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A destra e a sinistra mezze verità sul fascismo

19 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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 Ha fatto bene Antonio Polito ,nell’editoriale del ‘Corriere della Sera’ dell’11 novembre u.s.,–Quei giudizi da respingere ,a criticare il generale Roberto Vannacci, che, nei suoi giudizi storici sul fascismo, ”presenta come buone, legali, ammissibili anche le peggiori malefatte del fascismo|…| Il tentativo di renderlo accettabile, di rivalutarlo agli occhi non solo dei nostalgici ma, quel che è peggio, dei giovani d’oggi è una colpa grave che il governo della Repubblica italiana non può consentire”. Non so cosa comporti per la Repubblica  il dovere di non consentire—che fa venire in mente la pedagogia giacobina di Stato—ma, certo, Polito ha ragione nel far rilevare l’insopportabile ipocrisia del generale quando non chiama le cose con il loro nome e afferma “che tutte le principali leggi, dalla riforma elettorale del 1923 alle norme del partito unico, fino alle stesse leggi del 1938, furono promulgate dal Re secondo le procedure”. La monarchia, infatti, perse il referendum proprio perché aveva assecondato l’instaurazione della dittatura, le infami leggi razziali, l’alleanza con il peggior regime totalitario del XX secolo, quello nazista.

 E, tuttavia ,nell’articolo di Polito c’è qualcosa che non torna. Quando rivendica al ‘Corriere’ il merito, sulla scia di Renzo De Felice, di “una rilettura del Ventennio finalmente libera dagli stereotipi dell’antifascismo di maniera”, forse dimentica che è stato proprio un corrierista doc, come Aldo Cazzullo, a riproporre quegli stereotipi nel 2022 con il libro Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo. Inoltre, lo stesso Polito definisce i fascisti che marciarono su Roma: ”uomini in armi, che nei due anni precedenti avevano dato vita a un’ondata di violenze senza precedenti, saccheggi e incendi, pestaggi e omicidi, e che proseguirono una volta preso il potere, con il culmine dell’assassinio di Giacomo Matteotti”. Se il fascismo fu solo questo e si ignorano la guerra civile che devastò per un biennio il paese, il vasto consenso che tanta parte della società civile diede alle camicie nere e si liquidano le realizzazioni del regime con frasi come “Mussolini ha fatto anche cose buone, E ci mancherebbe in vent’anni di potere assoluto!”(ma in quarant’anni di’ potere assoluto’ cosa ha fatto il comunista albanese Enver Hoxha?),è difficile liberarsi di ’revisionisti’ come Vannacci che dicono l’altra “mezza verità e non tutta la verità”.

 

[articolo uscito su  Il giornale del Piemonte e della Liguria il 18 novembre 2025]

 

Dino Cofrancesco

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università degli Studi di Genova

