intonò ‘La Marsigliese’ “Contre nous de la tyrannie/ L’étendard sanglant est enlevé” . (‘Contro di noi si è levato lo stendardo insanguinato della tirannia’). Lo stendardo (cattivo) era quello dei suoi antenati giacché il generale veniva da una famiglia cattolica e nazionalista di origine aristocratica (fondata da Thébault de Gaulle nel XVI secolo) e, da giovane, era stato vicino ai monarchici dell’’Action Française’ ma anche per lui la Festa della Bastiglia (il 14 luglio) e la ‘Marsigliese’ erano simboli di unione, oltre i partiti e le classi sociali, come nel bellissimo film di Michael Curtiz Casablanca (1942). Lo stesso dicasi del 4 luglio in America dove non si sfila contro nessuno ma ci si unisce in un embrassons-nous universale a testimoniare un patriottismo naturale, spontaneo e non prescritto dal potere. Sulle grandi avenue di New York e delle altre metropoli americane, nelle cittadine del Middle West e in quelli che un tempo erano i villaggi della frontiera, tutti gli americani si ritrovano a cantare in coro “O say, does that star-spangled banner yet wave/ Over the land of the free and the home of the brave” (Oh dimmi, sventola ancora quello stendardo stellato/ Sulla terra dei liberi e sulla casa dei coraggiosi).

‘The Star-Spangled Banner’ – a differenza di Bella ciao – è un simbolo di identità e di unione che va oltre le classi sociali, le razze, le etnie culturali. Non è un inno di battaglia ma un Te Deum laudamus come sono le note che esprimono lo ‘spirito comunitario’.
In Italia tutto ciò sarebbe impensabile. Da noi le feste civili o sono roba di guelfi o sono roba di ghibellini: a caratterizzarle sono i simboli belligeni non i ramoscelli d’ulivo dell’albero della pace. E lo stesso dicasi delle giornate della memoria: se si ricordano le foibe, le sinistre si mettono a lutto. Nessun gesto simbolico di riparazione da parte di quanti erano dalla parte di Tito. Indifferenti alla perdita delle nostre province orientali – del resto, nell’immediato secondo dopoguerra, l’unico film dedicato alla tragedia degli Italiani d’Istria è La città dolente di Mario Bonnard del 1949 – sindacalisti, militanti socialcomunisti e portuali, a Genova, non volevano far sbarcare i ‘fascisti’ istriani in fuga dal Paradiso comunista. Analogamente è impensabile che la magistratura chieda perdono agli italiani per le tante vittime innocenti finite nelle carceri statali. Si comprende bene l’indignazione di Gaia Tortora: non solo nessuno ha pagato per la morte del padre ma i magistrati responsabili della pazzesca sentenza che distrusse la vita di Enzo Tortora hanno fatto carriera come se non avessero commesso alcuna manchevolezza.

Se il giorno della memoria delle vittime dei tribunali si facesse davvero e vedesse la partecipazione di magistrati seri e responsabili (ce ne sono) pronti a salire sul palco ad abbracciare i parenti degli innocenti ingiustamente condannati, se dessero prova di civismo i più alti gradi del potere giudiziario facendo il classico ‘esame di coscienza’ e impegnandosi solennemente a una maggiore vigilanza sulle indagini e sulla raccolta delle prove a carico degli imputati, l’Italia potrebbe dimostrare al mondo di non essere inferiore alla Francia o agli Stati Uniti nel creare occasioni di incontro e di riconciliazione tra parti politiche e sociali un tempo in conflitto. Temo, però, che nel caso il progetto andasse in porto, e per di più se si scegliesse proprio la giornata dell’arresto di Enzo Tortora per ricordare le vittime dei tribunali, i giustizialisti rimarrebbero chiusi in casa, a guardare dalla finestra i cortei con risentimento ed astio. Gli ipergarantisti (ovvero gli anti-giustizialisti ideologici per i quali ogni sentenza di condanna è sospetta ed ogni prova portata dai PM è artefatta), dal canto loro, ne trarrebbero motivo per una nuova cruenta (almeno simbolicamente) prova di forza: sarebbero loro a sfilare sotto le finestre dei giudici e davanti alle corti di giustizia al grido Vergogna! Col risultato che il paese, ancora una volta, mostrerebbe che solo le guerre civili lo tengono in vita, gli procurano emozioni, procurano ai cittadini forti identità etico-sociali. Da noi la guerra civile non è una parentesi ma una pianta che va innaffiata ogni giorno: e guai ai tiepidi o ai ‘renitenti alla leva’!

