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Il marxismo è morto ma c’è poco da rallegrarsene

6 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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«È in corso – ha scritto Mario Sechi nell’editoriale del 29 ottobre u.s. – una saldatura tra l’ideologia socialista e l’islamismo, tra il neo-marxismo e l’antisemitismo». Mi trovo spesso d’accordo con i commenti politici del direttore di «Libero», ma questa volta credo che sbagli. Come sbagliano, del resto autorevoli opinionisti francesi inventori dell’ossimoro islamo-marxismo. Da sempre lontano dalla filosofia di Karl Marx e di Friedrich Engels, credo che la tragedia intellettuale della sinistra contemporanea, in Italia come in Europa, consista proprio nell’aver messo in soffitta i due dioscuri del materialismo storico. Quest’ultimo, si insegnava una volta, si fondava su tre pilastri: l’economia classica inglese (da Adam Smith a David Ricardo); la dialettica hegeliana (il divenire storico come passaggio dalla tesi all’antitesi e alla sintesi) e, infine, l’illuminismo francese. Ne aggiungerei un quarto, che, a mio avviso, ha eroso gradualmente i primi tre: la critica controrivoluzionaria della società borghese subentrata all’ancien régime. Il motivo antiborghese era estraneo sia al pensiero economico anglo-scozzese (ovviamente) sia alla filosofia hegeliana, sia, soprattutto, al filone classico dell’illuminismo francese (v. Voltaire che nella Borsa di Londra vedeva il tempio laico dell’età della ragione). Furono i tradizionalisti, come Bonald, de Maistre, Donoso Cortes a riversare sulla società moderna una pioggia implacabile di critiche per il suo individualismo libertino, che riduceva tutte le relazioni sociali a uno scambio di utilità, privatizzava la religione e delegittimava ogni autorità in cielo come in terra. Lo spirito antiborghese sarà trasmesso dai tradizionalisti ai liberalconservatori come Alexis de Tocqueville, ma influenzerà, in modo sotterraneo, lo stesso Marx. Soprattutto nella Questione ebraica e nella Sacra famiglia la critica dei diritti universali dell’uomo e del cittadino non può non far pensare al ‘realismo politico’ dei tradizionalisti che, con de Maistre, avevano incontrato francesi e inglesi, spagnoli e italiani, ma da nessuna parte l’Uomo. «Chi è l’homme distinto dal citoyen?—si legge nella Questione ebraica 1843– Nient’altro che il membro della società civile. […] I cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme come distinti dai droits du citoyen, non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. […] Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso. L’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata». Se non fosse stato per il diritto di proprietà, i tradizionalisti avrebbero sottoscritto parola per parola: è lo ‘sradicamento’ il peccato mortale dell’universalismo illuminista.

Sennonché, il quarto pilastro del materialismo storico rimase a lungo soffocato dagli altri tre. Marx ed Engels morirono quando nel vecchio continente si stava affermando il positivismo – una filosofia, a mio avviso sottovalutata, ma ricca di innegabili potenzialità civili. In questa età, vennero, soprattutto, evidenziati il pilastro economico e quello illuministico del marxismo e decisamente meno quello dialettico-hegeliano. Nella cultura del socialismo riformistico, che in Europa ha contribuito non poco al rafforzamento della democrazia e dello Stato di diritto – si pensi a ‘marxisti’ come Filippo Turati o Jean Jaurès –, la dialettica trascolorava in ‘evoluzione’ e il concetto di rivoluzione veniva sempre meno legato a una rottura traumatica col vecchio ordine borghese. Basta leggere le pagine di un grande pensatore come Rodolfo Mondolfo – anima filosofica di «Critica Sociale» – per rendersi conto che il suo costante richiamo a Marx rinviava a una visione del socialismo come l’erede effettivo della società borghese. I diritti sociali, in questa ottica, integravano quelli civili e politici ma non li ‘superavano’. Non a caso Mondolfo – come il suo amico, filosofo del diritto, Alessandro Levi – furono strenui difensori della democrazia liberale in anni in cui molti esponenti della cultura liberale esprimevano forti dubbi sul ‘governo del popolo’.