dino@dinocofrancesco.it

Quando il pluralismo non è preso sul serio. Il caso Valditara

14 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Lettera 150

Novembre 2025

I fatti sono noti. Una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito dei primi di novembre ha invitato presidi e professori a tener conto della diversità delle opinioni che si possono avere sui grandi temi della politica del nostro tempo. Un informato articolo di ’Repubblica’ firmato v.a., Dibattiti a scuola solo se c’è ‘par condicio’. Polemica su Valditara (8 novembre u.s.) ha spiegato bene la vicenda. «Appare importante—si legge nella circolare– che l’organizzazione e lo svolgimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, di manifestazioni ed eventi pubblici aventi a oggetto tematiche di ampia rilevanza politica e sociale, siano caratterizzati dalla presenza di ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza». Le scuole, «nell’ambito della loro autonomia» devono « assicurare il pieno rispetto dei principi del pluralismo e delle libertà di opinione e garantire il dialogo costruttivo e la formazione del pensiero critico». Le iniziative, dunque, devono essere «coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e contribuire attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione». Si tratta di direttive pienamente condividibili ma che ingenerano nell’animo una profonda tristezza. Le scuole della ‘società aperta’, infatti, non avrebbero alcun bisogno di essere richiamate a principi tanto evidenti. E inoltre se dal piano delle (legittime) ‘raccomandazioni’ si passasse a quello dei ‘fatti’ e delle concrete proposte operative, sarebbe difficile sottrarsi alla tentazione del Manuale Cencelli, («l’espressione giornalistica riferita all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso” poi “spesso utilizzata in senso ironico o dispregiativo per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di criteri di merito». Wikipedia). Vi immaginate un dibattito sulla guerra russo-ucraina organizzato in un liceo e sottoposto alla discussione del Consiglio d’istituto in cui ciascun docente potrebbe eccepire sull’invito rivolto a un ospite la cui ”specifica competenza e autorevolezza” sia, a suo avviso, per così dire, problematica. Detto ciò l’invito di Valditara «al costante rispetto del pluralismo» è ineccepibile e non si vede lo sdegno suscitato dalle deputate del PD, Irene Manzi e Simona Malpezzi (un volto noto, quest’ultima, grazie ai talk show di Mediaset). « La scuola—dicono le due parlamentari nell’interpellanza rivolta al Ministro—non è un luogo da sorvegliare, ma un luogo dove liberare le idee, perché solo dove si discute liberamente si educa davvero alla cittadinanza». ‘Na penzata ‘e spírito’, vien fatto di commentare, col grande Armando Gil, pensando ai licei e alle Università che, una volta occupati, non possono certo dirsi  luoghi dove’ liberare le idee’. Giustamente Valditara ha commentato «parole inquietanti che lasciano trasparire l’intenzione di voler confondere l’autonomia scolastica con pratiche di indottrinamento. La scuola costituzionale non si merita questa preoccupante confusione».

 E tuttavia alla base di questa vicenda c’è un equivoco non risolto—e da tempo.  Lo Stato, i ministeri competenti hanno il dovere di salvaguardare il pluralismo dell’informazione e di assicurare a tutte le idee, a tutte le opinioni libertà di accesso nelle istituzioni scolastiche. Ma qui non si tratta di pluralismo dell’informazione bensì di pluralismo di manifestazione. Studenti e antagonisti vari partecipano alle occupazioni con lo spirito dei coristi del CAI che si riuniscono per cantare Lassù sulle montagne.. Per loro, non è un problema la conoscenza giacché si sa sin troppo bene ciò che sta accadendo nel mondo e contro cui si protesta. Vogliono, invece, porre fine a qualcosa che assimilano a un genocidio  sicché pretendere  che facciano ascoltare le due campane è, per lo meno, ingenuo. Sarebbe come  se si fosse chiesto a John Brown, l’abolizionista del Connecticut impiccato nel 1859, di dare la parola nei raduni da lui indetti (che potevano portare ad azioni violente come il massacro del Pottawatomie del 1856) anche ai fautori della schiavitù o comunque a quanti, in qualche modo, la giustificavano. Se si protesta conto i Lager o contro i Gulag, non è assurdo far sentire la campana nazista o comunista? Al tempo della Guerra del Vietnam, sui grandi viali di Washington sfilavano, da una parte, i manifestanti che volevano porre fine al conflitto nel Sud-est asiatico e, dall’altra parte, quanti desideravano che continuasse fino alla vittoria sui comunisti (tra loro c’era, almeno idealmente, John Wayne). Due cortei, appunto, impensabili in Italia dove sarebbero vietate de facto—per ragioni di ordine pubblico–manifestazioni in difesa non di Netanyahu ma del diritto dello stato di Israele a esistere. Da noi hanno diritto di parola (e di predica) solo i puri, gli onesti, quanti parlano a nome del Genere Umano.