A ben riflettere è, questa, una delle eredità più negative del fascismo: l’abito della mente e del cuore che porta a riguardare i “panciafichisti”, i pacifisti che non amano battersi e cercano l’accordo con quanti hanno interessi e valori diversi dai loro, come vigliacchi “che mai non fur vivi”. E’ non poco emblematico, d’altronde, che il termine inglese bargaining, che designa la quintessenza della democrazia liberale ovvero la disposizione a venire a patti con l’altro nel disarmo degli animi, in Italia venga tradotto come ‘compromesso’, parola che non ha nessuna valenza positiva e che, quando non è completamente negativa, rimane sempre associata a qualcosa di spiacevole – ad es., una ‘pace di compromesso’ non è una pace giusta e soddisfacente, ma una triste necessità alla quale è difficile sottrarsi, intervenendo cause di forza maggiore.

Rubrica A4 – Destra e cultura

18 Novembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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Mi ha davvero sconcertato vedere su  Blob (Rai 3) la sparata di Giorgia Meloni contro l’egemonia culturale della sinistra che imperversa in tutti i campi del sapere, dell’editoria, delle arti, dell’intrattenimento televisivo, dello spettacolo (cine, teatro). E’ indubitabile quanto afferma la premier ma non si capisce né l’indignazione (i fatti sono quelli che sono e ,se sono quello che sono, è colpa anche di chi ha lasciato crescere l’erba cattiva dell’”impegno intellettuale”) né, tanto meno, i possibili rimedi. Si vuole forse sostituire (o affiancare) ad ogni responsabile di sinistra di un qualsiasi settore culturale un esponente della destra? Maurizio Gasparri (tra l’altro di Forza Italia, una formazione politica di centro liberale non di destra), ha detto:” Noi di destra rispetto alla sinistra abbiamo meno professori. E dunque meno scemi in giro”. Se fosse vero dovremmo reclutare, attraverso i concorsi di ogni tipo, nuovi professori (e avere più scemi in giro) in modo da dotarli di un potere culturale oggi in mano, oggettivamente, alla sinistra? Un tempo i concorsi universitari, nella rosa dei vincitori, almeno in certe materie (prevalentemente quelle storiche, filosofiche, giuridiche ed economiche) dovevano tener conto delle quote: un tanto ai cattolici, un tanto ai laici. Dovremmo pensare a diverse quote per il reclutamento degli intellettuali in posizione chiave: un 70% alla destra un 30% alla sinistra (tenendo conto che quest’ultima è sovrarappresentata?)

Ho sempre ritenuto che, con la sinistra schleiniana che ci ritroviamo, la destra al governo sia il meno peggio che potesse capitare all’Italia ma non chiudo gli occhi dinanzi alla inadeguatezza della sua classe dirigente, del tutto priva di un senso alto, quasi gramsciano, della cultura e della sua importanza. Nei rapporti con gli assessorati del centro-destra, si collezionano solo esperienze frustranti di ottusa insensibilità agli aspetti simbolici della politica. A Genova, dove vivo e lavoro da una vita, è quasi impossibile  parlare con le autorità cittadine e regionali (di centro-destra)  per proporre loro, ad esempio, di dedicare luoghi pubblici al più grande sociologo ed economista europeo, tra 800 e 900, Vilfredo Pareto, di antica famiglia genovese;  al più prestigioso giornalista del suo tempo, Giovanni Ansaldo, venuto al mondo all’ombra della Lanterna;  a un regista, come Pietro Germi, di umili origini, uno dei protagonisti della più grande stagione del cinema italiano (tra l’altro, venne ostracizzato dai suoi colleghi in quanto ‘socialdemocratico’, cioè socialfascista). Per gli amministratori della destra, i convegni culturali—come il Festival della Politica di Santa Margherita Ligure organizzato dall’Associazione Isaiah Berlin e ,quindi, all’insegna del più autentico  pluralismo—non sono poi così importanti.. A essere lautamente finanziati, ma dalle sinistre e dai loro ricchissimi sponsor, sono, invece,  convegni e festival in linea con il pensiero unico.  Persino a Santa Margherita Ligure dove trascorreva diversi mesi dell’anno Isaiah Berlin, forse il più prestigioso filosofo liberale del suo tempo—è stata una battaglia perduta quella di intitolargli una piazza, un  giardino, un istituto scolastico etc.