Fu la rivoluzione bolscevica ad assestare un durissimo colpo all’interpretazione ottocentesca e liberaldemocratica del marxismo. Il capitalismo che aveva unificato il mondo andava combattuto nei suoi ‘anelli deboli’, anche ricorrendo ai mezzi più violenti possibili: le istituzioni liberali (stato di diritto, rappresentanza politica, governo della maggioranza, neutralità della scienza e della cultura) andavano considerate mere ‘sovrastrutture’, lussi che il movimento operaio non poteva più permettersi. Anche nella versione comunista – leninista e terzomondista –, tuttavia, il marxismo non perse del tutto il senso della realtà: l’industria, il capitalismo (la ‘gallina dalle uova d’oro’), il progresso scientifico continuarono a far parte integrante della sua cultura politica e a ispirare un senso di responsabilità che impediva alle rivendicazioni operaie e contadine di superare un certo limite (v. certe grandi figure di sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio). La stella polare della modernità continuò, in qualche modo, ad essere la sua guida.

Che cosa è cambiato nel frattempo? Il fenomeno nuovo e cruciale che abbiamo dinanzi può essere sintetizzato in poche parole: il prevalere dell’anticapitalismo antiborghese (di lontane ascendenze tradizionalistiche e controrivoluzionarie) sull’anticapitalismo socialista e positivista. Se il secondo voleva essere l’erede della civiltà borghese – di cui si proponeva di conservare le più alte conquiste – il primo assumeva, progressivamente, i tratti di una ‘guerra di civiltà’ volta a cancellare il passato borghese e i suoi simboli e pronta ad allearsi con i nemici più spietati dell’Occidente liberaldemocratico, sostituendo ad Antonio Labriola e a Karl Kautsky, Lenin, Franz Fanon, Herbert Marcuse. Non meraviglia che l’odio per il mondo borghese abbia condotto naturaliter a giustificare il suo antagonista più implacabile: l’islamismo radicale, senza dar troppo peso al suo misconoscimento assoluto dei diritti civili (a cominciare da quelli delle donne). Non escludo che, per una buona parte degli irriducibili antioccidentali, l’URSS sia caduta perché minata alla base dagli elementi illuministici che aveva ancora conservato nel suo DNA. Di qui la necessità di un’operazione chirurgica che liberi definitivamente il pianeta dal male prodotto dallo ‘sradicamento’ e che aveva contagiato lo stesso marxismo, con il suo richiamo ai ‘lumi’ e la sua esaltazione delle forze dissolventi del capitalismo («La borghesia ha creato ben altre meraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate»).

[articolo uscito su Paradoxa-Forum il 3 novembre 2025]

Ma chi ha detto che la violenza politica non paga?

31 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Anni fa avevo chiesto al compianto amico Giampaolo Pansa di presentare a Genova il suo ultimo libro, I vinti non dimenticano (2010). Lo storico aveva declinato l’invito giacché alti funzionari del capoluogo ligure gli avevano detto di non poter garantire l’ordine pubblico dinanzi alle prevedibili proteste (non pacifiche) dei pasdaran dell’antifascismo. La minaccia della violenza da parte di questi ultimi era o non era un esercizio di potere, peraltro prolungato nel tempo?

 Quando centri sociali, antagonisti e sovversivi vari occupano spazi pubblici, stazioni, metropolitane, scuole si può dire che la violenza non paga? Se le occupazioni durano giorni, il potere viene esercitato con successo, ai danni dei comuni cittadini; se lo sgombero avviene a suon di randellate, un obiettivo importante viene raggiunto: quello di mostrare che lo stato ha il potere di mobilitare le ’forze dell’ordine’, ma non ha, in senso proprio, ’autorità’. Si ha autorità, infatti, se leggi e divieti vengono rispettati in modo spontaneo e naturale e non vengono imposti, come negli stati totalitari, con lo spettro di una feroce repressione. M.me de Stael racconta che a Versailles un semplice nastro vietava l’accesso agli appartamenti reali.

 Lo Stato, che si trova a reprimere disordini sempre più frequenti, fa il suo dovere ma, in tal modo, rivela una debole legittimazione ovvero che le istituzioni democratiche godono di un consenso a macchia di leopardo e che la repressione della violenza che, per alcuni, è sacrosanta, per altri, costituisce la riprova che si vive in un regime poliziesco. Se il fossato tra Stato e ampi strati sociali si allarga, perché c’è chi vorrebbe più ordine e repressione e chi un radicale cambio di regime politico e sociale, non resta che la guerra civile: e non esercita potere chi è stato in grado di attivarla?