 E qui veniamo al tumore maligno radicato nel corpo della nazione: la pretesa di essere nel giusto e che le opinioni degli altri, se contrarie alle nostre, nascondano interessi nascosti e disegni inconfessabili. Luca Ricolfi, in un magistrale articolo sul ‘Messaggero ’,A proposito di un’uscita di Elly Schlein. Democrazia a rischio (2 novembre u.s.) ha messo a fuoco due gravi distorsioni del concetto di democrazia, presenti nell’ideologia italiana. «La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale.|…| è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro». La seconda distorsione è «la credenza che una delle due parti politiche—la destra—non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia perché non pienamente democratica».

 A mio parere, qui c’è un vizio antico—che forse risale addirittura all’età del Risorgimento e agli insegnamenti di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo—quello di ritenere che, alla base delle decisioni dei governi e dei loro oppositori, debba esserci una Verità oggettiva, indistinguibile dalle leggi di natura—che prescrive ciò che è giusto, in politica come in economia– e che non tenerne conto sia andare fuori strada, esporre il paese alla rovina. E’ un costume di casa che non riguarda solo le ali estreme dello schieramento politico giacché, a leggere gli editoriali dei columnist moderati e liberali di oggi come di settant’anni fa, si ha sempre la sensazione che, al di fuori delle soluzioni politiche da essi auspicate (centro-destra o centro-sinistra), ci fosse solo il caos. La cultura del Partito d’Azione svolse in tal senso una funzione decisiva: ponendosi come sintesi di liberalismo e di socialismo, i suoi esponenti tendevano a delegittimare moralmente quanti della sintesi  non  volevano saperne e rimanevano attaccati all’una o all’altra delle polarità ‘superate dalla Storia’. Non a caso con qualche luminosa eccezione (v. Guido Calogero) erano portati ad auspicare una democrazia senza partiti giacché questi non avevano più ragion d’essere una volta che il paese si fosse incamminato sulla via maestra del socialismo liberale o del liberalsocialismo.

 Non meraviglia che una sinistra non ancora secolarizzata e laicizzata (e quindi lontana dall’acquisire la consapevolezza che i valori politici stanno tutti sullo stesso piano) a parole riven-dichi il pluralismo dell’informazione ma, col cuore, si ritrovi sempre dalla parte dei ‘monopolisti delle manifestazioni’ ovvero di quanti—magari con mezzi violenti e inaccettabili—‘portano avanti’ le cause giuste. Se nella lotta politica si confrontano il Bene e il Male, quanti si trovano al servizio del secondo, possono anche andare al governo—se gli elettori sottopongono la democrazia a  harakiri—ma restano sempre un pericolo per la democrazia e per le libertà. Tutto in loro diventa subdolo, persino il ‘richiamo strumentale’ al pluralismo. Quest’ultimo, nei loro disegni perversi, diventa un cavallo di Troia destinato a far conoscere, nelle scuole della Repubblica, interpretazioni della nostra storia non in linea con la pedagogia dello Stato democratico fondato sui valori di una Resistenza e di un antifascismo intesi non come restaurazione delle libertà civili e politiche–conculcate dal fascismo– ma come renovatio ab imis, creazione di una nuova civiltà destinata a cancellare le miserie della vecchia Italia. Come ebbe a scrivere Giuseppe Bedeschi sul ‘Giornale’ del 9 giugno 2010, Così Croce sfidò Parri in difesa della libertà, «il Partito d’azione mirava a realizzare un programma di ‘rinnovamento sociale e politico’ con evidenti caratteri massimalistico-giacobini. Persino un uomo come La Malfa (azionista) era convinto che si dovesse chiedere” la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali”, al fine di “recidere alle radici ogni potenza reazionaria del grande capitale’». Quel programma di rinnovamento sociale e politico con evidenti caratteri massimalistico-giacobini continua ad essere il termine fisso d’eterno consiglio per la sinistra italiana, anche dopo aver rinunciato alla nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali. Forse il vero nemico del pensiero egemone oggi è il pluralismo preso sul serio. Potrebbe convincere gli Italiani che a sinistra non c’ è “l’Unto del Signore” come non c’è a destra: giacché, per dirla con Bernard Crick, destra e sinistra stanno tutt’e due sul mercato.