 A destra non c’è cultura? Sicuramente, non nei partiti e movimenti politici oggi al governo—ove si eccettuino ministri come Carlo Nordio, Giuseppe Valditara e altri pochi. Ma ce n’è abbastanza se si pensa alle produzioni intellettuali della destra. Dal compianto Augusto Del Noce al geniale Marcello Veneziani, sono non pochi i saggisti, gli articolisti, i filosofi, gli storici di quest’area culturale. Non ne faceva parte, tanto per fare qualche nome, Vittorio Mathieu, forse il più prestigioso studioso di Kant del suo tempo, autore, oltreché di poderosi volumi di storia della filosofia, di saggi divenuti classici sulla rivoluzione, sulla libertà, sul diritto di punire etc.? Un governo di destra  responsabile e competente dovrebbe, innanzitutto, preoccuparsi di sostenere le fondazioni intitolate alle grandi icone del pensiero liberale e liberalconservatore, pronto a finanziarne i convegni, i seminari di studio, i corsi di lezioni. A figure dimenticate, perché lontanissime dalla cultura dominante—per fare qualche nome, Panfilo Gentile, Mario Vinciguerra, Randolfo Pacciardi, Giacomo Noventa—dovrebbero venire intitolate bose di studio, premi per la migliore tesi di laurea, ‘dignità di stampa’ etc. Non si combatte l’intelligentsia che da decenni spadroneggia in Italia con patetici annunci di guerra—destinati a irritare anche quanti non simpatizzano con le nuove sinistre (e spesso rimpiangono le sinistre d’antan ancora marxiste e, pertanto, dotate di senso della realtà).Quando, in sostanza, si dice:  “ora è la volta nostra”, non si sospetta che, in realtà, è “la volta di sempre” e che agli italiani si presenta un vestito rivoltato ma che , in quanto tale, è sempre lo stesso vestito. E’ l’eterna tentazione del Minculpop che da destra era passata sinistra e che ora qualcuno vorrebbe, incautamente, riportare a destra.

RUBRICA A4 – Veri e falsi ‘patrioti’

5 Novembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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In un memorabile articolo Meditations  sur la defaite (‘Critique’n.12,1947)—riportato nel volume Marc Bloch, L’Histoire,, la Guerre, la Résistence a cura di Annette Becker e  Etienne Bloch (Quarto Gallimard 2006)–Raymond Aron  ricorda che, non meno generoso di un Ernest Renan, che esaltava sia la monarchia capetingia sia la Rivoluzione francese,  Marc Bloch ammoniva: «Il est deux catégories de Français qui ne comprendront jamais l’histoire de France :ceux qui refusent de vibrer au souvenir du sacre de Reims ; ceux qui lisent sans émotion le récit de la fête de Fédération ».(« Ci sono due categorie di francesi che non capiranno mai la storia della Francia: quelli che rifiutano di emozionarsi al ricordo dell’incoronazione di Reims; coloro che leggono senza emozione il racconto della celebrazione della Federazione»). Bloch era un autentico patriota, un‘nazionalista’, si potrebbe dire, se fosse in uso un’accezione neutrale del termine, che  escluda ogni idea di una sopraffazione di una nazione sulle altre ma veda nello stato nazionale–con le sue tradizioni storiche, con la sua cultura, con i suoi stili di vita– la base materiale su cui costruire durevoli ’forme di governo’ e, soprattutto, la democrazia liberale.

Autentico patriota, poteva dirsi, soprattutto, Charles de Gaulle che alla domanda cosa pensasse dei comunisti, rispondeva «ils sont français aussi!». Chi ama la ‘famiglia—nazione’, l’ama in tutte le sue componenti— e Dante non ricordava, forse, «quell’umile Italia.. per cui morì la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute»?; sa che le guerre civili, le tragedie, le ‘malattie morali’ che l’hanno segnata storicamente hanno contribuito tutte a farla ciò che è; sa che anche quanti hanno dato la vita per una causa sbagliata si ispiravano a valori di cui una comunità politica non può tener conto.