 Si dirà: ma i sovversivi – vedi per tutti le Brigate Rosse – alla lunga non vengono sconfitti? Certo che vengono sconfitti ma, come i kamikaze, non prima di aver recato gravi danni al ’sistema’, dalle fratture all’interno delle classi dirigenti alla tentazione di ridisegnare in peggio il quadro politico nazionale – per non parlare dell’assassinio di una delle più eminenti figure della Repubblica.

Il fantasma del pluralismo

15 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Anni fa a un imam, residente nel nostro paese, venne fatta la domanda: “Perché volete la moschea a Roma, sede del Vicario di Cristo, e non consentite che si edifichi una Chiesa a La Mecca o a Medina?”. La risposta fu perentoria:” Noi islamici adoriamo il vero Dio, non possiamo quindi ammettere che si veneri un idolo!”. Si può sorridere dell’ingenuità dell’imam solo a patto di dimen-ticare che anche de nobis fabula narratur. La nostra cultura politica, infatti, è stata segnata da un universalismo (cattolico e illuministico) che ripugna a quel sano scetticismo, antico e moderno, che da Pirrone porta a Montaigne a David Hume, a Isaiah Berlin.. Per questo stile di pensiero, la verità è unica e sta da una sola parte: la Chiesa è il porto della salvezza del genere umano o, al contrario, è la costruzione di uno dei tre impostori (Mosè, Cristo, Maometto) di cui parlava il barone d’Holbach: tertium non datur. Oggi, in Italia, è lecito, e per alcuni doveroso, manifestare contro il ‘genocidio’ israe-liano sventolando la stessa bandiera della copertina del libro di Filippo Kalomenidis, La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, ma a sventolare quella israeliana – in una manifestazione che ricordi il più atroce massacro di ebrei, dopo quello nazista – si corre il rischio di essere malmenati o aggrediti (prudentemente, le questure invitano gli ebrei italiani ad astenersi dal fare pubblicità alle loro iniziative). E’ il caso di dire che nel nostro paese la pianta del pluralismo è rinsecchita: siamo tutti pluralisti a parole ma siamo tutti convinti, del pari, che le nostre idee siano dettate dalla coscienza morale mentre quelle dei nostri nemici siano farina del demonio. Frutto di questa ‘barbarie della mente’ è l’ostracismo dato, sui grandi giornali e canali televisivi (pubblico e non), al principio delle due campane, che impone di sentire sempre le ragioni dell’altro. Siamo “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”, diceva quel tale. Avrebbe dovuto aggiungere “..e di inquisitori!”. Con l’aggravante che a decidere chi debba essere inquisito e messo a tacere non sono le istituzioni dello Stato di diritto, ma i ‘movimenti’ che nascono dal basso e si fanno portavoce degli ideali di giustizia dei popoli.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito il 14 ottobre su IL GIORNALE DEL PIEMONTE E DELLA LIGURIA]