Zorhan Mamdani ha vinto. E’ la democrazia bellezza!

10 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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L’elezione del musulmano Zohran Mamdani a sindaco di New York ha generato nell’area liberale non poche apprensioni. Mamdani è un tipico prodotto dell’attuale establishment nordamericano—suo padre è un docente universitario di un prestigioso e costoso ateneo privato, sua madre un’apprezzata regista—ma non è cristiano e, inoltre, il suo programma di governo si ispira a una sinistra decisamente radicale.  Piero Sansonetti, sull’’Unità’, ha esultato: si torna a parlare di socialismo e qualcuno ha finalmente raccolto la bandiera che i partiti progressisti avevano nascosto nell’armadio. Capisco sia le apprensioni (forti, c’era da aspettarselo, nella comunità ebraica non solo newyorkese) che gli entusiasmi ma, al di là delle emozioni, vorrei ricordare che la democrazia dei moderni vive nell’alternanza di destra e di sinistra, di conservatori e di liberali, di welfaristi e di liberisti. Misure fiscali punitive dei ceti più abbienti, ingenti debiti pubblici per garantire i ‘diritti sociali’ (sanità, scuola, trasporto pubblico etc.) possono non piacere ma perché dovrebbero rappresentare un vulnus per la democrazia liberale? Semmai rovineranno, col passare del tempo, l’economia e, in tal caso, i socialisti vittoriosi di oggi saranno le truppe in ritirata di domani. Un partito che si ispira alla lezione liberale e liberista non è depositario della Verità più di un partito che si riconosca nella socialdemocrazia classica: se’ non c’è verità’ in etica e in politica, non ce n’è neppure in economia. Il problema vero è un altro: i grandi leader socialisti dell’Europa d’antan erano imbevuti di idealità occidentali, provenivano da scuole di pensiero fortemente segnate dai valori liberali e democratici e, pertanto, erano portati –è il caso dei partiti socialisti francese, inglese, tedesco italiano prima della rivoluzione bolscevica—ad ‘addomesticare’ lo stesso Karl Marx come si vede nella prassi e nella teoria della Seconda Internazionale. La novità costituita da Mamdani sta nel fatto che non proviene dalla ‘civiltà cristiana’, dalla cultura classica, dall’illuminismo democratico o dal romanticismo liberale. Non sappiamo se tutto questo avrà conseguenze nel suo stile di governo. Ce lo dirà il futuro ma fasciarsi la testa prima di rompersela non è consigliabile.

                                                                    Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche

Università degli Studi di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Pubblicato l’11 novembre su Il Giornale del Piemonte e della Liguria]