 Tutto ciò è stato cancellato, e da tempo, dall’ebetismo antifascista e dall’ebetismo anticomunista—che possono dirsi le malattie mortali di quelle ‘cose buone’, e irrinunciabili per un liberale, che sono l’anticomunismo e l’antifascismo. Un esempio di ebetismoanticomunista è dato da Victor Orban che ha fatto rimuovere le statue di due ’comunisti’ György Lukacs e Imre Nagy rispettivamente dal Parco Szent István  e dalla Piazza del Parlamento. Lukacs è stato uno dei filosofi più importanti del Novecento europeo: si   professava comunista, pur se fortemente sospetto alle gerarchie del partito, ma le sue opere hanno segnato un’epoca e arricchito la cultura e l’intelligenza di amici e avversari; Nagy, sarà stato pure stalinista nell’immediato secondo dopo guerra, ma è morto perché voleva, come poi il ceco Dubcek, un comunismo dal volto umano. Se in Italia quasi nessuno dei tanti antisovranisti, che detestano il premier ungherese ha mostrato di scandalizzarsi per la sua cancel culture, è perché, inconsciamente, ogni ebetismo comprende l’altro. Noi abbiamo quello antifascista che impedì all’Università di Pisa di commemorare in una targa Giovanni Gentile che aderì al fascismo con spirito nazionalista ma condivise così poco infamie come le leggi razziali da farsi protettore di non pochi esuli ebrei tedeschi, a cominciare da Oskar Kristeller, che lo avrebbe ricordato con profonda gratitudine in un’intervista rilasciata pochi anni prima di morire. Giovanni Gentile non fu solo un grande filosofo—maestro, tra l’altro, di antifascisti doc come Guido Calogero e Adolfo Omodeo—ma anche un grande organizzatore di cultura. La Scuola Normale di Pisa e l’Enciclopedia Italiana sono monumenti che sopravvivono al fascismo, come altre istituzioni volute da lui e che oggi, a esaltarle, si incorre nell’accusa di apologia di reato.

 In questo clima, chi potrebbe pensare a una via, a una piazza, a una scuola dedicate al più grande storico italiano del Novecento Gioacchino Volpe, maestro anche lui di antifascisti, da Nello Rosselli a Rosario Romeo? A differenza di Gentile, Volpe, monarchico e nazionalista, non aderì alla RSI e non rinnegò, dopo la guerra, gli ideali che lo avevano indotto a prendere la tessera del fascio ma lasciò opere insigni, sul Medio Evo ma anche sull’Italia moderna, che hanno arricchito come poche altre la storiografia italiana e formato intere generazioni di studiosi

 In un brano esemplare, dove si rivela un’ispirazione liberale  del tutto assente in altri pensatori italiani, che pure si richiamavano al liberalismo (ivi compreso Luigi Einaudi) , Benedetto Croce, parlando agli studenti del suo Istituto per gli Studi Storici, sul delicato  tema L’obiezione contro le storie dei propri tempi, dopo aver spiegato le ragioni che non gli consentivano di scrivere una storia dell’”aborrito” regime fascista, avvertiva, a scanso di equivoci, «Pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili». Un liberale non avrà alcun dubbio nel definirsi anticomunista o antifascista ma, se tale è davvero, non ne avrà neppure nel rendere giustizia al «al bene che, molto o poco, allora venne al mondo». Non rimuoverà a Latina dal parco pubblico il nome di Arnaldo Mussolini—che tanto si adoperò per la realizzazione di una delle opere più meritorie del regime, la bonifica dell’agro pontino—né proporrà di cancellare da viali e da stazioni il nome di Palmiro Togliatti, uno stalinista doc che contribuì alla Costituzione italiana e, col suo realistico buon senso, disarmò, nel secondo dopoguerra, i bollenti spiriti di quanti non si rassegnavano al ‘tradimento della Resistenza’ e al dominio clericale. Nelle società civili la toponomastica non è sempre qualcosa di provvisorio come nel regime totalitario ricordato dall’immortale Milan Kundera.

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