Eredità storiche. Il partito d’Azione e l’Italia di oggi

7 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia, parlar male del Partito d’Azione è, come si diceva un tempo, parlar male di Garibaldi. E se ne comprendono le ragioni. Gli azionisti —includendo nella categoria i seguaci  liberalcomunisti di Piero Gobetti e i socialisti liberali di Carlo Rosselli — tra il primo e il secondo dopoguerra hanno espresso una cultura politica di altissima cifra morale e intellettuale. Basti pensare a storici come Franco Venturi e Leo Valiani, a filosofi come Guido De Ruggiero, Norberto Bobbio, Guido Calogero, per non parlare dei politici, dei letterati e degli artisti che fecero parte di quella che fu una vera e propria ‘scuola di pensiero’. Si rifacevano tutti alla componente laica e democratica del Risorgimento anche se, al suo interno, si sentivano più vicini a Carlo Cattaneo che a Giuseppe Mazzini. Al centro delle loro riflessioni furono sempre le ‘illusioni perdute’ che la lotta per l’unità d’Italia aveva depositato negli animi dei suoi protagonisti.” Oh non per questo dal fatal di Quarto / Lido il naviglio dei mille salpò, / Né Rosolino Pilo aveva sparto / Suo gentil sangue che vantava Angiò”, avrebbero potuto ripetere col Giosuè Carducci de La consulta araldica (1869). Anche se il poeta maremmano non era particolarmente amato, giacché nel suo cuore c’erano l’Italia e la sua grandezza mentre gli azionisti, pensavano all’’Europa vivente’ alla quale si avrebbe dovuta ricongiungere l’Italia. L’insoddisfazione per l’Italietta umbertina a giolittiana, però, li accomunava a larga parte del ceto intellettuale prefascista, nel quale era raro trovare voci liberali– specialmente nella repubblica delle lettere. Per loro il paese, malgovernato da secoli, assoggettato ai preti, oggetto di invasioni e occupazioni straniere, era un vasto campo che andava ‘bonificato’ e redento. Le sue carenze culturali erano antiche e nei settori in cui lo spirito moderno aveva fatto progredire l’Europa, facendone il centro e l’arbitro del mondo—l’economia, le istituzioni politiche, la scienza—venivano fuori tutta la miseria e l’arretratezza dello stivale. Si trattava di reazioni e di stati d’animo comprensibili anche se portavano a sottovalutare i pur rilevanti progressi che la Destra e la Sinistra storica avevano fatto compiere. E’ innegabile che il paese fosse segnato da un ‘ritardo’ che non era agevole superare e che le classi dirigenti non sempre fossero all’altezza dei loro compiti.

 E tuttavia la cultura azionista ha instillato in quanti erano sinceramente interessati alla politica modi di pensiero, a ben guardare, incompatibili con la democrazia liberale. A cominciare dalla divisione degli italiani tra una ristretta élite di persone dabbene solleciti della ‘rei publicae salus’ e una massa amorfa—sparsa soprattutto nelle campagne e nella provincia profonda— caratterizzata da familismo amorale e dal perseguimento del ‘particulare’ e, pertanto, portata a frenare ogni inno-vazione. In quest’ottica, la chiesa e, in seguito, i grandi partiti proletari venivano accusati di svolgere un’opera di diseducazione nel senso che delle masse assecondavano gli atavismi, i pregiudizi, i costumi premoderni—nel caso della chiesa—o favorivano le pulsioni demagogiche—nel caso dei partiti proletari.

 Gli azionisti, beninteso, rifuggivano dalla violenza giacobina ma del giacobinismo condividevano il pregiudizio che i costumi, i valori antichi, le credenze ereditate dal passato dovessero venir cancel-lati—soprattutto grazie a strategie scolastiche non poco esigenti—se si volevano far nascere gli ‘Italiani  nuovi’. Era, questo, uno ‘stile di pensiero’ quanto mai illiberale e potenzialmente tota-litario. Il governo degli uomini infatti non è assimilabile a un’opera di bonifica ma a un’arte combi-natoria, che si serve dell’esistente (e persino dei suoi pregiudizi) per avanzare sulle vie dell’avvenire, con meno traumi possibili. E’ la grande lezione di Vincenzo Cuoco, il primo liberale italiano,  ammiratore dei protagonisti della Repubblica partenopea, ma consapevole che la loro estraneità a un liberalismo, che oggi definiremmo ‘storicistico e comunitario’, li avrebbe portati alla rovina.

 Gli azionisti, non amavano gli Italiani ‘così come sono’. Non a caso furono i più implacabili avversari dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini—il movimento nato nel secondo dopoguerra per protestare conto l’indottrinamento antifascista   di massa—-e i più lontani dal ‘piccolo mondo’ di Giovannino Guareschi. Ripugnava ad essi l’atteggiamento bonario nei confronti della ‘gente meccanica e di piccolo affare’, così poco disposta a impegnarsi nella ‘riforma morale e intellettuale’ della nazione.