Il marxismo è morto ma c’è poco da rallegrarsene

6 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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«È in corso – ha scritto Mario Sechi nell’editoriale del 29 ottobre u.s. – una saldatura tra l’ideologia socialista e l’islamismo, tra il neo-marxismo e l’antisemitismo». Mi trovo spesso d’accordo con i commenti politici del direttore di «Libero», ma questa volta credo che sbagli. Come sbagliano, del resto autorevoli opinionisti francesi inventori dell’ossimoro islamo-marxismo. Da sempre lontano dalla filosofia di Karl Marx e di Friedrich Engels, credo che la tragedia intellettuale della sinistra contemporanea, in Italia come in Europa, consista proprio nell’aver messo in soffitta i due dioscuri del materialismo storico. Quest’ultimo, si insegnava una volta, si fondava su tre pilastri: l’economia classica inglese (da Adam Smith a David Ricardo); la dialettica hegeliana (il divenire storico come passaggio dalla tesi all’antitesi e alla sintesi) e, infine, l’illuminismo francese. Ne aggiungerei un quarto, che, a mio avviso, ha eroso gradualmente i primi tre: la critica controrivoluzionaria della società borghese subentrata all’ancien régime. Il motivo antiborghese era estraneo sia al pensiero economico anglo-scozzese (ovviamente) sia alla filosofia hegeliana, sia, soprattutto, al filone classico dell’illuminismo francese (v. Voltaire che nella Borsa di Londra vedeva il tempio laico dell’età della ragione). Furono i tradizionalisti, come Bonald, de Maistre, Donoso Cortes a riversare sulla società moderna una pioggia implacabile di critiche per il suo individualismo libertino, che riduceva tutte le relazioni sociali a uno scambio di utilità, privatizzava la religione e delegittimava ogni autorità in cielo come in terra. Lo spirito antiborghese sarà trasmesso dai tradizionalisti ai liberalconservatori come Alexis de Tocqueville, ma influenzerà, in modo sotterraneo, lo stesso Marx. Soprattutto nella Questione ebraica e nella Sacra famiglia la critica dei diritti universali dell’uomo e del cittadino non può non far pensare al ‘realismo politico’ dei tradizionalisti che, con de Maistre, avevano incontrato francesi e inglesi, spagnoli e italiani, ma da nessuna parte l’Uomo. «Chi è l’homme distinto dal citoyen?—si legge nella Questione ebraica 1843– Nient’altro che il membro della società civile. […] I cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme come distinti dai droits du citoyen, non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa. […] Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso. L’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata». Se non fosse stato per il diritto di proprietà, i tradizionalisti avrebbero sottoscritto parola per parola: è lo ‘sradicamento’ il peccato mortale dell’universalismo illuminista.

Sennonché, il quarto pilastro del materialismo storico rimase a lungo soffocato dagli altri tre. Marx ed Engels morirono quando nel vecchio continente si stava affermando il positivismo – una filosofia, a mio avviso sottovalutata, ma ricca di innegabili potenzialità civili. In questa età, vennero, soprattutto, evidenziati il pilastro economico e quello illuministico del marxismo e decisamente meno quello dialettico-hegeliano. Nella cultura del socialismo riformistico, che in Europa ha contribuito non poco al rafforzamento della democrazia e dello Stato di diritto – si pensi a ‘marxisti’ come Filippo Turati o Jean Jaurès –, la dialettica trascolorava in ‘evoluzione’ e il concetto di rivoluzione veniva sempre meno legato a una rottura traumatica col vecchio ordine borghese. Basta leggere le pagine di un grande pensatore come Rodolfo Mondolfo – anima filosofica di «Critica Sociale» – per rendersi conto che il suo costante richiamo a Marx rinviava a una visione del socialismo come l’erede effettivo della società borghese. I diritti sociali, in questa ottica, integravano quelli civili e politici ma non li ‘superavano’. Non a caso Mondolfo – come il suo amico, filosofo del diritto, Alessandro Levi – furono strenui difensori della democrazia liberale in anni in cui molti esponenti della cultura liberale esprimevano forti dubbi sul ‘governo del popolo’.

Fu la rivoluzione bolscevica ad assestare un durissimo colpo all’interpretazione ottocentesca e liberaldemocratica del marxismo. Il capitalismo che aveva unificato il mondo andava combattuto nei suoi ‘anelli deboli’, anche ricorrendo ai mezzi più violenti possibili: le istituzioni liberali (stato di diritto, rappresentanza politica, governo della maggioranza, neutralità della scienza e della cultura) andavano considerate mere ‘sovrastrutture’, lussi che il movimento operaio non poteva più permettersi. Anche nella versione comunista – leninista e terzomondista –, tuttavia, il marxismo non perse del tutto il senso della realtà: l’industria, il capitalismo (la ‘gallina dalle uova d’oro’), il progresso scientifico continuarono a far parte integrante della sua cultura politica e a ispirare un senso di responsabilità che impediva alle rivendicazioni operaie e contadine di superare un certo limite (v. certe grandi figure di sindacalisti come Giuseppe Di Vittorio). La stella polare della modernità continuò, in qualche modo, ad essere la sua guida.