 Non meraviglia, quindi, che non pochi azionisti, in tutta onestà, avessero, sulle prime, simpatizzato col fascismo e che, nel secondo dopoguerra, avessero guardato con interesse alla sinistra comunista (con la speranza di guarirla dal materialismo storico e dalle utopie collettiviste ed egualitarie). In fondo, il fascismo e il comunismo non volevano, anch’essi,  in modi diversi, ‘bonificare’ gli italiani, sottoporli a una massiccia cura di idealismo, guarirli dai mali storici?<E’ l’Italia vera, su cui bisogna contare>, scriveva Giovanni Gentile:<di contro ad essa la borghesia degli avvocati, dei professori, degli impiegati, dei giornalisti, avventurieri, ciarlatani, dilettanti oziosi, cullanti la loro vanità nella pratica demolitrice di tutto e di tutti|…| Tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata, che dev’essere spazzata via dall’altra>.

 Di qui un altro veleno per una ‘democrazia a norma’: per riprendere la dicotomia di Francesco Alberoni, la legittimazione etica e politica dei movimenti rispetto alle istituzioni, la fiducia risposta in ciò che nasce spontaneamente dal basso per la sua (presunta) capacità di rigenerare ciò che sta in alto e che rischia di isterilirsi nella gestione dell’esistente. Forse è tempo, per fare un esempio significativo, di spiegare storicamente le fortissime simpatie mostrate dal Ferruccio Parri, direttore dell’’Astrolabio’, nei confronti  della contestazione sessantottesca, e di riportarle a una Welt-anschauung che ancora oggi seguita a ispirare giornali, case editrici, palinsesti televisivi.

Lettera 150, 1° Ottobre 2025

Anime belle accademiche – Un chiarimento sulla democrazia dei contemporanei*

25 Settembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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77 colleghi storici del pensiero politico hanno firmato un manifesto per Gaza «in modo analogo a quanto hanno fatto molte altre studiose e studiosi, società scientifiche e Senati accademici».

 Ritengo Netanyahu un irresponsabile farabutto ma, in quanto studioso, non riesco a condividere l’iniziativa. Ben volentieri aderisco alla richiesta di versare contributi in denaro o in aiuti economici  e sanitari alle vittime dell’esercito israeliano, ma  come cittadino/qualunque non  come professore emerito, membro di diritto della congrega degli ‘intellettuali’. Quale autorità morale e politica, infatti, può avere in una democrazia a norma, una ‘corporazione’ di professori? E se fossero i tranvieri a manifestare la loro solidarietà a Gaza perché la loro competenza etico-politica dovrebbe essere considerata minore di quella dei politologi? Abbiamo una strana concezione della democrazia: secondo i suoi virtuisti, ordini professionali, associazioni di categorie non debbono limitarsi (e sarebbe già tanto) a occuparsi dei compiti e dei doveri specifici iscritti nei loro statuti ma avrebbero anche il dovere di riflettere su quanto accade attorno a loro, nella società civile e nel sistema politico interno e internazionale. ’La democrazia’, si dice, non ‘è partecipazione? ’E perché un farmacista o un geometra non dovrebbero prendere posizione dinanzi alle stragi e alla violenza che regna nel mondo? In realtà, tutti i cittadini sono impegnati a rendere meno invivibile il nostro mondo ma perché dovrebbero farlo ‘in divisa’, col camice del medico, con la toga del giudice, con l’uniforme militare? In democrazia si protesta ‘in borghese’ giacché, sul suo piano, effettivamente ‘uno vale uno’ ed esibire la propria qualifica professionale rinvia alla presunzione (inconfessata) di avere una maggiore autorità rispetto ai propri concittadini per il fatto di essere economista, giurista, scienziato politico, insegnante, prelato, artista etc. Il bene comune, l’interesse collettivo non sono oggetto di conoscenza, come lo sono per l’enologo il Barolo e per il medico un farmaco. In politica, non ci sono verità ma opinioni e ciascuna opinione è dettata da un interesse o da un valore non necessariamente condivisi dalla maggioranza. L’”opinione” di un bracciante analfabeta, che dinanzi alla parata delle camicie nere, nutre brutti presentimenti sul futuro che lo aspetta, a giudicarla oggi dopo le catastrofi prodotte dal fascismo, non coglie nel segno più di quella dell’avvocato o del giornalista di grido il cui ‘cor si riconforta’’ guardando la sfilata dei gagliardetti?

  Negli anni della mia adolescenza, la borghesia colta non riusciva a rassegnarsi al fatto che le donne di servizio (analfabete) potessero votare a differenza dei giovani colti e preparati, che non avevano raggiunto la maggiore età. Già da allora trovavo questo modo di pensare ingiusto e sbagliato. La nostra ‘domestica’ votava per un partito ‘clientelare’, la DC, che a lei, ragazza madre e con due figli a carico, prometteva un alloggio popolare. Il classico voto di scambio! Ma non è stato sempre, in gran parte, così?  Quanti votano per i partiti protezionisti, che mettono al riparo industria e agricoltura nazionali dalla concorrenza straniera, e quanti votano per i partiti liberisti, che fanno la fortuna di certi settori e ne rovinano altri, depositano la scheda nell’urna  col pensiero rivolto al ‘bene pubblico’ o al proprio tornaconto (peraltro legittimo)? E quale superiore autorità morale o intellettuale potrebbero rivendicare giuristi ed economisti difensori dell’una o dell’altra linea politica? Non pochi ceti, cosiddetti ’parassitari’, non votano per i partiti che garantiscono lo status quo e il ‘quieta non movere’ ovvero assicurano rendite di posizione che, per quanto modeste, consentono di contare, il 27 del mese, sui “pochi, maledetti e subito”? Li cancelleremo per questo dalle liste elettorali?  In realtà, il bene pubblico è la risultante complessa del confronto e del conteggio di interessi, valori e voti diversi. Sempre, ovviamente, in un quadro costituzionale, rispettoso delle libertà e dei diritti di tutti e all’interno di una comunità politica capace di tenere a freno le spinte centrifughe in nome dell’”interesse superiore della nazione”, come si diceva un tempo. Il partito—o i partiti—che ottiene più voti va al governo e cerca di realizzare i suoi programmi, che non sono i migliori possibili (concetto ideologico come pochi altri) ma sono sostenuti dal concorrente più forte, legittimato da una vittoria elettorale ottenuta osservando le ‘regole del gioco’. «Il metodo democratico – scriveva Joseph A. Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) – è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Una democrazia ‘sana’ è’ quella che affida le redini del governo a classi dirigenti illuminate e responsabili (che poi era l’auspicio di Alexis de Tocqueville), una democrazia ‘malata’ è quella che esprime élite che portano lo Stato alla bancarotta. Allievo di Max Weber, Schumpeter non si faceva illusioni «I politici sono come cattivi cavalieri che si impegnano così tanto nell’impresa di mantenersi in sella da non curarsi più di quale sia la direzione verso cui stanno cavalcando». In ogni caso, per chi creda ai valori della ‘società aperta’, dalla democrazia non si esce. Il contributo che possono dare gli intellettuali—storici, filosofi etc.—è un contributo di conoscenze relative allo stretto campo di ricerca in cui sono immersi. Dare direttive, prendere posizione politica in quanto ‘corpo di esperti’ che diffidano delle masse sa di ancien régime ed è semplicemente ridicolo. Quando si parla di masse ignoranti e analfabete—oggi arricchite dal popolo dei social—mi viene in mente il lamento dell’automobilista intrappolato nelle code autostradali: “ma dove va tutta questa gente?”, “queste interminabili file di macchine  non sono un segno di un consumismo di massa che ci porterà tutti alla rovina?”. Già potrebbe essere così ma al traffico non contribuisce anche lui? Quando si parla delle ‘masse ignoranti e gregarie’ non viene mai il sospetto che chi si lagna, come quell’automobilista, potrebbe farne parte?

 L’aristocratico Josè Ortega y Gasset, ne La ribellione delle masse (1930), osservava che «le masse esplicano oggi un contenuto vitale che coincide, in gran parte, con quello che prima sembrava riservato esclusivamente alle minoranze;  |…|  le masse si sono fatte indocili dinanzi alle minoranze; non le ubbidiscono, non le seguono, non le rispettano, anzi, al contrario, le mettono di lato e le soppiantano |…| l’uomo volgare, che per il passato si faceva dirigere, ora ha deciso di governare il mondo». Il limite della ‘letteratura della crisi’ – di cui il grande filosofo madrileno poteva dirsi un esponente di primo piano – sta nel brancolare nel buio, una volta fatta la diagnosi.