Che cosa è cambiato nel frattempo? Il fenomeno nuovo e cruciale che abbiamo dinanzi può essere sintetizzato in poche parole: il prevalere dell’anticapitalismo antiborghese (di lontane ascendenze tradizionalistiche e controrivoluzionarie) sull’anticapitalismo socialista e positivista. Se il secondo voleva essere l’erede della civiltà borghese – di cui si proponeva di conservare le più alte conquiste – il primo assumeva, progressivamente, i tratti di una ‘guerra di civiltà’ volta a cancellare il passato borghese e i suoi simboli e pronta ad allearsi con i nemici più spietati dell’Occidente liberaldemocratico, sostituendo ad Antonio Labriola e a Karl Kautsky, Lenin, Franz Fanon, Herbert Marcuse. Non meraviglia che l’odio per il mondo borghese abbia condotto naturaliter a giustificare il suo antagonista più implacabile: l’islamismo radicale, senza dar troppo peso al suo misconoscimento assoluto dei diritti civili (a cominciare da quelli delle donne). Non escludo che, per una buona parte degli irriducibili antioccidentali, l’URSS sia caduta perché minata alla base dagli elementi illuministici che aveva ancora conservato nel suo DNA. Di qui la necessità di un’operazione chirurgica che liberi definitivamente il pianeta dal male prodotto dallo ‘sradicamento’ e che aveva contagiato lo stesso marxismo, con il suo richiamo ai ‘lumi’ e la sua esaltazione delle forze dissolventi del capitalismo («La borghesia ha creato ben altre meraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha condotto ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate»).

[articolo uscito su Paradoxa-Forum il 3 novembre 2025]

Ma chi ha detto che la violenza politica non paga?

31 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Anni fa avevo chiesto al compianto amico Giampaolo Pansa di presentare a Genova il suo ultimo libro, I vinti non dimenticano (2010). Lo storico aveva declinato l’invito giacché alti funzionari del capoluogo ligure gli avevano detto di non poter garantire l’ordine pubblico dinanzi alle prevedibili proteste (non pacifiche) dei pasdaran dell’antifascismo. La minaccia della violenza da parte di questi ultimi era o non era un esercizio di potere, peraltro prolungato nel tempo?

 Quando centri sociali, antagonisti e sovversivi vari occupano spazi pubblici, stazioni, metropolitane, scuole si può dire che la violenza non paga? Se le occupazioni durano giorni, il potere viene esercitato con successo, ai danni dei comuni cittadini; se lo sgombero avviene a suon di randellate, un obiettivo importante viene raggiunto: quello di mostrare che lo stato ha il potere di mobilitare le ’forze dell’ordine’, ma non ha, in senso proprio, ’autorità’. Si ha autorità, infatti, se leggi e divieti vengono rispettati in modo spontaneo e naturale e non vengono imposti, come negli stati totalitari, con lo spettro di una feroce repressione. M.me de Stael racconta che a Versailles un semplice nastro vietava l’accesso agli appartamenti reali.

 Lo Stato, che si trova a reprimere disordini sempre più frequenti, fa il suo dovere ma, in tal modo, rivela una debole legittimazione ovvero che le istituzioni democratiche godono di un consenso a macchia di leopardo e che la repressione della violenza che, per alcuni, è sacrosanta, per altri, costituisce la riprova che si vive in un regime poliziesco. Se il fossato tra Stato e ampi strati sociali si allarga, perché c’è chi vorrebbe più ordine e repressione e chi un radicale cambio di regime politico e sociale, non resta che la guerra civile: e non esercita potere chi è stato in grado di attivarla?

 Si dirà: ma i sovversivi – vedi per tutti le Brigate Rosse – alla lunga non vengono sconfitti? Certo che vengono sconfitti ma, come i kamikaze, non prima di aver recato gravi danni al ’sistema’, dalle fratture all’interno delle classi dirigenti alla tentazione di ridisegnare in peggio il quadro politico nazionale – per non parlare dell’assassinio di una delle più eminenti figure della Repubblica.

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