 Nel pieno di una epoca di transizione, come quella che stiamo vivendo, lo studioso, impotente ad arrestarla, ha soltanto un duplice dovere: la libertà e l’autocritica. Le cose vanno male, i politici che ci governano non ci piacciono? Il rimedio è la libertà, che, come la lancia di Longino, trafisse il costato di Gesù ma guarì il centurione romano col sangue che ne scaturì. Libertà sempre, per tutti, anche (e soprattutto) per coloro che, su questioni cruciali di politica interna ed estera, hanno idee diverse dalle nostre. Libertà per chi stigmatizza la politica di Netanyahu o di Putin e libertà per chi, pur non condividendola, crede di comprenderne le giustificazioni. Libertà per chi   in una Università privata prescrive il politicamente corretto e libertà per chi si rifiuta poi di sostenere l’istituzione con i denari del contribuente. Solo la libertà più assoluta consente di cogliere la verità di quanto scriveva il più grande storico medievista del 900, Marc Bloch, nelle Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra (Ed. Donzelli): « Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; questa solo apparentemente è fortuita ,o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento».(E’ proibito farsi venire in mente i reportages dei grandi giornali sulle guerre in corso, ucraina e israeliana?)

 Ma accanto al fondamentalismo della libertà, occorre la capacità di autocritica ovvero la convinzione – non retorica – che le nostre opinioni possano essere sbagliate, che, in qualche modo, siamo tutti eterodiretti e che gli eterodiretti non sono soltanto gli altri, quelli di cui non condividiamo le posizioni, giacché eterodiretti, appunto, possiamo essere anche noi in virtù della famiglia in cui siamo nati, dell’ambiente in cui siamo vissuti, degli amici che il destino ci ha fatto incontrare. Questo comporta un abito di umiltà che ci impedisce di indossare la corazza di una formazione ideologica: alla causa ritenuta giusta dobbiamo portare il nostro granello di sabbia confusi nel demos: ‘mettiamoci la faccia!’ ma con il nostro nome e cognome non con le insegne accademiche che ci distinguono dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’.

 In fondo, la ‘cultura impegnata’—in cui idealmente e de facto si colloca l’appello in questione—a ben riflettere, ha sempre nella mente e nel cuore Platone col suo governo dei filosofi e, pertanto, si  pensa come una grande scuola quadri incaricata di formare gli apostoli della nuova civiltà. Non è casuale che i leader comunisti—dai maggiori come Lenin, ai minori come Nicolae Ceausescu—si siano cimentati con la filosofia politica, con l’economia con la storia. Come i cattolici d’antan, gli eredi di Rousseau vedono nella cultura una risorsa politica, uno strumento di conversione e nelle istituzioni scolastiche il terreno fertile su cui far crescere le piante degli homines novi. La pedagogia di Stato resta la sua intramontabile stella polare e non meraviglia, quindi, che recluti i suoi più sicuri supporter nelle scuole di ogni ordine e grado: non mi è mai capitato di incontrare un professore di scuola media, inferiore e superiore, con un giornale moderato sottobraccio.

 Questa ‘responsabilità di fronte alla storia’ induce il fronte progressista ad assumersi il ruolo di supplente quando i governi sembrano insensibili (se non ostili) alle sue ‘sacrosante’ richieste. Non a caso i 77 docenti chiudono il loro documento con un «appello al governo italiano affinché ascolti le voci sempre più numerose provenienti dai cittadini e dalle cittadine, dalle istituzioni accademiche e dalle organizzazioni non governative, e attui ogni iniziativa che vada nella direzione di porre fine allo sterminio della popolazione gazawa e di aprire la strada a una pace giusta». Ma che cosa Palazzo Chigi dovrebbe fare se non agire di concerto con gli altri partner europei? Naturalmente non lo si dice giacché i ‘manifesti delle anime belle accademiche’ sono ‘espressione di sentimento’ non contributi alla soluzione di problemi reali, soluzione per la quale i loro estensori non sono intellettualmente attrezzati, giacché politica e scienza, come insegnava, ne La scienza come professione,  il più grande pensatore politico del Novecento, Max Weber, stanno su piani diversi.

*Una versione più ridotta dell’articolo è stata pubblicata su ‘Paradoxa-Forum’ del 23 settembre 2025

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